YES
Big Generator
1987 - Atco Records
SANDRO NEMESI PISTOLESI
26/11/2015
Introduzione Recensione
Il successo planetario di "90125" ha ricoperto nuovamente d'oro gli Yes. Grazie alle vendite del sorprendente album, sono venute magicamente a galla alcune vecchie royalties che ormai sembravano misteriosamente dissolte nei misteriosi e tortuosi meandri del mercato discografico. Dire che il tour a supporto di "90125" fu massacrante è un eufemismo. Praticamente gli Yes erano sopra un palco ogni giorno. Il tour ebbe inizio il 28 Febbraio del 1984 negli Stati Uniti, che vide gli Yes impegnati nel Nuovo Continente fino al 15 Maggio per ben 61 date, compresa una parentesi nel Canada. L' 11 Giugno i nostri partirono alla volta dell'Europa terminando il 26 Luglio, dopo ben 30 date. Ma in America non erano ancora sazi, e dopo una breve e dovuta pausa di quindici giorni, il 9 Agosto Squire e compagni intrapresero un secondo viaggio alla volta di Stati Uniti e Canada, che vide il termine il primo Ottobre del 1984 dopo altre 42 date. Il successo dei due tour statunitensi attirò l'attenzione del Sud America, che accolse gli Yes dal 17 Gennaio al 9 Febbraio del 1985 per le sei date conclusive dell'estenuante ma soddisfacente tour di "90125". Questa fu una delle tante cause che videro ritardare i lavori per l'album successivo. Gli Yes avevano comunque interessanti idee per il successore di "90125", e per tentare di bissarne il successo, chiamarono nuovamente Trevor Horn per la produzione, il quale era in cerca di suoni innovativi, per questo introdusse degli ottoni in fase di mixaggio e prenotò i suggestivi Lark Studios, che avevano sede in un castello a Carimate, in riva al Lago di Como, dove la batteria veniva registrata in un ampio salone e le chitarre in un'altra delle magiche stanze del maniero. Le registrazioni sarebbero poi dovute terminare presso Sarm & Aria di Londra, dove alla produzione si aggiunse Paul De Villiers, ma a questo punto il rapporto fra Horn e gli Yes iniziò a dare dei segni di cedimento. Il problema principale era il caos che regnava durante le composizioni, Rabin scriveva una cosa, Anderson l'opposto e Squire un'altra ancora, e non si trovava il verso di portare i brani a conclusione. Inoltre, già dai tempi dell'album precedente, Horn non era convinto di fare suonare le tastiere a Tony Kaye, un ottimo organista, ma che lasciava a desiderare come tastierista, spesso sovrastato dall'ingombrante figura di Trevor Rabin. Esausto dalle continue liti che non portavano a niente, Trevor Horn decise di abbandonare la produzione. E indovinate da chi fu sostituito? Trevor Rabin si sobbarcò anche degli oneri della produzione, trasferendo baracca e burattini presso gli Audio & Sunset Sound di Los Angeles. A monte di tale nervosismo c'erano le stesse ragioni che rendono nervosi noi comuni mortali, come problemi economici, relazioni interpersonali, lo stato di salute mentale e fisica. Solo che nel mondo delle rock stars queste problematiche vengono ampliate notevolmente. Jon Anderson e Chris Squire ruppero le loro rispettive relazioni di matrimonio, quest'ultimo si trasferì in pianta stabile a Los Angeles, iniziando a condurre una spericolata vita on the road, ogni giorno c'era l'occasione per partecipare ad un party, con le dovute conseguenze psico-fisiche. Nel frattempo, Jon Anderson iniziava a sentirsi ingabbiato alla corte di Re Rabin. Era costretto a svolgere il compitino del cantante, incassare l'assegno e a non fare storie. Jon Anderson non si divertiva a condurre quella vita schematica, lui amava la musica, la musica per lui era la vita ed era il sinonimo di divertimento, lui non era fatto per produrre canzoni pop per guadagnarsi il pane, lui era fatto per comporre ciò che gli veniva dal cuore e diffondere i suoi messaggi, come nei magici anni settanta. Alla fine del tour mondiale a supporto di "Big Generator", Jon Anderson lascerà nuovamente gli Yes, con in mente una suggestivo progetto che coinvolgerà dei vecchi amici, ma questa è un'altra storia ?. "Big Generator" è stato a dir poco traumatico per gli Yes, sia in fase di composizione che di produzione. Anche se ovviamente ci speravano, gli Yes sapevano che difficilmente avrebbero bissato l'incredibile successo del suo predecessore, decidendo comunque di mantenere il nuovo percorso musicale intrapreso, visti i soddisfacenti risultati commerciali ottenuti.
