YES
The Ladder
1999 - Eagle Records
SANDRO NEMESI PISTOLESI
21/02/2016
Introduzione Recensione
Che Open Your Eyes sia stato un album deludente, ne sono ben consapevoli anche Chris Squire e compagnia cantante, lo dimostra il fatto che durante l'imponente tour a seguito, solo la title track faceva parte della playlist, raggiunta sporadicamente dall'effimera serenata From The Balcony. Il tour di Open Your Eyes, dall'alto delle sue 147 date in tutto il mondo, fra il 17 ottobre 1997ed il 14 ottobre 1998, va ad occupare la terza posizione in quanto a numero di spettacoli, secondo solo al loro primo tour in assoluto, The Early Shows, che primeggia incontrastato dall'alto dei suoi 295 concerti in quasi due anni e al The Yes Album Tour con 164 date a cavallo fra le Estati del 1970 e del 1971. Bisogna comunque sottolineare che, specie nel primo tour, molti concerti erano per pochi intimi, magari in qualche un pub inglese o in qualche campus universitario. L' Open Your Eyes Tour servì a far integrare nuovo tastierista Igor Khoroshev, che divenne a tutti gli effetti il quattordicesimo musicista entrato negli Yes e che andiamo immediatamente a conoscere. Il nostro Igor nasce a Mosca il 14 Luglio del 1965, e nemmeno a farlo a posta in una famiglia di musicisti, che già dalla tenera età di cinque anni lo indirizza verso l'affascinate mondo della musica, mandandolo a lezione di piano. Il nostro aveva talento, ma come spesso accade, era svogliato ed odiava i ripetitivi, ma utili esercizi che gli assegnava il maestro. Solo in età adulta ha scoperto i benefici di una costante esercitazione giornaliera. Nei primi anni dell'adolescenza, suonava il basso in una band heavy metal, ma la sua ossatura si è formata nelle accademie musicali. Fino a venticinque anni ha frequentato un collage, dove ha conseguito con merito un master in musica. Poi un giorno gli si accese una lampadina, si alzò dal letto, prese un caffè e successivamente un volo di sola andata per gli Stati Uniti. Era il 1991, correvano i tempi di Mikhail Gorbachev, ed una volta raggiunta la meta, si dichiarò un rifugiato dell'ex Unione Sovietica. Dopo aver superato le difficili barriere linguistiche, conobbe qualche musicista ed iniziò a suonare, accorgendosi che quello che per lui era sempre stato "progressive" ora era diventato "regressive", quindi decise di mettersi a comporre qualcosa di molto innovativo. Per uno strano gioco del destino, nel 1996 ad un concerto degli Yes ebbe l'onore di conoscere una delle sue muse, Patrick Moraz. Albergavano entrambi nello stesso hotel dove erano gli Yes. Una sera, in preda ai demoni dell'alcool, si misero a duettare ad un pianoforte posto nella hall, attirando l'attenzione anche di Anderson e compagni. Poi, un anno dopo, l'inattesa chiamata di Jon Anderson, che era in possesso di un suo nastro, che neanche il diretto interessato sapeva come diavolo fosse finito fra le mani di uno dei suoi idoli. A fine colloquio, in preda all'emozione, quasi balbettando, gli chiese quanto tempo aveva e quanti pezzi doveva preparare. La risposta fu lapidaria: "Tre giorni, e preparali tutti, non sappiamo ancora quali pezzi suoneremmo". Poi, supplicandolo, riuscì a strappare l'importante informazione che il provino si sarebbe incentrato sul materiale degli anni settanta. La prima prova fu uno dei brani più difficili del repertorio Yes, la suite The Revealing Science Of God, poi venne il turno di un classico, Heart Of The Sunrise, dopo di che gli dissero "basta così", avevano sentito già abbastanza. Il primo esame era stato superare brillantemente, ora aveva un mese di tempo per imparare la scaletta ed andare in tour con quella che da sempre era la sua band preferita. La prima volta che salì sul palco, ossessionato dal fantasma di Rick Wakeman, temeva che i fans lo tirassero giù dal palco. Invece no, spulciando in giro sul web, scoprì che aveva conquistato i fans, e questa fu una notevole iniezione di fiducia per le date successive. Il tour avrebbe dovuto concludersi in Inghilterra, ma sorse un problema con il visto. I nostri si rivolsero a Rick Wakeman, che declinò gentilmente l'invito, raccomandando però suo figlio Adam. Ovviamente, tale padre tale figlio, Adam era un ottimo tastierista, ma a parte Starship Trooper non conosceva molto altro materiale degli Yes. Gli era rimasto un solo disco, l'altro che aveva lo aveva ceduto anni prima al fratello Oliver, in cambio di un pallone. Messo sottopressione da papà Rick e tormentato di telefonate da Jon e Chris, si dovette imparare tutta la scaletta nel giro di pochi giorni, provando addirittura con una tastiera sul treno, durante il viaggio verso Manchester. Passò tutta la notte della vigilia del concerto a suonare la scaletta. Poi, proprio in zona cesarini, arrivò l'ultimo messaggio dall'America: Igor aveva ottenuto il visto. Sollievo e disappunto si equivalevano. Gli Yes comunque gli chiesero di rimanere ugualmente per lo spettacolo e lo invitarono sul palco a suonare Starship Trooper come premio di consolazione. L'ottimo successo del tour, spinse gli Yes ad entrare in studio, proprio quando cadeva l'anniversario del trentesimo anno di vita della band, motivo in più per riscattare al meglio il passo falso di Open Your Eyes e riconquistare i fans. Nell'Estate del 1998, per intrattenere il popolo yessano, la Eagle Record pubblicò il doppio CD Yes, Friends and Relatives, una interessante selezione di materiale appartenente ai progetti solisti dei singoli membri, impreziosita da un remix di Owner Of A Lonely Heart fatto da Jon Anderson, ed un paio di estratti live dai Gemelli Keys. A Novembre del 1998, gli Yes si riunirono presso gli Armoury Studios di Vancouver, in Canada, affidando la produzione ad un produttore indipendente di fama internazionale, Mr. Bruce Fairbairn, che in passato aveva firmato capolavori del calibro di The Razors Edge degli AC/DC, Permanent Vacation e Pump degli Aerosmith e Slippery When Wet dei Bon Jovi, solo per citarne alcuni. Fairbairn fu affiancato dal tecnico del suono Mike Plotnikoff, ed insieme agli Yes andarono a formare un team affiatato dove tutti partecipavano in armonia alle composizioni, donando ai brani una identità ben definita ed una affascinante carattere "live". Il rispetto e la sintonia fra band e produttore aumentava giorno dopo giorno. Bruce rimase colpito da una cosa, di solito in una band ci potevano stare uno o al massimo due elementi dotati di tecnica sopraffina, ed in molti casi nemmeno uno. Gli Yes invece erano tutti erano musicisti di prim'ordine, e a sua detta, potevano tranquillamente autoprodursi The Ladder, ottenendo ottimi risultati. Tutto filava liscio come l'olio, poi il 17 Maggio del 1999 avvenne l'irreparabile. John e Chris lo stavano aspettando allo studio, l'appuntamento era per l'una. Bruce era una persona precisa e puntale, pieno di rispetto; avrebbe comunicato un suo