YES
Tales From Topographic Oceans
1973 - Atlantic Records
SANDRO NEMESI PISTOLESI
02/09/2015
Introduzione Recensione
L'anno 1973, per quanto riguarda la lunghissima carriera musicale degli Yes può considerarsi il miglior periodo in assoluto vissuto dal combo albionico. Sfruttando l'onda del successo del capolavoro Close To The Edge, gli Yes erano diventati una sorta di Re Mida del rock, tutto quello che toccavano si tramutava in oro. Primeggiavano in qualsiasi tipo di classifica, ricevevano una miriade di crediti. Rick Wakeman, dopo aver ottenuto il titolo di miglior tastierista del Pianeta, fece uscire il suo primo album solista, "The Six Wives Of Henry VIII. Accolto con scetticismo in fase di registrazione perché totalmente privo di parti cantate, una volta pubblicato smentì gli addetti ai lavori, rivelandosi uno straordinario successo, ed entrando nella top ten inglese. Purtroppo la coraggiosa scelta di Bill Bruford di abbandonare gli Yes nel loro miglior periodo, mise nei pasticci Squire e compagni, che dovevano trovare quanto prima un degno sostituto, visto l'imminente tour mondiale a supporto del gioiello Close To The Edge. Prima di inginocchiarsi alla corte del Re Cremisi, dopo ben 594 concerti con gli Yes, l'eclettico batterista motivò la sua decisione sostenendo che la band non sarebbe stata in grado di eguagliare la perfezione e la magnificenza di Close. All'epoca il tecnico del suono Eddie Offord divideva l'appartamento con un certo Alan White, un batterista che aveva un curriculum di tutto rispetto come turnista. Dopo che Bill Bruford aveva annunciato la sua dipartita, in un paio di occasioni Alan White era capitato in studio durante le registrazioni di Close To the Edge. Approfittando dell'assenza del batterista titolare che aveva lasciato le prove anzitempo, gli Yes gli chiesero se gli andava di strimpellare qualcosa insieme e se sarebbe stato interessato ad un eventuale coinvolgimento nel progetto Yes. Provarono Siberian Khatru, Squire e compagni rimasero favorevolmente colpiti dalla performance di Alan White, nonostante il nostro fosse abituato a suonare canzoni ben più semplici, se l'era cavata egregiamente. Alan White, pur uscendo dai canoni del classico batterista rock aveva uno stile assai diverso da quello di Mr. Bruford, ma sfruttò in pieno il desiderio di Howe e compagni, che per il nuovo corso volevano un batterista meno raffinato e più potente di Bruford. Alan era ben conscio di poter soddisfare tali esigenze, unendo l'energia alle complicate ritmiche del combo albionico. Dopo tre mesi di convivenza, ci volle ben poco perché il matrimonio andasse a buon fine, matrimonio longevo che perdura ancora oggi, nonostante gli innumerevoli cambi di formazione e la recente triste scomparsa dell'immenso Chris Squire. Andiamo ora a conoscere più da vicino l'ennesima new entry in casa Yes. Alan White è venuto alla luce a Pelton, il 14 Giugno del 1949. Dopo aver ereditato dal padre la passione per il pianoforte, all'età di dodici anni ebbe la sua prima batteria. Dopo un po' di gavetta con gruppi minori locali, ebbe l'onore di lavorare con George Harrison e Joe Cocker. Successivamente fu contatto telefonicamente da John Lennon, che gli chiedeva gentilmente se voleva unirsi a lui, Eric Clapton e sua moglie. Pensando ad uno scherzo attaccò la cornetta. Il povero John lo richiamò immediatamente. L'indomani, Alan White fece il suo primo concerto con la Plastic Ono Band, provando la scaletta in aereo durante il volo verso il Canada. Ma torniamo agli Yes, ormai assestati con il nuovo drummer, dopo all'estenuante tour di Close, era giunto il momento di dedicarsi alle nuove composizioni, gli unici ad avere le idee ben chiare a riguardo erano i soliti Anderson e Howe. Sull'onda dell'entusiasmo i due avevano deciso di continuare a lavorare su lunghissime composizioni, che stavolta quasi raddoppiavano la durata delle già per se lunghissime tracce presenti sul disco precedente. Le sezioni di composizione e registrazione durarono oltre i sei mesi, quotidianamente gli Yes se ne stavano chiusi in studio per circa 18 ore. Per tenere buoni i fans, nel frattempo pubblicarono Yessongs, un triplo album dal vivo. Fatta eccezione di un paio di brani risalenti al tour di Fragile, ergo con Bill Bruford alla batteria, il resto era tutto materiale registrato durante il tour di Close, con il nuovo drummer Alan White. Senza