Rhythm Of Love
Il nuovo album si apre con uno dei brani di maggiore successo degli Yes negli Stati Uniti, l'ennesimo hook tirato fuori da Trevor Rabin, intitolato "Rhythm Of Love" (Trad. Ritmo dell'Amore) aperto da un paradisiaca atmosfera grazie all'intreccio delle sognanti tastiere con una melliflua armonia vocale. Un colpo sul rullante e poi via, Alan White parte con un potente 4/4 assieme al martellante basso di Chris Squire. Il tempo viene scandito dal cristallino suono del charleston che quasi sovrasta la chitarra. Una scala di basso annuncia l'ingresso di Jon Anderson, che come nell'album precedente si presenta con una bella linea vocale ed alcune frasi facilissime da memorizzare. La sezione ritmica ci trascina veloce verso il bridge, per poi fermarsi e lasciare il campo ad una bellissima armonia vocale quasi a cappella, che apre le porte all'inciso, dove tutti insieme i nostri urlano ai quattro venti il titolo del brano, alternandosi a graffianti riff di chitarra. Fa il suo ritorno la strofa, stranamente più gradevole del ritornello, come lo è del resto il sognante bridge che lo precede nuovamente. Il secondo chorus viene impreziosito da una appendice, che fa forza ancora una volta sulle armonie vocali, che nel finale duettano con l'organo di Mr. Kaye. Al minuto 03.14 troviamo un interessante break di chitarra, ricamato da potenti pennate di basso e squillanti tastiere. Andando avanti incontriamo un interludio, dove sognanti tastiere ospitano a turno Trevor Rabin, Chris Squire e Jon Anderson, che nell'ordine si alternano in un suggestivo intreccio di voci. E' il turno dell'assolo di chitarra che parte con un funambolico tapping in pieno stile metal, per poi prendere una piega più rockeggiante nel finale. La parte conclusiva del brano è un continuo alternarsi fra break chitarristici e variazioni sul tema del chorus. Il brano ha fatto da apripista all'album, ottenendo un ottimo successo negli Stati Uniti, mantenendosi per varie settimane nei quartieri alti della classifica. Trevor Rabin insiste sulla linea delle liriche d'amore dai sentori adolescenziali, che devo dire alla lunga lasciano qualche perplessità, per quanto mi riguarda sono la nemesi dei fantastici viaggi mistici ed onirici del poeta di Accrington. Si affronta l'ennesima delusione amorosa. Nonostante la rottura del legame amoroso, il fascino della donna in questione rimane congelato, sempre pronto a far riaccendere la scintilla. Il ritmo dell'amore ci porta dritti in un viaggio introspettivo all'interno della persona amata, scalando a fatica una scala che ci porta verso la soluzione del problema. Durante la notte, la delusione amorosa provoca una sorta di febbre, che al mattino si trasforma in fantastici voli pindarici che conducono tutti dritti al cuore della persona amata. Il brano viaggia sulla falsa riga di "Owner Of A Lonely Heart", strizzando un occhio al mercato, anche se il successo ottenuto non è paragonabile a quello di Owner.