ritardo, se mai ci fosse stato. Alle quindici del pomeriggio, iniziarono a preoccuparsi e inviarono un tecnico a casa di Bruce a controllare se fosse successo qualcosa. Lo stesso tecnico, la sera prima aveva lasciato una cassetta DAT davanti alla sua porta, era ancora lì, come del resto la sua macchina. Chiamò Jon e Chris e insieme forzarono la porta. Jon trovò Bruce privo di vita in camera da letto, stroncato da un infarto, alla giovane età di quarantanove anni. Fu una mazzata tremenda. Ma il più era stato fatto; dopo un rispettoso periodo di pausa, necessario a smaltire l'improvviso lutto, terminarono il lavoro con l'aiuto del tecnico Mike Plotnikoff, concludendo le operazioni di mixaggio dell'album, che ovviamente fu dedicato alla memoria dello sfortunato produttore. I funerali di Bruce Fairbairn furono celebrati il 25 Maggio del 1999, dove si presentarono oltre 300 persone, per la maggior parte star della musica. Jon Anderson, Steve Howe, Tom Keenleyside (talentuoso sassofonista e flautista jazz, che fra l'altro compare come ospite anche sull'album in questione), David Sinclair (Tastierista dei Caravan) e il figlio Brent suonarono alla sua memoria Nine Voices, l'ultima traccia del platter, al quale Bruce era particolarmente affezionato. Dopo questa triste ma doverosa parentesi, andiamo ad ascoltare l'ultima opera firmata da Bruce Fairbairn, e che Riposi In Pace.
Homeworld [The Ladder]
Si parte con Homeworld [The Ladder] (Pianeta Natale [La Scala]), brano ispirato all'omonimo videogames della Sierra Games, un RTS con ambientazioni fantascientifiche, brano che poi è stato inserito nella colonna sonora originale del videogioco. Igor Khoroshev apre con una spaziale introduzione di tastiera, ad un oscuro pad vengono aggiunti altri suoni arcani, poi irrompe uno spensierato riff di chitarra, ricamato dai lamenti della lap steel guitar, che anticipano l'ingresso in scena del cantastorie di Accrington. Il nostro ci conquista con una delle sue ammalianti linee vocali solari e radiose, ed è incredibile come dopo trent'anni la sua inconfondibile timbrica si rimasta inalterata. Un profondo glissato di basso chiama in causa la granitica sezione ritmica, che si limita a ritmare con secchi colpi di gran cassa, seguiti all'unisono da corpose pennate sul Rickenbacker che armonizzano il ridondante riff di chitarra. Un raffinato crescendo annuncia la vera e propria strofa, un brioso wall of sound dove il prepotente basso di Squire emerge sulle trame delle due chitarre. La linea vocale rimane invariata sino all'arrivo del bridge. Un sottile fraseggio di chitarra vien ricamato da pungenti note di basso, che poi con una raffica di sedicesime chiama all'appello Jon Anderson, che recita tutto d'un fiato il ponte, ricamato da cori celestiali, fino ad esplodere nell'inciso. Billy Sherwood spara un accordo distorto, il basso continua a macinare note e trasporta letteralmente in alto il santone Di Accrington, che ricamato dalle squillanti tastiere recita le ultime battute del chorus. Ritorna la strofa, stoppata nella prima parte, dove emergono preziosi intarsi da parte di tutti gli strumentisti, più corposa nella seconda, che va ad annunciare l'assolo di chitarra. Steve Howe tesse una intricata trama di note, fino al ritorno del pompante bridge e del solare ritornello. Al minuto 04: 12 rimane solo un graffiante riff di chitarra, subito affiancato da un funambolico assolo di organo. Per un attimo ci dimentichiamo che Rick Wakeman non fa più parte degli Yes, segno che i nostri hanno trovato un degno sostituto in Igor Khoroshev. Una prolungata corsa sulla pelle del rullante fa rientrare in gioco la sezione ritmica, che accompagna il biondo tastierista russo con una spensierato ritmo incalzante. Andando avanti incontriamo un breve interludio deve rallentano i BPM e le tastiere accompagnano l'angelica linea vocale di Jon Anderson, poi l'erede di Wakeman e Kaye riprende la sua folle corsa sui denti d'avorio dell'organo Hammond. Il giochino si ripete ancora una volta seguito da un rocambolesco crescendo che ci riporta verso il ritornello, tirato su dal fragoroso basso di Squire, poi un solare tappeto di organo Hammond annuncia l'assolo di tastiera. Un epico riff viene ricamato con taglienti e funamboliche fiammate di synth che ancora una volta ci fanno venire dubbi su chi si nasconda dietro al castello di tastiere. Arriva l'assolo di Mr. Howe, che con la mente ci riporta ai gloriosi fasti dell'epica "Würm". Le trame della chitarra vengono inseguite dalle note sparate dall'organo Hammond, che con un bel pad apre la strada al ritorno del l'inciso. Al minuto 07:22 il brano sembra imboccare la strada che porta alla conclusione, con un potente unisono stoppato che lentamente sfuma in fader, ma dalle ceneri, come una fenice rinasce il fragoroso basso di Chris Squire, che continua a sparare note, accompagnato da uno spettrale pad di tastiera. Da questa arcana atmosfera emerge un bellissimo fraseggio con la chitarra acustica, ricamato dolcemente da pochi accordi di pianoforte. I due strumenti iniziano a dialogare, accompagnati da un gelido vento che spira da molto lontano. Un secondo di pausa e poi ritorna il santone di Accrington, che accompagnato da pochi accordi di pianoforte ci fa venire i brividi con una linea vocale interpretata in maniera magistrale. Igor Khoroshev intensifica l'accompagnamento aggiungendo qualche nota in più agli accordi, che dolcemente ci accompagnano verso l'epilogo. Come detto in apertura, per le liriche Jon Anderson ha tratto ispirazione dal videogioco "Homeworld", la cui trama narra le gesta del popolo "Kushan", abitanti del pianeta "Kharak", i quali dopo il ritrovamento dei resti di un'antica nave spaziale, sfruttando le informazioni si mettono alla ricerca delle loro vere origini. Per unire le forze in modo da raggiungere l'obbiettivo, tutti i clan che prima dello storico ritrovamento erano in guerra, proclamano la pace e uniscono gli sforzi per costruire una enorme astronave madre che gli permetta di tornare sul loro pianeta d'origine. I ricercatori e gli scienziati insieme combattono per realizzare il sogno di tutta la popolazione, ovvero ritrovare la loro vera casa, il loro vero Mondo, nulla li può portare lontani abbastanza perché le loro origini vengano dimenticate. L'entusiasmo della scoperta è riuscito a cancellare gli odi atavici fra le diverse tribù, ora la pace è il nuovo verbo da insegnare alle nuove generazioni. Il santone di Accrington attraverso le consuete licenze poetiche sottolinea l'importanza della pace, della fratellanza, delle origini di un popolo, che mai e poi mai possono essere cancellate del tutto. Finalmente, un brano dove riusciamo a scorgere la vera anima degli Yes, i nostri hanno rievocato le magiche atmosfere degli anni settanta, riuscendo a renderle attuali, grazie ad un certosino lavoro in fase di produzione.