non poche fatiche, alla fine venne alla luce il nuovo album, che prevedeva ben due vinili, contenenti una sola canzone per facciata della durata media intorno ai 20 minuti. Curiosamente le lunghe canzoni non sono divise in tre o quattro sottotracce come nel caso delle suite proposte in precedenza, il che le rende ancora più difficili da apprendere ed immagazzinare. Jon Anderson spiega che l'idea dei quattro movimenti o suite, in cui è strutturato il disco, prende luce dopo la lettura del libro "Autobiografia di uno Yogi" di Paramhansa Yogananda, yogi e guru che ha trascorso gran parte della sua vita negli Stati Uniti d'America e che ha introdotto molti degli insegnamenti di meditazione del Kriya. Per la precisione, l'ispirazione è nata durante uno dei brevi momenti di relax che si concedeva Jon Anderson, prima di salire sul palco. Si trovava in un lussuoso albergo a Tokio, e stava sfogliando L'autobiografia di uno Yogi, quando fu colpito da una nota, per la precisione in fondo alla pagina 83, dove venivano descritte le quattro parti delle scritture shastra, scritture che coprono tutti gli aspetti della religione, della vita sociale, ma anche della musica, della medicina e dell'arte in generale. I messaggi che emergevano fra le righe erano talmente positivi che Anderson riuscì a visualizzare immediatamente quattro brani musicali collegati fra loro e strutturati attorno a quell'idea. Era Febbraio. Quattro mesi dopo, grazie alla collaborazione in primis di Steve Howe e del resto della band, quel concetto fu realizzato. Il libro in questione, oltre a narrare la vita materiale e spirituale di Yogananda, contiene molti passaggi dedicati all'interpretazione vedica di elementi della cultura ebraica e cristiana, come per esempio il Giardino dell'Eden. L'autobiografia di uno Yogi è stata una lettura assai influente nella cultura giovanile degli anni sessanta e settanta, oltre agli Yes anche i Beatles ne hanno tratto ispirazione, infatti potete trovare Paramhansa Yogananda insieme ad altri illustri personaggi, nella copertina del capolavoro Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. Una volta uscito Tales From Topographic Oceans, gli Yes per la prima volta nella carriera, andarono incontro a recensioni non proprio entusiastiche. Mancava la verve dei precedenti album, le lunghe composizioni risultavano opprimenti. Anche in sede live i nuovi brani non entusiasmavano e gli Yes erano costretti a rivitalizzare le platee con i vecchi cavalli di battaglia. Gli unici convinti che si trattasse di un capolavoro e continuavano imperterriti a difendere Tales erano Steve Howe e Jon Anderson, ovvero i compositori principali dell'odissea progressive in questione. Inseriamo il CD nel nostro lettore e scopriamo da che parte stava la ragione.
he Revealing Science Of God (Dance of the Dawn)
La prima delle quattro suite che incontriamo è The Revealing Science Of God (Dance of the Dawn) (La Scienza Rivelatrice Di Dio, La Danza Dell'Alba), brano dalla estenuante durata di ben 20:27 minuti (22:22 minuti nella versione restaurata), che mantenendosi in linea con il titolo, viene aperta da Jon Anderson con una linea vocale dal forte sapore ecclesiastico, accompagnato dalle timide tastiere di Rick Wakeman e da qualche flebile ricamo di basso e chitarra. Lentamente a Jon Anderson si aggiungono le altre voci, andando a formare una delle classiche armonie vocali yessane. Le tre voci incrementano gradualmente di intensità, fino a che Alan White si presenta con una bella rullata che anticipa l'entrata in scena di tutti gli altri strumenti. Il protagonista è Rick Wakeman con uno squillante tema di tastiera, accompagnato dal basso. Successivamente, Steve Howe inizia con una delle sue intricate ragnatele di note, imitato poi da Rick Wakeman, prima di riprendere il riff portante. Qualche interessante fraseggio di basso e chitarra annuncia la strofa. La ritmica è scarna e lenta, in modo da lasciare Steve Howe in evidenza, mentre la linea vocale non è certamente fra le più ammalianti proposte dal santone di Accrington. Si cambia ancora, la ritmica si fa più briosa, il brano indossa delle vesti vagamente beatlesiane, ma non riesce a catturarci. Un breve ma azzeccato gioco di voci ed echi caratterizza quello che potrebbe essere l'effimero inciso. Si ritorna alla strofa, in sottofondo una serie di potenti rullate fanno capire che Alan White