YES

90125

1983 - Atlantic Records

A CURA DI
SANDRO NEMESI PISTOLESI
30/10/2015
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Introduzione Recensione

Aprile 1981, gli Yes sono ormai ufficialmente sciolti. La precedente formazione che ha dato vita al capolavoro Drama ha avuto una vita effimera. Alla fine del tour di supporto all'album, Trevor Horn lascia il gruppo, ossessionato dal fantasma di Jon Anderson, dedicandosi alla produzione. Geoff Downes e Steve Howe formano il super gruppo Asia, assieme a John Wetton e Carl Palmer. Chris Squire ed Alan White, ormai rimasti soli, decidono di continuare a fare musica insieme. I due tentano di mettere su un progetto affascinante insieme alle colonne portanti dei Led Zeppelin Jimmy Page e Robert Plant che, scossi dalla recente morte del batterista John Bonham erano provvisoriamente fermi. Il progetto aveva il nome di XYZ, aka ex Yes e Zeppelin. Registrarono otto brani in studio, ma quando arrivarono ad incidere le linee vocali, Robert Plant, ancora scosso dalla perdita dell'amico, disse che i brani erano troppo complicati e non se ne fece di nulla. Alan White sostiene che le composizioni erano di altissima qualità, (e ci credo bene!) pare che qualche idea sia finita sui futuri album Keys To Ascension. Sinceramente sarei immensamente lieto di poter ascoltare quel materiale. Chissà che con la morte del povero Chris Squire, qualcuno non si decida a pubblicare i brani stesi da quell'affascinante progetto. Visto il periodo nero che vedeva sfumare ogni tentativo di collaborazione, il duo Squire/White decide di lavorare in proprio senza coinvolgere altri musicisti. Nell'Ottobre del 1981 pubblicano il singolo natalizio Run With The Fox, una simpatica canzone folk-progressive, che puntualmente viene rimessa in circolazione nel periodo di Natale e che potete trovare sulla chicca Yes Years (1991), uno splendido quadruplo cofanetto dove pullulano le rarità. Nel frattempo, Phil Carson, l'amministratore delegato della filiale britannica della Atlantic, aveva un chiodo fisso, o meglio due. Non si capacitava del fatto che due grandi band come Yes ed ELP fossero ferme da anni, nonostante avessero imperversato sul mercato musicale fino al decennio precedente. Imperterrito, volò in America ed incontrò Ahmet Ertgun, il boss dell'Atlantic, il quale convenne con Phil che c'era del potenziale da sfruttare e bisognava intervenire quanto prima. Per agevolare i compiti al volenteroso Phil, gli venne affiancato il talent scout Richard Steinberg. Insieme, prima sistemarono gli ELP, orfani di Palmer, impegnato con gli Asia, sostituendolo con Cozy Powell, non andando ad intaccare nemmeno lo storico nome della band. Poi venne il turno degli Yes. Parlando con il produttore Mutt Lange, vennero a conoscenza che un talentuoso chitarrista sudafricano, di nome Trevor Rabin era in cerca di strumentisti per formare una nuova band. Si incontrarono, Trevor Rabin fece ascoltare la demo di Owner of A Lonely Heart. Carson fu ammaliato dalla composizione, e mise in contatto Trevor Rabin con Chris Squire e Alan White. Nacque immediatamente un feeling incredibile e i tre si incontrarono. Squire era contrario a sfruttare il marchio Yes, optarono per il nome Cinema.  I tre si misero a lavorare su alcune idee di Rabin, richiamando anche il primo storico tastierista degli Yes, Tony Kaye. Ma Kaye of the keyboard non arrivò neanche al mese di permanenza. Era un ottimo organista, ma ai Cinema, che stavano lavorando con sintetizzatori e campionatori, servivano ben altre sonorità. Inizialmente fu sostituito per un breve lasso di tempo da Eddie Jobson, poi, visto che Trevor Rabin oltre ad essere un notevole chitarrista e cantante, era anche un ottimo tastierista, i nostri decisero che potevano proseguire anche senza un tastierista ufficiale. Il progetto Cinema andava alla grande, in poco tempo ultimarono nove brani. Ora mancava un cantante, Trevor Rabin era un ottimo vocalist, ma non era in grado di ricoprire due ruoli fondamentali come chitarra solista e voce principale. A Phil Carson si drizzarono le orecchie quando sentì le registrazioni dell'imminente debut album dei Cinema, secondo lui c'erano almeno cinque hit da classifica. Chiamò immediatamente Squire e Rabin e disse: "avete fatto un disco da pazzi, potrebbe essere il migliore della vostra vita, ma dovete fare rientrare Jon