Climbing The Ladder
Una piccola curiosità, il brano, inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi Climbing The Ladder (Arrampicandosi Sulla Scala) e a lungo ha rischiato di non finire sull'album, solo l'insistenza di Jon Anderson e Chris Squire e l'aggiunta di alcune trovate geniali del nuovo arrivato Igor Khoroshev in fase di arrangiamento, sono riuscite a convincere Bruce Fairbairn a inserirlo nella track list finale e ad essere pubblicato come singolo. Andiamo avanti con It Will Be A Good Day [The River] (Sarà Una Buona giornata [Il Fiume]), aperta da una mistica introduzione di tastiera, dal retrogusto orientale. Arriva il guru di Accrington, che ci conquista subito con una dolcissima linea vocale. Con classe entra in scena Alan White, seguito dal ruggente basso di Squire. Sempre trasportato dall'avvolgente tappeto di tastiera Jon Anderson rende ancora più ammaliante la linea vocale, aggiungendo qualche zolletta di zucchero. I caratteristici lamenti della chitarra di Steve Howe annunciano il bridge. La sezione ritmica aumenta l'intensità, seguendo un solare strumming di chitarra, poi Steve Howe, con una infinita scala apre le porte all'inciso. Alla melliflua linea vocale fa eco Igor Khoroshev con un raffinato ricamo di tastiera. Breve break strumentale con la chitarra in evidenza e ritorna la strofa, con le sue radiose atmosfere che emanano positività da tutti i pori. Il bridge viene impreziosito da avvolgenti cori, poi il fraseggio di chitarra ci riporta verso l'inciso. Stavolta a Jon Anderson fanno eco interessanti cori, poi un repentino cambio di tono spinge in alto il Santone di Accrington, ricamato da pregevoli fraseggi di chitarra. Ritorna la strofa, seguita subito dal ritornello, con le trame della chitarra che va ad attorcigliarsi alle tastiere e ad una suggestiva babele vocale, che lentamente sfuma verso l'estinzione. Leggendo queste liriche, la mente mi riporta molto indietro nel tempo, agli spensierati anni ottanta, quando un più genuino stile di vita ci portava ad assaporare le bellezze della natura; la magia dei raggi solari che tingevano d'oro mari e monti, l'aria frizzante che sapeva di libertà, ed altri meravigliosi spettacoli offerti da Madre Natura, tutti pretesti per far presagire che sarebbe stata una bella giornata. Spesso ci dimentichiamo delle bellezze che offre il nostro Pianeta, con la mente offuscata da migliaia di problemi e dai frenetici ritmi della vita moderna. Per tornare ad essere liberi bisogna imparare ad ascoltare e ad osservare, ritrovare se stessi e qualcosa in cui credere, in modo da agevolare il tortuoso percorso del fiume della vita. Piacevole brano easy listening, ma devo dire di gran classe, con un prezioso lavoro di Steve Howe, che con i suoi magici tocchi, elimina l'aggettivo "banale" dal brano.
Lightning Strikes
Durante la loro carriera gli Yes hanno spesso fatto escursioni verso sonorità esotiche e continuano la loro tradizione con Lightning Strikes (Il Fulmine Colpisce), brano pubblicato come singolo con l'intento di catturare consensi nel mercato sudamericano. Per l'introduzione prendono in prestito i vetusti flauti di "Phenomenal Cat" dei Kinks, che poi non sono altro che un ingegnoso loop per mellotron. Dopo questi 10 secondi dal piacevole retrogusto anni sessanta, irrompe Steve Howe con un brioso e solare strumming con la chitarra acustica, che va ad accompagnare la radiosa linea vocale di un contentissimo Jon Anderson, impreziosita da un leggero e suggestivo gioco di echi. Se ascoltate con attenzione, potete percepire la mano di Steve Howe che batte il tempo sulla cassa armonica della chitarra fra una pennata e l'altra. Improvvisamente irrompe la premiata ditta Squire - White, con una incalzante ritmica afro-caraibica in sette quarti, seguita da un funambolico riff di tastiera, degno di uno spot pubblicitario. Jon Anderson sembra divertirsi ad interpretare questa insolita strofa dal sapore latinoamericano. Possiamo percepire il suo diverso stato d'animo rispetto all'album precedente, che lo vedeva a disagio su banali pezzi AOR e spesso offuscato dalle armonie vocali. Il trascinante bridge viene impreziosito dall'organo Hammond che sembra dialogare con il Cantastorie di Accrington, che nell'inciso inventa una nuova lingua che sa di Africa, facendo cantare a tutti in coro un incomprensibile "She ay ? Do Wa Bap", mentre Igor Khoroshev ricama con il giulivo riff da spot pubblicitario. Ritorna la strofa, dove il Santone Di Accrington dialoga con le tastiere, tirando su il brano nel bridge, fino ad arrivare ad un caotico interludio che sembra provenire da uno sperduto villaggio dell'Africa Centrale. Le ritmiche tribali si intrecciano con le trame degli strumenti ed una babele di voci. Lentamente inizia a manifestarsi un intrigato groove di basso, che poi esplode rimanendo in solitario per quattro secondi, dove il Gigante Buono spara una quantità industriale di note alla velocità della luce, annunciando il ritorno del bridge, che brillantemente ci riporta verso un nuovo interludio. Ritorna il brioso strumming latino americano ad accompagnare Jon Anderson, dal castello di tastiere fuoriesce un flauto giullaresco. Dalle retrovie arriva Billy Sherwood con un timido assolo di chitarra, mentre un esotico coro dal retrogusto africano ci accompagna delicatamente verso il finale, lasciato nelle mani dei due chitarristi. Le liriche sibilline sembrano essere rivolte a tutti qui figli di papà che si ritrovano a vivere nel lusso, pensando che a loro tutto si dato e dovuto, senza mai pensare a chi, per sfortuna, non si trova nella stessa loro situazione. Ma cosa faranno quando un fulmine si abbatterà sulla loro testa, riportandoli con i piedi per terra, trasformandoli in comuni mortali che devono guadagnarsi da vivere con il sudore? La storia ci ha insegnato che la ruota gira, che il mondo è fatto di scale, c'è chi scende e c'è chi sale, ma non è detto che a salire siano sempre gli stessi. Chi è abituato a lottare non avrà mai problemi nella vita, saprà sempre affrontare nel migliore dei modi anche le peggiori situazioni. Ma se un fulmine riporta con i piedi per terra chi è abituato a vivere nel lusso, questi saprà imparare a vivere alla giornata? Come si comporterà quando è inseguito dal potere che fino a pochi istanti prima bramava e usava a discapito di altri, per arricchirsi sempre di più? Spesso sogniamo di poter scagliare un fulmine su determinate teste, ma accontentiamoci che a scagliare i fulmini sia qualcun altro, sperando che centri le teste giuste. Fra le varie escursioni verso esotiche sonorità etniche, questa è senza ombra di dubbio la migliore.