è la scelta giusta. Altra fugace apparizione dell'inciso, seguita prima da un bel tema di chitarra, poi da un funambolico interludio dove chitarra e tastiera instaurano un duello sotto i colpi inferti dal nuovo batterista sulle pelli. La linea vocale è enigmatica e vien ricamata sapientemente dalla chitarra. Improvvisamente la babele sonora si placa, rimane una scarna ritmica che supporta l'ennesimo raffinato lavoro sulla sei corde da parte di Steve Howe. In maniera meno squillante Wakeman ripropone il tema portante, passando poi ad un paradisiaco pad di tastiera che accoglie i sapienti fraseggi di chitarra del maestro Howe. Dopo questo rilassante interludio strumentale, ritorna Jon Anderson, con una spensierata linea vocale, sicuramente la migliore di quelle ascoltate fino ad ora nel brano. Improvvisamente la ritmica aumenta, un breve fraseggio di pianoforte introduce l'ennesimo cambio. White ci martella con una interminabile cavalcata sui tom, Wakeman alterna il pianoforte a spaziali tastiere, poi è il turno dell'assolo di chitarra, molto melodico nella prima parte, doppiato all'unisono dalla tastiera, passando poi per una serie di funambolici fraseggi che si spostano sulle toniche, ritornando poi sul melodico sul finale. Minuto 12:57, rimane in solitario la chitarra di Howe, che dopo un effimero tema attacca un epico arpeggio acustico formato da un'ottima progressione di accordi, eseguito rigorosamente con le dita. Poi è il turno di Rick Wakeman che con un bel tema di tastiera richiama all'appello Jon Anderson, il quale accompagnato dal basso apre le porte all'ennesimo cambio. Questa strofa è caratterizzata da svariati preziosi interzi da parte di tutti gli strumentisti. Successivamente Rick Wakeman ci fa volare su un rilassante tappeto di tastiera, che sul finire viene ricamato da un ecclesiastico coro, a cui si aggiungono in un secondo tempo la chitarra ed il synth. Al minuto 16:46 ha inizio un'epica cavalcata ritmica, sulla quale Rick Wakeman mette in mostra le sue eccelse doti di tastierista, ergendosi sul tappeto ritmico con un alienante assolo. Si cambia nuovamente, rimane solo uno spaziale tappeto di tastiera ad accogliere Jon Anderson, ricamato dolcemente dalla chitarra. Poi rincontriamo la strofa assaporata all'inizio, insaporita da piccanti tastiere. Lentamente il brano evapora verso la fine, sotto i delicati ricami di Alan White rimane un bel gioco di voci ed alcuni pregiati intarsi di chitarra, i nostri concludono il brano nella stessa maniera in cui era iniziato. In questo album incontreremo senza ombra di dubbio alcune fra le liriche più prolisse dell'intera discografia Yessana, cariche di licenze poetiche e di messaggi mistici e spirituali, Il testo del brano di apertura ne è la testimonianza. Si mette in contrapposizione la scienza, atavica nemica delle teorie che prevedono l'esistenza di un Dio superiore, creatore dell'Universo, con l'atavico e profondo mistero della fede. Ma la fede stessa è in fondo una scienza, una scienza che ci rivela l'esistenza di Dio, partendo dall'alba della vita. Nella lunga strada temporale che è iniziata con la nascita del primo essere umano, i ricordi delle esperienze rimangono indelebili nella mente di chi li ha vissuti. Purtroppo, oltre la nostra mente, non esiste scienza in grado di poter rendere tangibili e tramandabili i ricordi di un tempo che fu, durante l'affascinante viaggio dell'uomo alla scoperta della Terra. La vita dell'uomo è stata sempre caratterizzata da un amore e dalla fede che lo lega ad un Dio superiore, che dall'alto sorveglia la razza umana, anche durante le incomprensibili guerre dispensatrici di veleno, che da sempre purtroppo vanno a braccetto con l'uomo. Il Dio supremo, mentre osserva il flagello delle guerre, continua a mandare avanti il meraviglioso meccanismo dell'alternarsi delle stagioni, regolando con maestria l'influsso del Sole. Jon Anderson sostiene che non si dovrebbe cadere nel tranello della guerra, ignorando l'invasore, che forse prima o poi se ne andrà. L'unica cosa di cui ha bisogno l'uomo è l'affascinante incantesimo dell'amore, la sola cosa che permette all'essere umano di continuare il tortuoso cammino intrapreso tanto tempo fa. Nel finale, il santone di Accrington, invita i cacciatori di verità ad accettare anche la scienza rivelatrice di Dio, iniziando a respirare, inseguire ed amare, per il bene dell'umanità.
