YES
Heaven & Earth
2014 - Frontiers Records
SANDRO NEMESI PISTOLESI
04/06/2016
Introduzione Recensione
Il precedente "Fly From Here", si era rivelato una gradita sorpresa, mettendo d'accordo gran parte dei fans, che troppo spesso nel corso degli anni si sono trovati di fronte ad album alquanto controversi. I più felici saranno sati senza ombra di dubbio i vecchi "phanters", ovvero quelli che come me, amano alla follia il controverso "Drama". Ma l'album è stato ben accolto anche da tutti coloro che ormai erano stufi delle molteplici escursioni nel campo dell'AOR da parte di Squire e compagni. Con il clamoroso ritorno di Geoff Downes alle tastiere e del produttore Trevor Horn, gli Yes hanno presentato al pubblico il loro nuovo frontman, il carneade Benoît David, che perlomeno in studio, si era disimpegnato egregiamente. Ma i problemi sono iniziati a manifestarsi durante il "Fly From Here Tour", novanta date tra il 4 luglio 2011 e il 21 agosto 2012, con due tappe italiane. Il sottoscritto era in prima fila nella data del 24 Novembre 2011 al Teatro Smeraldo di Milano, ed ho potuto constatare, come presumo gran parte della platea, che il nuovo frontman canadese non era all'altezza del rimpianto Santone Di Accrington. Ovviamente, il nostro si comportò in maniera più che dignitosa sui durante l'esecuzione dei brani di "Fly From Here", ma trovò enormi difficoltà nell'interpretare quelli del vecchio repertorio, con un Chris Squire costretto a fare gli straordinari, dando una grossa mano alla seconda voce, che praticamente dopo pochi minuti, si era trasformata nella prima. Ma i problemi purtroppo, non erano solo di natura tecnica. Gli Yes furono costretti ad annullare le ultime tre date del tour europeo, a causa di gravi problemi di salute accusati da Benoît David. Tornato in Canada, il dottore dello sfortunato cantante, sconsigliò di proseguire il tour, che prevedeva altre 12 date fra Asia e Oceania e 29 in Nord America, in modo da non creare ulteriori danni alla voce. Con rammarico, comunicò la triste notizia a Squire e compagni, e di comune accordo, fu deciso di trovare un sostituto ad interim per le date primaverili in Asia e Oceania. Il prescelto fu tale Jon Davison, bassista degli Sky Cries Mary e vocalist dei Glass Hammer. Con la convalescenza che si protraeva troppo per le lunghe, il povero Benoît David venne a sapere dalla stampa, in maniera alquanto esecrabile, che aveva abbandonato definitivamente gli Yes e che dal febbraio 2012, il nuovo cantante era Jon Davison. Questa, perlomeno, è la versione ufficiale rilasciata alla stampa dal Cantante Canadese. Andiamo ora a conoscere più da vicino il sedicesimo membro degli Yes, consigliato dal batterista dei Foo Fighter Taylor Hawkins, amico di Chris Squire e amico d'infanzia di Jon Davison. Il buon Taylor, fautore del soprannome "Juano", da anni caldeggiava un ingresso dell'amico Jon negli Yes, in quanto lo vedeva il sostituto ideale di Jon Anderson. Il nostro nasce il 16 gennaio 1971 a Laguna Beach, in California. Ad avvicinarlo alla musica è la madre, che lo inserisce nel coro della chiesa da lei diretto, visto che sin dalla tenera età aveva dimostrato un'ottima attitudine verso il canto e la musica. Dal coro ad imparare a suonare basso e chitarra, il passo fu breve. Durante le scuole superiori, suona in alcune giovani band locali, assieme all'amico di sempre Taylor Hawkins. Successivamente frequenta l'Art Institute of Seattle, dove studia produzione audio e video. Nel 1993, entra a far parte degli Sky Cries Mary, dove ricopre il ruolo di bassista e viene accreditato con il nome Juano Davison. In contemporanea, è anche il cantante dei Roundabout, tribute band degli Yes. Proprio grazie alle performance live con il gruppo, attira l'attenzione dei Glass Hammer, che lo reclutano come cantante. Poi l'inattesa chiamata degli Yes, a Febbraio 2012, che da una sostituzione ad interim si trasforma magicamente nell'ingresso ufficiale nella band che da sempre aveva amato, coronando un sogno destinato a pochi eletti. Una volta terminato lo sfortunato tour di "Fly From Here", gli Yes si mettono a lavorare su nuovo materiale in studio, che andrà a formare la track list di "Heaven & Earth (Cielo & Terra)", il ventunesimo album in studio degli Yes (o ventiduesimo, per chi come me, considera "ABWH" un album degli Yes a tutti gli effetti). Il nuovo arrivato si dimostra ben integrato e partecipa in maniera considerevole al songwriting del nuovo album, che purtroppo vede emergere melliflue sonorità easy listening sull'ormai quasi estinta anima progressive degli anni settanta. In una intervista, Steve Howe ha dichiarato che il titolo "Heaven & Earth (Cielo & Terra)", è stato scelto per evidenziare l'atavico dualismo fra il noto e l'ignoto. Hanno cercato due parole agli estremi, che potevano anche essere "Bene e Male", Yin e Yang, "Destra e Sinistra". Nella fattispecie, la Terra è un luogo fisico e tangibile, mentre il Cielo è un luogo sconosciuto, infinito, che può ospitare altre forme di vita, per chi crede nella scienza oppure il Paradiso per chi è legato ad una fede cattolica. Una cosa è certa e mette tutti d'accordo: là fuori, c'è qualcosa che non conosciamo. La copertina, made in Roger Dean, è di quelle ammalianti che ti portano ad acquistare un CD a scatola chiusa, quindi andiamo a scoprire se le nuove sinfonie degli Yes tengono testa alla bellezza della nuova opera dei Fratelli Dean.