Anderson e sfruttare il marchio Yes". Trevor Rabin non la prese affatto male, oltre ad un ottimo musicista era anche una persona intelligente che sapeva fiutare un buon affare. A causa delle frequenti vacanze e della mania di cambiare spesso abitazione, non era facile in quel periodo rintracciare Jon Anderson. Phil Carson ci riuscì a fatica grazie ad un roadie di fiducia. Tramite il suo lacchè, Jon Anderson informò che si sarebbe incontrato solo ed esclusivamente con Chris Squire, non avendo la benché minima idea di chi fosse questo Trevor Rabin. Chris si recò a casa Anderson, ma non fu accolto fra le mura domestiche, in seguito ai cattivi rapporti fra le rispettive consorti. Ascoltarono i brani nell'auto di Chris. L'indomani Jon disse, tirandosela un pochino, che i brani erano interessanti, ma che avrebbe fatto parte del progetto solamente se si fosse chiamato Yes. Nel giro di qualche giorno registrarono quattro brani con la cristallina voce di Jon Anderson. C'era però un problema, la Atlantic non credeva molto nel progetto Cinema, ed aveva stanziato solamente 150.000 dollari per le registrazioni. Phil Carson ce ne mise altrettanti di tasca sua, e in men che non si dica il budget si era esaurito. Casualmente il boss Ahmet Ertgun si trovava a Parigi, e Carson salì sul primo volo disponibile armato di demo contenente i quattro brani registrati con Jon Anderson. Cercò di far recapitare un impianto stereo di primissima qualità nella stanza d'albergo del boss dell'Atlantic. Una volta arrivati in albergo, i due non riuscirono a trovare nessun impianto capace di riprodurre il nastro. Poi individuarono un piccolo apparecchio portatile mono, con le batterie ovviamente esaurite. Una volta inserite le nuove batterie, riuscirono finalmente ad ascoltare il nastro. Ahmet rimase sorpreso sia dalla qualità dei brani, che dal poco budget messo a disposizione dall'Atlantic. Consegnò un assegno in bianco a Phil Carson, che ebbe anche il modo di recuperare i suoi 150.000 dollari. Con il nuovo budget a disposizione, l'album fu ultimato, ovviamente sotto il marchio Yes. Con lo storico nome, si rividero anche altre due vecchie conoscenze, Trevor Horn si occupò in maniera magistrale della produzione, mentre visto il bisogno di un tastierista in sede live, fu reintegrato nuovamente Tony Kaye, che aveva il compito di ringiovanire il suo background musicale e modernizzare le attrezzature. In origine il nuovo album doveva chiamarsi The New Yes Album, ma poi ci fu la brillante idea di utilizzare il numero di catalogo che doveva essere assegnato al disco. Ma anche qui sorsero delle complicazioni. Il numero doveva essere 90104, ma per errore il codice fu assegnato ad un altro disco. Ripiegarono così su 90125 con l'incomprensibile disagio di Squire, che sosteneva che il numero assegnato non era buono come 90104 (follie da musicisti). A far parte della nuova famiglia Yes entrò anche il nuovo manager Tony Dimitriades. E' giunto il momento di andare a conoscere da vicino, colui che ha dato nuova linfa agli Yes. Trevor Rabin nasce a Johannesburg, il 13 Gennaio del 1954, ovviamente in una famiglia di musicisti. Iniziò a studiare pianoforte all'età di sei anni, poi a dodici passò alla chitarra, studiando da solo, sfruttando gli esercizi di agilità per pianoforte. A sedici anni fu scoperto da un produttore e ben presto divenne uno dei migliori chitarristi del Sud Africa. L'anno dopo formò la sua prima band, i Rabbitt, che ben presto in patria ottennero la medesima considerazione dei Beatles. Nel 1978 decise di trasferirsi a Londra in cerca di nuove avventure. A quel punto i Rabbitt si sciolsero, rimanendo comunque in buoni rapporti. Nel giro di tre anni pubblicò tre album solisti, poi si trasferì a Los Angeles, dove iniziò a comporre del nuovo materiale che in futuro sarebbe finito su 90125. Ricevette una proposta dalla Geffen per formare un super gruppo assieme a Wetton, Wakeman e Palmer, ma Rabin rifiutò la proposta di quelli che potevano essere gli Asia. Poco dopo ricevette una telefonata da Chris Squire, il resto è storia. Dalla seconda metà degli anni 90 fino ai giorni nostri, i più attenti avranno notato la firma di Trevor Rabin nelle colonne sonore di numerose pellicole Hollywoodiane, fra le quali spiccano i blockbuster Armageddon e Il sesto giorno, e pellicole minori come Snake On A Plane ed il mitico Rockstar.