The Remebering (High The Memory)
Anche se di pochi secondi, la successiva The Remebering (High The Memory) (Il Ricordo, Alta La Memoria) è ancora più lunga e si apre con un'idilliaca atmosfera magicamente ricreata da Wakeman e Howe, quest'ultimo poi prosegue con un ammaliante arpeggio carico di effetti, la cui melodia viene imitata da una celestiale armonia vocale. Squire alza l'asticella del volume e apre le porte alla strofa, Anderson mantiene la linea melodica precedente, Rick Wakeman ricama con suoni d'altri tempi. Si cambia, il brano tenta di salire di intensità, puntando sulle notevoli capacità vocali di Jon Anderson che sale in alto, accompagnato dalla chitarra e dalla tastiera in quello che potrebbe essere considerato l'inciso. Dopo un breve interludio dal sapore barocco, Rick Wakeman stende uno spaziale tappeto di tastiera che precede il ritorno dell'arpeggio iniziale, accompagnato all'unisono dal basso e seguito dalla cantilenante armonia vocale. Una squillante tastiera annuncia un cambio, caratterizzato da una ritmica stoppata dove si erge ancora Jon Anderson. Finalmente, se pur con grazia, entra in scena Alan White, con una ritmica composta da delicate rullate sui tom. Jon Anderson continua ad essere protagonista, seguendo la melodia dettata dagli strumenti a corda. Al minuto 07.40 termina finalmente questa prima parte, forse tirata un po' troppo alle lunghe. Entra in scena Rick Wakeman con un profondo pad di tastiera che non sfigurerebbe in una pellicola fantasy che tratta le gesta dei cavalieri della Terra Di Mezzo. Improvvisamente irrompe Steve Howe con un solare strumming, arricchito da pregevoli fraseggi. Il basso dona alla ritmica un'aria festosa, Jon Anderson con la linea vocale segue le orme lasciate da Steve Howe, che successivamente si prodiga in un breve assolo struggente. Poi finalmente Alan White ingrana la quarta e il brano finalmente decolla, sotto i colpi di un veloce 4/4. Si risente il fragoroso basso, Steve Howe tesse una pregevole trama fraseggiando con la sei corde, portandosi dietro Jon Anderson. I nostri si fermano nuovamente, rimane il solo Wakeman, che con le tastiere ci trasporta nello spazio. Di tutt'altra atmosfera è il successivo interludio, dal freddo ed oscuro spazio si passa alle calde sonorità dal sapore medievale, dettate dalla chitarra acustica di Steve Howe, che successivamente ripropone lo struggente assolo e gli splendidi fraseggi sentiti in precedenza, supportati da una trascinante cavalcata ritmica. Un bellissimo unisono di chitarra e tastiera spazza via Jon Anderson, aprendo le porte ad un prolungato interludio strumentale, dove i nostri sprecano l'eccelsa tecnica strumentale. Ritorna l'inciso, ricamato in maniera brillante da Rick Wakeman, che successivamente ruba nuovamente la scena con un avvolgente pad di tastiera. Steve Howe ricama con il suo inconfondibile tocco magico, Alan White gioca sui piatti, in sottofondo Squire stende una raffica di martellanti sedicesime. Questo spaziale interludio di grande atmosfera perdura assai, fino a quando irrompe la strofa, l'armonia vocale torna protagonista, Steve Howe da brio con accordi distorti, per poi intraprendere l'ennesimo assolo, che nel finale va ad intrecciarsi con la celestiale linea vocale di Jon Anderson, sotto i colpi della sezione ritmica. E' di Rick Wakeman il compito di terminare questo estenuante brano con un avvolgente pad di tastiera. Come per le precedenti, anche in queste prolisse liriche non mancano le numerose licenze poetiche, che come spesso avviene, sono aperte a svariate interpretazioni. Sin dai primi passi dell'uomo sulla Terra, i ricordi sono la cosa più bella che l'uomo è in gradi di controllare. Sono i ricordi che rendono magiche le esperienze vissute. Se non avessimo i ricordi, la nostra esistenza sarebbe priva di senso. I ricordi sono una infinita serie di fotogrammi, archiviati nella nostra mente, a cui possiamo accedere liberamente. Un'altra magia di cui è dotato l'essere umano sono i sogni, con i quali possiamo arrivare ovunque senza che nessuno ce lo impedisca. Siamo liberi di sognare un mondo alternativo, privo di guerre e di odio, un mondo alternativo che porta come simbolo la bellezza inimitabile dell'arcobaleno e la musica che canta parole d'amore, un mondo che concede svariati orizzonti da poter raggiungere, basta avere la passione, la stessa che ha avuto colui che l'ha vista evaporare su una croce. Siamo di fronte ad una lunga composizione che senza ombra di dubbio contiene alcuni spunti interessanti, ma spesso tirati troppo per le lunghe. Il brano risulta vago e discontinuo, si ha l'idea che i nostri non vogliano aggrapparsi più di tanto alle svariate melodie che compongono la frastagliata struttura del brano, pesa come un macigno la mancanza di un tema portante.
