YES
Talk
1994 - Victory Music
SANDRO NEMESI PISTOLESI
08/01/2016
Introduzione Recensione
Che il faraonico progetto "Union" fosse destinato a vita breve, era fin troppo evidente. Nel corso della storia degli Yes, difficilmente si è riusciti a tenere a bada cinque teste per più di due album consecutivi, figuriamoci otto cervelloni. Al termine dell'imponente tour, Wakeman, Bruford ed Howe abbandonano nuovamente la band, e in un solo colpo si ritrovano becchi e bastonati, ovvero senza né Yes e né ABWH. Bruford torna felice e contento alla corte del Re Cremisi. Wakeman si dedica totalmente alla sua carriera solista, iniziando a collaborare anche con il figlio Adam. Howe, inizia a collaborare nuovamente con gli Asia dell'era Payne come special guest, oltre che a dedicarsi alla carriera solista. Jon Anderson invece rimane, andando a ricostituire la formazione vincente di 90125. A dire il vero, Steve Howe aveva in mente un progetto per poter continuare a lavorare in otto, condiviso però solamente dalla casa discografica Arista ma non dalla maggior parte dei colleghi. La soluzione prevedeva di selezionare quattro elementi che si sarebbero occupati delle composizioni, in seguito coadiuvati dal resto della numerosa band per gli arrangiamenti. Il quartier generale di Los Angeles, in particolare si oppose fermamente, decidendo che tre degli otto membri erano in eccedenza, fu così che i 3/4 degli ABWH si defilarono, lasciando in mano a Re Rabin le sorti degli Yes. Il chitarrista sudafricano iniziò una stretta collaborazione con Jon Anderson, buttando giù le basi per il nuovo album, che si sarebbe intitolato "Talk". Anche Chris Squire dette una buona mano in fase compositiva. Come al solito, Rabin si sobbarcò anche degli oneri della produzione e delle parti di tastiera, relegando al povero Tony Kaye il solo ruolo di organista. L'album dopo essere stato suonato, venne rilavorato interamente su disco rigido, facendo uso di ben quattro per allora avveniristici Apple Macintosh, collegati ad un computer IBM. Quello che ne venne fuori fu un lavoro dal sound freddo ed innovativo, a tratti forse troppo perfetto, ma di notevole impatto sonoro. Come spesso è accaduto, specie quando si tratta della formazione occidentale degli Yes, sia la critica che i fans accolsero il nuovo album in maniera negativa. Basta fare un giro in rete per rendersene conto, per alcuni si tratta addirittura del peggior lavoro in assoluto degli Yes. Il periodo in cui fu pubblicato non era dei più adatti al rilancio dei dinosauri del progressive, c'era il grunge (la rovina del rock per chi scrive NDR) che imperversava, che stava cambiando completamente le leggi del mercato musicale. In più. "Talk" fu il primo album pubblicato per una etichetta indipendente, la Victory Records, fondata dall' ex vice presidente dell'Atlantic Records Phil Carson, una piccola label abituata a lavorare con generi diametralmente opposti al progressive, come l'hardcore, il punk, l'indie rock e qualcosa di pop rock. Proprio in quel periodo, la casa discografica stava attraversando un brutto periodo finanziario, e questo fece sì che l'album non fosse promosso in maniera adeguata. Al termine del tour, Trevor Rabin abbandonerà in maniera definitiva gli Yes, chiudendo la sua trilogia, iniziata con "90125" e "Big Generator". Il nostro si dedicherà alla composizione di colonne sonore cinematografiche, passione nata quasi per caso. Da un amico che lavorava in un ristorante di proprietà di Steve Segal, venne a sapere che l'energumeno attore e cultore delle arti marziali, era desideroso di imparare a suonare "Red House" di Jimi Hendrix con la chitarra. Rabin si offrì volontario e si recò a casa Segal, il quale gli propose di scrivere le musiche per il suo imminente film, per la precisione "Delitti Inquietanti". Da qui in poi Trevor Rabin darà il via ad un numero impressionante di colonne sonora, fra le quali spiccano il blockbuster "Armageddon", "Il Sesto Giorno" ed "Il Mistero dei Templari". Chi ha seguito tutte le mie recensioni degli Yes, avrà certamente capito che ho sempre fatto il tifo per gli Yes "orientali", ma devo dire che questo "Talk" non mi dispiace affatto e, come spesso accade per gli Yes, vado contro corrente, a me l'album è piaciuto molto, e con questa recensione intendo rivalutarlo. Tutte le canzoni sono di ottima fattura, ma la vera sorpresa è nascosta nell'ultima traccia, un'epica suite che ci riporta indietro nel tempo. Sono ben conscio che l'ascolto di un disco è soggettivo e che difficilmente può essere influenzato da un giudizio esterno. E' come bere un buon vino, i giudizi dei sommelier possono solo indirizzarci verso un determinato prodotto, ma non possono di certo influire sulle nostre papille gustative. Io comunque ci provo. E' giunta l'ora di inserire "Talk" nel nostro lettore e ascoltare l'ultima opera di Trevor Rabin con Squire e compagnia cantante.