Big Generator
E veniamo alla title track, "Big Generator" (Trad. Grande Creatore), aperta da una fastidiosa babele di armonie vocali che anticipa uno dei riff di chitarra più duri mai sfornati dagli Yes, addolcito dalle taglienti fiammate degli ottoni. Alan White pesta sul drum set come se volesse abbattere le mura del castello dove sono state registrate le parti di batteria. Una chitarra stoppata in Gilmour style ordina una brusca fermata. Le tastiere ingigantiscono l'atmosfera che sembra tenerci sospesi di fronte ad un precipizio, incantati dall'ingresso di Jon Anderson, che dopo averci deliziato con la strofa, con maestria annuncia l'anthemico chorus. Accompagnati dal potente 4/4, i nostri cantano tutti insieme il ritornello, in puro stile AOR, lontani anni luce dai fasti della fanteria dello spazio, e aggiungerei un inciso che non rimarrà alla storia come uno dei migliori sfornati da Squire e compagni. Gli ottoni imperversano e con un brioso crescendo ci riportano nel limbo sospeso dove aleggia l'angelica voce di Jon Anderson che prima duetta con gli ottoni, poi ci riporta alla strofa, senza alcun dubbio la parte migliore del brano. Ritorna l'inciso, dove gli ottoni vincono il duello con la chitarra, che successivamente provvede a farsi giustizia con uno stralunato assolo, acido, spigoloso, che ricorda vagamente quello di "Owner Of A Lonely Heart". L'assolo aveva interrotto il chorus, che dopo un brioso bridge ritorna nella sua seconda parte, con un crescendo che vede ancora protagonisti gli ottoni. Il finale è un continuo alternarsi fra il tema del chorus, break di chitarra, schiamazzi degli ottoni ed addirittura un breve stacco dal sapore funky. Purtroppo nel libretto illustrativo non sono specificati gli autori delle liriche, faccio quindi affidamento alla mia esperienza maturata recensendo i precedenti dischi degli Yes. In questo caso, ho la sensazione, ma non posso stabilirlo con certezza, che queste liriche siano opera di Jon Anderson. Si affrontano i misteri della vita, tutto parte da un Grande Creatore, che ha dato vita svariate razze e specie, ognuna dotata delle proprie peculiarità e delle proprie stranezze. Lui è ovunque ma non lo si può vedere, ha sempre le mani sulla ruota del destino, è lui che decide le sorti della sua progenie, a seconda se gira la ruota a destra o a sinistra. Tutto in noi è stato curato nei minimi particolari, spesso non ci pensiamo, ma se le analizziamo a fondo, ogni forma vivente presente sul pianeta Terra, è un capolavoro, dove ogni singolo componente ha il suo scopo ben precisato, dando origine all'affascinante mistero della vita, quel mistero che da sempre attanaglia la mente dell'essere umano.
Shoot High, Aim Low
Il brano ci riporta con la mente ai pesantissimi arrangiamenti di "Tormato", dove soluzioni in fase di arrangiamento al limite della sopportazione riescono a rovinare un brano dalle discrete potenzialità, come ad esempio gli invadenti schiamazzi degli ottoni, che al primo ascolto sorprendono ma alla lunga diventano fastidiosi e fuori luogo, per fortuna cancellati dalle avvolgenti atmosfere della successiva "Shoot High, Aim Low" (Trad. Spara in alto, punta in basso). Una bella corsa sui tom si fa largo in una caotica introduzione, spazzata poi via dal tempo sincopato di Mr. White. Tre misteriosi accordi di chitarra elettrica effettata anticipano le tastiere ed il basso, che con pungenti scale ricama il dialogo fra Jon Anderson e Trevor Rabin, che nella strofa danno vita ad un interessante gioco a due voci. Epiche tastiere annunciano l'inciso, che viene cantato a quattro voci dai nostri e rafforzato da un bel pad di organo. Nella seconda parte del ritornello, spaziali tastiere donano un'atmosfera dai sentori nostalgici che grida anni 80. Sempre sulla base della stesa ritmica sincopata, Rabin ci sorprende con assolo di chitarra effettuato senza l'ausilio del distorsore. Ritorna la strofa, dove Anderson e Rabin continuano il loro suggestivo botta e risposta. Rabin ricama con una funamboliche scala dal retrogusto latino. Ritorna il chorus, che a dire il vero, alla lunga risulta troppo "cantilenante". Nuovo assolo, stavolta rafforzato dagli effetti a pedale, che mixa melodia e tecnica al punto giusto. Sul finale la chitarra viene affiancata da un pad di organo, poi un breve break di batteria ci riporta nuovamente nel chorus, stavolta proposto in maniera leggermente differente. Jon Anderson e Trevor Rabin duettano a turno con il tedioso coro, mixandolo con le linee vocali della strofa. Sul finale prende il sopravvento uno squillante unisono di chitarra e tastiera, che lentamente sfuma verso l'epilogo. Le liriche son a dir poco impenetrabili, dove ognuno può dare la propria interpretazione. La prima cosa che mi è venuta in mente, fra una berlina blu e i colpi di arma da fuoco, è il terribile attentato del 22 novembre 1963 a Dallas, che costò la vita al presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, per mano dell'operaio, attivista ed ex militare Lee Harvey Oswald. Un corteo presidenziale che fu fatale ad uno dei presidenti più amati della nazione a stelle e strisce, un omicidio inspiegabile che ancora oggi lascia molti interrogativi. I nostri cantano che sarebbe stato meglio sparare in aria e lasciar perdere, in modo che quella berlina blu potesse terminare il suo tragitto. Un brano dalle enormi potenzialità, ma reso tedioso dall'insistere sulla estenuante ritmica cadenzata che non varia mai e dall'oppressivo coro dell'inciso, che alla lunga diventa nauseante, oltre che dalla durata troppo elevata per come è strutturato il brano.