Can I?
Le atmosfere afrocaraibiche continuano nella effimera Can I? (Posso?), dove Jon Anderson va riprendere in chiave etnica l'ossessiva cantilena di "We Have Heaven" dal capolavoro "Fragile". La ritmica tribale accompagna una babele di canti e cori in una incomprensibile lingua inventata da Jon Anderson, che sembra appartenere ad un atavico ceppo africano. Il Guro di Accrington con un corso linguistico accelerato ha insegnato l'insolito linguaggio ai compagni, che lo accompagnano con briosi cori indigeni. Steve Howe in una intervista ha dichiarato che non era assolutamente cosciente di quello che stava cantando, limitandosi a degli sporadici "Ooh Wop". Non me ne voglia il buon Jon, ma sinceramente avrei fatto volentieri a meno di questi inutili novantadue secondi di musica etnica.
Face To Face
Chi vuole abusare delle due simpatiche freccette che ci portano alla successiva Face To Face (Faccia A Faccia) è autorizzato a farlo. Mentre sfumano le ritmiche africane, irrompe un inquietante synth dai sentori alieni, affiancato da un tappeto ebbene sì di fisarmonica. Dopo questa bizzarra introduzione arriva Steve Howe con uno dei suoi squillanti riff dal piacevole retrogusto settantiano, scandito da unisoni stoppati, poi si cambia, Alan White tiene il tempo con potenti colpi di gran cassa in modalità "dance", accompagnando Mr. Igor Khoroshev che si sbizzarrisce con suoni alieni che sembrano provenire dal cyberspazio. Chris Squire inizia a massacrarci con una serie di ridondanti scale eseguite ad una velocità impressionante, aprendo i cancelli a Jon Anderson, accompagnato da un insolito pad di fisarmonica che dona un atmosfera da "sagra della salciccia e Lambrusco" alla strofa. Un repentino "Come On" annuncia un breve interludio strumentale, dove Chris Squire continua a tormentarci con l'ossessivo groove di basso e Steve Howe esegue un timido assolo di chitarra. Ritorna la strofa, che sprizza gioia da tutti i pori, seguita dal solare riff sentito ad inizio brano, che fa da bridge ad un nuovo interludio. La sezione ritmica trascina tutti dietro con un tempo incalzante, impreziosito da un simpatico lavoro di percussioni offerto da Mr. Randy Raine-Reusch, che nell'album viene accreditato come "world instruments". Un paradisiaco coro in crescendo in pieno stile Beach Boys ci porta verso l'inciso, che grida forte anni ottanta. Il Santone Di Accrington fa nuovamente un riferimento al recente passato, cantando "Lift Me Up", (brano presente su "Union"), supportato da spaziali tastiere e da un micidiale tappeto di sedicesime sparate dal basso, accompagnato con gran cassa e charleston e sporadiche corse sulle pelli. Alan White mantiene il tempo con la cassa, accompagnando Billy Sherwood che esegue alcuni fraseggi di chitarra, abusando degli effetti a pedale. Ritorna il pungente giro di basso ad annunciare la strofa, sempre condita con l'allegra fisarmonica da sagra, seguita dal rockeggiante bridge strumentale, che ci separa da una versione alternativa della strofa impreziosita da cori dal sapore anni sessanta. Jon Anderson inizia un botta e risposta con alcuni giulivi riff di synth sparati dal Biondo Tastierista Russo. Ritorna il coro in Beach Boys style che stavolta annuncia una ormai classica armonia vocale a cappella, seguita ancora dal bridge che ci porta verso il finale, dove Steve Howe e Igor Khoroshev iniziano a duellare a colpi di note fino al rocambolesco stop. Nel profonde e ripetitive liriche, Jon Anderson sogna una nuova primavera per un Mondo ormai invaso dal dolore, dalla follia e dall'odio. I milioni di promesse fatte nel nome della pace mondiale svaniscono pochi istanti dopo essere state formulate, alla prima occasione l'indole malvagia dell'essere umano emerge mandando all'aria tutti i piani dei pochi buon intenzionati. Solo un profondo faccia a faccia con la propria coscienza potrà riparare tutti quei cuori infranti dall'odio ed iniziare una nuova era, cercando di mantenere per sempre la promessa di una pace senza fine. Abbiamo ascoltato uno dei pezzi più sperimentali del combo albionico, che con la loro classe sopraffina ed il gusto degli arrangiamenti sono riusciti a farlo diventare simpatico ed interessante, confermando la loro voglia di suonare "progressive".