Owner of A Lonely Heart

Il nuovo album si apre con il brano più famoso e passato in radio degli Yes, ovvero il successo planetario Owner of A Lonely Heart (Persona dal Cuore Solitario). Una rullata campionata apre le porte al riff portante, che spiazza immediatamente i fans, abituati ai complicati intarsi di chitarra di Steve Howe. Di puro stampo hard rock, è uno di quei riff semplici quanto geniali, quattro note che entrano prepotentemente nella storia del rock, come quelle di Smoke On The Water o Iron Man, per intenderci. I pochi accordi scelti in maniera accurata e messi al posto giusto ci conquistano immediatamente, alzi la mano chi non ha mai avuto l'occasione di sentirli passare in radio o in televisione. Una rullata ed un bel glissato di basso e poi alla chitarra si unisce Chris Squire all'unisono, seguito da Alan White con un 4/4 semplice quanto efficiente. Uno schiamazzo di tastiera, che ben presto diventerà un simbolo dei nuovi Yes, annuncia l'ingresso di una seconda chitarra che esegue un graffiante e complicato arpeggio stoppato. La chitarra distorta lascia il campo al meno invadente arpeggio, in modo da mettere in evidenza la bella linea vocale di Jon Anderson, che fa il suo ritorno negli Yes. Le prime frasi cantate da Anderson ci prendono immediatamente all'amo, semplici e facili da cantare dopo il primo ascolto. Chris Squire comanda la strofa trasportando Jon Anderson dritto verso l'inciso, Tony Kaye spara qualche saltuario schiamazzo improvviso. Gli Yes sono talmente abili nel confezionare ammalianti incisi che la struttura musicale del ritornello è assolutamente uguale alla strofa, se non per qualche delicato ricamo di tastiera che fa eco alle voci, lasciando il campo ad un bellissimo gioco che punta tutto sulle armonie vocali e i controcanti. Nella strofa successiva tornano i potenti accordi distorti. Jon Anderson continua a catturarci con ammalianti frasi confezionate a genio, ricamato dagli schiamazzi della tastiera. Andando avanti ritroviamo il chorus, seguito da una trascinante appendice dove da spaziali tappeti di tastiera emerge un ridondante groove di basso. Al coro portante dell'inciso risponde Jon Anderson con una linea vocale più brillante e cristallina. Una battuta a cappella, poi assistiamo ad un duello fra rullate campionate e schiamazzi di tastiera che anticipano l'assolo di chitarra, acido, spigoloso e graffiante, una novità per i gli Yes. Al termine dell'assolo rimane una sognante chitarra arpeggiata, dopo qualche battuta entra Alan White, con il medesimo 4/4, che accompagna un fugace assolo di basso, che con maestria ci riporta al ritornello, per l'occasione raddoppiato e seguito dalla brillante appendice che sul finale sale di un tono, sfumando lentamente verso la conclusione. Spesso una forte delusione amorosa porta a prendere drastiche decisioni, come quella un po' egoista di diventare un cuore solitario, rifiutando qualsiasi legame amoroso. Ma dopo una delusione amorosa è molto meglio un cuore solitario di un cuore spezzato. Noi siamo le decisioni che prendiamo, giuste o sbagliate che siano. Dopo essere stati feriti mortalmente al cuore, risulta assai difficile intraprendere una nuova storia amorosa. Ma con il passare del tempo, capiremo che non c'è nessuna ragione per continuare a stare soli, ed è gusto avere una nuova possibilità, basta continuare ad essere se stessi e cercare di prendere la decisione giusta, essendo consapevoli che all'amore non si comanda. Siamo di fronte ad uno dei brani più famosi della storia del rock. La nemesi degli Yes che eravamo abituati ad ascoltare fino ad ora, ma questo non significa che non sia un pezzo formidabile. Il brano mette in mostra tutte le abilità di Trevor Horn in fase di produzione, che con un lavoro certosino riesce a far brillare la voce del figliol prodigo Anderson, accanto ad uno dei riff di chitarra più memorabili di sempre, Owner of A Lonely Heart è stato il primo singolo che ha anticipato di circa un mese l'uscita dell'album, spopolando negli Stati Uniti, dove raggiunse la posizione numero 1 della Billboard Hot 100, rimanendo nei quartieri alti per oltre dieci settimane. Per onore di cronaca, raggiunse anche una dignitosa posizione numero 11 nel Bel Paese. Nel corso degli anni, il brano è stato rivisitato e remixato da artisti di fama mondiale, fra i quali spiccano Michael Jackson e Frank Zappa, mentre nel 2005 è stata riportata in auge dal DJ canadese Max Graham.