The Calling
Ad aprire le danze è "The Calling (La chiamata)" introdotta da un solare arpeggio di chitarra, seguito da una inconfondibile armonia vocale che recita ammalianti versi. Successivamente Rabin spara un grintoso riff rockeggiante, accompagnato da un potente 4/4 made in White. Dopo qualche battute entra in scena il fragoroso basso di Squire, che subito dopo lascia il campo al Santone di Accrington, il quale recita in maniera calorosa una serie di "hook" scritti a tavolino. Nel bridge torna in scena il compianto Bassista di Londra, che con potenti pennate tira su il brano, aiutato da una funambolica scala di organo, fino a farlo esplodere nel solare inciso, dove emerge una bellissima armonia vocale che si dirama sopra ad un avvolgente tappeto di organo, nata per essere ricantata dopo il primo ascolto. Nella parte finale del chorus, Jon Anderson instaura un botta e risposta d'effetto con il coro portante. Un breve break con chitarra e organo Hammond in evidenza e ritorna la strofa, stavolta arricchita dal basso e cantata in una tonalità più alta. Poi l'anthemico bridge e di nuovo il bellissimo ritornello, con Tony Kaye che si diverte con il suo strumento preferito, le note sparate dall'organo si intrecciano a meraviglia con la solare armonia vocale. Poi incontriamo un prolungato interludio strumentale, caratterizzato da una serie di scale funamboliche all'unisono. Sulla parte finale le tastiere spiccano, poi lasciano il campo all'organo, ricamato da potenti colpi sui piatti e pennate di basso. Arriva l'assolo, una rockeggiante chitarra si mette a duettare prima con l'organo e poi con le tastiere. Subito dopo è Kaye Of The Keyboards a prodigarsi in un breve assolo con il suo Hammond, alternandosi poi con il chitarrista sudafricano in una serie di pregiati virtuosismi. Ritorna l'arpeggio iniziale, ricamato da un suggestivo gioco di voci in "Leave It style" seguito dal bridge. Un altro breve interludio con l'organo in evidenza e poi arriva uno stralunato assolo di chitarra, accompagnato in maniera fragorosa dalla sezione ritmica. Si chiude con una piacevole e rilassante chitarra arpeggiata, dal sapore hawaiano. Le liriche ovviamente non hanno niente a che vedere con "La Chiamata" demoniaca della pellicola a sfondo satanico del regista Richard Caesar. Si tratta di un invito ad una fratellanza globale, ad apprezzare e rispettare le tradizioni millenarie di tutti i popoli che vivono sul Pianeta Terra, senza fare nessun tipo di distinzione a sfondo religioso e nessuna discriminazione sul colore della pelle. Sembra che attualmente l'umanità non presti molta attenzione e rispetto nei confronti della storia millenaria che ha accompagnato il cammino dell'uomo sino ai giorni nostri, ma è questa la chiave di volta, secondo Jon Anderson se si iniziasse a amare e rispettare la storia dei vari popoli, sarebbe un buon punto di partenza affinché iniziasse a prendere vita un miracolo di proporzioni bibliche, che mette tutti d'amore e d'accordo, sotto il ritmo scandito dai canti tribali africani, ammirando i bellissimi draghi cinesi, i colori ed i profumi dell'India. Ovviamente, il tutto è stato condito con la classica pioggia di licenze poetiche. Ottimo biglietto da visita, scelto come secondo singolo, ha raggiunto una dignitosa posizione numero 3 nella Billboard?'?s Hot Mainstream Rock Tracks, brano che mixa intelligenti ed ammalianti armonie vocali da inno alla pace a bellissimi interludi strumentali dove riaffiora una piacevole vena progressive, brano che fra i protagonisti vede finalmente Mr. Kaye ed il suo Organo Hammond.