If Only You Knew
Durante la loro carriera, gli Yes non si sono mai cimentati in classiche ballads strappa lacrime, escludendo l'effimera "Soon". Dopo ben trent'anni di carriera, ci pensa Jon Anderson a colmare la lacuna e decide di dedicare alla sua seconda moglie Jane Luttenberger la melliflua If Only You Knew (Se Solo Tu Sapessi), aperta da un dolcissimo intreccio di tastiere e chitarre, che dopo poche battute accoglie il Poeta Di Accrington, il nostro ci colpisce al cuore con una struggente linea vocale, lasciando trasparire i propri sentimenti verso la moglie. Una pungente scala di basso annuncia l'ingresso della sezione ritmica, che come sempre sa essere aggraziata quando la situazione lo necessita. Igor Khoroshev ricama la dolcissima linea vocale con celestiali pad di tastiera. Nel bridge si sale delicatamente, la sezione ritmica scandisce bene la metrica della line vocale, ricamata da preziosi fraseggi di chitarra. Un classicheggiante passaggio di pianoforte apre le porte al ritornello. Jon Anderson interpreta magistralmente l'inciso, ricamato dal pianoforte e lamenti della sei corde, mentre suggestivi e raffinati cori e controcanti ingigantiscono l'atmosfera fiabesca. Brividi. Breve break strumentale, con i lamenti della chitarra affiancati da un pad di archi strappalacrime, poi un accenno al tema portante ed il Biondo Tastierista Russo, con un delicato fraseggio di pianoforte, ci riporta alla strofa, seguita dal bridge e dall'emozionante ritornello dove Jon Anderson vola in alto, spinto dai fraseggi della chitarra e accompagnato dai delicati e melliflui controcanti. Un bellissimo pad di archi prende il sopravvento e ci porta verso uno strano interludio orchestrale, che guida il Santone Di Accrington. Igor Khoroshev impreziosisce il duetto con suggestivi accordi di pianoforte. Più il disco va avanti e più che il nostro somiglia a Rick Wakeman in una maniera impressionante. Con classe i nostri si rallacciano al bridge che con un dolcissimo coro in crescendo apre le porte al ritornello, interpretato in maniera raggiante da Jon Anderson, che nel finale vola il più alto possibile, raggiungendo i suoi massimi registri, spinto dall'enfasi degli strumenti. I raffinati fraseggi di chitarra del Maestro Howe ci accompagnano dolcemente verso l'epilogo di questo emozionante brano, che si conclude con un breve accenno al tema portante. Più che di vere e proprie liriche, siamo di fronte ad una dolce poesia che il Poeta di Accrington dedica alla seconda moglie Jane, vera e propria luce della vita, che dà un significato speciale ad ogni singolo giorno di vita, che con il suo amore ha saputo risollevarlo da una profonda caduta senza fine. Lei si fa trovare sempre pronta nei momenti più bui, squarciando come un fulmine le tenebre che offuscano Jon Anderson nei momenti peggiori. Tutti quelli che la vedono dall'esterno, vedono l'amore in ogni singolo gesto che compie. Con il suo raggiante amore è una vera e propria cura per l'anima di Jon Anderson, che spesso si intristisce a vedere l'odio fra i popoli, le ingiustizie giornaliere del mondo moderno. Quando le angherie che tormentano il Mondo lo fanno precipitare in un oblio senza fine, basta uno sguardo, un sorriso e tutto si cancella. Non finirà mai di ringraziarla per averlo accolto nella sua vita, quando una pericolosa caduta lo stava facendo sprofondare in un oscuro abisso senza via d'uscita, e di averlo rigenerato, credendo in lui e in tutto ciò che faceva. Indubbiamente gli Yes hanno superato brillantemente la prova "ballads", con una dolcissima canzone che senza mai entrare nel banale ci inonda di emozioni. Chapeau. Questa melliflua ballata è il terzo ed ultimo singolo estratto dall'album.
To Be Alive [Hep Yadda]
Andando avanti incontriamo To Be Alive [Hep Yadda] (Per Essere Vivo), altra piacevole escursione versi un easy listening di classe, contaminato da leggere venature progressive, che ancora albergano nell'anima del combo albionico. Si parte con una orientaleggiante introduzione con le trame delle due chitarre che si intrecciano. Una profonda pennata di basso chiama in causa Igor Khoroshev che riempie con un raffinato pad di violini. Arriva anche Alan White, che dopo qualche colpo stoppato all'unisono con il basso attacca un tempo sincopato che tira su il brano. Dei mistici flauti annunciano l'ingresso di Jon Anderson, che come spesso ci cattura con una ammaliante linea vocale, scandita dalle corpose note del basso. Breve break strumentale, con le chitarre che si intrecciano con i suggestivi flauti e ritorna la strofa, impreziosita da raffinati intarsi di tastiera. Arriva il bridge. Il Santone Di Accrington ci porta in crescendo verso l'inciso, rafforzato da suggestivi contro canti. Nel trascinante ritornello spicca un gioioso coro recitante "Yeeh yeeh" che va ad intrecciarsi con le pregevoli escursioni vocali di Jon Anderson. Ritorna la strofa, dove emerge un arcano pad di tastiera, poi di nuovo il bridge, che devo dire cattura più del successivo ritornello. Il ridondante "Yeeh yeeh" viene ricamato dalle tastiere e dalle chitarra. In mezzo troviamo un piacevole cambio di tono, dove Jon Anderson sale in alto, prima di tornare a duettare con l'ormai ossessivo coro che si è prepotentemente insinuato nella nostra testa. Improvvisamente calano vistosamente i BPM, come sospeso in un limbo Steve Howe tesse struggenti trami con la Fender lap steel guitar, poi si riparte con il trascinante ritornello, dove stavolta Jon Anderson risponde con una prolungata serie di decisi "Hep" al ridondante coro, fino alla graduale estinzione in fader. Tornano le liriche spirituali dal sapore new age, che sprizzano positività da tutti i pori, invitando ognuno di noi a vivere al meglio ogni singolo giorno, mettendosi in piena sintonia con Madre Natura, assaporando in pieno tutti i miracoli che ella ci offre, e che purtroppo molto spesso ci dimentichiamo di apprezzare, presi dai frenetici ritmi della vita moderna, che si allontana sempre di più dalla Natura, spesso instaurando un conflitto perso in partenza. Non bisogna mai sottovalutare i segnali che ci manda, quando siamo troppo vicini al limite. Vivere in armonia con la Natura sarà il nostro tempio, dove la nostra anima sarà guidata dalle stelle ed il nostro corpo riscaldato dai raggi del Sole. Come in occasione della traccia numero due, con classe e gusto gli Yes sono riusciti a rendere speciale un brano che in mano ad altri sarebbe stato più che banale, colorando con pregiate venature progressive un brano easy listening.