Hold On

Una bella rullata sui tom annuncia la successiva Hold On (Tieniti). Trevor Rabin fa centro con un bel tema di chitarra, che sarà quello portante del brano, supporto da una potente progressione di accordi distorti. Nella strofa la sezione ritmica tira su il brano con un potente tempo sincopato dai sentori blues rock, Tony Kaye stende un raffinato tappeto di tastiera, la chitarra va in controtempo, abbellendo l'armonia vocale, che rimane l'unica cosa in comune con i vecchi Yes. Andando avanti incontriamo il bridge, che è strumentale. Su una potente progressione di accordi distorti, Squire ci punge con taglienti scale di basso. Ritorna la strofa, stavolta una delle tre voci è sporcata da un effetto, sembra provenire da un altro mondo. Arriva finalmente l'inciso, solare, aperto. Una progressione di accordi distorti accompagna la bellissima armonia vocale che si intreccia con l'angelica voce di Anderson. Un breve stacco strumentale con Trevor Rabin in evidenza anticipa un breve assolo di chitarra, che gira in torno al tema portante sentito nell'introduzione. Ritorna il chorus, rafforzato da una piccola appendice, dove spicca Jon Anderson, poi troviamo un interessante interludio a cappella. La linea vocale di Anderson viene doppiata da inquietanti voci effettate, dopo alcune battute rientrano in gioco gli strumenti. Breve bridge strumentale e ritorna il solare ritornello, poi incontriamo un effimero assolo di chitarra. Il basso di Squire pompa in crescendo e ci porta nuovamente verso il chorus, dove stavolta per due battute Jon Anderson vien sostituito da uno squillante riff di tastiera. Si chiude con il bellissimo ritornello ad oltranza, le armonie vocali si intrecciano alla perfezione con le tastiere di Kaye of the keyboard, poi mentre la canzone sfuma molto lentamente, Trevor Rabin spara un bellissimo assolo, che purtroppo evapora sul più bello. La prima parte delle liriche esprime un velato attacco alla giustizia, di fronte alla quale bisogna sempre mantenere sempre in maniera ferrata la nostra posizione. La ragione può essere a sinistra come a destra, basta lottare per la nostra causa, infischiandosene di quale sia la verità, dribblando abilmente gli enigmatici puzzle costruiti maliziosamente per far vuotare il sacco e frantumare i nostri sogni. Nella parte finale le liriche abbandonano i sentori polemici, assumendo una forte positività che ci esorta a tenere duro e lottare con le unghie per i nostri diritti, facendo leva su una serie di licenze poetiche. Gli Yes ci dimostrano che sanno suonare anche del sano hard rock, colpendoci con un brano che non sfigurerebbe su un album degli Aerosmith, mixando potenti accordi distorti ad ammalianti linee vocali. Hold On è stato il quarto singolo estratto dall'album.

