YES
The Quest
2021 - InsideOut Music / Sony Music
SANDRO PISTOLESI
07/02/2022
Introduzione Recensione
Sono passati ben sette anni dall'ultimo lavoro in studio degli Yes, correva l'anno domini 2014, quando pubblicarono "Heaven & Earth", album che per la terza volta della loro storia vedeva la pesante assenza di Jon Anderson dietro al microfono. La prima volta fu nel 1980, quando Chris Squire e soci sopperirono alla clamorosa dipartita di Jon Anderson e Rick Wakeman con due giovanissimi astri nascenti del pop rock, Geoff Downes e Trevor Horn, presi in prestito dal fenomeno del momento The Buggles, sorprendendo un po' tutti. Ne venne fuori "Drama", un capolavoro per molti (me compresso) ma odiato dalla frangia più estremista del popolo Yessano, che ancora oggi non riesce ad accettarlo. Nel 2011 i nostri dettero un valido seguito al controverso album con l'ottimo "Fly from Here", che dietro al microfono vedeva Benoit David, frontman della cover band canadese Close to the Edge. Tre anni più tardi, viste le deludenti capacità vocali in sede live di Benoît David, dietro al microfono i nostri chiamano il carneade Jon Davison, un personaggio affabile che oltre al nome di battesimo in comune, possiede uno stile che si avvicina notevolmente all'inequivocabile cantato Andersoniano. "Heaven & Earth" si rivelerà però un album modesto, non è un disco da buttare, ma manca di quella brillantezza che da sempre ha contraddistinto il combo albionico. Il classico album senza infamia e senza lode che verrà ricordato solo per l'ennesima bellissima copertina firmata Roger Dean. Ma purtroppo il 27 Giugno del 2015 accade l'impensabile. Dopo una breve ma dura battaglia contro l'eritremia acuta, Chris Squire ci lascia, all'età di 67 anni, esalando i suoi ultimi respiri nella città di Phoenix. E 'stato, fino al giorno della sua morte, l'unico membro ad essere presente su tutti e ventuno i dischi in studio pubblicati sotto il moniker Yes. Ricordo ancora che mi crollò il mondo addosso, Chris, insieme ad Ozzy e John Wetton era uno dei miei idoli, una di quelle figure che credi immortali. E se io ero a pezzi dopo la tragica notizia, immaginatevi come dovevano sentirsi Howe, Downes e White senza la vera colonna portante della band, un duro colpo che avrebbe messo al tappeto la maggior parte delle rock band del Pianeta. Ma non gli Yes, che pur barcollando, riuscirono a rimanere in piedi. Per sostituire l'insostituibile Chris Squire, i nostri seguirono i suoi ultimi voleri e chiamarono Billy Sherwood, amico da una vita del Gigante Buono e che già in passato aveva collaborato con gli Yes in occasione dell'opaco "Open Your Eyes" e dell'ottimo "The Ladder" Nel 2016 con la nuova formazione i nostri intrapresero un tour mondiale dove presentavano i due capolavori "Drama" e "Fragile" in tutta la loro maestosa interezza, guarniti da una manciata di classici imprescindibili. In occasione del concerto di Firenze tenuto alla Obi Hall il 31 Maggio del 2016, ho potuto constatare con i miei occhi la nuova line-up, definita ingiustamente dai più scettici la cover band degli Yes, e devo dire che il nuovo cantante Joe Davison mi ha ben impressionato, disimpegnandosi in maniera esaustiva sia sui brani che in origine erano cantati da Anderson, sia su quelli che una volta erano cantati da Horn, contornato da un'aura angelica che a tratti ricordava quella del suo illustre predecessore. Di tutti i bassisti che potevano sostituire l'Onnipotente, sicuramente Sherwood è quello che stilisticamente gli si avvicina di più, anche se devo sottolineare che la mancanza dell'imponente figura del "The Fish" sul palco pesa come un macigno. Gli Yes dal vivo senza Chris Squire fanno lo stesso effetto dello skyline di New York senza le Torri Gemelle, è difficile immaginarli senza. Il 20 Dicembre del 2016 viene finalmente annunciato che gli Yes entreranno (meritatamente aggiungo io) a far parte della Rock and Roll Hall Of Fame. Il 7 Aprile dell'anno successivo, Geddy Lee e Alex Lifeson dei Rush, amici e fan del gruppo, spalancarono pubblicamente e ufficialmente i cancelli del prestigioso museo musicale ad una delle band più influenti e significative della storia della musica, gli Yes. Successivamente il popolo Yessano si trovò di fronte ad un piacevole déjà-vu, rivivendo una situazione già verificata nel 1988, quando la band si scisse in due, da una parte gli ABWH, l'acronimo stava per Anderson Bruford Wakeman e Howe, mentre nel Nuovo continente, Chris Squire, Trevor Rabin e Alan White stavano lavorando su del nuovo materiale, il trio fu denominato simpaticamente dai fan Yeswest. Tornando al 2016, oltre agli Yes originali sopracitati, Jon Anderson, Trevor Rabin e Rick Wakeman si riunirono formando una band, usando nuovamente un acronimo, ARW e andando in giro per il Mondo proponendo i classici degli Yes in sede live, accompagnati dal bassista Lee Pomeroy e dal batterista Lou Molino III. Ovviamente ho visto anche loro dal vivo e devo dire che nonostante l'assenza di Chris Squire entrambe le band sanno ancora inondarci di forti emozioni. Durante l'estate del 2019, mantenendo sempre la medesima formazione, con lo l'aggiunta dello special guest Jay Schellen a dare manforte alla batteria ad Alan White che aveva dei problemi di salute, gli Yes continuarono l'interessante progetto The Album Series, proponendo dal vivo l'ottimo "Relayer" più una serie di grandi classici a completare la set list. Durante le date tenute in America, Thomas Waber, co-fondatore della casa discografica Inside Out Music specializzata nel progressive rock, da buon vecchio fan chiese agli Yes se fossero intenzionati a pubblicare un nuovo disco. Stuzzicati dall'idea, nell'inverno del 2019, poco prima che la terribile pandemia Covid-19 devastasse l'intero Pianeta Terra, Steve Howe e soci iniziarono a lavorare su del nuovo materiale inedito. Successivamente, con le date del tour cancellate a causa della pandemia, i nostri si ritrovarono con molto tempo libero a disposizione e quale migliore maniera vi poteva essere se non sfruttarlo dedicandosi a tutto tondo alla composizione di nuovi brani. Non potendosi incontrare a causa delle rigide regole imposte dal lockdown, Steve Howe e soci si scambiavano le idee on line, archiviando rigorosamente il tutto presso i Curtis Schwartz Studio di Ardingly, nel West Sussex, di proprietà di Curtis Schwartz, futuro ingegnere e mixer del nuovo album. Non contento degli ultimi lavori, Steve Howe decise che si sarebbe occupato in prima persona della produzione, convinto che il risultato finale si sarebbe maggiormente avvicinato al sound voluto della band. Con un bel po' di carne al fuoco e Jon Davison che aveva buttato giù diverse idee per le liriche, stava nascendo lentamente l'album in studio numero ventidue degli Yes, intitolato "The Quest", un titolo dai sentori fantasy che fonde l'avventura con la ricerca, un disco figlio del lockdown e liricamente influenzato dalla pandemia. Si tratta del primo disco senza nessun membro della formazione degli esordi ma che ci consegna una band ancora in gran forma e determinata a rimanere su quella cresta dell'onda che cavalcano dall'ormai lontano 1968. Geoff Downes e Steve Howe, momentaneamente liberi dal