Almost Like Love
Si cambia decisamente ritmo con la successiva "Almost Like Love" (Trad. Quasi Come L'Amore), aperta da Alan White con un veloce ritmo in levare. Successivamente irrompono Squire e Rabin con un potente unisono dai sentori hard rock, rovinato aimè ancora una volta da squillanti ottoni che proprio non ci stanno. Nella strofa emerge il fragoroso basso stoppato di Squire, Anderson canta tutto d'un fiato sfiorando il rap, accompagnato da una sferragliante chitarra e spaziali tastiere. Nel chorus White riprende il veloce ritmo dell'introduzione. La squillante chitarra di Rabin si intreccia con il basso di Squire, accompagnando un coro dai sentori AOR che ripete più volte il titolo del brano. Rallentano i BPM e ritorna la strofa, seguita dall'inciso. Una pomposa tastiera ci porta verso un limbo che si discosta dal resto del brano, dove dominano spaziali tastiere che ospitano Jon Anderson, finalmente lo sentiamo cantare in maniera solare e raggiante come ai vecchi tempi. Alan White riparte improvvisamente per una breve versione dell'inciso, dove vengono mixati gli squillanti ottoni dell'introduzione. Un breve break di chitarra precede l'assolo, di stampo hard rock, accompagnato da un vetusto organo. Un effimero interludio caotico, e poi riprende l'assolo, stavolta orientato verso le note blue. Sempre sulla veloce cavalcata in levare, Jon Anderson emerge con un crescendo che ci porta verso il finale, dove ritroviamo le squillanti trombe che lentamente sfumano in fader. Anche questi versi sembrerebbero portare la firma del cantastorie di Accrington, in quanto lanciano profondi messaggi spirituali. Ci si domanda chi ha deciso le regole della religione in cui crediamo, indipendentemente da quale essa sia. Aspettando un improbabile segno divino, l'unica cosa che accomuna tutte le religioni è il bisogno di un amore fraterno. Jon Anderson ci invita a compiere una evoluzione spirituale, aprendo la nostra anima in modo che tutti possono percepirla. Bisogna apprezzare ed approfondire la nostra spiritualità, ci accorgeremo che è quasi come l'amore. Che si sia santi o peccatori, cristiani o buddisti, viviamo in un mondo dove le superstizioni vengono ancora prese sul serio, è necessario lavorare sulla propria spiritualità per poter andare avanti, aiutando chi ne ha bisogno. Altro brano appesantito dagli arrangiamenti, destinato a finire nel dimenticatoio.