Believe Again
Sin dalle prime note della traccia che apre il platter, intitolata "Believe Again (Credi di nuovo)", si capisce che siamo di fronte ad un album leggero, rilassante e raffinato. Si tratta di un brano di estrema dolcezza e gran classe, forse un po' troppo lungo per come è strutturato, nato dalla collaborazione di Steve Howe e Jon Davison. Ascoltando il festoso intreccio fra la chitarra di Steve Howe e la tastiera di Geoffrey Downes si ha l'idea di essere di fronte ad un brano degli Asia. Alan White fa il minimo indispensabile, Chris Squire si limita a profonde pennate seguendo i passi della gran cassa. Al minuto 00:27 abbiamo il piacere di conoscere il nuovo arrivato Jon Davison, che entra immediatamente in scena con disinvoltura, non curandosi del fantasma di Jon Anderson, che inevitabilmente aleggia alle sue spalle. Nelle prime strofe, dove predominano le melliflue tastiere di Geoffrey Downes, il nostro canta in maniera solare, avvicinandosi non poco allo stile del Santone Di Accrington. Breve stacco strumentale, con le tastiere protagoniste e si continua. Nell'effimero bridge, Alan White esegue una pacatissima corsa sulle pelli, che apre le porte al ritornello, dove il nuovo arrivato, sembra un vero e proprio clone di Jon Anderson. La dolcissima e solare linea vocale si imprime subito nella nostra mente, forte anche del raffinato lavoro degli strumenti, che puntano a valorizzare il cantato. Basso e chitarra si intrecciano con delicatezza, Downes stende un accogliente tappeto di tastiera con il quale il nuovo arrivato va a nozze. Ritorna la strofa, con qualche piccola variazione, seguita dal bridge e dal ritornello, che ormai siamo già in grado di ricanticchiare. A seguire troviamo un oscuro interludio strumentale. Il ridondante basso stoppato viene armonizzato dagli spaziali accordi di tastiera, che in crescendo annunciano l'assolo di chitarra. Finalmente Steve Howe si fa sentire, con una serie delle sue inconfondibili trame, a cui va ad intrecciarsi il basso. Dopo una prolungata esecuzione, Steve Howe viene attaccato da funamboliche fiammate di tastiera che ricordano molto da vicino quelle di un altro ex di lusso, Rick Wakeman. Su questo epico interludio strumentale, anche Alan White si fa leggermente più incisivo. Enigmatico break stoppato e poi ritornano le sognanti tastiere della strofa, seguita dal breve bridge e dal melodico ritornello. Arriva lo special, che vede ancora protagonista Geoffrey Downes, con nostalgici passaggi dal piacevole retrogusto ottantiano. Jon Davison segue la strada spianata dalle tastiere. Con un raffinatissimo climax, i nostri ci accompagnano verso un secondo assolo di chitarra. Stavolta il buon vecchio Steve la butta sul melodico, andando a riprendere con dolcissimi fraseggi, i temi portanti del brano e spinando la strada ad un fugace ritorno dell'inciso, che ci porta verso l'estinzione del brano. A leggere queste prime liriche, continuano le affinità fra Jon Davison e Jon Anderson, infatti, oltre ad avere il medesimo nome ed un modo di cantare che molto si avvicina all'inconfondibile stile del Santone Di Accrington, il nostro lo ricorda abbastanza anche nella stesura dei testi, mixando fede, spiritualismo e amore con profonde licenze poetiche. Gran parte del genere umano sembra aver smarrito per strada alcuni dei suoi valori che hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nel lungo cammino attraverso il secoli, valori come la fede, l'amore, il rispetto. E allora è venuta l'ora di ricominciare a credere in qualcosa, a credere nell'amore, in modo da poter ritrovare la nostra coscienza, ormai alla deriva. Con la forza della fede è possibile riuscire a scalare impervie montagne apparentemente insormontabili, in modo da trasformare in giusto ciò che è sbagliato.