progetto Asia, hanno riversato tutte le loro idee sul nuovo album, dando vita a delle brillanti composizioni, che forse a causa dell'età, danno meno spazio a virtuosismi (penso che abbiano dimostrato abbastanza di sapersela cavare con gli strumenti) in virtù della melodia e di rilassanti atmosfere figlie dell'ineluttabilità del tempo. Su "The Quest" si registra una new entry in casa Yes, il batterista Jay Schellen viene accreditato come membro ufficiale alle percussioni con tanto di foto nel booklet interno. Nato a Albuquerque nel New Mexico il 20 Maggio del 1960, il batterista americano naviga ormai da tempo nell'orbita Yes. Dopo alcuni dischi con gli Hurricane, il nostro ha collaborato con Sherwood e i suoi World Trade, con Chris Squire, Peter Banks e Tony Kaye, con gli Asia e i Dukes Of The Orient, oltre aver accompagnato i nostri negli ultimi tour mondiali. Ma basta chiacchere, è giunta finalmente l'ora di inserire "The Quest" nel nostro lettore, album corredato dall'ennesimo capolavoro firmato Roger Dean che analizzeremo in maniera dettagliata più avanti, curiosi se gli Yes sapranno sorprenderci a ben 52 anni dal loro esordio.
The Ice Bridge
I nostri partono a mille, sparando subito la loro migliore cartuccia, "The Ice Bridge (Il Ponte Di Ghiaccio)", una brillante suite divisa in tre movimenti che si candida come una delle migliori composizioni del nuovo millennio in casa Yes. Si inizia con "Eyes East (Occhi Ad Est)", aperta da una pomposa fanfara iniziale sparata dalle tastiere di Geoff Downes che rievoca inevitabilmente quella della celebre "Fanfare For The Common Man" di Aaron Copland già rivisitata dal power trio per eccellenza Emerson, Lake & Palmer. Ma i critici più meticolosi hanno individuato una spigliata somiglianza con "The Dawn Of An Era" del fondatore dei Curved Air Francis Monkman. In effetti se andate a riascoltare la traccia in questione, troverete molti punti in comune. Downes ha subito svelato l'arcano. La traccia era finita per sbaglio su un vecchio nastro dove erano incisi dei suoi jingle musicali per pubblicità, risalente al 1977. Ad anni di distanza, il nastro era capitato nuovamente fra le mani di Downes, forse in cerca di ispirazioni e riascoltando la traccia che credeva sua ne ha captate le potenzialità ed ha iniziato a lavorarci sopra. Comunque sia, onde evitare noiosi strascichi giudiziari, Monkman viene accreditato fra gli autori del brano al pari di Davison e Downes. Ma torniamo a noi, la briosa fanfara viene subito affiancata dalla sezione ritmica che mette in evidenza un devastante giro di basso che trasporta gli inconfondibili ricami di chitarra del Maestro Howe. Dopo la travolgente introduzione, le tastiere di un ispiratissimo Geoff Downes sembrano fermare il tempo, creando una atmosfera arcana che accoglie Jon Davison, il quale, come il suo illustre predecessore, è molto legato alle questioni ambientali e climatiche e va a riscoprire gli albori della razza umana, quando attraverso riti e fuochi sacri, l'essere umano era in perfetta sintonia con Madre Natura, portandole un dovuto e rigido rispetto. Le tastiere, affiancate dalle acide trame della chitarra, guidano un crescendo rossiniano ripercorrendo il camino dell'uomo, che con il passare dei secoli ha ridotto gradualmente ai minimi termini il rispetto verso la Natura in virtù del progresso e all'industrializzazione, portando l'umanità e tutto ciò che la circonda su un fragile ponte di ghiaccio che si eleva sopra una minaccia di estinzione. Anche nel breve inciso le tastiere sono protagoniste ed accompagnano le gesta di Snowflower Elder, un personaggio di fantasia che odora di Signore degli Anelli, una sorta di santone tribale e visionario che proviene da Est camminando attraverso verdi foreste cercando di riportare la razza umana sulla retta via. Dopo un breve ma inconfondibile assolo di chitarra, bombardato dalle spaziali tastiere di Downes e dal travolgente Spector Bass di Sherwood, i nostri portano avanti la loro crociata nel nome dell'ambiente, lanciando profondi messaggi alla razza umana, predicando l'unità fra le varie razze ed un maggiore rispetto nei confronti della Natura, in modo da ergere forti pilastri per un futuro più roseo e meno grigio ed evitare di cadere nel baratro dell'estinzione. Il clima sembra impazzito a causa di un comportamento errato da parte dell'uomo, solo l'occhio vigile dell'aquila può constatare dall'alto i danni che il progresso ha portato a Madre Natura. E 'troppo tardi per tornare indietro, ora l'essere umano deve attraversare il fragile ponte di ghiaccio che si è creato con le proprie mani, una corsa contro il tempo per tentare di giungere ad una nuova alba. Fra le fantasiose trame che fuoriescono dal castello di tastiere, possiamo percepire il minaccioso rumore del ghiaccio che si sta pericolosamente infrangendo, grifagni scricchiolii che non preannunciano nulla di buono. Al minuto 03.26, annunciata da eccellenti fraseggi di chitarra ha inizio il secondo movimento, intitolato "Race Against Time (Corsa Contro Il Tempo)", dove continua l'epica cavalcata ritmica da parte del convincente duo White-Sherwood, che trasporta la tempesta elettronica rilasciata da Mr. Downes e i fraseggi di uno scatenato Steve Howe, capaci di riportarci indietro nel tempo. Tutti rivolgono lo sguardo verso Est, in attesa di intravedere una visione mistica e profetica, in attesa di veder sopraggiungere Snowflower Elder, quella figura rassicurante e carismatica di cui ha bisogno la razza umana per poter attraversare in maniera incolume il fragile ponte di ghiaccio. In chiusura, Davison ci invita a trovare un volto al fantomatico Snowflower Elder, un leader carismatico e affascinate che sembra uscito dalla penna di James Joyce o di John Ronald Reuel Tolkien. Io istintivamente me lo immagino una sorta di giovane Gandalf, vigoroso e imponente, magari con in mano una cura per debellare definitivamente la piaga del Covid-19, che ha letteralmente portato l'umanità a camminare su un fragilissimo ponte di ghiaccio. Voi come ve lo immaginate? Intorno al minuto 4:20 ha inizio il capitolo conclusivo della suite, intitolato "Interaction (Interazione)", secondo Treccani letteralmente "reciproco influenzarsi di cause, fenomeni, elementi.", a sottolineare i danni fatti dall'uomo nel corso della sua esistenza, Si tratta di una emozionante coda strumentale dove le tastiere di Geoff Downes e la chitarra di Steve Howe si danno battaglia sopra il fragile ponte di ghiaccio, sorretto dal grande lavoro di Mr. White e Billy Sherwood, che con le quattro corde si avvicina molto allo stile del compianto Gigante Buono. Mentre il basso di Sherwood macina note, gli arabeschi della chitarra si intrecciano alla perfezione con le evoluzioni del Biondo Tastierista, dando vita ad un fantastico finale da brividi che ci rimanda ai fasti di Drama, quando la fantastica coda strumentale di "Into the Lens" mi spalancò i cancelli del fantastico Yesworld. Tastiere Wakemaniane e gli inconfondibili fraseggi di Howe si danno il cambio trascinandoci energicamente verso l'epilogo, che giunge dopo un sontuoso assolo di chitarra. Il 23 Luglio del 2021 il brano è stato rilasciato giustamente come singolo apripista. Chapeau.