Love Will Find A Way
Andando avanti incontriamo "Love Will Find A Way" (Trad. L'Amore Troverà Una Strada), introdotta da un bel tema di archi diretto da Mr. Rabin, che dopo alcune battute lascia il campo ad un ammaliante arpeggio di chitarra carico di effetti. Accompagnato dalla brillante ritmica proposta da Mr. White, Chris Squire sembra inseguire con il basso le note della chitarra. Nella strofa rallentano i BPM, una bella armonia vocale ci cattura all'istante, facendoci presagire che siamo di fronte alla migliore traccia del platter ascoltata fino ad ora. Il bridge ci trascina piacevolmente verso l'inciso, dove ritroviamo il bellissimo tema iniziale che si intreccia a meraviglia con la linea vocale di Mr. Rabin, rafforzata da un bel coro. Sul finale si rallenta e spunta fuori Jon Anderson che ripete a più riprese il titolo del brano. Ritorna il tema iniziale, seguito dalla strofa, cantata da Trevor Rabin, a fui fa eco un geniale coro. Il bridge dai sentori AOR ci riporta nel bellissimo inciso, seguito da un desueto assolo di organo, per la gioia di Kaye Of The Keyboards, seguito da un breve assolo di armonica a bocca dal retrogusto old Texas, gentilmente offerto da James Zavala. Si chiude con il chorus ad oltranza, con dei bellissimi intrecci vocali finali. Ritorniamo alle liriche di storie d'amore adolescenziali, sfornate da Mr. Rabin, che di certo non diffonde i suoi pensieri, ma bada la sodo, puntando solo a far soldi con ammalianti frasi e licenze poetiche, messe al punto giusto ed al momento giusto, che inevitabilmente catturano l'ascoltatore. Il nostro dongiovanni, riesce a percepire l'attrazione che una ragazza ha nei suoi confronti, ma lui ha bisogno di tempo per decidere, forse perché reduce dall'ennesima delusione amorosa. Il suo cuore ed il suo spirito aspetteranno il momento giusto, se lei lo vuole veramente, l'amore troverà la strada giusta. Abbiamo ascoltato l'altro singolo estratto, nonostante sia un brano prettamente AOR, lontano anni luce dagli Yes che amiamo, è senza ombra di dubbio una delle migliori tracce dell'album, l'unica che si riallaccia brillantemente a "90125", insieme al brano di apertura. Spicca in maniera cristallina il cambio di produzione. Una piccola curiosità, in origine la canzone era stata scritta dal polistrumentista sudafricano per Stevie Nicks, all'ora ex vocalist dei Fleetwood Mac, ma all'ultimo momento, Trevor Rabin, forse a corto di idee, decise di rielaborarlo in versione Yes, ed aggiungerei, con risultati soddisfacenti.
Final Eyes
Una enigmatica tastiera apre la successiva "Final Eyes" (Trad. Gli Occhi Della Fine), poi a sorpresa irrompe un solare strumming di chitarra acustica, che insieme alla cristallina voce di Jon Anderson forma una inaspettata atmosfera dal retrogusto settantiano. Il duetto fra voce a chitarra si protrae a lungo, con la mente ci porta piacevolmente ai fasti di "Time And a Word". Jon Anderson sembra essere rinato in questa suggestiva escursione a ritroso nel tempo. Al minuto 01:41 irrompe Alan White, seguito da Squire che ci martella con un corposo tappeto di note. Anche Mr. Kaye si diverte, con il suo strumento preferito, sparando un vetusto e nostalgico pad di organo Hammond. Un leggero ricamo di tastiera stona, rovinando la piacevole atmosfera settantiana. Questa strofa viene cantata da Trevor Rabin, che in crescendo ci porta nel sognante chorus, cantato da Jon Anderson, accompagnato da un fatato intreccio di chitarra e tastiera. Sul finale il chorus si fonde con l'assolo di chitarra, che vagamente ricorda quelli del maestro Howe. Ritorna il solare strumming di chitarra della strofa iniziale, poi improvvisamente un brusco ingresso di Alan White ci fa sobbalzare, seguito da un potente riff di chitarra. Una solare armonia vocale ci porta nella seconda strofa, dove domina l'organo Hammond. Jon Anderson esplode nel successivo inciso, arricchito da preziosi intarsi di chitarra. Quando il brano sembra volgere al termine, dalle ceneri emerge un avvolgente organo dal sapore ecclesiastico, ricamato da magiche tastiere. Questo bellissimo interludio di forte atmosfera si riallaccia all'inciso, che nel finale prende una piega rock grazie ad un paio di accordi distorti. In conclusione Trevor Rabin sembra essere impossessato dal fantasma di Steve Howe e va a chiudere con un articolato arpeggio acustico. Anche queste liriche sono incentrate sul bisogno dell'amore, sulla certezza di poter contare su qualcuno nel momento del bisogno, ma dalle licenze poetiche usate, che fanno riferimenti ad elementi naturali come fiumi senza corso e notti senza sogni, è fin troppo evidente che siano opera di Mr. Anderson, assai più maturo nella stesura dei testi, rispetto al suo invadente collega sudafricano. La persona amata sa sempre farsi trovar pronta nel momento del bisogno, salvandoci per il rotto della cuffia da una brutta caduta. Se poi l'incantesimo sagittabondo dovesse svanire, è meglio non mentire e guardarsi chiari negli occhi, gli occhi della fine. Un piccolo gioiello dal piacevole retrogusto settantiano che quasi stona con il resto dell'album, ma che si candida, perlomeno per chi scrive, a migliore traccia di questo per ora deludente "Big Generator", non a caso nel 1988 è stato pubblicato come terzo singolo.