It Can Happen

Immediatamente dopo incontriamo il terzo singolo, It Can Happen (Può accadere), aperta da una sognante chitarra dai sentori orientaleggianti. Sparuti colpi sul rullante ritmano, accompagnati da roboanti pennate di basso, accogliendo Jon Anderson. Chris Squire riesce ad infilare pungenti scale di basso fra una pennata e l'altra. Sulla stessa base musicale Jon Anderson attacca l'inciso, composto da ammalianti frase messe al posto giusto. Un accordo all'unisono annuncia un limbo, dove uno spaziale pad di tastiera accoglie una graffiante chitarra. Cassa e basso all'unisono ritmano l'insolita strofa. Alcuni accordi di pianoforte donano una grande atmosfera, la linea vocale di Jon Anderson viene ricamata da suggestivi cori con un forte eco. Poi incontriamo il bridge, Il basso pompa seguendo il 4/4 di Alan White, Tony Kaye spara un tappeto dai sentori AOR, mentre a cantare stavolta è l'eclettico Trevor Rabin. Un potente accordo distorto annuncia l'inciso, che punta tutto sulle armonie vocali e le ammalianti parole. Dei bellissimi accordi di pianoforte anticipano la strofa, gli strumenti diminuiscono sapientemente l'intensità, donando un'avvolgente atmosfera, poi si riparte con il trascinante bridge che ci riporta verso il bellissimo ritornello, seguito dall'assolo di chitarra, molto melodico, a cui si intrecciano inquietanti frasi parlate, tratte da L'importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde. Di nuovo bridge e poi incontriamo il tema dell'introduzione, dove i nostri cantano una versione alternativa dell'inciso, giocando su suggestive armonie vocali e cori. Un breve interludio strumentale e poi ritorna il chorus, nella sua veste tradizionale, che ci accompagna fino alla fine, con interessanti variazioni sulla linea vocale. Le liriche giocano molto sulla ripetizione della frase It Can Happen (Può accadere), cercando di catturare l'ascoltatore indipendentemente dal contenuto o dai messaggi che vogliono dare. Può accadere a chiunque di essere ingannati dall'amore, che ci rende cechi di fronte all'evidenza. Può accadere che il nostro cuore venga infranto, ma possiamo sempre ripararlo. Noi cerchiamo di architettare al meglio la nostra vita, ma in qualsiasi momento può accadere qualcosa che manda a monte i nostri piani, può accadere, a chiunque. Un sermone all'imprevedibilità della vita, che sottolinea che a chiunque ed in qualsiasi momento può accadere un imprevisto che potrebbe cambiare radicalmente la vita, sia nel bene che nel male. Altro ammaliante pezzo confezionato da Rabin e soci, dove si fa notare un puntiglioso lavoro in fase di arrangiamento che rende il brano una piccola perla. 