Dare to Know
Cala l'intensità ma non la qualità con la romanticissima "Dare To Know (Osare Per Sapere)", secondo singolo pubblicato il primo Settembre del 2021 e firmato Steve Howe dove i nostri per la terza volta nella loro carriera ricorrono all'apporto dell'orchestra, nell'occasione la Fames Studio Orchestra di Skopje, Repubblica di Macedonia, diretta dal maestro Oleg Kondratenko, mentre gli arrangiamenti sono opera del compositore inglese Paul K. Joyce. È l'autore del brano ad annunciare una romantica e rilassante trama di chitarra che ci fa sognare ad occhi aperti. Un bellissimo passaggio del duo Sherwood-White viene ricamato dall'orchestra, lasciando poi il campo alla suggestiva chitarra di Howe che sotto i colpi sincopati della sezione ritmica duetta con Davison la prima strofa, rievocando le fantastiche armonie vocali settantiane. Armonia che purtroppo non vede la partecipazione di Chris Squire, che certamente avrebbe impreziosito il tutto. Inizialmente, le brevi liriche, cariche di licenze poetiche e nostalgiche sono un plauso alla carriera degli Yes, che hanno visto nel corso del tempo una miriade di eventi avvenuti all'interno della band, che raramente ha avuto la medesima formazione per più di due album, riuscendo comunque sempre ad andare avanti, riuscendo a rimanere a galla per oltre mezzo secolo. Intorno al secondo minuto, il maestro Oleg Kondratenko ci provoca una buona dose di brividi, facendo piangere gli archi, rincuorati dalle vetuste trame degli ottoni, cedendo poi lo scettro a Steve Howe ed al suo solenne inno di chitarra, che si sostituisce all'inciso, sottolineando la tragicità del momento che sta attraversando la razza umana. "Magnification" non è poi così lontano. Nella strofa successiva, che mantiene ancora il suo alone di tristezza, contornati da bellissime licenze poetiche che esaltano la bellezza della natura, che comunque riesce ad andare avanti, i due continuano il duetto, cantando di quanto sia dura la vita in generale, i ritmi frenetici della vita moderna con troppo poco tempo per riposare, la piaga del Covid-19 ci fa vivere in un mare di incertezza, tutti ingredienti letali che mettono a dura prova anche chi ha i nervi più saldi. L'unica arma di cui nessuno ci piò privare è la speranza, un'arma preziosa per puntare alla vittoria. Adagiandosi sopra un soffice tappeto di organo Hammond, il Maestro Howe continua a disegnare struggenti arabeschi con la chitarra, incastonando perfettamente le note fra i mai banali colpi della sezione ritmica, che ci mostra un Alan White impeccabile nonostante i problemi di salute. Dopo un secondo intermezzo orchestrale, nella strofa finale il duetto sottolinea il progetto che il fato ha in serbo per noi, le cose accadono dando vita ad uno schema ben preciso, ma là fuori c'è ancora qualcuno che porta avanti il testimone della speranza, magari confortando le persone con della buona musica, come stanno facendo i nostri dal lontano 1969. Sta alle persone non essere ignoranti ed andare alla ricerca dell'accordo perduto. Il finale è tutto per Steve Howe, che con la sei corde acustica ci provoca una buona dose di brividi, tirando fuori una delle più belle trame del suo repertorio, una struggente melodia che emana forti emozioni e che vorresti non finisse mai.
Minus The Man
Musicalmente si continua sulla medesima strada, grazie all'apporto della valente orchestra macedone con la successiva "Minus The Man" brano firmato Davison- Sherwood dove i nostri sottolineano come nel nuovo millennio l'uomo stia soccombendo alla tecnologia facendo evaporare la propria coscienza. Il brano viene aperto da un profondo glissato di basso, per l'occasione, Billy Sherwood ha abbandonato momentaneamente il suo fido Spector bass per impugnare il Rickenbacker 4001 tanto caro a Chris Squire, andando a formare assieme all'ottimo White la colonna portante del brano. In questo brano, il cantato di Jon Davison è fin troppo simile a quello del Santone Di Accrington, risultando quasi inquietante. Trasportato dalle disneyane trame orchestrali, l'angelica voce di Davison ci fa riflettere a fondo, leggendo queste liriche ci si domanda come siamo arrivati a questo punto, trascinati dal tunnel senza fine dell'evoluzione tecnologica, dove giga e bite stanno divorando lentamente la coscienza dell'uomo, dove la tecnologia sta riducendo ai minimi termini la bellezza dei rapporti umani, confinandoli nelle infinite vie dell'etere. In rete possiamo trovare un numerose porte, dietro le quali si celano innumerevoli vite da scegliere ed esplorare. E 'questa la chiave principale della nuova vita tecnologica, che il nostro definisce addirittura post-umana. Oggigiorno l'uomo si fida fin troppo della realtà virtuale, facendo lentamente scomparire i valori della vita. In questo brano i nostri danno più spazio alle significative liriche, lasciando il compito all'orchestra di contrastare l'avanzamento della tecnologia con trame orchestrali d'altri tempi. Con un suggestivo intreccio di voci, nella strofa successiva il duetto Howe-Davison va a scomodare Vernor Vinge, scrittore statunitense di romanzi di fantascienza, che sin dal lontano 1981 porta avanti la sua teoria che entro il 2030 l'essere umano sarà l'unico animale che ha capito come affidare la sua cognizione a macchine super intelligenti, dando vita ad una nuova era dove regna la tecnologia. Menzionando il sesto paradigma i nostri vanno a sposare un'altra teoria, quella di Daniel Estulin, scrittore lituano che galleggia fra le teorie complottistiche e che sostiene che il coronavirus è l'arma principale per passare in maniera più veloce al sesto paradigma tecnologico, alimentando l'uso della tecnologia per sopperire agli stress mentali imposti dal lockdown. Significativo l'inciso, la tecnologia sta costruendo un super uomo, ma questo superuomo, in realtà è un minus the man, ovvero una creatura sempre meno umana alimentata dalla tecnologia priva di valori e sentimenti. I melanconici arabeschi chitarristici di Howe ci accompagnano alla strofa successiva, dove le fatate trame dell'orchestra colorano profonde licenze poetiche che vedono la coscienza dell'uomo svanire di fronte ad uno smodato uso di un fin troppo invadente progresso tecnologico. Un assolo di chitarra che trasuda tristezza ci separa dalla parte finale, dove l'orchestra diretta dal maestro Oleg Kondratenko si fa più briosa, ricamata dai preziosi intarsi di Steve Howe e dai delicati e precisi passaggi della sezione ritmica.