I Am Waiting
Si cambia completamente atmosfera con la successiva "I Am Waiting (Sto Aspettando)", aperta da una dolce chitarra dai sentori Knopfleriani, accompagnata da delicati tocchi sul drum set da parte di Alan White, che poi inizia a pestare con più energia, annunciando un bellissimo tema di chitarra da brividi, accompagnato da organo e tastiera. Cala nuovamente l'intensità, ritorna la dolce chitarra, seguita all'unisono dalla testiere. Dopo circa un minuto e mezzo entra in scena Jon Anderson, con una emozionante linea vocale, che dopo qualche battuta inizia un botta e risposta con una melliflua armonia vocale. Nel bridge dal sapore disneyano voce e armonia vocale sono protagoniste assolute, poi ritorna la strofa. Improvvisamente una rullata annuncia l'inciso, dove spicca lo struggente tema di chitarra sentito all'inizio, la chitarra stavolta ruba la scena al Cantastorie di Accrington, che si limita a ripetere il titolo del brano e poche altre parole, volando in alto con la sua voce cristallina. Al minuto 03:31 si cambia completamente registro, un acido riff di chitarra spazza via la struggente atmosfera che ci aveva catturato pochi istanti prima. Stavolta è Trevor Rabin a cantare in maniera grintosa questo inaspettato interludio, che poi di colpo ci riporta alle cullanti atmosfere della strofa. Ritorna il bridge dal sapore fiabesco, seguito nuovamente dalla strofa, che improvvisamente si fa più grintosa grazie all'energico lavoro della sezione ritmica. Inizia un trascinante intreccio di voci e armonie vocali e poi pelle d'oca con il ritorno del bellissimo ritornello, con la chitarra ancora protagonista. Si chiude con il dolce tema dell'introduzione. Rabin ha dichiarato che "I Am Waiting" è stata composta con una facilità disarmante, come se la musica uscisse naturalmente dal cuore. Anche le liriche sono state stese in un'unica giornata da Jon Anderson, liriche ambigue che all'inizio sembrano affrontare una questione amorosa, con due cuori sospesi in un limbo, in attesa che la freccia sagittabonda spinga l'uno a dichiararsi all'altra, la storia di due cuori nati per stare insieme, per affrontare il magico cammino della vita, con mille strade da imboccare. Ma leggendole con maggiore attenzione, possiamo scorgere una pista alternativa, che porta al rapporto che il Poeta di Accrington ha con l'Onnipotente, una questione più volte affrontata durante il corso del suo imponente cammino discografico. Dio chiede a Jon se il suo cuore è pronto ad accoglierlo, e come lo chiede a lui, lo chiede a molti altri esseri umani, dando una svolta alla vita a chi gli aprirà le porte. Si aspetta la parola che possa curare i mali del mondo, la parola di Dio. Bellissima quanto particolare ballata, con un ritornello da brividi e molti cambi di ritmo e d'atmosfera.
Real Love
E' il turno di "Real Love (Vero Amore)", brano che porta la firma di Chris Squire, aperto da un'enigmatica tastiera che accoglie un martellante tappeto di basso, scandito da colpi di gran cassa. Successivamente entrano un'enigmatica chitarra e alieni ricami di tastiera a rendere ancora più arcana l'atmosfera. Dopo circa un minuto arriva il Cantastorie di Accrington, con una sibillina linea vocale. I ricami tribali della tastiera si fanno più presenti e creano un enigmatico intreccio con la chitarra e la cristallina voce di Jon Anderson. Una improvvisa rullata apre le porte ad un inaspettato cambio di atmosfera, il potente e cadenzato 4/4 di Mr. White dona sentori metallici al brano, Rabin spara un breve assolo di chitarra che gira intorno alla melodia portante del brano, annunciando poi il bridge. Un bel tappeto di basso trasporta una delle classiche armonie vocali verso il solare inciso, annunciato da una pungente scala di basso. Jon Anderson vola in alto, trasportato da un ossessivo tappeto di tastiera e ricamato dalla squillante chitarra, la sezione ritmica insiste con il potente tempo cadenzato. Andando avanti troviamo un piacevole interludio strumentale che ci riporta alle avvolgenti atmosfere della strofa. La ritmica cadenzata ed insistente ci ricorda i fasti di "City Of Love (Città Dell'Amore)" e "Shoot High, Aim Low (Spara in alto, punta in basso)", anche se devo dire che qui siamo su livelli qualitativi decisamente più elevati. Improvvisamente irrompe una potente chitarra che spara un cadenzato riff dai sentori metal, Jon Anderson recita pochi versi, lasciando la scena al sorprendente riff. Il bridge cantato a tre voci in crescendo ci riporta verso l'inciso, poi