I'm Running
Un articolato groove di basso apre "I'm Running" (Sto Correndo), facendoci ritrovare quel Chris Squire che amiamo, ma che ultimamente sembrava svanito nel nulla. Purtroppo il graffiante giro di basso viene ben presto rovinato da un improbabile tema dal sapore sudamericano, che ricorda la colonna sonora di un vecchio videogames degli anni ottanta. Per fortuna questo fastidioso interludio lascia il campo ad un enigmatico limbo dai sentori new age, caratterizzato da una ridondante chitarra di sottofondo e da aliene tastiere. La enigmatica linea vocale di Jon Anderson cresce lentamente, portandoci verso il chorus, dove gli strumenti e le voci sembrano non seguire la ritmica spedita dettata da Alan White. Ritorna l'enigmatica strofa, stavolta cantata a due voci, ricamate da pochi accordi di pianoforte. Andando avanti incontriamo nuovamente l'inciso, sicuramente fra i peggiori partoriti da Squire e compagni, ma non c'è mai peggio al peggio, infatti compare di nuovo l'odioso tema dell'introduzione, dove stavolta Jon Anderson riesce a cantare alcuni versi. Un breve break di chitarra e per fortuna ritornano le avvolgenti tastiere, che supportano un anonimo assolo di chitarra che sembra provenire dallo spazio profondo. La successiva strofa viene ancora cantata a due voci, mentre in sottofondo un ridondante tema di chitarra ci porta velocemente verso l'orribile chorus. Un'incomprensibile babele sonora fa da bridge al nauseante tema dai sentori "sambatici", seguito da uno stralunato assolo di chitarra che cozza contro l'improbabile accompagnamento, assolo che viene alternato con alcuni cori, senza ombra di dubbio i peggiori sfornati da Anderson e compagnia cantante. I nostri suggellano il tutto chiudendo con un rocambolesco finale privo di senso. Le liriche si aprono con la parola "Jacaranda", una bellissima pianta appartenente alla famiglia delle Bignoniaceae, originaria delle regioni tropicali e subtropicali del Sud America, Centro America, Sud Africa e dei Caraibi. Sembrerebbe il classico viaggio onirico Andersoniano, ma il fatto che la Jacaranda sia una pianta tipica del Sud Africa, e che nel 2012 Trevor Rabin abbia pubblicato un album intitolato appunto "Jacaranda", può lasciare alcune perplessità. Ad ogni modo, si tratta di un viaggio onirico dove si sprecano le licenze poetiche, una sfrenata corsa all'inseguimento della pace esteriore ed interiore. Sarebbe bello poter vivere in piena armonia come fanno i nostri bambini, che corrono tutti insieme come fossero un tutt'uno, nel nome dell'amore e del divertimento. Loro sono il nostro futuro, ma purtroppo crescendo smarriranno la loro innocenza, l'avidità e l'odio sono sempre dietro l'angolo. Ma se scaviamo a fondo nella nostra anima, ritroveremo ancora l'innocenza che avevamo da bambini, imprigionata laggiù da qualche parte, nei misteriosi meandri dell'anima. La scienza ci offre una porta secondaria per portare a termine la nostra corsa all'inseguimento di ataviche risposte, ma è una porta fatta di porte, senza una fine di continuità, è per questo che spesso l'umo si rifugia nella fede nei confronti di in Dio. "I'm Running" si candida insieme a "Circus Of Heaven (Circo del Paradiso)" (presente su "Tormato") a peggiore brano in assoluto degli Yes.