The Ancient (Giants Under the Sun)
E' giunta l'ora di cambiare il disco ed assaporare la terza traccia dall'epico titolo The Ancient (Giants Under the Sun) (Gli Antichi, Giganti Sotto Il Sole). Nei primi minuti siamo investiti da un'introduzione dal sapore tribale, ricamata con alienanti fraseggi di chitarra. La stralunata introduzione perdura forse fin troppo. Dopo circa tre minuti la tediosa intro viene sostituita da uno spaziale tappeto di tastiera che accoglie pennate di basso stoppate sui piatti e raffinati tocchi sulla sei corde. Improvvisamente irrompe per qualche istante l'immancabile armonia vocale Yessana, che apre le porte all'ennesimo cambio, una sorta di marcia trionfale. Ancora qualche colpo stoppato, alternato a fraseggi di chitarra, e poi riprende la pomposa marcia, con le tastiere di Rick Wakeman protagoniste. Accompagnato da una stralunata cacofonia, Jon Anderson pronuncia con tono inquietante i nomi di svariate divinità antiche. Wakeman e Howe iniziano poi a duettare con alienanti temi, dopo di che Anderson continua il lavoro precedentemente interrotto. Accompagnato sempre da ritmiche tribali, Steve Howe continua ad imperversare fra i solchi di questo brano di difficile apprendimento. Bill Bruford si è inginocchiato alla corte del Re Cremisi, gli Yes, quasi per dispetto, sfornano stralunati interludi strumentali che sembrano usciti da Larks' Tongues in Aspic; al minuto 12:30 termina questa estenuante parte quasi interamente strumentale. La calda linea vocale di Jon Anderson viene accompagnata quasi all'unisono da un arpeggio di chitarra acustica dai sentori latini. Steve Howe poi continua da solo, riprendendo le meravigliose escursioni acustiche intraprese con Mood For A Day e The Clap, confermandosi l'indiscusso numero uno della sei corde acustica (e non solo, NDR). Dopo il piacevole saggio di chitarra, ritorna Jon Anderson, accompagnato solamente da caldi tocchi sulla chitarra acustica e di tanto in tanto da un sottile tappeto di tastiera che riprende la melodia della linea vocale. Dopo l'ennesimo interludio con la chitarra acustica protagonista, Steve Howe si avvia verso la conclusione del brano con un breve assolo grazie all'ausilio del bottleneck guitar, chiudendo poi con una serie di accordi distorti. Le liriche sono una vera e propria dichiarazione d'amore nei confronti di alcune delle più importanti civiltà antiche come i Maya, gli Aztechi, le affascinati religioni indiane ed orientali e il leggendario mito di Atlantide. Si inizia con la parola "Purana", un gruppo di testi hindu di carattere principalmente celebrativo e cosmologico, il cui scopo primario era l'educazione religiosa. Jon Anderson dice che la chitarra di Steve Howe è fondamentale per descrivere le bellezze ed i tesori delle antiche civiltà indiane, cinesi, del Centro America e perfino della leggendaria Atlantide. Civiltà che ci hanno lasciato un'immensa quantità di conoscenza, tesori, cultura e aggiungerei anche mistero. Vengono poi elencati una serie di Dei ed altri riferimenti vari, estrapolati dalle più significative civiltà antiche, come Tonatiuh, il Dio Sole Azteco, l'Ah Kin dei Maya o il Dhoop indiano. Proseguendo, con queste brevi e mistiche righe, Jon Anderson sottolinea l'estro e la creatività di tali popoli, che in piena sintonia con la natura erano abili nel tessere la fioritura della vita, civiltà spesso tediate dai conquistatori provenienti dal vecchio continente. Esaminando con attenzione la parte finale del testo, scopriamo anche una vena esoterica, come se un malcapitato personaggio si trovasse di fronte ad un vero e proprio rituale occulto, con tanto di sacrificio, forse di una delle popolazioni amerinde come i Maya o gli Aztechi, osservando terrorizzato nascosto tra la vegetazione, sperando di non essere scoperto. In quello che è sicuramente l'album più difficile degli Yes, The Ancient è sicuramente il brano più difficile da comprendere, sconclusionato. La prima parte è praticamente strumentale ed è caratterizzata da una serie di escursioni soliste che danno vita ad una cacofonia difficile da digerire, va un po' meglio nella parte finale dove Steve Howe mette in luce il suo immenso feeling con la chitarra acustica.