Changes

In fader, siamo colpiti da un martellante incrocio fra una orientaleggiante tastiera che imita lo xilofono ed il pianoforte, ed è così che si apre la successiva Changes (Cambiamenti). Sempre in fader entra anche la batteria, con un complicatissimo tempo dispari, dopo una serie di battute la chitarra imita all'unisono il festoso tema della tastiera. Un breve stacco in solitudine di Trevor Rabin e il pianoforte riattacca timidamente il tema, seguito poi dalla tastiera ed a ruota dagli altri strumenti, dove spicca una bellissima chitarra arpeggiata. Come per magia i nostri attaccano la strofa, cambiando completamente la ritmica come se nulla fosse. La sezione ritmica trascina con un potente 4/4. Il graffiante tema di chitarra si intreccia meravigliosamente con una seconda traccia di chitarra arpeggiata, il tutto supportato da un bel pad di tastiera. Una terza traccia di chitarra spara un serie di scale che ordinano lo stop. Rimane il solo Trevor Rabin che canta la strofa, accompagnandosi con un avvolgente arpeggio di chitarra. Struggenti accordi di pianoforte ricamano la bellissima linea vocale di Rabin. Alcune pennate di basso ritmano, poi in crescendo Rabin annuncia l'inciso, potenti accordi di chitarra accolgono Jon Anderson, che ci colpisce con l'ennesima linea vocale vincente, aiutato dall'amico di sempre Squire. Ritorna la strofa, rafforzata dalla sezione ritmica, il pianoforte ricama magicamente la struggente linea vocale di Trevor Rabin, grandi atmosfere. Ritorna il chorus, basso e chitarra all'unisono lanciano note stoppate, mentre Tony Kaye insiste con un martellante tappeto. Minuto 03.36 si cambia. Una serie di accordi stoppati all'unisono accompagnano Trevor Rabin, che in questa canzone diventa la voce principale. Poi incontriamo una variazione del chorus, con Anderson che annuncia l'assolo di chitarra, molto soft, di classe. Trevor Rabin ritorna con la sua avvolgente voce in un interludio dalla ritmica frastagliata, seguendo la strada indicata dai potenti accordi distorti. Si cambia nuovamente, stavolta la bellissima chitarra arpeggiata accompagna Jon Anderson. Ammalianti note di tastiera accompagnano Jon Anderson, che abilmente ci riporta all'inciso, sulle cui ali si alternano Trevor Rabin e Jon Anderson con un bellissimo botta e risposta che ci porta verso la conclusione del brano. Si chiude con una breve riproposizione dell'introduzione. Nelle liriche, si vede come Trevor Rabin sia abile a sfornare ammalianti frasi che ci catturano all'istante. C'è un misterioso vento di cambiamento che porta una significativa svolta in una storia d'amore volta ormai al termine. Il saggio dice che spesso una sola parola è capace di dare alito ad un cambiamento. Dopo una delusione amorosa ci troviamo di fronte ad un bivio: o la solitudine, o un cambiamento che ci apre le porte ad una nuova avventura. Quando l'amore si consuma è inutile continuare a fingere, se ci guardiamo allo specchio, non vedremo la felicità, è ora di cambiare, buttarsi il passato alle spalle ed intraprendere una nuova strada, che spesso si presenta fortunatamente di fronte a noi, basta sapere cogliere l'attimo. Liriche ciniche che rappresentano perfettamente la fine di un rapporto ormai logoro da tempo. Senza ombra di dubbio abbiamo ascoltato il brano migliore del platter, e per quanto mi riguarda uno dei miei brani preferiti in assoluto degli Yes. L'alternanza delle struggenti strofe cantate da Rabin con i briosi ritornelli cantati da Anderson è una trovata a dir poco geniale, altro brano dove gli arrangiamenti sono fondamentali quanto azzeccati.