Holy Lamb - Song for Harmonic Convergence
Con non poche perplessità siamo giunto alla conclusione del platter, che mantiene la linea, concludendo con "Holy Lamb - Song for Harmonic Convergence" (Agnello Santo - Canzone per l'Harmonic Convergence), aperta da uno sferragliante strumming di chitarra che accompagna Jon Anderson, il quale diffonde pace con una melliflua linea vocale. Dopo alcune battute, il cantastorie di Accrington mette un po' di pepe sulla linea vocale e viene ricamato da paradisiache tastiere, che anticipano l'avvento di alcuni cori dal sapore natalizio. Entra anche la sezione ritmica, seguita da una delicata chitarra distorta, ma è sempre Jon Anderson ad emergere in questa insolita ed effimera ballata pacifica. Dopo una serie di angelici cori, una squillante tastiera si intreccia al dolce assolo di chitarra, che lentamente ci guida verso l'epilogo. Su l'autore di queste liriche non ci sono dubbi, in quanto si tratta di brano che fu scritto da Jon Anderson per "Harmonic Convergence", il primo grande raduno New Age della storia, tenutosi a Sedona, in Arizona, il 16 ed il 17 Agosto del 1987, che non a caso coincise con uno straordinario allineamento dei pianeti del Sistema Solare. Si tratta di liriche profondamente spirituali che lanciano forti messaggi ambientalisti. Con il passare degli anni, l'uomo è riuscito a rovinare tutta la magia del cielo e della terra, nel nome del progresso e della tecnologia. Il santone di Accrington chiede all'agnello santo se il Mondo è caduto veramente in basso, pericolosamente diretto verso il più tragico degli epiloghi. Sovente Madre Natura ci lancia inequivocabili messaggi, prontamente ignorati dai padroni della Terra. Il saggio Jon Anderson ci invita ad amare la Natura, vivendo nel nome dell'ecologia, in modo da salvaguardare il mondo per i nostri figli, il nostro futuro. Brano debole, rafforzato solo dall'orrenda traccia che lo ha preceduto, brano che comunque va apprezzato per le liriche impegnate che lanciano importanti messaggi ecologici e che riesce a diffondere una forte sensazione di pace, quella pace che senza ombra di dubbio non regnava all'interno degli Yes durante le sessioni di registrazione.
Conclusioni
Bissare il successo planetario di "90125" era impensabile, forse anche gli Yes stessi non credevano in tale impresa. Le tribolata produzione, fra cambi di produttore, diversi studi di registrazione e l'armonia che minacciosamente andava sgretolandosi, sono alcuni fattori che hanno reso ancora più ardua l'impresa. Ascoltando Big Generator, si ha la sensazione di essere di fronte ad un nuovo "Tormato", album controverso dove alcune ottime idee furono rovinate dal pesante lavoro della produzione, troppo insistente con dubbie e nauseanti soluzioni di arrangiamento. Se il precedente 90125 era un lampante esempio di produzione perfetta, indipendentemente dal genere, che può piacere o non piacere, lo stesso non si può dire di Big Generator. Troppo spesso gli arrangiamenti rovinano le già poche brillanti idee di Rabin e compagni, i cui "hook" stavolta risultano quasi tutti spuntati. Ci sono un paio di tracce che possono tenere testa alle hits del precedente album e l'interessante "Final Eyes" che con le sue atmosfere anni settanta quasi stona nel contento di questo album di AOR, appesantito in maniera insostenibile dagli arrangiamenti. Trevor Rabin sembra aver riversato su "90125" tutte le sue geniali composizioni e dimostra di essere un vero e proprio megalomane, occupandosi oltre alle parti di chitarra voce e tastiera anche della produzione. Sarebbe stato meglio si fosse concentrato sulla chitarra e la seconda voce, in modo da ottenere un lavoro migliore e non mettere di malumore i colleghi Anderson e Kaye, troppo spesso offuscati dalla sua ingombrante figura. Il cantastorie di