Leave Well Alone
Andando avanti incontriamo la seconda delle tre suite previste, "Leave Well Alone (Lascia Stare Com'è)", brano firmato Howe e più lungo del platter con i suoi oltre otto minuti, che va a rievocare i fasti del glorioso passato. Il primo dei tre movimenti, intitolato "Across The Border (Oltre Il Confine)" è aperto dalle suggestive note del koto, un antico strumento musicale giapponese appartenente alla famiglia delle cetre, ovviamente suonato per l'occasione dal Maestro Howe, che si occupa anche della voce solista. Le poche note dal sapore orientale vengono affiancate da un segmento ben ritmato e travolgente, enfatizzato da pompose fiammate di tastiera e briose trame orchestrali. Dopo alcuni vellutati passaggi di steel guitar, un'articolata trama acustica riporta la calma, accompagnando la calda voce di Steve Howe, che a mo' di filastrocca ci porta indietro nel tempo, quando l'uomo muoveva i suoi primi passi sul Pianeta, un uomo timoroso, umile, che assaporava la virtù del nulla dice il nostro. Ci narra di quando l'uomo aveva un profondo rispetto nei confronti di Madre Natura, tanto da temerla, evitando di avventurarsi negli abissi profondi. Con grazia e classe entra in scena l'ottima sezione ritmica, mentre di tanto in tanto fanno capolino le diamantine note del koto, trasportate dai delicati pad di tastiera. Siamo agli albori della vita umana, la lunga strada da percorrere è solamente all'inizio, anche se i più arditi erano tentati di scoprire cosa si celasse oltre il confine. Al minuto 02:28 ha inizio la seconda parte della suite, intitolata "Not For Nothing (Non A Caso)", annunciata da un simpatico tema di chitarra seguita dalla ben ritmata strofa, Davison duetta con Howe abusando di licenze poetiche dal sapore fantasy o forse legate ai misfatti e ai segreti di Buckingham Palace, del tipo "I heard th? King has lost his golden wing( ho sentito che il Re ha perso le sue ali d'oro)" e "I heard the queen just couldn't intervene (ho sentito che la regina non poteva proprio intervenire)" righe di difficile interpretazione, alle quali non a caso fa eco una azzeccata armonia vocale che invita a lasciar stare così com'è. Andando avanti troviamo uno strumming di mandolino dal sapore barocco che ci riporta inevitabilmente agli anni Settanta, quando i nostri ci cantavano di storie meravigliose, mentre tra le righe si capisce il succo del discorso, le storie tramandate di bocca in bocca si trasformano allontanandosi dalla verità, meglio lasciarle perdere, lasciano il tempo che trovano. Le storie si raccontano ai carcerati, che però continuano a rimanere dietro le sbarre, le idee intente a cambiare la storia sono solo delle barzellette, e le ragioni? Le ragioni all'inizio ci danno una bella spinta, che però evapora quasi subito, sono frasi concise che ci svelano lo spirito conservatorio di Howe. Voli pindarici da parte degli strumenti che ruotano intorno al tema portante ci portano agevolmente al minuto 04:50, dove ha inizio l'ultimo segmento della suite, intitolato "Wheels (Ruote)", interamente strumentale. I tre accordi in serie, ci rimandano inevitabilmente (con le dovute distanze) ai fasti di "Würm". L'organo fa crescere lentamente l'intensità rafforzato da alcuni bena assestati power chords e potenti pennate di basso che spruzzano un po' di grinta. Alan White annuncia il vortice di assolo con una serie di fil di gran classe. Il basso e la chitarra si intrecciano come due amanti focosi, trasportati da un atavico tappeto di organo e dalle evoluzioni ritmiche di un ispiratissimo Alan White. Non c'è la grinta trascinante della sopracitata "Würm", ma il succo è quello, le evoluzioni solistiche degli strumenti ci trasportano piacevolmente verso l'epilogo, strizzando ancora una volta l'occhio al glorioso passato.