Cinema

La traccia successiva Cinema è un brano strumentale, un tributo alla nuova band di Squire, Rabin e White, prima che fossero raggiunti da Jon Anderson che magicamente ha trasformato i Cinema negli Yes 2.0. Un prolungata corsa sul rullante in fader invita Mr. Rabin che spara un lancinante tema di chitarra facendo centro. Tony Kaye stende un leggero tappeto di tastiera. Seguendo la marcia trionfale del compagno di sezione ritmica, Chris Squire spara micidiali orde di sedicesime con il basso rafforzato dagli effetti a pedale, ottenendo una aliena ragnatela di note. Nel breve inciso, la chitarra di Rabin si fa più brillante e quasi sembra parlare, Alan White accentua le corse sulle pelli. Ritorna la strofa, Chris Squire inizia a giganteggiare con suoni di basso che sembrano provenire da un'altra galassia. Qualche virtuosismo sulla sei corde e poi ritorna l'inciso, rafforzato all'unisono da Mr. Kaye, che successivamente lancia squillanti tastiere dal sapore epico. Nella strofa successiva, Rabin accentua i virtuosismi sulla sei corde, la chitarra sembra ululare come un licantropo di fronte alla Luna piena. Alan White continua imperterrito a massacrarsi gli arti superiori con l'estenuante marcia. Il successivo inciso viene impreziosito da evocative tastiere e da un trascinante coro, dando vita ad una babele di squillanti suoni, che sotto la massacrante (per chi la esegue, non per chi l'ascolta) ritmica proposta da Mr. White ci accompagna fino al gran finale di questi fantastici due minuti di poesia musicale. Nel 1985 l'effimera Cinema è stata premiata con il Grammy Award come miglior canzone strumentale rock.

Leave It

Cinema fa da introduzione a Leave It (Lasciarlo), secondo dei quattro singoli estratti da 90125. I nuovi Yes aprono il brano a cappella. Dopo una ammaliante armonia vocale, i nostri si sostituiscono agli strumenti sorprendendoci con un suggestivo quanto insolito intreccio vocale. Lentamente si aggiunge un irridente tema di tastiera, poi un colpo sul rullante invita Trevor Rabin a cantare la strofa. In sottofondo velate percussioni ed uno squillante piattello dettano il ritmo, ma quello che ci colpisce è l'intreccio fra la calda linea vocale di Trevor Rabin e i giochi di voce a cappella dei compagni. Due colpi di drum machine annunciano l'inciso. Un bel coro anticipa il titolo del brano, Squire rivitalizza il blando 4/4 con un corposo giro di basso, a cui fanno eco le tastiere. Un altro magico gioco con le voci e ritorna la strofa, questa volta cantata da Jon Anderson, anch'esso ricamato dai vocalizzi. Stavolta la strofa è supportata dalla sezione ritmica con pungenti colpi di gran cassa rafforzati da potenti pennate di basso. Ritorna l'inciso, seguito da una nuova babele di vocalizzi. Nel chorus successivo viene aggiunta una seconda linea vocale che si fonde splendidamente con le altre. Al minuto 02:48 incontriamo un breve interludio strumentale con la chitarra in evidenza, poi una rullata annuncia il tema a cappella dell'introduzione, stavolta rafforzato da potenti accordi distorti e da un suggestivo intreccio di linee vocali. Si chiude il ritornello fino ad esaurimento scorte, dove i nostri si sbizzarriscono con intrecci e variazioni sulle linee vocali. Trevor Rabin in quel periodo doveva avere il cuore infranto, visto che anche in queste liriche viene affrontata l'ennesima delusione amorosa. Si gioca molto sui vocalizzi e la ripetizione della frase Leave It, ma riusciamo ugualmente a capire che il nostro è stato bruscamente lasciato dalla sua anima gemella. La donna non è ancora sicura di prendere in maniera definitiva la drastica decisione di lasciarlo, pensando a tutto quello di buono che hanno costruito insieme. Lui, spera sempre che il rapporto riesca a ricucirci, durante i tristi tragitti solitari in macchina. La sua presenza non può essere rimpiazzata da nulla e nessuno, rimangono solo i ricordi dei bei momenti passati insieme. E' stato senza ombra di dubbio un cattivo addio che ha lasciato il segno. Brano ispirato e fuori dal comune, che farà irritare i fans di Close To The Edge, ma che è impossibile non apprezzarlo per la sua originalità. In maniera del tutto originale si sfiora la disco music, ma bisogna dare atto alle geniali soluzioni vocali in fase di arrangiamento, che vanno a coronare il sogno di Jon Anderson e Chris Squire, che da sempre volevano fare degli Yes una band che puntava molto sulle armonie vocali, che in questo caso impreziosiscono e non poco il brano.