Finally
Si cambia decisamente atmosfera con Finally (Infine), brano che sprigiona carica ed energia da tutti i pori. Si parte con un rocambolesco fraseggio di chitarra, seguito passo dopo passo da Alan White, poi un ruggito dell'organo Hammond chiama tutti all'appello. Jon Anderson è esplosivo nel trascinante ritornello, dove emergono squillanti tastiere. La brillante sezione ritmica ci porta velocemente verso la strofa. Trascinato dal ruggente basso, Jon Anderson tira su il brano con una linea vocale energica, che con energia apre le porte al ritorno dell'inciso. Un breve lamento di chitarra ci riporta alla strofa, impreziosita da vetusti passaggi di organo Hammond. Improvvisamente Alan White si ferma, lasciando tutto nelle mani ad un solare e brillante strumming di chitarra acustica, ricamato da suggestivi passaggi di tastiera dal piacevole retrogusto anni sessanta. Con una discreta dose di verve Jon Anderson supera questo breve interludio, poi una corsa sulle pelli, affiancata da una tagliente scala di basso cambia decisamente tempo, annunciando un trascinante bridge dal forte impatto sonoro. Arriva l'assolo di chitarra. Su una ritmica stoppata, basso e seconda chitarra viaggiano all'unisono accompagnando Steve Howe che tesse una serie di melodici fraseggi. Un ruggito dell'organo ci riporta nell'inciso, che ci lascia senza fiato. Ritorna il breve interludio con strumming e tastiere vintage, poi si riparte con il trascinante bridge, che viene prolungato. Quando il brano sembra essere terminato, al minuto 03:21 emerge uno spaziale pad di tastiera che ci avvolge letteralmente. In questa bellissima atmosfera mistica ricreata dal talentuoso Tastierista Russo, Steve Howe esegue un raffinato e rilassante strumming di chitarra acustica, mentre un profondo glissato di basso annuncia un breve assolo di tastiere, anche se vi sembra strano, non è Rick Wakeman, ma Igor Khoroshev a sorprenderci con preziosi fraseggi eseguiti su un affascinate accompagnamento dai sentori ambient di clostothedgiane memorie. Ritorna anche il Cantastorie Di Accrington, che interpreta in maniera magistrale questa bellissima strofa d'altri tempi, ricamato da preziosi fraseggi di chitarra. Entra in scena la sezione ritmica, con un delicato tempo e pochi colpi, a supportare l'angelica voce di Jon Anderson, che si intreccia con le avvolgenti trame della Fender lap stele guitar. Con classe Sir Howe tramuta i fraseggi in un raffinato assolo di chitarra che lentamente ci accompagna verso il finale assieme ai magici tappeti di tastiera. Steve Howe chiude in bellezza con una breve nostalgica escursione con la chitarra acustica. Le liriche si aprono con i profetici versi che recitano "Infine ... Lo abbiamo messo alla prova", rivolti ai veri credenti, che troppo spesso commettono errori, facendosi trascinare dalla massa e dal momento degli eventi. Ma Dio ci offre sempre una seconda occasione, per cercare di rimediare agli errori che commettiamo quotidianamente. Se Lui ci manda la pioggia, noi possiamo cantare sotto di essa, se ci manda una tempesta, siamo in grado di affrontarla, se fa tremare la terra, dobbiamo riuscire a rimanere in piedi e ritrovare la gioia di vivere. Sta a noi scegliere se cadere o restare in piedi, possiamo avere tutto e rimediare sempre ai nostri errori, basta abusare di quella magica medicina di nome amore. I nostri, sono passati con classe da un brano che poteva far storcere la bocca ai fans di vecchia data, ad un avvolgente prolungato interludio che rievoca le magiche atmosfere di "Close To The Edge".
The Messenger
Il fragoroso basso di Chris Squire ci desta dalle rilassanti atmosfere del brano precedente, aprendo la successiva The Messenger (Il Messaggero), brano che Jon Anderson dedica apertamente ad una delle sue muse, Bob Marley. Su questo potente break di drum & bass, le due chitarre iniziano a dialogare. Arriva il Santone Di Accrington, con una line vocale carica di mistero, accompagnato da chitarra e tastiera che scandiscono la melodia. Il ridondante e potente giro di basso perdura, mentre le tastiere e le chitarre salgono, spingendo Jon Anderson in alto, poi quando sembra che stia per esplodere il chorus, alcuni fraseggi di basso annunciano il ritorno della strofa, con la sua avvolgente ed arcana atmosfera. Andando avanti incontriamo un bridge esplosivo incentrato su una bellissima armonia vocale, che apre i cancelli al solare ritornello, Jon Anderson è ricamato da raggianti cori e controcanti. Ritorna la strofa, che nelle prime battute mette in evidenza interessanti intrecci fra le due chitarre. La solare babele vocale del bridge ci riporta verso il raggiante ritornello, che sprizza gioia da tutti i pori, seguito da un bellissimo intreccio di escursioni soliste di chitarra e tastiera, che lentamente sfumano lasciando il campo a Mr. Howe. Il nostro ci cattura con una bellissima escursione con la chitarra acustica. Un delicato riff di synth annuncia Jon Anderson, che come ai vecchi tempi instaura un duetto con Steve Howe, rievocando le atmosfere barocche tanto care ai fans di lunga data. Sul finale Anderson viene raggiunto da una avvolgente coro, poi un bellissimo passaggio di tastiera ci porta verso l'epilogo. Il messaggero in questione non è altri che il mitico Bob Marley, una vera e propria icona per Jon Anderson, che attraverso i suoi dreadlock e la sua musica è riuscito a lanciare i suoi profondi messaggi di pace in tutto il Mondo. Grazie a lui, ben presto la sua musica reggae divenne un vero e proprio stile di vita. In punto di morte, chiamò a se tutti i suoi figli e le sue ultime parole furono rivolte al figlio Ziggy Marley: "Money Can't Buy Life" (i soldi non possono comprare la vita)" lasciando il Mondo da vero signore. Jon Anderson lo vede come un uomo libero, e questa forse è la definizione che più si addice a Bob Marley. Lui ricorda ogni sua parola, ricorda i caldi ritmi di "Sun Fire & Desire", ricorda suoi i figli che ricanticchiavano i brani pieni di profondi messaggi, messaggi che continuano a rimanere vivi anche a molti anni dalla sua scomparsa. Come nel brano precedente, i nostri ci sorprendono con una seconda parte che ci riporta magicamente indietro nel tempo, fino ai tempi d'oro della band. Una piccola curiosità, per uno strano gioco del destino, dopo aver inciso la traccia in questione, Jon Anderson uscì dallo studio proprio mentre MTV stava trasmettendo un concerto di Bob Marley.