un breve interludio strumentale apre le porte ad un paradisiaco limbo ricreato da una magica tastiera. In sottofondo una seconda tastiera recita l'ossessivo tema che prima sparava la chitarra, che immediatamente l'affianca all'unisono, mentre di tanto in tanto possiamo apprezzare fugaci escursioni sul pianoforte. Un effetto fa sembrare che Jon Anderson canti da un'altra dimensione. Un potente riff all'unisono fra basso chitarra distorta e organo Hammond supporta l'assolo di chitarra, che ne riprende la linea melodica. Ritorna il chorus, stavolta riproposto più volte fino a che non lascia il campo alla chitarra solista, che va a concludere il brano con un bellissimo assolo rockeggiante che ci accompagna fino all'epilogo del brano. Il testo è stato in parte ispirato dalla lettura di Rabin del saggio di divulgazione scientifica "A Brief History of Time (La grande storia del tempo)", scritto dall'astrofisico britannico Stephen Hawking, citato letteralmente nelle liriche "Far away in the depths of Hawking's mind (Lontano, nella mente di Hawking)". Il saggio si snoda di fronte a due tematiche portanti quali la meccanica quantistica e la teoria della relatività, passando ad argomenti più intriganti come il big bang e la creazione dell'universo, i buchi neri, i tunnel spazio-temporali finendo con gli affascinati possibili viaggi nel tempo. Nonostante il titolo, siamo lontani anni luce dalle liriche adolescenziali di 90125. Viene esaltata la magia dei quattro elementi naturali, cioè il fuoco, l'aria, l'acqua e la terra, che da tempo immemorabile sono fonte d'ispirazione per gli uomini, diventando strumenti e punti di riferimento per riti, religioni e tradizioni magiche. Da sempre, ricoprono un ruolo particolarmente importante per lo sviluppo della razza umana. L'amore vero è quello di vivere la nostra vita, in nome della libertà e liberi da catene, sfruttando la magia degli elementi naturali. Abbiamo ascoltato un brano inusualmente "pesante" per quanto riguarda gli standard degli Yes, scandito dall'ossessiva ritmica cadenzata e rafforzato dalla potente chitarra distorta.
State of Play
La stridente chitarra che imita una sirena che apre la successiva "State of Play (Stato di gioco)" è stata ispirata da un piccolo incidente automobilistico avuto da Trevor Rabin, che vide coinvolto un mezzo di soccorso che viaggiava a sirene aperte. Dopo un paio di battute entra in scena Mr. White, con un trascinante 4/4, dopo altre due si aggiunge Chris Squire, che viaggia all'unisono con il suo fragoroso Rickenbacker, il tutto ricamato da alcuni fiammate di tastiera. Dopo questa energica introduzione, irrompe un solare strumming di chitarra, che in solitario accompagna una armonia vocale che sprizza gioia da tutti i pori. Fa una fugace apparizione il brioso unisono iniziale, che funge da chorus, dove i nostri urlano ai quattro venti il titolo del brano. Ritorna il radioso strumming impreziosito da saltuarie pennate di basso, al secondo ascolto, la raggiante armonia vocale ci cattura definitivamente. Di nuovo l'effimero ritornello e poi una rullata ci porta verso un paradisiaco interludio. Jon Anderson vola in alto lasciandosi trasportare della bellissima melodia che fuoriesce dagli strumenti. Andando avanti si sale di tono, la squillante chitarra ci porta verso il ritorno dell'inciso, che poi lascia il campo ad uno stralunato guitar solo che sa di Aerosmith, seguito da un insolito interludio funkeggiante. La strofa successiva viene servita in una salsa leggermente piccante, poi ritorna il chorus, stavolta riproposto più volte, fino a che non ritorna il paradisiaco interludio, dove Jon Anderson vola libero in cielo, venendo poi affiancato dalla tastiera. Gli strumenti danno vita ad un ancestrale intreccio di note che ci accompagna fino al brusco finale. Come si percepisce dall'atmosfera del brano, le liriche sono un inno alla pace e all'amore, dove si sprecano una serie di licenze poetiche, messe al punto giusto in modo da catturare l'ascoltatore. Durante il meraviglioso gioco della vita, anche se non ce ne accorgiamo, noi siamo i responsabili del Mondo. Non abbiamo bisogno di chiedere aiuto se respiriamo l'amore e apriamo il nostro cuore in modo da raggiungere l'amore di Dio, che silenzioso osserva dall'alto lo svolgimento del gioco. Ottimo brano che sprizza gioia da tutti i pori, che si fa apprezzare dall'inizio alla fine con le sue chitarre taglienti e le gioiali armonie vocali, è stato il terzo ed ultimo singolo estratto dal platter.