The Game
Andando avanti incontriamo "The Game (Il Gioco)", ottimo brano d'atmosfera scritto da Squire e Davison, in collaborazione con il tastierista Gerard Johnson, brano che si ricollega molto da vicino alle sonorità del precedente "Fly From Here". Steve Howe torna ad impossessarsi della Fender lap steel guitar, i melliflui fraseggi si intrecciano con un paradisiaco pad di tastiera, generando una densa ed avvolgente atmosfera, dalla quale emerge un ammaliante pianoforte che ci conquista all'istante. Chris Squire ritma con un sottile tappeto di sedicesime, annunciando uno spaziale pad di tastiera, forse troppo invadente, che quasi oscura le bellissime trame del pianoforte. Downes accompagna magistralmente Jon Davison, che conferma le teorie di Taylor Hawkins, ovvero che da sempre lo vedeva come il sostituto naturale di Jon Anderson. Dopo questa versione soft dell'inciso, dove si paventa anche un simpatico coretto vintage, arriva la strofa. Alan White finalmente si fa notare con un tempo brioso, rafforzato dai pungenti fraseggi del basso. Jon Davison, si appoggia sui paradisiaci pad di tastiera, conquistandoci con una interessante linea vocale che si lascia dietro un alone di mistero. Steve Howe esegue raffinati intarsi dal suono cristallino. Nel bridge, il basso torna a pompare, Jon Davison aggiunge un po' di peperoncino al cantato, ricamato da una suggestiva armonia vocale. Alan White con una serie di rullate apre le porte all'inciso, che stavolta si presenta nelle sue vesti naturali. Chris Squire fa ruggire le quattro corde, la dolce linea vocale di Davison si intreccia con sognanti coretti vintage ed avvolgenti armonie vocali. Arriva lo special, di notevole impatto, uno scolastico cambio di tono che grida forte anni ottanta. Le tastiere di Downes riecheggiano ancora in un piacevole Asia style, ricamate dai cristallini arpeggi di chitarra e da pungenti fraseggi di basso. Ritorna il bridge che con grinta apre le porte all'assolo di chitarra. Le melodiche trame della sei corde ci portano dritte verso l'inciso, dove Steve Howe esegue i suoi classici ricami funambolici. Al minuto 03:33, la sezione ritmica si prende una pausa, lasciando il campo a Steve Howe e Geoffrey Downes, le vellutate trame della lap steel guitar si intrecciano magicamente con le dense nebbie che emergono dal castello di tastiere. Una rullata smorzata annuncia il ritorno della strofa, seguita a ruota dal bridge, impreziosito da un funambolico fraseggio di chitarra che anticipa il sognante ritornello, dove emerge un bel tappeto di basso leggermente sporcato dagli effetti a pedale. Sulle le ali dell'inciso, Steve Howe inizia a tessere una intricata trama di note che ci accompagna piacevolmente verso il finale, facendosi largo fra i sognanti coretti vintage, che lentamente in fader ci abbandonano, lasciandoci più che soddisfatti. Le liriche sono molto ripetitive, e giocano su una serie di versi che vengono ripetuti più volte. Il "Gioco" è quello della vita, e se sfruttiamo l'amore durante il trascorrere dei giorni, avremo molte possibilità di aggiudicarci la partita. Con l'amore riusciremo ad illuminare qui giorni grigi difficili da portare a termine. Quando giungeremo al traguardo, raccoglieremo ciò che abbiamo seminato.
Step Beyond
La successiva "Step Beyond (Un passo al di là)" è il punto più basso del platter, una sorta di spensierata ballata folk che fa leva su un irridente synth wakemaniano che spostandosi sulle toniche in maniera ridondante, costruisce la base portante della strofa. Con l'avvento del clone di Jon Anderson, tornano le armonie vocali ed i controcanti, da tempo marchio di fabbrica degli Yes. L'insistenza del pungente riff di synth, ci porta quasi ad odiarlo. Chris Squire tesse una omogenea linea di basso, dando un senso alla inconsistente ritmica di un poco ispirato Alan White. Per fortuna, al minuto 01:13, irrompe Steve Howe (che ha firmato il brano assieme a Jon Davison) con un grintoso riff di chitarra, che perlomeno momentaneamente toglie dalla nostra mente l'insistente tema di tastiera. Dopo alcuni colpi stoppati, arriva il bridge, sempre eseguito dalla solare armonia vocale, che si fa largo fra la vischiosa ragnatela di note sparate dalla chitarra. Purtroppo per noi, insieme all'inciso ritorna anche Geoff Downes a tediarci con il synth, riproponendo più o meno lo stesso tema della strofa. Nella seconda parte del ritornello per fortuna il nostro cambia il leitmotiv e stende un suggestivo tappeto di organo, accompagnato da una solare ritmica reggaeggiante. Breve stacco con una paradisiaca tastiera in evidenza e poi ritorna la strofa, e con lei purtroppo anche l'ormai fastidioso tema di synth. Stavolta l'armonia vocale è sostituita da un timido assolo di chitarra, che va ad attorcigliarsi alle trame della tastiera. Andando