Ritual (Nous Sommes Du Soleil)
Siamo giunti alla traccia conclusiva di questo controverso album, Ritual (Nous Sommes Du Soleil) (Rituale, Noi Siamo Il Sole), che dall'alto dei suoi 21:34 vanta il primato di brano più lungo del platter. Una serie di accordi stoppati anticipa un bellissimo assolo di chitarra, melodico e pieno di feeling, supportato da una ritmica irregolare. Dopo un breve epico interludio, dove Wakeman imita il violino, Steve Howe riprende l'assolo di chitarra. Incontriamo poi un altro evocativo diversivo dal quale emerge Rick Wakeman con un funambolico riff di tastiera. Irrompe una potente cavalcata ritmica, alla quale si aggiunge Jon Anderson con ammalianti gorgheggi vocali, imitati all'unisono da tastiera e chitarra. Per pochi istanti il "da-da-da-da" di Anderson viene affiancato ed imitato dalla sola chitarra, che poi ruba la scena con una bella progressioni di accordi. Ritorna l'ammaliante unisono fra voci e strumenti, Alan White si conferma la scelta giusta. Finalmente incontriamo una notevole escursione solista di Chris Squire, che pone fine alla prolungata introduzione strumentale. Dal silenzio emerge il sospiro del vento, che accoglie Steve Howe, abile tessitore di trame. Lentamente si sfuma e dalle ceneri del precedente interludio nasce un caldo arpeggio di chitarra che chiama il resto della band all'appello. Rick Wakeman riempie con struggenti orchestre di violini, la delicata ritmica proposta da White viene arricchita da un groove di basso stranamente non invadente, il tutto per lasciare campo aperto a Jon Anderson, che si presenta con una linea vocale da pelle d'oca durante l'inciso. Sotto l'organo di Wakeman si cambia nuovamente, in questa strofa, la spensierata linea vocale arricchita dalle melliflue armonie vocali ci conquista immediatamente, come del resto il successivo inciso. Poi arriva un altro bell'interludio strumentale, dove Wakeman scandisce il tema di facile memorizzazione. Ritornano strofa ed inciso e devo dire che la presenza di temi portanti, inciso e strofe melodiche riesce a cancellare immediatamente i molti dubbi lasciati dalle precedenti due tracce. Un prolungato crescendo dove il basso di Squire tiene finalmente testa a Jon Anderson anticipa l'ennesimo interludio strumentale. La sezione ritmica riduce ai minimi termini i compiti, lasciando a Rick Wakeman e Steve Howe il compito di dispensare un'avvolgente atmosfera. Un'improvvisa rullata annuncia una funambolica cavalcata, dove si erge Chris Squire con un prolungato assolo di basso. Successivamente si aggiungono alla festa anche Steve Howe e Wakeman, andando a comporre un importante wall of sound. Il chitarrista di Holloway instaura un duello con Chris Squire, dando vita ad un bellissimo intreccio di assolo. Dopo questa dimostrazione di tecnica, siamo aggrediti da un lavoro tribale da parte di Jon Anderson dietro il set delle percussioni, immediatamente affiancato da Alan White con una serie interminabile di rullate. Wakeman cerca di creare tensione con un inquietante pad di tastiera, ma poi la cavalcata tribale riprende, ricamata da suoni di tastiera che sembrano provenire da altri mondi. Il tribale interludio se ne va improvvisamente come era venuto, lasciando il campo a Steve Howe, che dopo una breve escursione solista riprende l'arpeggio portante del brano, imitato dal pianoforte. Torna dietro al microfono anche Jon Anderson, con una delle migliori linee vocali del platter. E' un momento di forte atmosfera, la sezione ritmica si limita a delicati tocchi sui rispettivi strumenti, lasciando la scena al pianoforte e all'angelica voce del santone di Accrington, che ci fa nuovamente accapponare la pelle con l'inciso, cantando "Nous Sommes Du Soleil". Il finale è forse fra i momenti più belli del brano, in un'atmosfera epica si erge Steve Howe, che ci fa venire la pelle d'oca con un bellissimo assolo, degnamente accompagnato dalla sezione ritmica. Le solari e radiose liriche inneggiano dichiaratamente all'amore, fattore essenziale per la vita umana. I due amanti sono in sintonia e calorosi e positivi come il Sole, insieme possono superare ogni sorta di ostacolo che il duro cammino della vita gli pone davanti, lottando con il coltello fra i denti, pur di stare insieme. La vita è una lotta infinita, dove bisogna combattere, combattere e combattere, ma grazie all'amore, i due amanti riescono a vincere ogni singola battaglia, aiutati anche dall'energia positiva emanata dalla musica. Insieme continueranno a lottare per i cambiamenti, come già in passato lo hanno fatto i nostri avi. I sogni alimentano inconsciamente il coraggio necessario a vincere le battaglie in onore di un cambiamento. A volte nella vita, per ottenere un successo, bisogna rischiare ed azzardare. Con l'aiuto dell'amore i due compagni si fanno luce fra le ombre, in cerca della retta via. La loro gioia personale va di pari passo con le difficoltà che riserva il mondo reale, sopraffacendole. I loro ricordi perdureranno per sempre nel tempo. Loro sono il Sole, radiosi e positivi come il Sole, anche di fronte ad ogni tipo di difficoltà. Ritual è indubbiamente il momento migliore del platter, e che da solo ne alza la valutazione finale, la presenza di un inciso e di temi portanti ricorrenti lo rendono molto più accessibile rispetto agli altri. Se la durata di alcune parti strumentali fosse stata dimezzata, saremmo di fronte ad una perla che non avrebbe affatto sfigurato su Close To The Edge. Da brividi la parte finale.