Walls
"Walls (Muri)" è il primo singolo estratto dall'album, che non è andato oltre la posizione numero 24 nella Billboard?'s Hot Mainstream. "Walls" è stata scritta insieme al cantante dei Supertramp Roger Hodgson. I nostri partono tutti insieme mettendo in evidenza una melliflua chitarra arpeggiata che si va ad intrecciare con melanconico tema sparato da una seconda chitarra, il tutto ricamato da un bel groove di basso. Passano una ventina di secondi e arriva la strofa, la granitica sezione ritmica trascina una solare chitarra arpeggiata che accompagna la sensuale voce di Trevor Rabin, che stavolta ruba la scena al Santone di Accrington. Una veloce progressione di accordi annuncia il bridge, dove i nostri aumentano leggermente l'intensità, portandoci in crescendo verso il solare ritornello, cantato a tre voci e sicuramente fra i più ruffiani scritti dal combo albionico. Una breve pausa, poi effimero tema hawaiano sparato dalla chitarra annuncia il ritorno della strofa, seguita come da copione da bridge e dal solare ritornello, stavolta arricchito da cori e alcuni azzeccati controcanti di Jon Anderson. Un break di chitarra ruba la scena, poi una pungente scala di basso richiama tutti all'appello, e dopo alcune battute ritroviamo il ritornello, per l'occasione presentato in versione loop, con alcune interessanti variazione nei controcanti. Sulla scia melodica del chorus si entra in un breve interludio cantato da Jon Anderson, che poi annuncia l'assolo di chitarra. Trevor Rabin con poche note riesce a trasportarci in una sperduta isoletta del pacifico. Sul finale si va ad oltranza con il tema del ritornello, dove al posto dell'armonia vocale troviamo vocalizzi e ricami di chitarra. Un brusco cambio di tono ci riporta sul tema della strofa, che dolcemente sfuma verso l'epilogo. Nelle liriche, il Guru Di Accrington ci invita a fare forza su noi stessi quando ci troviamo di fronte a situazioni difficili, se dobbiamo piangere per sfogarsi, e molto meglio farlo da soli. Ma poi arriva il momento che le nostre forze non bastano per superare un ostacolo, arriva il momento in cui sentiamo un forte bisogno di conforto, che una ventata d'amore umano rafforzi la corazza del nostro cuore e ci aiuti a trovare un'altra strada. Quando sentiremo un forte bisogno di amore e una voglia matta di amare, allora i muri inizieranno a cadere. Sicuramente il brano più commerciale del platter, una piacevole ballata dal sapore estivo che comunque non fa gridare allo scandalo.
Where will you be
Con la successiva "Where will you be (Dove sarai)" si cambia decisamente atmosfera. Il brano in origine era stato scritto da Rabin come sigla per un film australiano, poi invece ha pensato di adattarci le profonde liriche di Jon Anderson. Una ridondante tastiera si intreccia con una ritmica dal sapore tribale e con altre tracce sparate dai synth. Dopo neanche mezzo minuto entra in scena il Cantastorie di Accrington, con una linea vocale che ricorda una cullante ninna nanna, impressione rafforzata nell'inciso, dove la linea vocale assume un tono da scioglilingua, ricamata dalle tastiere. Andando avanti incontriamo un interludio con una dolce tastiera in evidenza ricamata da pregevoli intarsi di chitarra. Una pungente scala di basso annuncia il ritorno della strofa, resa leggermente più briosa da una delicato lavoro della sezione ritmica. Ritorna l'inciso, seguito da un brusco cambio di tono. I nostri ci sorprendono con un nostalgico interludio dal sapore vintage, dove l'armonia vocale si intreccia con un triste tema di organo. Lentamente gli strumenti sfumano allacciandosi magicamente ad un nuovo interludio. Un lancinante tema di chitarra annuncia l'assolo, Trevor Rabin ci sorprende con una pregevole escursione sulla chitarra acustica, sempre supportato dalle avvolgenti atmosfere che mixano le sonorità irlandesi con la ritmiche tribali dell'Australia. Dopo una serie di funamboliche scale eseguite sulla sei corde acustica, ritorna la strofa, seguita da un coro dal sapore natalizio, che poi lascia il campo alla ridondante tastiera che negli ultimi secondi viene spazzata via da uno spaziale pad sparato dal synth. Il Santone di Accrington si interroga sulle possibili destinazioni che avrà la nostra anima, dopo che saremo passati a miglior vita. Passiamo la vita mano nella mano con la nostra anima, ma cosa succederà quando una delle due verrà a mancare? Dove alloggerà la nostra anima, una volta abbandonato il nostro corpo? Quante vote ha vissuto sulla Terra la nostra anima? Jon Anderson si tormenta con una serie di quesiti che dalla notte dei tempi accompagnano l'essere umano, quesiti a cui ognuno di noi può dare una risposta differente, ma si tratta soli di ipotesi, nessuno è in grado di rispondere in maniera esatta alla domanda delle domande. Brano avvolgente, che lascia trasparire le sue origini cinematografiche, forse un po' troppo lungo, visto l'ossessiva insistenza del ridondante tema portante, diciamo pure che è l'unico brano del platter che non lascia il segno, se non per le profonde liriche.