New Language
Siamo arrivati piacevolmente alla penultima traccia intitolata New Language (Nuovo Linguaggio), aperta in maniera sorprendente da un funambolico assolo di organo da parte di Igor Khoroshev. Steve Howe segue all'unisono i passaggi del talentuoso Tastierista Russo con una ragnatela di note. Una serie di potenti corse sui tom, ricamate da pungenti scale di basso, ci accompagnano verso un classico wall of sound made in Yes, dove i nostri danno vita ad un meraviglioso intreccio di pregevoli fraseggi, sfiorando l'auto celebratismo. Due minuti di gioia per le nostre orecchie, che poi lasciano il campo ad uno spaziale pad di tastiera. Igor Khoroshev attacca con il riff portante, raggiunto dopo un paio di battute da Jon Anderson, con una delle sue solari linee vocali che emanano una positività contagiante. Entra in gioco la sezione ritmica, Squire riprende la melodia della tastiera, imitato in sottofondo dalle due chitarre. Fra una fiammata di tastiera e l'altra, Alan White ci guida tranquillamente verso il bridge, dove spicca una solare armonia vocale, scandita da colpi stoppati all'unisono, successivamente rimangono magici intrecci di tastiera ad accompagnare il Santone di Accrington, ricamato da pungenti scale di basso. Alan White tiene il tempo sul "ride", poi, con raffinate corse sulle pelli lentamente ci porta verso l'inciso. Jon Anderson esplode, trasportato dalle tastiere e dal ritmo brillante; i due chitarristi impreziosiscono con preziosi fraseggi. Nella seconda parte del chorus, la trascinate linea vocale viene affiancata dagli immancabili contro canti. Arriva l'assolo di chitarra, sulla base della spensierata strofa, che poi ritorna, seguita dall'arioso bridge, che nella seconda parte viene impreziosito da suadenti vocalizzi che balzano da una cassa all'altra, ottenendo un suggestivo effetto di voci che si intrecciano con la cristallina timbrica di Anderson. Ritorna il trascinate chorus, seguito da un interludio che mette in luce un interessante dialogo fra Chris Squire e Steve Howe, che poi lascia il compito ritmico a Billy Sherwood, iniziando a tessere una intricata trama di ricami, che con il rientro della sezione ritmica si trasformano un funambolico assolo dai sentori fusion. Chris Squire fa un richiamo al passato, accompagnando con un intricato e potente giro di basso che ricorda molto da vicino quello di "Roundabout", da "Fragile". Breve stacco all'unisono di clostothedgiane memorie e poi troviamo un nuovo interludio strumentale. Igor Khoroshev stende un bellissimo tappeto dai sentori wakemaniani che accoglie Chris Squire, che stavolta ci porta ancora più indietro nel tempo, andando a rievocare con un potente giro di basso le affascinanti atmosfere di "Heart Of The Sunrise" da "The Yes Album". Billy Sherwood segue all'unisono i passi del Gigante Buono, mentre Steve Howe ricama con i suoi inconfondibili fraseggi. Improvvisamente ritorna il bridge che apre i cancelli al ritornello finale il quale poi lascia il campo ad un ultimo interludio strumentale che con classe ci porta verso l'estinzione della migliore traccia dell'album. Il nuovo linguaggio non è altro che il linguaggio dell'amore, una lingua universale, che con le sue parole riesce a guarire tutti i mali del Pianeta, una lingua facile da apprendere se si è in pace con se stessi e con il resto del Mondo intero. Fra licenze poetiche e messaggi mistici, il Santone di Accrington ci invita ad imparare il linguaggio dell'amore e a diffondere il suo verbo nel Mondo portando pace e salvezza. La nostra voce è la chiave perfetta per diffondere il nuovo linguaggio, che non ha bisogno di essere tradotto. Solo se si è deboli non siamo capaci di comprendere il nuovo verbo. Che ci crediate o no, il brano è nato durante le sessioni del deludente "Open Your Eyes", venendo poi scartato per una forte divergenza musicale rispetto ai parametri dell'album, mentre devo dire che è la ciliegina sulla torta per questo sorprendente The Ladder, rappresentando in maniera evidente la voglia degli Yes di ritornare alle sinfoniche sonorità degli anni settanta.
Nine Voices [Longwalker]
Quando un album ci colpisce in maniera particolare, quasi ci dispiace arrivare all'ultima traccia, che nel nostro caso si intitola Nine Voices [Longwalker] (Nove Voci), aperta da Steve Howe con un bellissimo strumming con la chitarra portoghese. Jon Anderson sembra non conoscere l'avanzare del tempo, ed interpreta in maniera magistrale le strofe di questo suggestivo duetto, precisamente come faceva trent'anni fa. Arriva l'inciso, Jon Anderson ripete più volte il titolo del brano, lo strumming di chitarra portoghese viene affiancata da oscure vibrazioni che ricordano molto da vicino il magico suono del Didgeridoo degli aborigeni. Andando avanti incontriamo un interludio dove i fraseggi della chitarra portoghese vengono accompagnate da percussioni dai sentori tribali, poi ritorna la strofa, con la solare linea vocale di Jon Anderson che lascia trasparire il raggiante stato d'animo in cui si trova il Guro di Accrington. Il successivo ritornello viene prolungato ed impreziosito dai cori e da suggestivi "du du du du" che richiamano fortemente "I 'Ve Seen All Good People", sempre da "The Yes Album". Il finale viene lasciato nelle sapienti mani di Steve Howe, che con funambolici fraseggi ci accompagna verso il finale. Questa affascinante ballata etnica è dedicata a "Long Walker", uno sciamano indiano, che deve il suo nome dal fatto che nel 1977 attraversò per lungo e per largo l'America, in difesa dei diritti dei nativi. Jon Anderson ebbe il piacere di conoscerlo e di diventarne un caro amico, in occasione dell'affascinante raduno "Indigenous Council" del 1987, dove si raggruppano tutte quelle culture indigene che non hanno un loro territorio riconosciuto. Il congresso non è riconosciuto dalle Nazioni Unite, e vede riuniti in un solo colpo sciamani e gran sacerdoti provenienti dall'Australia, dal Giappone, dall'Africa, dall'Indonesia e anche qualche testimonianza di popolazioni Rom. Una volta riunite nel segno della pace, le nove tribù cantano una canzone con l'intento di portare il perdono nel Mondo, chiedendo al resto della popolazione terrestre di fare un passo indietro e di riconoscere i diritti e le tradizioni di queste ataviche tribù. Nove diverse lingue unite insieme per diffondere un messaggio di pace e perdono nel Mondo, in modo da garantire un futuro roseo e dignitoso anche a quei bambini che hanno avuto la "sfortuna" di nascere lontano dal demone del denaro. Da sempre il Guru di Accrington ha avuto un debole per queste situazioni, ed ha pensato bene di scrivere una canzone, prendendo direttamente l'ispirazione dai profondi messaggi intonati dalle popolazioni indigene. Questa affascinante breve ballata dal sapore etnico, è la degna conclusione dell'album.