Conclusioni
Senza ombra di dubbio Tales from Topographic Oceans è uno degli album più controversi e difficili da apprendere dell'intera discografia Yes, un album spesso opprimente, che da sempre divide i fans, o lo si ama o lo si odia. In passato è stato usato, in maniera inappropriata, come punto di riferimento da coloro che non amavano ascoltare il progressive rock, come i seguaci della nuova ondata punk, vera e propria nemesi del progressive rock, e dell'album in questione. Pur non rientrando fra i miei preferiti, ascoltandolo con attenzione non posso dire che si tratta di un album da buttare, anzi, tutt'altro. In tutti e quattro i movimenti che compongono il double, possiamo scorgere interessanti spunti offerti da Howe e compagni. I nostri troppo spesso dilungano fino alla nausea alcuni interludi strumentali rendendoli alquanto tediosi. Forse se i brani fossero stati accorciati di 3-4 minuti, saremmo a parlare del degno successore di Close To The Edge. A supportare tale mia teorica cito le testuali parole rilasciate da Rick Wakeman: "Se allora fosse uscito in CD, avremmo avuto materiale sufficiente per fare un buon disco di cinquanta minuti. Invece avevamo troppa musica per un LP da trentasei minuti, ma non abbastanza per un album doppio. Così l'abbiamo gonfiato i brani senza pietà. E la cosa non mi piacque affatto". Tales From proprio non andava giù a Rick Wakeman, a partire dal bizzarro titolo, Wakeman sosteneva che un "oceano" non si può definire "topografico". Il povero Rick era talmente ossessionato ed esausto a causa dell'album, che da lì a breve deciderà di abbandonare la band dopo aver dato preoccupanti segni di squilibrio. Fra i tanti, memorabile è l'aneddoto del pollo al curry. Durante una delle tante impegnative sessioni live a supporto di Tales From Topographic Oceans, Jon Anderson ad un tratto si gira verso il set delle tastiere ed interrompendo la canzone esclama: "Non posso crederci, sta veramente mangiando del curry!" Mentre Jon canta davanti ad una folla in delirio, il Gandalf delle tastiere sta mettendo in atto l'ennesima ribellione. Comodo comodo di fronte all'imponente castello di tastiere, dove ti aspetti di trovare spartiti (o al massimo una birra ed i risultati delle corse ?), il biondo tastierista si sta divorando la cena, un saporitissimo curry di pollo. Forse era una provocazione alla dieta vegetariana di Howe e Anderson, o più probabilmente era la naturale risposta ad uno stress ormai giunto ai massimi livelli. Solo qualche anno dopo Rick Wakeman ha dato una spiegazione logica riguardo il divertente (o irritante, dipende dai punti di vista) episodio. Free Trade Hall di Manchester, il volto di Wakeman non nasconde di certo la sua infelicità durante le esecuzione live dei brani di Tales. Non ricorda bene il titolo (?), ma è sicuro che le parti di tastiera non erano eccessivamente complicate. Dopo aver scolato cinque pinte di birra, si rivolge al suo assistente delle tastiere John Cleary, dicendogli che a fine serata se ne andranno a farsi un saporito curry. Nel frastuono della musica, il fido lacchè percepisce solamente la parola "curry". Dopo qualche minuto, il buon John Cleary si presenta con un pollo al curry, qualche focaccina ed una cipolla bhanji. L'annoiato Wakeman non poteva certo esimersi dal divorare tale bontà e appoggiando il vassoio sull'organo, iniziò a consumare la lauta cena. Quando si avvicinò un esterrefatto Anderson, gli offrì gentilmente una focaccina. Forse questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, portando ad una inevitabile separazione fra Rick Wakeman e gli Yes. Ma ritorniamo al disco: secondo Jon Anderson le impegnative composizioni avrebbero dovute essere registrate immersi nella natura, magari in mezzo ad una foresta, viste anche le tematiche delle liriche molto filosofiche ed incentrate su Madre Terra ed i rituali della vita. Il resto della band gli rispose in coro: "Jon, riprenditi!". Ridimensionandosi, Jon si sarebbe accontentato di registrare in campagna, con Rick Wakeman dalla sua parte, mentre Chris e Steve pretendevano che le registrazioni avvenissero in