Endless Dream
Velocemente siamo giunti all'epilogo del platter, i nostri serbano la carta migliore per l'ultima mano, vincendo in maniera lampante la partita, il jolly si chiama "Endless Dream (Sogno infinito)", una bellissima suite di quasi sedici minuti, divisa in tre parti, che inevitabilmente ci porta indietro nel tempo. Si parte con una breve introduzione strumentale intitolata "a. Silent Spring (Primavera Silenziosa)", titolo che richiama il libro di Rachel Carson "Silent Spring" pubblicato nel Settembre del 1962. Il libro ben presto è diventato una sorta di manifesto antesignano del movimento ambientalista e descrive con tanto di ricerche e analisi scientifiche i danni irreversibili degli insetticidi e dei fitofarmaci in genere, in particolar modo instaura una crociata contro il famoso "DDT" illustrando il devastante impatto che i pesticidi hanno sia sull'ambiente che sugli esseri umani. Questo scorcio di brano è stato estrapolato da una composizione assai più lunga, nata come una eventuale colonna sonora di un film. Ad aprire la suite è Trevor Rabin con un inquietante loop di pianoforte, rafforzato da una serie di potenti accordi all'unisono che si spostano sulle toniche. In sottofondo si fa sentire Tony Kaye, imitando con l'organo Trevor Rabin, che dopo una trentina di secondi fa lamentare la chitarra dando via ad un potente impatto sonoro, Alan White inizia a picchiare duro sul drum set, sorprendendoci un complicato tempo dispari, basso e chitarra viaggiano all'unisono, Tony Kaye spara fiammante con il suo fido Hammond, poi ha inizio una serie di funamboliche escursioni sugli strumenti che sembrano uscite dal Teatro Dei Sogni, che bruscamente al minuto 01:56 lasciano il campo alla seconda parte, la più lunga, dall'alto dei suoi 11:56 minuti, la colonna portante del brano, che sfoggia il titolo del platter, ovvero "b. Talk (Parla)". In origine si trattava di un pezzo dal titolo "October" che Rabin aveva scritto per un'orchestra. Anche questo secondo capitolo viene aperto da Trevor Rabin con il pianoforte, stavolta con un tema dai ritmi blandi ma che lascia trasparire ancora sensazioni di inquietudine. Il polistrumentista sudafricano recita la strofa, seguendo la melodia dettata dal piano, con una voce effettata in stile "21st Century Schizoid Man", ma meno sporca. Dopo una bellissimo saggio di pianoforte che ci fa capire come mai il povero Tony Kaye sia stato relegato la compito di organista, ritorna l'inquietante strofa, impreziosita da una serie di ricami sparati dalla chitarra di un Rabin in vena di sperimentazioni. Andando avanti il pianoforte indossa i panni del Jester, per un'altra escursione strumentale da brividi. Arriva l'inciso, è ancora una volta il pianoforte protagonista, che con una bellissima progressione di accordi indica la strada melodica da percorrere a Jon Anderson, il nostro fa centro con una struggente linea vocale da pelle d'oca. Pianoforte e voce continuano a duettare, volando sempre più in alto, fino a che Tony Kaye fa ruggire l'organo, annunciando un potente interludio strumentale, scandito dai forti colpi inferti sulla batteria. Rimane uno spaziale pad di tastiera, poi Trevor Rabin torna a sorprenderci con una serie di suoni sperimentali di chitarra e tastiera che danno vita ad una atmosfera dai sentori alieni. Sembra di ascoltare una comunicazione proveniente dallo spazio profondo. Dopo un paio di fugaci apparizione di una misteriosa armonia vocale, entra in scena Alan White, che picchia duro sulle pelli con l'asticella dei BPM ai minimi livelli (la rima è venuta per caso NDR). Dopo una strofa cantata in modalità jingle, arriva un melodico assolo di chitarra, che in crescendo ci riporta verso il solare ritornello. Jon Anderson esplode, ricamato da melancolici temi di chitarra, trascinato dalle tastiere