Accrington pare essere ingabbiato in una cella troppo piccola per lui, e riesce a emergere durante i pochi minuti di "aria" concessi dal tiranno Rabin. Peggiore sorte per il povero Kaye Of The Keyboards, sminuito da Rabin e attaccato da Horn. Il povero Tony riesce a farsi notare durante sporadici momenti in cui gli è concesso suonare il suo strumento preferito. Anche la premiata ditta Squire - White sembra perdere colpi. E' lampante come i due non si trovino a proprio agio a suonare del banale AOR, pesano come un macigno le assenze delle scorribande soliste sulle quattro corde, le battaglie con i piatti e le memorabili corse sulle pelli del drum set. Non solo "Close to the Edge" è lontano anni luce, ma anche il più recente "Drama" sembra appartenere ad un'altra epoca. Non oso pensare alla reazione dei vecchi fans che si erano scandalizzati difronte all'ottimo "90125", quando hanno ascoltato questo deludente "Big Generator", venuto alla luce il 17 Settembre del 1987 distribuito dalla Atco Records, una divisione della Atlantic Recording Corporation. Le tribolate registrazioni sono avvenute fra il 1985 ed il 1987 prima presso i suggestivi Lark Studios di Carimate (nei credits curiosamente storpiato in "Caramati") e i Sarm & Air di Londra, sotto la produzione di Trevor Horn e Paul De Villiers, poi dopo la dipartita dell'occhialuto produttore di Sunderland, Trevor Rabin ha assunto le sue vesti ad interim, trasferendo le attrezzature presso gli Westlake Audio & Sunset Sound di Los Angeles. La copertina è stata affidata nuovamente a Garry Mouat, si tratta di una composizione grafica computerizzata in giallo e rosa shocking, che grida anni 80 da ogni singolo centimetro quadrato, lontana miliardi di anni luce dai fantastici paesaggi di Roger Dean. Al centro giganteggia la parola "Big "in rosa shocking su sfondo giallo, con uno strano simbolo che si sovrappone alla "I", mentre in alto troviamo il logo "Yes", nemmeno lontano parente del mitico "logo a bolla" dei tempi d'oro. Sul retro, a colori invertiti troviamo il resto del titolo dell'album, ovvero la parola "Generator", orrendamente coperta da un quadrato bianco dove in nero sono riportate la track list ed alcune informazioni. Mi dispiace dirlo, ma stavolta quel Trevor Rabin che ci aveva sorpreso brillantemente con "90125", dove ogni brano era un potenziale singolo, stavolta ha toppato. I tre brani migliori, che inevitabilmente sono anche i tre singoli estratti, vengono oscurati della scarsa qualità del resto del platter, dove le già scarse idee vengono ulteriormente peggiorate da pesanti e talvolta incomprensibili soluzioni di arrangiamento. Pesa come un macigno l'alternanza dei vari produttori che possiamo distinguere facilmente nel corso del disco, nelle prime due tracce registrate in Italia prodotte dagli Yes in collaborazione con Trevor Horn squillano noiosamente gli ottoni, poi è il turno del trittico Yes-Horn- Paul De Villiers in Inghilterra, terminando con le ultime quattro tracce negli Stati Uniti alla corte di sua maestà Trevor Rabin. Per chi scrive, fra tutti gli album controversi sfornati da Squire e compagni, questo è il primo vero e proprio passo falso. Comunque sia, "Big Generator" raggiunse la posizione numero 17 in patria e la numero 15 negli Stati Uniti, dove rimase in classifica per oltre trenta settimane. Non saprei a chi consigliare questo album, se non agli estimatori incalliti di Trevor Rabin. Tracce come Almost Like Love e I'm Running, insieme agli arrangiamenti pesanti della title track e di Shoot High, Aim Low, riescono ad offuscare le poche idee degne di nota. Album che non raggiunge neanche la sufficienza striminzita.
2) Big Generator
3) Shoot High, Aim Low
4) Almost Like Love
5) Love Will Find A Way
6) Final Eyes
7) I'm Running
8) Holy Lamb - Song for Harmonic Convergence