avanti incontriamo una versione alternativa della strofa, cori e armonie vocali sono accompagnate da un solare strumming di chitarra e da uno rilassante pad di tastiera. Geoff Downes decide che è il momento di riprendere la tortura. Per fortuna, dopo qualche secondo si cambia di nuovo, ritorna Steve Howe a farci respirare una boccata d'ossigeno, con acide trame di chitarra, fino al ritorno dell'inciso, dove si materializza nuovamente il nostro incubo. Con aria spensierata i nostri giocano intorno al titolo del brano, sfruttando la notevole abilità nel confezionare armonie vocali e controcanti che ormai li caratterizza si dagli esordi. Con una graduale e lenta estinzione, le sognanti tastiere di Mr. Downes ci accompagno finalmente verso la fine del brano, che insieme a "Circus Of Heaven" e "I'm Running" si candida come peggiore brano degli Yes. Veniamo alla parte lirica del brano, sicuramente più interessante di quella musicale. Il nostro affronta in maniera positiva il problema della morte, quando dovremo fare l'ultimo nostro passo verso l'aldilà. Nell'universo, tutto è destinato ad avere una fine, per un Sole che nasce, c'è una Luna che muore, anche noi, una volta raggiunto il culmine della collina, torneremo a far parte della Terra che ci ha generati, lasciando il posto a nuove creature. E' per questo che dobbiamo sforzarci di vivere al meglio ogni singolo giorno della nostra vita, cercando di dare e ricevere amore, l'unica arma che abbiamo a disposizione per proseguire in maniera dignitosa la tortuosa strada della vita, l'amore e la gioia ci portano verso la libertà. Bisogna aprire la nostra mente in modo da accettare che ogni cosa ha una fine, in modo da affrontare in maniera positiva anche i momenti più bui.
To Ascend
Il brano successivo, porta la firma di Alan White e del nuovo arrivato, che a quanto pare si è ben integrato all'interno degli Yes, mettendo la firma in ben sette tracce su otto. "To Ascend (Per Ascendere)" è una melliflua ballata dal sapore beatlesiano, che a tratti ci rammenta "Onward", uno dei migliori punti del controverso "Tormato". Steve Howe apre il brano con un melanconico e cristallino arpeggio di chitarra acustica, ricamato da pungenti fraseggi di basso. Ma a conquistarci è il nuovo arrivato, con una dolcissima ed ammaliante linea vocale. Lentamente si materializza un celestiale pad di tastiera, che si fa più presente nella strofa successiva, dove l'arpeggio viene sostituito da uno stanco strumming di chitarra, che accompagna il Cantastorie di Laguna Beach, il quale, man mano passa il tempo, più ci convince. Il nostro con maestria, appoggiandosi su un incisivo fraseggio di basso, ci porta verso il dolcissimo inciso, dove si adagia fin troppo facilmente selle bellissime trame degli strumenti. Geoff Downes domina con bellissime sinfonie orchestrali, instaurando un bellissimo duello con Chris Squire ed i suoi fragorosi fraseggi di basso, mentre Howe fa da spettatore, continuando con il blando strumming. Con l'avvento dello special, entra in scena anche Alan White, con una spensierata ritmica che insieme alle mielose armonie vocali rafforza le atmosfere beatlesiane. I nostri accompagnano dolcemente Jon Davison cantando all'unisono, dando il senso di un vero inno alla gioia. Andando avanti incontriamo un avvolgente limbo, dove le trame della chitarra si attorcigliano ad un bellissimo tema di pianoforte dall'aria classicheggiante. Breve stacco strumentale con le tristi trame orchestrali che si fondono con il cristallino arpeggio di chitarra ed i fraseggi di Mr. Squire, poi ritorna la strofa, seguita dal bellissimo inciso, fra i migliori momenti del platter, grazie ad una riuscita linea vocale che si sposa alla perfezione con le raffinate trame degli strumenti. A sorpresa ritorna lo special che rievoca i Fab Four, spezzato proprio in mezzo da un avvolgente limbo, dove fa una fugace comparsa il classicheggiante tema di pianoforte. Il gran finale è nelle mani di Geoff Downes, che con una struggente ed effimera parte orchestrale va a concludere questo dolcissimo e ottimo brano. Jon Davison continua a trascrivere versi pieni di spiritualità che emanano positività, facendo leva su interessanti e raffinate licenze poetiche. Se ci troviamo alla deriva, lontani dalla retta via, in precario equilibrio sul filo del rasoio, bisogna fare forza su noi stessi, puntando sulla fede e sull'amore, impugnare saldamente una penna e riscrivere le pagine della nostra vita, cercando di concludere con un lieto finale, volando liberi nel cielo, leggiadri e liberi come un uccello che si è ripreso da una ferita che gli impediva di volare. Basta salire su treni che portano verso il nulla, spazziamo via le ombre oscure dalla nostra mente, e viviamo in maniera positiva la nostra vita, riscoprendo la magia dell'amore.