e dalla cadenzata ritmica. Si sale di un tono, il Cantastorie di Accrington vola sempre più in alto. Poi, improvvisamente rimane uno spaziale pad di tastiera, affiancato da un oscuro suono sparato dal synth. In fader arriva un alieno tema di tastiera, spazzato quasi subito via da altre tastiere dal forte impatto atmosferico, che poi assumono una forma più ancestrale, fino al ritorno dell'oscuro pad che annuncia il ritorno dell'inquietante pianoforte dell'introduzione. Degli acidi riff di chitarra e suoni spaziali si intrecciano fra di loro, dando vita ad un emozionante interludio che necessita di un bel paio di cuffie di alta qualità per essere apprezzato al meglio. Il tema di pianoforte si fa più presente, accompagnato dai potenti accordi distorti, poi una rullata annuncia un effimero interludio autocelebrativo, seguito da melancolico assolo di chitarra che si va a riallacciare all'inciso, dove spicca il coro "Talk" che va ad intrecciarsi con l'angelica voce di Anderson. Andando avanti si cambia ancora ed incontriamo una melliflua armonia vocale dal sapore natalizio. Una rullata e si sale di tono, mantenendo sempre le piacevoli atmosfere natalizie, Jon Anderson spicca il volo e poi si riallaccia in maniera magistrale al ritornello, raggiungendo i suoi massimi registri. L'ennesima armonia vocale va ad intrecciarsi con l'inconfondibile voce di Jon Anderson, poi Trevor Rabin inizia a salutare i fans con un emozionante assolo con la sei corde. Sul finale veniamo cullati da un dolce tema di chitarra, poi rimane un pad di tastiera, e al minuto 13:52 ha inizio la terza ed ultima parte della suite, "c. Endless Dream (Sogno infinito)". Dopo una serie di suoni sperimentali dalle sembianze aliene, ritorna l'emozionante coro dal sapore natalizio, accompagnato da dolci tastiere e da una delicata ritmica. Trevor Rabin ci saluta definitivamente con sognanti temi di tastiera che lentamente sfumano verso l'epilogo. Si conclude in maniera significativa con il suono di un singolo battito cardiaco di un'ecografia, uno dei suoni più emozionanti che un essere umano può ascoltare durante il cammino della vita. Nelle liriche, con una serie di licenze poetiche, il Guru di Accrington ci invita a fare uso della meditazione in modo da mettersi in pace con noi stessi e staccarsi dai frenetici ritmi della vita moderna. Ci invita a fare un profondo viaggio introspettivo in cerca della coscienza, una delle poche cose al mondo che non è in grado di nascondersi. Per poter mettersi in pace con la propria coscienza, secondo un religioso come Jon Anderson, è necessario rafforzare la nostra fede e avere un ottimo rapporto con l'Onnipotente, sempre pronto ad ascoltarci e ad illuminarci la retta via in modo da poter continuare il sogno infinito della vita. Quando siamo giù possiamo trovare il conforto nell'amore, quando è questi a buttarci giù, troveremo il conforto dentro noi stessi. La prima cosa che ci viene in mente dopo aver ascoltato questo magnifico brano è "perché?" e aggiungerei, citando una celebre battuta di "Lello Putignani" "soprattutto, peeerché??" Quel è il motivo che spinge questi fantastici musicisti ad abbassarsi a comporre canzoncine che sfiorano il pop (e nemmeno tanto ben riuscite, parlando di "Big Generator" ?), quando si hanno le potenzialità strumentali e compositive per comporre capolavori come quello appena ascoltato? Escludendo lo spin-off "ABWH", a quasi quindici anni da "Machine Messiah" gli Yes tornano a sorprenderci con un'epica suite, che tiene testa alle lunghe composizioni del glorioso passato, modernizzando il sound con una serie di sonorità sperimentali ed innovative. Un brano che ha emoziono addirittura Jon Anderson durante le registrazioni, un brano che da solo vale il prezzo del disco, e che ne innalza inevitabilmente la valutazione.