The Western Edge
In "The Western Edge (Confine Occidentale)" stavolta Joe Davison firma il brano e duetta con Billy Sherwood, che da buon polistrumentista, oltre a macinare le quattro corde, da una mano anche con le tastiere e la chitarra acustica. In effetti, se non fosse per l'inconfondibile steel guitar di Howe e alla voce clone di Anderson, il brano è più vicino al sound freddo dei World Trade e dei Circa, piuttosto che allo stile caldo e barocco degli Yes. I due compositori hanno buttato giù le linee vocali in separata sede, causa Covid-19, provandole poi a unirle, ottenendo un risultato originale più che soddisfacente. Una avvolgente pad di tastiera esalta un hook lanciato da Davison, "We are one constellation (Siamo una costellazione)" è una di quelle frasi che fanno colpo e rimangono subito impresse anche a chi non mastica la lingua di Albione. I delicati ma incisivi fill sulle pelli di Alan White e i lamenti della steel guitar ricamano le liriche, figlie dell'isolamento forzato dai vari lockdown, fra le righe traspare una voglia matta di tornare a vivere liberamente, di poter visitare i luoghi più belli del Mondo e potersi sentire a casa propria anche se distanti mille miglia, liberi di vivere tranquillamente in mezzo all'oceano variopinto dell'umanità. Nella seconda strofa, accompagnato da uno sferragliante strumming di chitarra acustica, Sherwood ci sfida a tornare a riunirsi nuovamente, quello che prima della piaga Coronavirus sembrava una cosa normale, ora diventa una chimera irraggiungibile fisicamente, ma possibile solo via web tramite le varie applicazione che prevedono chat e videoconferenze che emulano in qualche maniera la sensazione di stare "vicini" a qualcuno. Nella terza strofa, le due linee vocali si intrecciano, accompagnate da tastiere fiabesche. Tempestati da lezioni di vita da parte dei vari tuttologhi di turno, i due vocalist fremono di poter tornare alla normalità, quasi stufi di essere ligi alle leggi più o meno discutibili imposte dai padroni del Mondo. È doveroso evidenziare il gran lavoro ritmico da parte del duo Sherwood-White, che sembra suonare insieme da una vita ed improvvisamente alza l'asticella dei BPM. La sezione ritmica corre veloce come un treno, Steve Howe disegna con la steel guitar gli sbuffi di vapore vomitati dalla locomotiva, dai finestrini del treno passano veloci i sogni di tutti coloro ormai stufi di vivere confinati fra le loro quattro mura, stufi di questo nuovo grigio modo di vivere. Nonostante il sound moderno, il brano è lordo di cambi di tempo come ai vecchi tempi, la sezione ritmica frena improvvisamente, esaltando gli spaziali sintetizzatori di Geoff Downes. I due vocalist continuano ad intrecciarsi e sovrapporsi in maniera suggestiva, invitandoci ad ascoltare i segni che arrivano dal cielo, a collegare le nostre stelle al grande disegno del fato. Il confine occidentale è una meta immaginaria dove ci aspetta un Mondo migliore, dove i cuori possono tornare ad allinearsi senza timori. Gli sbalzi ritmici continuano finno alla fine, i nostri passano con naturalezza da un ritmo spedito dove il basso ci bombarda di sedicesime, a momenti cullanti, dove la steel guitar e le tastiere si fondono quasi all'unisono, facendoci sognare ad occhi aperti e accompagnandoci verso quel confine occidentale tanto bramato.
Future Memories
Siamo arrivati a quella che io reputo la vera perla dell'album, "Future Memories (Ricordi Futuri)", bellissima ballata acustica firmata Jon Davison, nonché terzo singolo estratto, rilasciato il 15 Ottobre del 2021. Lorda di profonde licenze poetiche, potrebbe sembrare una canzone introspettiva d'amore, ma se date un'occhiata al bellissimo videoclip, scopriamo che si tratta di un vero tributo alle opere artistiche con le quali Roger Dean ha accompagnato i nostri dai primissimi anni Settanta fino ad oggi. Già dai primi accordi della Fender a dodici corde di Jon Davison, si capisce che si tratta di un "pezzone". La struggente linea vocale ci cattura all'istante, azzeccati anche i vari "Mmm-hmm" veri e propri succulenti hook che fanno breccia nella nostra mente e nel nostro cuore. La Fender stringmaster steel di Howe piange difronte ai colorati ricordi che scorrono, seguita dai sinuosi fraseggi del freetless bass che esalta le pregiate pennellate di Roger Dean mentre colorano questo stupendo album dei ricordi che va a ripercorrere i momenti più significativi della carriera degli Yes. Sin dalle prime righe si capisce che Davison si sente ormai parte integrante della band, come se ci fosse fin dagli esordi. Da brividi il ritornello, la bellissima linea vocale viene impreziosita da raffinate armonie vocali e controcanti alle quali sembra unirsi Chris Squire dall'aldilà. È qui che Davison con la sua voce angelica dichiara l'amore che la band ha nei confronti di Roger Dean, "From this moment forward I don't want to make another memory without you (Da questo momento in poi, non voglio creare un altro ricordo senza di te)", mentre scorrono le bellissime immagini raffiguranti le copertine firmate Roger Dean dei dischi passati, presenti e si presume futuri. Breve stacco strumentale dove steel guitar e freetless bass dialogano sottovoce e poi si continua, le argentee note della dodici corde scendono giù come glitter sopra un impalpabile tappeto di organo, ricamate dal basso dalla tastiera liscia e dai virtuosi fraseggi del Maestro Howe. Si respirano notevoli atmosfere da brividi. Al secondo passaggio l'inciso si conferma una vera bomba carica di emozioni accompagnandoci poi verso il finale, dove le armonie vocali si intrecciano ai lamenti della Fender Stringmaster steel, lasciando poi il campo alle note della dodici corde che rallentano gradualmente fino alla completa estinzione. Mi sono letteralmente innamorato di questo brano, impreziosito dalle suggestive immagini del videoclip. Non scherzo l'ho ascoltato cinque o sei volti di fila. Come si dice dalle mie parti "roba da ciccia di gallina", simpatica variazione toscana del più conosciuto "da pelle d'oca".
Music to my Ears
Una melliflua e classicheggiante partitura di pianoforte apre "Music To My Ears (Musica Per Le Mie Orecchie)", un soft rock radiofonico molto raffinato. Le scintillanti note della dodici corde acustica di Howe (autore del brano) impreziosiscono il tutto chiamando a rapporto la sezione ritmica, che entra in punta di piedi ma con tanta classe. Nella solare strofa, Howe e Davison tornano a duettare insieme, invitandoci in maniera positiva e convincente a migliorare sempre i nostri obbiettivi, a seguire sogni che sembrano irraggiungibili, a riprendere il controllo nei momenti più difficili, esortandoci di non limitarsi a stare a riva ma di addentrarsi nelle acque profonde e sfidare gli oceani, bellissima questa licenza poetica con la quale i nostri ci invitano ad inseguire i nostri sogni. L'inciso, dove aumentano sensibilmente i bpm, è fra i più orecchiabili scritti dalla band, punta su una ammaliante progressione armonica ricamata da preziosi intarsi di chitarra. Raggiungere i sogni è musica per le mie orecchie dice Juano (è questo il vecchio soprannome di Davison, affibbiatogli dai lontani tempi in cui suonava il basso nei Sky Cries Mary). La strofa successiva mantiene sempre la calorosa linea vocale dal sapore natalizio, con la quale l'affiatato duo ci invita a credere in noi stessi e caricarsi di autostima, ingredienti principali per la realizzazione di un sogno. Il secondo ritornello viene impreziosito da un interessante salto di tono e da suggestivi controcanti che sfruttano un interessante lavoro tastieristico di sottofondo. A seguire troviamo uno stralunato intermezzo di puro prog rock, acide fiammate di tastiera dialogano con schitarrate Frippiane oscurando la solare atmosfera precedente, ma solo musicalmente, le liriche mantengono ancora marcate note di positività è doveroso svegliarsi spensierati dopo un sonno agitato, tramutando gli incubi in sogni. Dobbiamo assaporare le essenze della vita, sfruttare al meglio le serate, meglio se in buona compagnia. Un mellifluo assolo di chitarra precede l'ultimo passaggio del ritornello accompagnandoci con pregevoli evoluzioni canore verso l'epilogo del brano meno "Yes" e più debole del platter, dove però non manca la classe e dove spiccano interessanti intrecci vocali.