In A World Of Our Own
Se nel brano appena ascoltato, le influenze dei Fab Four facevano capolino, nella successiva "In A World Of Our Own (In Un Mondo Tutto Nostro)" si manifestano in maniera ancora più pronunciata. E' Alan White ad aprire il brano in completa solitudine, seguito a ruota da un enigmatico tema di pianoforte, a cui fa il verso Steve Howe con la chitarra. Inizia a manifestarsi un martellante e ridondante accordo di pianoforte, mentre Squire fa ruggire in maniera fragoroso il suo Rickenbacker. Al blueseggiante tema della chitarra, risponde Geoff Downes per le rime, con un brillante passaggio di tastiera molto simile all'inconfondibile suono dello xilofono. In questa prima strofa, pur non sforzandosi ad emularlo, Jon Davison assomiglia in maniera impressionate all'omonimo Anderson. La blueseggiante strofa, dove spicca l'ossessivo e sferragliante pianoforte che ricorda gli sgangherati honky-tonk del Far West, viene spezzata in due da un acido fraseggio di chitarra. Arriva il bridge, con la sua spensierata atmosfera sessantiana, dove Lennon e compagni emergono prepotentemente. Fra armonie vocali e controcanti d'altri tempi, i nostri con classe ci portano verso il solare inciso, dove fra gli accordi distorti emerge un ammaliante controcanto vintage di Chris Squire, che ha firmato il brano assieme all'onnipresente Davison. Arriva l'assolo di chitarra che gioca intorno ad una melodica scala, appoggiandosi sulla ritmica dai sentori blues e sempre accompagnato dall'ossessivo pianoforte Old West. Ritorna la strofa, Joe Davison si lascia dietro una scia di mistero, ricamato di tanto in tanto da celestiali cori dal sapore retrò e da funambolici fraseggi di chitarra dal saturi di note blue. A seguire il bridge in modalità Beatles, poi gli accordi distorti annunciano nuovamente il ritornello, che vede ancora protagonista l'ammaliante coro di Squire, che instaura un suggestivo botta e risposta con Jon Davison. Lentamente prende vita un fragoroso unisono fra basso, chitarra e organo, dove fanno alcune fugaci comparse coretti e armonie vocali, alternandosi con funambolici fraseggi di chitarra, che alla seconda apparizione prendono le sembianze di un vero e proprio assolo dall'aria stralunata, che sul finale va a rievocare le sonorità dei tempi d'oro. Il controcanto di Squire annuncia il ritorno dell'inciso, dove i compositori del brano dialogano a lungo, ricamati da cori e controcanti. Fugace apparizione del bridge e poi si continua con l'inciso. Proprio sul più bello, si paventa una grintosa progressione di accordi distorti che bruscamente vanno a concludere il brano. Stavolta Davison sembra essere di fronte ad una scottante rottura di un rapporto di coppia, lui non riconosce più la sua amata, che lo ha lasciato, a causa di un ego più grande di lei. Lui sogna di tornare insieme come una volta, a continuare a vivere un mondo tutto loro, la invita di smetterla di giocare a fare il Dio, a smetterla di stuzzicare il proprio appetito, vivendo in un mondo tutto suo, la invita a far cessare la grigia pioggia che lo accompagna, rattristando ogni singolo giorno.
Light Of The Ages
Dopo questo brano che si lascia dietro una buona dose di perplessità, è il turno di "Light Of The Ages (Luce dei Secoli)", brano che porta la firma del solo Jon Davison, e paradossalmente è la traccia più progressive del platter, che rievoca in qualche maniera i vecchi trascorsi del gruppo. Il brano è aperto da Geoff Downes, con uno scampanellante tema di tastiera, accompagnato da un pad di archi e dalle magie di Alan White sul charleston. Steve Howe torna dietro la Fender lap steel ed inizia una serie di struggenti ricami, i filler di White e le profonde pennate di Squire rendono ancora più suggestiva l'atmosfera. A tratti, i melliflui fraseggi di chitarra rievocano le emozionanti atmosfere di "Brother Of Mine". Dopo questa lunga ed emozionante introduzione, al minuto 01:42, Jon Davison impugna la chitarra acustica e con un blando strumming attacca a sorpresa con l'inciso, che rievoca in maniera incredibile le barocche atmosfere dei primissimi Yes. Il nostro, ricamato da delicati tocchi di pianoforte e di chitarra, ci conquista con una melliflua linea vocale. Breve stacco strumentale, dove emergono i lamenti della lap steel guitar e si cambia di nuovo. Geoff Downes attira la nostra attenzione con un enigmatico giro di pianoforte, accompagnato da stanchi accordi di chitarra acustica e da raffinati tocchi sul ride. Dopo alcune battute, Alan White entra con un tempo sincopato, accompagnato da fragorose pennate di basso che quasi oscurano le bellissime trame del Biondo Tastierista Di Stockport. I raffinatissimi fraseggi di chitarra si librano nell'aria, ricordando leggiadri voli di insetti durante una calda giornata primaverile. Jon Davison sale in alto, con una linea vocale dal sapore epico, in questa insolita strofa dalle arcane atmosfere. Un effimero bridge con i lamenti della chitarra che dialogano con Davison e poi ritorna la