Conclusioni
Posso tranquillamente asserire, che con questo The Ladder gli Yes sono riusciti a spazzare via tutti i dubbi e le perplessità con cui ci avevano lasciato dopo l'uscita del mediocre Open Your Eyes. A dire il vero a me un enorme dubbio lo hanno lasciato, ovvero mi rimane difficile capire la motivazione sul perché, spesso, durante i loro intensi trenta anni di carriera, sovente si sono imbattuti in album banali e scadenti, lontani dalla loro vera identità, album controversi che quasi sempre sono stati riscattati con le uscite successive. Gli Yes sono una delle fondamentali band del progressive rock, sono nati per fare progressive rock e devono continuare a suonarlo. Chris Squire si è sempre dimostrato intelligentissimo, infatti durante le sue sbandate verso lidi più orecchiabili, aveva in origine cercato di testimoniare le sue idee con progetti al di fuori del moniker Yes, vedi i Cinema o i più recenti Conspiracy, solo che il richiamo dei soldi, l'insistenza dello staff manageriale e devo dire anche di Jon Anderson, hanno sempre fatto sì che i lavori uscissero sotto l'ingombrante marchio Yes, con l'unico risultato di scontentare e disorientare i fans di vecchia data. The Ladder è un micidiale mix di sonorità più accessibili e moderne con affascinanti richiami alle epiche sinfonie degli esordi, con tanto di mirate e volute citazioni. Se in qualche brano abbiamo qualche perplessità dovute alla direzione presa, i nostri le cancellano immediatamente, passando ad intensi momenti di puro progressive rock, che esplodono letteralmente nella taccia finale. Se ascoltate in rapida successione l'album precedente, e poi il nostro The Ladder, potete percepire lo stato d'animo di un rinato Jon Anderson, libero di volare in cielo, come ai vecchi tempi, lontano dalle banali armonie vocali che spesso lo annientavano. E' incredibile come a distanza di trent'anni, la sua cristallina ed inconfondibile timbrica sia rimasta immutata nel tempo; il nostro si dimostra ancora una volta abile con la penna, sciorinando una serie di profonde liriche, spesso impenetrabili, piene di messaggi spirituali e licenze poetiche, non dimenticando mai le sue antiche battaglie a favore di chi vive in situazioni disagiate e di Madre Natura. Ma la vera sorpresa dell'album è il nuovo tastierista Igor Khoroshev, un carneade che mixa l'abilità di Tony Kaye all'organo e la classe sopraffina di Rick Wakeman al pianoforte e alle tastiere e aggiungerei la classe di Patrick Moraz e l'estro ed il gusto di Geoff Downes. Spesso, durante l'album ci viene il dubbio e andiamo a vedere nei crediti se compare come ospite il talentuoso Tastierista di Perivale, tant'è la classe e la tecnica espressa dal giovane tastierista russo. E' come se gli Yes si fossero ritrovati quattro tastieristi in un colpo solo, il nostro è micidiale nei passaggi con l'Hammond, avvolgente con i pad di tastiera, incantevole nei fraseggi con il pianoforte e brillante negli arrangiamenti. Purtroppo però, come spesso accade, il genio è accompagnato da una personalità mercuriale difficile da gestire. Il nostro troverà una maniera veramente assurda per farsi cacciare dal gruppo, ma per scoprire come, dovrete aspettare la prossima recensione. Questa dunque rimane l'unica testimonianza in studio di Igor Khoroshev con gli Yes. Io posso con soddisfazione dire che sono uno dei fortunati che ha avuto il piacere di ammirarlo dal vivo. Anche Steve Howe ritorna ad essere incisivo con le sue chitarre, dando sempre un tocco di classe al brano e scegliendo sempre lo strumento giusto per farlo, mentre per il compagno Billy Sherwood, si ha l'idea che sia messo lì perché ormai c'era, è sin troppo evidente che il maestro Steve Howe non ha bisogno di nessun tipo di sostegno alla chitarra. Il Polistrumentista Americano ha comunque dato il suo contributo in fase compositiva, anche se inevitabilmente abbandonerà la band a fine tour, ritornando però negli Yes ai giorni nostri, a riempire la casella lasciata vuota dal compianto Chris Squire (R.I.P.), sotto il volere dello stesso Gigante Buono, che prima di lasciarci, aveva espressamente richiesto di essere rimpiazzato proprio da Billy Sherwood. Il basso tellurico di Chris Squire è devastante dall'inizio alla fine. Il nostro in alcune occasione si diverte con alcuni suggestivi e piacevoli richiami al passato. In una intervista dell'epoca, lui stesso ha dichiarato che il basso domina per tutto il platter, ma che non è stato un suo volere, lo ha scoperto solo quando il lavoro era ormai finito. L'enorme rispetto che nutro verso il Gigante Buono, mi porta a dargli il beneficio del dubbio. L'energia sprigionata dalle quattro corde è un toccasana anche per il compagno di sezione ritmica Alan White, che torna ad essere incisivo come ai vecchi tempi, facendosi trovare pronto con ritmiche raffinate e poco invadenti, quando la situazione lo richiede. Il nostro The Ladder è venuto alla luce il 20 Settembre del 1999, distribuito dalla Eagle Records e dalla Beyond Music per il solo mercato degli Stati Uniti. Le registrazioni sono state effettuate fra Febbraio e Maggio del 1999 presso gli "Armoury Studios" siti nel quartiere di Kitsilano, che ospita una delle più prestigiose spiagge di Vancouver. La certosina produzione è opera di Bruce Fairbairn (R.I.P.), a cui è dedicato il platter. Con un marcato desiderio di ritornare alle origini, la copertina è stata affidata al geniale Roger Dean, che su uno sfondo dove predominano tutte le sfumature dell'azzurro, disegna una aliena struttura formata da strutture archiformi che collegano delle affascinanti stalagmiti, andando a formare una gigantesca scala naturale che si perde in lontananza. Sul primo arco si possono notare alcune piccolissime figure umane stilizzate che scendono dall'imponente struttura. Con nostra sorpresa in alto non troviamo il classico "logo a bolla", ma il secondo logo racchiuso in un quadrato, partorito dai fratelli Dean in occasione di "Union", in rosso su uno sfondo che sfuma dal giallo all'arancione. Sopra, con le medesime colorazioni, il titolo dell'album in un affascinante carattere deaniano. Sotto il volere del produttore Bruce Fairbairn, che assolutamente esigeva che tutti i membri partecipassero alle fasi di composizione, tutti i brani sono firmati da Jon Anderson, Steve Howe, Billy Sherwood, Chris Squire, Alan White e Igor Khoroshev; le liriche sono opera di Jon Anderson. Tirando le somme è un album assolutamente da acquistare, ottimo per tutti coloro che ancora non hanno avuto il piacere di conoscere questo fantastico gruppo, immancabile per i fans di lunga data. Se riuscite, procuratevi l'edizione limitata (io ho la numero 14543 NDR), con un bellissimo slip case in cartone ed un mini poster in omaggio.
2) Climbing The Ladder
3) Lightning Strikes
4) Can I?
5) Face To Face
6) If Only You Knew
7) To Be Alive [Hep Yadda]
8) Finally
9) The Messenger
10) New Language
11) Nine Voices [Longwalker]