A Living Island
Molto meglio la conclusiva "A Living Island (Un Isola Vivente)", interessante suite divisa in tre segmenti firmata Davison Downes (infatti a tratti suona un po' Asia dell'era Payne). Le liriche sono figlie del primo e rigido lockdown, quello oscurato dalla paura di un virus letale sconosciuto, che rendeva le strade deserte, degne dello scenario di un film post apocalittico. Durante il primo lockdown, Davison era confinato nella sua casa nell'isola di Barbados (direi che poteva andargli peggio?n.d.r.). Durante il mixaggio, Steve Howe ha preferito usare la registrazione originale delle liriche made in Barbados, in modo da mantenere inalterato il forte carattere emotivo che trasudavano, che con molta probabilità sarebbe andato perso in una eventuale nuova registrazione del cantato. Una chitarra acustica dal piacevole retrogusto settantiano apre il primo movimento, intitolato "Brave The Storm (Affrontare La Tempesta)". Oscuri accordi di pianoforte che trasudano mestizia accompagnano Jon Davison, che ci mostra quanto sarebbe interessante se usasse meno frequentemente il falsetto in simil Anderson. Il nostro dipinge un suggestivo quadretto, siamo nell'Atlantico Occidentale, al confine con il mar dei Caraibi dove fra le molte isolette che compongono l'Arcipelago delle Antille, si erge l'isola di Barbados, una delle rare isole coralline, che viene definita un'isola vivente, ma in realtà il termine potrebbe riferirsi anche al pianeta Terra, un'isola vivente in un mare di stelle. Un emozionante intreccio fra le tastiere fantasma di Downes e la sei corde acustica di Howe innesca la modalità Anderson in Juano che definisce (e come dargli torto) un mondo impazzito quello devastato dal Covid-19, un mondo dove troppo spesso veniamo abbandonati a noi stessi, riducendoci a far forza e affidamento soltanto con chi ci sta vicino. Alan White entra improvvisamente in scena alzando considerevolmente l'asticella dei bpm, Davison si domanda se si sta trovando in un paradiso o in una prigione, è questo il drammatico effetto che fa il lockdown, nonostante ci si trovi in uno dei posti più belli e desiderati del Pianeta. Fra suggestivi intrecci strumentali e molteplici cambi di tempo, lentamente le liriche assumono una vesta speranzosa, una voglia di combattere tutti insieme per sconfiggere quel maledetto mostro che ha rivoluzionato la vita di tutti. Il nostro ci esorta a credere nella scienza e liberarci dalla paura, ci invita ad essere più saggi in modo da sbarazzarsi quanto prima di questo virus, che muta forma in continuazione come se fosse un mostro partorito dalla mente di John Carpenter. Dopo un vetusto assolo di organo, un interessante interludio strumentale ci separa dal secondo movimento, intitolato "Wake Up (Svegliarsi)", dove per un attimo calano drasticamente i bpm. La chitarra acustica di Howe ci fa sognare, trasportata dai pad di tastiera, i nostri cantano un inno alla rinascita del Pianeta Terra. Sherwood e White ripartono come un treno, carico di un chiaro messaggio lordo di speranza che ci invita a svegliarsi da questo maledetto incubo che ormai ci accompagna da troppo tempo. Stiamo vivendo in un brutto sogno dove purtroppo gli stolti tentano di tirare su il sipario quando è ormai troppo tardi, trasformando noi comuni mortali in pedine da muovere nella loro assurda partita contro la Morte. Al minuto 4.33 ha inizio la parte conclusiva della suite, intitolata "We Will Remember (Ci Ricorderemo)" che vede uno Steve Howe sugli scudi. Il suo trionfale assolo di chitarra, stranamente più distorto rispetto ai suoi standard è da pelle d'oca, sembra più un inno che si tira dietro tutti gli altri strumenti che brillano girandoci attorno. Ora le liriche abbandonano i sentimenti personali e invitandoci a volere bene al prossimo ma soprattutto al nostro Pianeta, bisogna metterci in zucca di abbandonare le varie guerre disseminate nel Mondo in modo da concentrare tutti gli sforzi sull'unico vero nemico che abbiamo in comune. Alternandosi con gli emozionanti fraseggi del Maestro Howe, Davison trova il tempo di spendere dolci parole in onore di tutti quegli eroi invisibili che si muovono dietro le linee, tentando di salvare più vite possibili mettendo spesso a repentaglio la loro. Un pensiero va anche a tutti coloro che hanno visto portare via i propri cari da questo maledetto virus che sembra imbattibile. Questa canzone è dedicata ai ricordi di tutti coloro che non sono più qui con noi. Uno scatenato Howe ci accompagna magicamente verso il gran finale dal sapore epico con la sua Gibson Le Paul, che sembra piangere tutte le anime che il maledetto Covid-19 ci ha portato via.
Sister Sleeping Soul
Costretti dal primo lockdown a restare confinati nelle loro abitazioni, gli Yes, se pur a distanza, avevano buttato giù un bel po' di materiale. La casa discografica esigeva un disco che non superasse i cinquanta minuti, e le tracce cosiddette "minori", o meglio le meno interessanti, anziché rimanere rinchiuse in un cassetto, sono finite in un bonus Disc, rendendo l'acquisto più appetibile, CD che ci apprestiamo ad analizzare. Ad aprire le danze è "Sister Sleeping Soul (Sorella Anima Addormentata)", brano di soft rock senza infamia e senza lode, in linea con lo stile poco esaltante del precedente "Heaven And Earth" ma che si segnala per un'incisiva linea di basso di Squireiane memorie. Le liriche di Davison, co autore del brano insieme ad Howe, sono molto introspettive e vanno indietro nel tempo, rievocando gli spensierati momenti della giovinezza e all'innocente pazzia adolescenziale. Steve Howe introduce il brano con la 12 corde portoghese, ricreando una piacevole atmosfera barocca d'altri tempi. A seguire possiamo finalmente scorgere le percussioni di Ian Schellen, finora impercettibile, forse oscurato dal sorprendente Alan White. Ad emergere in questo dolcissimo brano, grazie alle solari trame della chitarra portoghese è il prepotente giro di basso di Mr. Sherwood, le sue pungenti scale che vanno a ricamare le strofe sembrano uscite dal Rickenbacker di Chris Squire. Rievocando i passi di Derek William Dick, meglio conosciuto come Fish, Davison va alla ricerca dell'infanzia perduta, cercando di ritrovare quell'anima impavida che lo accompagnava nelle magiche notti adolescenziali e lo faceva sembrare a prova di proiettile. Le sinuose note del pianoforte si incastonano perfettamente tra le trame della chitarra portoghese, Davison rimpiange di aver perso la sua anima ribelle con il passare degli anni, ma è convinto che si sia solo addormentata e che si trova ancora lì da qualche parte, basta toccare il tasto giusto per farla riaffiorare. Vigorosi fraseggi di chitarra ravvivano l'inciso dove si continua a cercare l'anima ribelle dell'adolescenza, trasportati dal convincente giro di basso. Più avanti troviamo uno special, rafforzato da bellissime armonie vocali che si intrecciano con la voce di Davison, più Andersoniana che mai per l'occasione. Downes ci sveglia dal torpore con un funambolico breve assolo di tastiera, Juano ci svela il segreto per riportare a galla la spensierata anima adolescenziale, basta liberare la mente da tutti i problemi che caratterizzano la vita di un adulto medio. Quando il brano sembra vicino all'epilogo, la dodici corde portoghese suona di nuovo la carica, dando il là ad una interessante coda strumentale, dove Downes domina dall'alto del suo castello di tastiera, rievocando i fasti del suo illustre predecessore. Il gioco di voce che va a concludere il brano mette il marchio Yes sul brano, esortandoci a vivere la vita come se fossimo alti dieci piedi, senza aver paura di nulla.