strofa. Andando avanti, incontriamo nuovamente il bridge, che stavolta ci porta dritti verso l'inciso, dove stavolta la sezione ritmica entra a pieno regime, i profondi fraseggi di basso ci arrivano fino allo stomaco. Andando avanti, troviamo nuovamente il bridge, che stavolta ci viene proposto in una versione più estesa, andando poi ad annunciare il ritorno della strofa, dove stavolta il misterioso riff di pianoforte viene imitato da una spettrale tastiera. Al minuto 05:00, Downes ruba la scena con un solitario e melanconico tema di pianoforte, successivamente imitato dai lamenti della chitarra. Dopo alcune battute pianoforte e chitarra intrecciano magicamente le loro trame, poi un nostalgico tappeto di organo annuncia il ritorno dell'inciso, che ci accompagna lentamente verso il finale, alternando armonie vocali e fraseggi di chitarra con l'effimero bridge. Sul finire, Squire spadroneggia con fragorosi fraseggi di basso, sporcati dagli effetti a pedale. Con classe, i nostri, fra tristi lamenti di chitarra e armonie vocali, ci accompagnano verso una lenta estinzione del brano, che si candida prepotentemente come migliore del platter. La luce dei secoli è quella stella luminosa che da sempre guida il cammino della razza umana, illuminando la coscienza dell'uomo e mostrando la migliore strada da prendere e fornendo il coraggio per andare avanti. Nei momenti peggiori e bui della nostra vita, quando tutto sembra essere perduto e il dolore e la paura ci tormentano, bisogna ritrovare la luce, che riporterà in noi grazia e misericordia, trasformando le nostre paure e il nostro dolore in un brutto sogno. Il Poeta Di Laguna Beach, quando è avvolto dall'oscurità, per ritrovare se stesso inizia a curare il suono primordiale. Secondo l'antico sciamanesimo druidico la musica rappresentava una qualità della Natura che si manifestava in maniera invisibile, ma che tuttavia stimolava un potere creativo sull'uomo. Un potere che secondo i druidi non agiva solo sulla mente degli individui, ma poteva addirittura aver agito, all'inizio dei tempi, anche nei confronti di tutto quanto esisteva, dalle foreste al cielo stellato. Gli sciamani ritenevano infatti che la Natura manifestasse attraverso la musica un profondo e segreto messaggio che poteva portare alla conoscenza dell'origine e della natura reale dell'Universo.
It Was All We Knew
La successiva "It Was All We Knew (Era Tutto Ciò Che Sapevamo)" è una breve e spensierata ballata dal sapore folk. Il brano, che porta la firma del solo Steve Howe, non è certamente di quelli che lasciano il segno, e di cui sinceramente si poteva fare a meno. Sin dalle prime battute, il brano ci ricorda molto più da vicino i primi lavori da solista del Maestro di Holloway, piuttosto che una nuova traccia degli Yes. Si parte con un filler di batteria d'altri tempi, seguito a ruota da un festoso e sferragliante strumming di chitarra acustica, successivamente oscurato dalle fragorose note del basso, a mio avviso un po' altino, ma si sa, a Squire è sempre piaciuto emergere in più di un'occasione. Successivamente Steve Howe spara il tema portante, un brioso fraseggio dal retrogusto vintage che sprizza gioia da tutti i pori. A dire il vero il main theme non sfigurerebbe in un jingle pubblicitario, ma risulta alquanto banale per un brano di mostri sacri del rock come i nostri. Andando avanti incontriamo la strofa, cantata con una solare armonia vocale, dove di tanto in tanto, Steve Howe ricama con raffinati intarsi di chitarra. Arriva l'inciso, dove l'armonia vocale segue la strada aperta dal festoso riff di chitarra sentito nei primi secondi del brano. Improvvisamente irrompe un grintoso passaggio settantiano all'unisono che si sposta sulle toniche, facendo da bridge al ritorno della strofa, seguita da un raffinato assolo di chitarra, indubbiamente il migliore momento di questa insulsa traccia. Steve Howe con classe va a riallacciarsi all'inciso, dove il dozzinale riff di chitarra inizia a venirci a noia. I nostri giocano fin troppo intorno il main theme, arricchendolo con alcune piccole variazioni e dilungando con uno scolastico cambio di tono, sfruttando forse un po' troppo il banale riff di chitarra, sicuramente non fra i migliori partoriti da Steve Howe nella sua lunghissima e prestigiosa carriera. I nostri ci accompagnano lentamente verso il finale del brano, e vi assicuro che il riff di chitarra, per quanto banale, riecheggerà a lungo nelle vostre orecchie, come un vero e proprio tormentone estivo. Come la musica, anche le liriche risultano fra le meno profonde del platter, più che liriche sembrano una serie di versetti poetici che ripetendosi, sembrano voler rievocare la bellezza e la spensieratezza del secolo scorso, quando negli anni '80, la tecnologia non aveva ancora preso il sopravvento e lo spirito aveva ancora una certa importanza. L'uomo assaporava le bellezze della natura, il dolce nettare dei frutti, la magia delle lunghe giornate estive, quello era tutto ciò che sapevamo.