Conclusioni
Dopo aver ascoltato l'epica suite "Endless Dream", risulta ancora più incomprensibile l'ennesimo cambio di formazione che mette nuovamente gli Yes sull'orlo del precipizio, per l'ennesima volta di fronte ad un possibile scioglimento. Infatti al termine del tour di "Talk", che clamorosamente per la prima volta nella storia del gruppo non includeva l'Europa, ma prevedeva anche una performance di "Walls" al David Letterman Show (il 20 giugno 1994, per la precisione), Trevor Rabin abbandona i maniera definitiva gli Yes, chiudendo la sua trilogia e salutando i fans con un'epica suite che mette tutti d'accordo, compresi i difficili seguaci di vecchia data, ancora attaccati al cordone ombelicale progressive di "Close To The Edge" e "Fragile". In maniera incomprensibile abbandona la band anche Tony Kaye, proprio nel momento in cui avrebbe avuto un maggiore spazio, vista la defezione del tirannico polistrumentista sudafricano. Ma gli Yes hanno la pelle dura, e riusciranno ad alzare nuovamente la testa, in che maniera lo scoprirete nelle prossime recensioni. Spero di aver completato con successo la mia missione di rivalutare un album ingiustamente stroncato dalla critica e da gran parte dei fans, un album che si mantiene costantemente su altissimi livelli, raggiungendo l'apice nella parte finale con l'epica suite "Endless Dream", mettendo come sempre in risalto una tecnica strumentale sopraffina ed una abilità compositiva e di arrangiamento nettamente superiore agli standard. Un album che se fosse uscito dopo "90125" avrebbe avuto sicuramente un impatto differente sui fans e sulla carriera degli Yes. Veniamo alle prestazioni dei singoli. Trevor Rabin nonostante le manie di megalomane, si conferma un polistrumentista ed un produttore eccezionale, stavolta si dimostra intelligente e lascia più campo a Jon Anderson. Ascoltando attentamente il disco, notiamo che è anche un ottimo tastierista oltre che ad un eccellente interprete della sei corde. I suoi affilatissimi "hook" fanno ancora una volta centro e catturano inevitabilmente l'ascoltatore. Il nostro si diverte a sperimentare nuove sonorità, in vista della sua imminente carriera di compositore di colonne sonore cinematografiche. Con più spazio a disposizione, Jon Anderson, che ha firmato tutte le liriche, sembra rinato rispetto ai precedenti "Big Generator" ed "90125", raggiungendo l'apice nella suite conclusiva. Chris Squire, se pur non esibendosi in lunghe e funamboliche escursioni soliste, ci martella con il suo Rickenbacker dall'inizio alla fine, pungendoci spesso con graffianti scale che legano magistralmente i vari interludi. Alan White sforna una delle prestazioni più potenti della carriera, forse aiutato dalle innovative tecniche usate in fase di arrangiamento e produzione. Il povero Tony Kaye è relegato dietro il suo fido organo Hammond, per tutto il disco fa un oscuro lavoro di riempimento, dando il meglio di sé nella traccia d'apertura. Non so se casualmente oppure in relazione con il brano "Silent Spring", il nostro "Talk" è uscito in concomitanza con l'equinozio primaverile, ovvero il 21 Marzo del 1994, dopo una lunga gestazione. Le prolungate fasi di composizione e registrazione sono avvenute fra il 1992 ed il 1993 presso gli studi di proprietà di Trevor Rabin "La Sala Jacaranda", siti in Los Angeles, California, completando le rifiniture presso gli studio "A & M Recording Studios", Hollywood, sempre in California. L'eccellente produzione è un'opera esclusiva di Trevor Rabin. Per la prima volta gli i nostri si affidano ad una label indipendente, la Victory Records, che alla fine dei giochi si è rivelata inadatta ad un gruppo importante come gli Yes. L'artwork è stato affidato al grafico tedesco-americano Peter Max, che si è preso anche la briga di creare un nuovo logo, ovviamente lontano anni luce dal classico "logo a bolla" partorito da sua maestà Roger Dean. Al centro della copertina giganteggia il nuovo marchio, dall'aria infantile, che sembra disegnato con un pennarello nero a punta grossa, con le tre lettere colorate per metà con sfumature arcobaleniche, il resto in nero. In alto a destra, con un minuscolo carattere simile all'attuale "comics sans", troviamo il titolo "Talk". Le liriche sono state presentate con un simpatico font che ricorda il lettering dei fumetti, nella parte conclusiva del booklet, sempre con il medesimo font troviamo una graditissima dedica che recita "Dedicated To All Yes Fans ? (Dedicato a tutti i Fans Degli Yes ?)". A causa delle motivazioni già illustrate in fase di recensione, l'album non è andato oltre le 300000 copie, raggiungendo la posizione numero 20 nel Regno Unito e numero 33 negli Stati Uniti. Tirando le somme, un album che merita di essere rivalutato, da ascoltare in cuffia per apprezzarne tutte le sfaccettature. Nonostante la melodia prevalga fa i solchi del platter, sovente affiorano piacevoli venature progressive, che esplodono letteralmente nella traccia conclusiva. Consiglio "Talk" a chi come me non è mai stato esaltato dagli YesWest, adattissimo a chi si vuole avvicinarsi per la prima volta al fantastico Yes World. Un album che mi ha fatto rivalutare anche Mr. Trevor Rabin, forse in maniera beffarda, visto che si tratta della sua ultima apparizione con gli Yes. La bellissima "Endless Dreams" troverà inevitabilmente consensi anche fra i fans di vecchia data, e come ho già detto, da sola vale il prezzo del disco.
2) I Am Waiting
3) Real Love
4) State of Play
5) Walls
6) Where will you be
7) Endless Dream