Mystery Tour
La successiva "Mystery Tour (Tour Del Mistero)" è un simpatico dichiarato omaggio ai Beatles, band che senza ombra di dubbio ha influenzato gli Yes agli albori della loro carriera, infatti molti di voi ricorderanno che nel primo ed omonimo album datato 1969, i nostri inserirono una interessante e stravolta rivisitazione del brano "Every Little Thing" I quattro scarafaggi di Liverpool e il loro staff manageriale vengono menzionati uno per uno durante le liriche di questo brano firmato Howe, brano che anche musicalmente rievoca le atmosfere di "Sgt. Pepper" e di "Magical Mystery Tour", album da cui prende il titolo, datato 1967 e colonna sonora dell'omonimo film a episodi per televisione che vedeva i Beatles protagonisti durante un misterioso viaggio in autobus dove ne capitano di tutti i colori. La Martin MC28 acustica rievoca atmosfere solari alla "Here Comes The Sun", le note del basso di Sherwood si incastonano perfettamente tra le complicate trame della chitarra, sfruttando un sobrio tappeto di mellotron. La voce angelica di Juano si sposa con una naturalezza disarmante alla ammaliante melodia ricreata dagli strumenti e inizia a presentarci i mostri sacri della musica rock, partendo dal più influente e famoso, John Lennon, definito un vero e proprio combattente determinato a diffondere il verbo dell'amore in tutto il Pianeta. Subito dopo troviamo Paul McCartney, che insieme a John ha formato forse la miglior coppia di compositori della storia della musica contemporanea. Nel melodicissimo ritornello, viene citato il martello d'argento del brano "Maxwell Silver Hammer", canzone che a seconda di molti critici ha dato il via al declino della band che ha rivoluzionato il modo di fare musica, influenzando la quasi totalità delle rock band future. Nella seconda strofa viene il turno di George Harrison, che suona la chitarra con la medesima facilità di cui noi suoniamo un campanello e di Ringo Star, metronomo e cuore pulsante della band. Ma cosa sarebbero stati i Beatles senza il fondamentale apporto del manager Brian Samuel Epstein, un vero e proprio collante, fondamentale per il successo dei Quattro Scarafaggi grazie al suo istinto imprenditoriale e alla determinazione di tenere insieme i cocci nei momenti più difficili. Altre figure fondamentali per il successo dei Beatles sono state Malcolm Frederick Evans e Neil Aspinall, giustamente menzionati nelle liriche, impreziosite da controcanti dal piacevole retrogusto anni'60. Come da prassi, quando ascoltiamo una canzonetta leggera e briosa, al secondo passaggio dell'inciso e della strofa, le facili melodie si stampano nella nostra mente, pronte ad essere fischiettate. Un assolo di chitarra scolastico spezza in due il brano, anticipando uno special. La sezione ritmica va un attimo in stand by, lasciando l'onere ad un solare strumming di chitarra. Davison racconta lo sconforto dei fan quando il sogno Beatles iniziò a svanire a causa di irreparabili contrasti interni. La gente non dormiva, vedevano il loro idoli una sorta di supereroi inarrestabili, ma lentamente stavano affondando nelle acque fangose, spezzando il cuore dei loro seguaci. Il brano si avvia lentamente verso l'epilogo, cavalcando le ammalianti linee melodiche, senza dire nient'altro di nuovo, ma lasciandoci con il sorriso in bocca.
Damaged World
E siamo giunti al termine di questa interessante avventura, che paradossalmente si conclude con "Damaged World (Mondo Danneggiato)", prima traccia su cui hanno lavorato insieme Howe (autore) e Davison, prima che il Covid-19 oscurasse il Mondo. Sicuramente è la migliore delle tre tracce che vanno a completare questo bonus disc, e ad onore del vero io l'avrei inserita nella track list del primo disco, magari al posto di "Music To My Ears", sicuramente la traccia che mi ha convinto di meno. La sobria introduzione di chitarra viene spazzata via con prepotenza dalle pompose tastiere made in Asia di Geoff Downes che spalancano i cancelli a Steve Howe, a cui va l'onere di cantare l'inciso, che stranamente troviamo all'inizio. Dopo un vetusto intermezzo dove l'organo detta legge, arriva la prima strofa, le liriche sembrano essere premonitrici, si parla di un Mondo danneggiato, ma essendo state partorite nell'autunno del 2019, perlomeno stavolta il Coronavirus è esente da colpe. Quindi il dolo come spesso accade è opera dell'uomo, nel mirino finiscono tutti i problemi ambientali derivanti dall'avanzare inarrestabile del progresso. Nella seconda strofa entra in scena Joe Davison, pronto a duettare nuovamente con Howe. Tra le righe deduciamo che gran parte dei mali del Mondo sono opera dell'essere umano, ormai schiavo della tecnologia e restio a dare importanza ai veri valori della vita, indifferente ai capolavori di Madre natura, definiti come sogni ormai persi. I due continuano a duettare, trasportati dalla piacevole andatura degli strumenti che sfoggia interessanti cambi di tempo, invitandoci ad essere più partecipi con il prossimo, a condividere le nostre storie meno felici, ad ascoltare la chiamata di madre Natura, che invoca rispetto. Nell'inciso, Howe continua ad invocare aiuto per poter salvare il Mondo, lasciando poi lo scettro a Geoff Downes che ci sorprende con un assolo di Wakemaniane memorie. White aumenta i giri del motore, dando via ad un ottimo intermezzo strumentale dove si alternano notevoli escursioni soliste. Howe apre le danze con uno dei suoi inconfondibili assolo, seguito poi da Downes che ci porta indietro nel tempo a suon di colpi di organo Hammond. Torna il Maestro Howe a terminare il suo assolo, guarnendolo con una buona dose di melodia che non guasta mai. Dopo dei passaggi in loop dell'inciso, un solenne fraseggio di chitarra si adagia su un soffice tappeto di organo, dandoci un arrivederci, perché questo album ci dice che gli Yes hanno ancora voglia di fare buona musica.