Subway Walls
Dopo il brano più breve del platter, i nostri vanno a chiudere con quello più lungo, "Subway Walls (Muri Metropolitani)", firmato da Jon Davison e Geoff Downes, il quale inizia con una emozionante trama orchestrale, che rievoca alcuni passaggi di musica classica, ricordando in qualche maniera l'epica "Desire", degli Asia targati John Payne. Dopo questa sinfonica introduzione, il nostro stende un rilassante tappeto di archi, seguito da una progressione di accordi di tastiera che grida anni '80. Come un ciclone irrompe il basso tellurico di Squire, con un brioso riff, successivamente imitato all'unisono da Steve Howe. Successivamente è ancora Chris Squire il protagonista, che si ricorda dei tempi d'oro di "Drama" e spara un grintoso ed articolato riff, seguito all'unisono dal compagno di sezione ritmica. i due sono i protagonisti assoluti nella strofa, Howe e Downes si limitano a raffinati accordi all'unisono dai sentori fusion, Jon Davison stavolta ricorda molto da vicino Trevor Horn. Una grintosa armonia vocale annuncia l'inciso, che ricorda molto il neo progressive degli anni 90 di Jadis e Chandelier. La sottile armonia vocale vien impreziosita da raffinati intarsi di tastiera e chitarra. Ritorna la strofa, con il tellurico riff di basso, stavolta seguito all'unisono dalla chitarra. Breve stacco drum&bass e ritorna il nostalgico inciso. Al minuto 04:10 rimane il solo Chris Squire, a massacrarci i timpani con il fragoroso Rickenbacker. Il nostro segue il tempo dettato dal vintage schioccare delle dita, poi il riff viene seguito in rapida successione da batteria, chitarra e tastiera. Dopo questo potente stacco all'unisono dal piacevole retrogusto settantiano, Geoff Downes rimane negli anni settanta e spara un nostalgico assolo di organo. Nella prima parte, Steve Howe lascia a Squire e White il compito di accompagnare il Lordiano assolo di organo, per poi unirsi ai compagni qualche battuta più avanti. I nostri continuano con le lisergiche atmosfere settantiane, stavolta è il turno dell'assolo di chitarra. Come in precedenza, nella prima parte rimangono solo basso e batteria, poi come un ciclone ritorna lo sporco organo a riempire gli spazi. Siamo avvolti da una spirale psichedelica di suoni che ci fa fare un lungo viaggio a ritroso del tempo, che culmina con il ritorno dell'inciso, le cui mielose atmosfere fanno a pugni con il precedente lungo e acido interludio strumentale. Dopo una versione soft dell'inciso, con la sezione ritmica a riposo, quando il brano sembra sfumare verso la fine, emerge un melanconico pianoforte che richiama tutti all'appello. Squire ci punge lo stomaco con profonde pennate, Davison con una linea vocale epica apre le porte al gran finale, dove inizia a manifestarsi il tema orchestrale sentito all'inizio del brano. Le sinfonie di Downes si intrecciano con le sognanti armonie vocali e gli epici fraseggi di chitarra, seguendo la cavalcata della sezione ritmica. Purtroppo il brano sfuma sul più bello, lasciando il campo ad un oscuro accordo di tastiera che sfuma lentamente in fader. Stavolta il Paroliere di Laguna Beach va alla ricerca delle origini della vita dell'uomo, cercando di scoprire quale fra le tante verità esposte, sia quella giusta, cercando di seguire la strada della metafisica. Forse la verità si cela nelle antiche scritte dei sacri monumenti sparsi nel Mondo, forse le stelle nel cielo hanno un significato e nascondono la verità, come i misteriosi graffiti che colorano i muri della metropolitana. In ogni caso, il Big Bang, rimane il più grande mistero insoluto che da sempre tormenta la mente dell'essere umano.