città, Alan, da buon ultimo arrivato, non aveva preferenze particolari. Alla fine, fu decisa la sede per le registrazioni, i Morgan Studios Di Willesden, nel North London. In occasione del primo giorno delle sessioni di registrazioni, Rick Wakeman si era recato agli studi con largo anticipo, per bere qualcosa al fornito bar. Ad un certo punto Monty Babson, co-fondatore degli studios, chiamò allarmato Wakeman, invitandolo a recarsi nella sala di registrazioni dedicata agli Yes. L'interno dello studio sembrava una vera e propria fattoria, c'erano staccionate e gli amplificatori erano poggiati su balle di fieno. C'era anche una mucca di cartone a grandezza naturale, con le mammelle che si muovevano grazie ad un comando elettrico. Fu il lo scherzoso Brian Lane ad allestire il tutto, in modo da soddisfare le esigenze di Jon Anderson che voleva registrare presso una fattoria. Questo curioso aneddoto viene ricordato anche da sua maestà Ozzy Osbourne, che in quel periodo era impegnato presso i medesimi studios, per le registrazioni di Sabbath Bloody Sabbath, album che fra l'altro vede come ospite alle tastiere Rick Wakeman in Sabbra Cadabra. Alla fine delle estenuanti sessioni di registrazione, l'album venne alla luce il 14 Dicembre del 1973 per il mercato inglese, mentre gli stati Uniti dovettero attendere il 9 Gennaio dell'anno successivo. Il tutto sotto la produzione di Eddy Offord e degli stessi Yes, distribuito ovviamente dalla Atlantic. Nonostante la critica avesse pesantemente stroncato Tales From Topographic Oceans, l'album si piazzò alla prima posizione in patria e raggiunse una dignitosa sesta posizione negli Stati Uniti, ottenendo in entrambi i casi il disco d'oro. L'album si segnala anche per una delle copertine più belle della storia del rock. La lussuosa copertina apribile, disegnata e illustrata da Roger Dean, vede come sfondo principale un paesaggio roccioso, sotto un oscuro cielo stellato. Sulle rocce di sinistra scende giù una rigogliosa cascata, mentre al centro vi è raffigurata una piramide azteca illuminata dal Sole al tramonto, fortemente voluta da Jon Anderson. In alto il colorato titolo dell'album viene proposto con i caratteristici ed inconfondibili caratteri del leggendario logo Yes, ideato dallo stesso Roger Dean. Sul proseguo della copertina, sempre in uno scenario caratterizzato dalle inconfondibili rocce, nel vuoto nuotano alcuni pesci variopinti. Se siete in possesso dello splendido libro Views, che raccoglie le maggiori opere di Roger Dean, potete scorgere sottili differenze fra il disegno originale ideato da Roger Dean e il risultato finale della copertina del Long Playing. Sugli scudi di questo controverso album, non poteva che ergersi Jon Anderson, ideatore e protagonista principale su tutto il disco. Jon è notevole anche sotto il punto di vista delle liriche, spesso prolisse, ma piene di messaggi mistici e filosofici. Wakeman sperimenta nuovi pad spaziali, dispensando avvolgenti atmosfere e non eccedendo in virtuosismi esasperati. Steve Howe ci delizia con pregevoli intarsi di chitarra e torna a sorprenderci con la chitarra acustica. Chris Squire è stranamente meno invadente rispetto ai precedenti dischi, pesa come un macigno l'assenza dei fragorosi groove di basso sporcati dal distorsore che offuscano tutti gli altri strumenti. Il nuovo arrivato Alan White si conferma un degno sostituto di Bill Bruford, aggiungendo un po' di energia alle raffinate ritmiche richiesta da Jon Anderson e compagnia cantante. Tirando le somme, Tales From Topographic Oceans è un album difficile da digerire, un'opera frammentaria, brillante nei particolari e con molti spunti interessanti, stenta però a decollare a causa del dilungamento di alcune parti, faticando ad arrivare al punto. Sulla tecnica non si discute, mentre in fase di produzione sarebbero stati necessari alcuni accorgimenti, specie sulla durata di alcune singole parti. Grazie alla discreta traccia di apertura e alla bellissima Ritual, merita comunque ampiamente la sufficienza.
2) The Remebering (High The Memory)
3) The Ancient (Giants Under the Sun)
4) Ritual (Nous Sommes Du Soleil)