Conclusioni
Prima di ascoltare questo CD, in rete leggevo commenti colmi di dubbi e perplessità, notavo una mancanza di fiducia nei confronti degli Yes nuovo corso. Io invece non ho perso mai la fiducia in loro, ed imperterrito ho acquistato "The Quest" senza alcun minimo dubbio. L'album ci consegna una band in gran spolvero. La prima traccia fa brillare gli occhi, travolgente, arrangiata alla perfezione e suonata in maniera impeccabile, era impensabile che tutta la track list si muovesse sui medesimi standard, altrimenti saremmo stati di fronte all'ennesimo capolavoro da 10 e lode targato Yes. Comunque sia, la classe e la qualità degli strumenti non scemano andando avanti. I nostri hanno intelligente mixato note vetuste dei primi Yes ad un sound più moderno, senza incorrere in autocelebratismi futili a sé stessi. Scordatevi "Relayer" e "Colse To The Edge", siamo da tutt'altra parte, ma siamo di fronte ad un ottimo album, un netto passo avanti rispetto all'opaco "Heaven And Heart". È un disco che va ascoltato con attenzione e più volte prima di essere assimilato ed apprezzato. La cristallina produzione di Howe e l'alta qualità degli arrangiamenti rendono interessante l'intera track list, dove a tratti si respira una frizzante aria settantiana; almeno tre pezzi entreranno sicuramente nelle future setlist live. Howe ormai non mi sorprende più, è sempre stato il mio chitarrista preferito, sembra non sentire il peso degli anni. I suoi assolo e gli inconfondibili fraseggi sono un evidente marchio di fabbrica da cui gli Yes non possono prescindere. Andando a cercare il pelo nell'uovo, avrei preferito meno interferenze sul cantato da parte sua, lasciando più spazio alla voce angelica di Davison, limitandosi alle armonie vocali. A sorprendermi è stato invece Alan White, le notizie inerenti i suoi problemi di salute non lasciavano presagire un futuro roseo per lo storico batterista, ma invece il nostro viaggia spedito, trovando spesso soluzioni mai banali dove pullula la tecnica e l'estro, mentre è impalpabile il lavoro alle percussioni di Ian Schellen, sicuramente molto più utile in sede live, quando il fisico di Alan White fa i capricci. Per Geoff Downes ho sempre avuto un debole, essendo un fan sfegatato degli Asia. Rimpiazzare una leggenda come Wakeman non è da tutti, lui c'è riuscito e con stile, grazie ad una tecnica ed una inventiva fuori dal comune. Il modo di suonare il basso di Billy Sherwood si avvicina molto a quello di Squire, sovente il suo Spector bass è protagonista al pari degli altri strumenti. Infine, voglio spendere due parole di elogio per Joe Davison, che si è integrato alla perfezione all'interno di una band di mostri sacri del progressive rock senza alcuna remora. La sua voce talvolta è talmente simile a quella di Anderson che facciamo fatica a distinguerli. Le sue interpretazioni sono magistrali e trasudano emozioni. Si dimostra abile anche con la penna, non me ne voglia, ma siamo su un altro pianeta rispetto a Benoit David. "The Quest" è stato rilasciato il primo Ottobre del 2021 dalla Inside Out Music in collaborazione con la Sony Music. La granitica sezione ritmica ha registrato presso gli Uncle Rehearsal Studios, ubicati a Van Nuys, Los Angeles, in California. Le parti orchestrali, composte dal fan di lunga data del gruppo Paul K. Joyce e dirette dal Maestro Oleg Kondratenko sono state registrate presso i Fames Project Studio di Skopie, nella Macedonia Del Nord, mentre il resto è stato registrato presso i Curtis Schwartz Studio di Ardingly, nel West Sussex, il tutto è stato mixato da Curtis Schwartz e masterizzato da Simon Heyworth, sotto l'attenta supervisione del produttore Steve Howe. Per parlare della bellezza dell'artwork firmata Roger Dean, che da sola vale il prezzo del CD, occorrerebbe una ulteriore recensione, cercherò di essere il più sintetico possibile. Si tratta di una delle più belle cover art partorite dal pennello dell'inimitabile Disegnatore di Ashford. Un fantastico scenario dai sentori new age e fantasy dove predominano le tonalità di azzurro, blu e viola. Sopra le inconfondibili rocce deaniane, troviamo a sinistra un albero dalla chioma fluente, a destra delle strane fioriture aliene. In basso, mimetizzata fra la vegetazione, una figura umana, che potrebbe essere Snowflower Elder, scruta il paesaggio dove predominano rocce ed alberi, guardando verso l'orizzonte dall'insolita colorazione verde, che moderatamente sfuma verso il celeste. In alto troviamo il titolo, in un'affasciante font made in Dean in colore arancione, subito sotto l'inconfondibile logo Yes, stavolta presentato in una inedita veste a mosaico ideata dall'artista Marie Louise Rennick, dove predomina il celeste e qualche parte in verde, con al centro un'aquila di color rosso. All'interno del digipack che sfuma dal verde al celeste, troviamo le singole foto dei sei musicisti. Sotto la slot dei due CD possiamo ammirare alcune bozze a matita di Roger Dean Interessante anche il booklet, dove in prima pagina spicca il nuovo logo su sfondo bianco e in ultima una miniatura del fantastico disegno della copertina. All'interno, le pagine sono di un colore diverso dall'altra, e fra le liriche troviamo ulteriori foto dei nostri, immortalati durante le fasi di registrazione. In conclusione, non è un disco adatto a chi ancora non conosce la band, in questo caso meglio guardare nella decade degli anni '70, mentre per me che seguo la band da molto tempo, è stata una lieta sorpresa, un disco arrangiato in maniera certosina e suonato impeccabilmente da gente che ormai non deve più dimostrare nulla a nessuno, ma suonare la musica che gli viene dal cuore, e questo forse è il pregio più alto del disco, perché se vi guardate in giro, di musica inedita che proviene dal cuore ne trovate poca.
2) Dare to Know
3) Minus The Man
4) Leave Well Alone
5) The Western Edge
6) Future Memories
7) Music to my Ears
8) A Living Island
9) Sister Sleeping Soul
10) Mystery Tour
11) Damaged World