Conclusioni
"Heaven & Earth" è un disco che secondo il mio modesto e sindacabile parere, va ascoltato con attenzione. Sono sincero, da molti anni compro sempre a scatola chiusa e con entusiasmo un nuovo disco degli Yes, ma stavolta al primo ascolto l'ho trovato insignificante e piatto, non sono riuscito a percepire nessuna parvenza di emozioni o messaggi, i tempi d'oro erano lontani anni luce, ma anche la ventata di freschezza portata dal recente "Fly From Here" era un lontano ricordo, di conseguenza, erroneamente l'ho archiviato insieme ai sui predecessori, senza prestargli più attenzione. Non avevo individuato un brano degno di nota, di quelli che finiscono nel "best of" da portarsi in auto. Ora, a due anni di distanza, essendo arrivato con orgoglio all'ultima fatica degli Yes in studio da recensire, l'ho riascoltato con molta attenzione, rivalutandolo molto, e scoprendo con piacere almeno tre - quattro brani degni di nota. Chiaramente non si è magicamente trasformato in un capolavoro ed è sempre nettamente inferiore al suo predecessore, nonostante la performance del nuovo arrivato sia di altissimo livello. Ci sono un paio di brani o tre che invitano allo skipping, ma altrettante tracce interessanti, che se pur lontane dalle sinfonie del passato e stranamente più vicine agli Asia, mettono in mostra che i nostri sono sempre in buona forma e hanno ancora voglia di fare musica. Come accennato pochi istanti fa, Jon Davison va ad occupare il gradino più alto del podio, con una performance con i controfiocchi, riuscendo pur rimanendo nei suoi parametri, ad avvicinarsi molto all'ingombrante figura del Santone Di Accrington. Il nostro sembra essersi integrato a meraviglia nel gruppo, firmando le liriche e mettendo lo zampino su quasi tutte le tracce del platter. A differenza del suo predecessore, posso confermare che Jon Davison si disimpegna egregiamente anche in sede live, avendolo visto proprio in questi giorni durante il "Drama& Fragile Tour 2016". Il nostro è apparso pienamente a suo agio sia nelle parti dell'occhialuto Trevor Horn, sia in quelle del Santone Di Accrington, prendendosi anche alcune responsabilità, interpretando alla sua maniera alcune parti delle storiche linee vocali. Anche Steve Howe e Geoff Downes, se pur meno ispirati rispetto al passato, fanno un egregio lavoro, intrecciando magicamente le loro trame, spesso rievocando i tempi d'oro degli Asia. Il basso di Chris Squire è meno tellurico rispetto ai suoi standard, ma il nostro riesce pur sempre mettersi in evidenza. Purtroppo, questa sarà la sua ultima testimonianza in studio con gli Yes, R.I.P. Gigante Buono. Quello che è apparso sottotono e meno ispirato è Alan White, non so se a causa del peso dell'età che inizia a farsi sentire (teoria confermata dalle recenti prestazioni sotto tono in sede live), o semplicemente per esigenze stilistiche e di produzione, che vedono il prodotto finale molto easy listening e raffinato. "Heaven & Earth" è venuto alla luce il 16 Luglio del 2014, registrato fra il 6 Gennaio ed il 14 Marzo del medesimo anno, presso i Neptune Studios, siti in Los Angeles, California. La produzione è opera di Mr. Roy Thomas Baker, in passato produttore di Queen e The Cars, ma che ha firmato lavori anche di band hard rock, come Motley Crue, Dokken e The Darkness. In fase di mixaggio si rivede Billy Sherwood, che dopo neanche un anno, si ritroverà a dover rimpiazzare l'amico Chris Squire al basso, e dopo averlo potuto ammirare dal vivo, aggiungerei in maniera soddisfacente, quasi da sembrare impossessato dal fantasma del compianto Chris. Il disco è stato distribuito dalla nostra Frontiers Records, in un ammaliante digipack illustrato dal magistralmente da Roger Dean, puntando sulle sfumature che girano intorno ad un bellissimo ed ammaliante celeste confetto. In primo piano troviamo un classico isolotto Deaniano, con l'immancabile albero, dove su una vegetazione dove predomina il verde, spiccano alcune piante in rosso. Come sfondo abbiamo il mare, con un paio di iceberg, mentre l'albero, salendo, va a fondersi con una semisfera celeste, andando a rappresentare il Cielo in contrapposizione con la Terra. Stavolta il classico logo a bolla è presentato in una psichedelica veste zebrata. Le foto del booklet sono opera di Rob Shanahan. Veniamo or dunque alle conclusioni di rito, i malati del moniker Yes come me, ovviamente non hanno bisogno del mio invito a comprare il platter, mentre i nostalgici possono pure astenersi. Tirando le somme, siamo di fronte ad un prodotto raffinato, con pochi spunti di progressive e molte venature che tendono ad un AOR sì, ma di gran classe e quasi mai banale (fatta eccezione di un paio di tracce che ci invogliano a premere il fatidico tasto "skip") dove sovente emergono melliflue atmosfere e raffinati arrangiamenti. Premiando anche la lunghissima carriera della band, al ventiduesimo album in studio durante ben quarantadue anni di carriera, nonostante le sinfonie progressive siano ridotte ai minimi termini, non mi sento di bocciare l'album, album che dunque merita la piena sufficienza.
2) The Game
3) Step Beyond
4) To Ascend
5) In A World Of Our Own
6) Light Of The Ages
7) It Was All We Knew
8) Subway Walls