Our Song

E siamo arrivati alla traccia numero sette, Our Song (La Nostra Canzone), un brioso e sognante riff di tastiera entra in fader, poi viene sporcato da un potente unisono di basso e chitarra e batteria. Dopo alcune battute siamo investiti da un brillante unisono di tutti gli strumenti, che danno vita ad un allegro riff che non sfigurerebbe in uno spot pubblicitario. Uno stacco di tastiera, poi rientrano in gioco tutti gli altri accogliendo Jon Anderson, che ci cattura con una ammaliante linea vocale. Chris Squire attira l'attenzione con un bellissimo groove di basso composto da glissati e scale, mentre accordi distorti danno un tocco rock al tutto. Nel bridge la sezione ritmica aumenta i BPM, il veloce arpeggio di chitarra si intreccia meravigliosamente con tastiera e pianoforte che trasporta il solare Jon Anderson verso l'inciso. Dimezzano i BPM, una cullante tastiera accompagna Jon Anderson per tutto il chorus. Ritorna l'accattivante strofa, per alcune battute in versione strumentale. Poi Anderson viene affiancato dall'immancabile armonia vocale, il bridge stavolta annuncia il brioso unisono sentito all' inizio del brano, dove sul finale Trevor Rabin accenna qualche nota di assolo. Un rocambolesco precipitare degli accordi ci riporta nel sognante chorus, poi White ingrana la quarte e raddoppia il tempo, aiutato dal potente tappeto di basso. Jon Anderson duetta con le cinguettanti tastiere, inseguito dalla ritmica che incalza sempre di più fino ad sfociare nell'esplosivo tema portante, che tramite una serie di rocambolesche rullate si avvia verso la conclusione. Altre liriche piene di licenze poetiche, un inno alla musica, dove Jon Anderson riassume tutta la sua filosofia musicale cantando "Music Has Magic" (La musica ha la magia). Siamo a Toledo, nell'Ohio, durante il tragitto di uno dei tanti massacranti tour americani, la bellezza della città, definita d'argento, incanta il poetico Jon Anderson. Con i loro tempi sincopati e le loro canzoni, gli Yes portano un po' di Inghilterra nel Nuovo Continente, creando una splendida armonia incandescente, come era incandescente l'insopportabile calura della Toledo Sports Arena. A detta di Alan White, è stato il luogo più caldo e umido in assoluto dove gli Yes si siano mai esibiti. Pare che all'interno della struttura, complice un elevato tasso di umidità, la temperatura percepita si aggirasse intorno ai 52° centigradi. Dopo aver pubblicato 90125, gli abitanti di Toledo, fieri della menzione della loro città nel testo di Our Song, hanno ricompensato gli Yes acquistando un discreto numero di copie dell'album. Altra piccola scintillante perla dagli arrangiamenti raffinati, un brano dai sentori AOR che sin dalle prime note emana allegria e positività, l'ideale per intraprendere un viaggio che ha come meta una sospirata vacanza.

City Of Love

Due ridondanti e potenti note di basso aprono la successiva City Of Love (Città d'Amore) poi spaziali tastiere anticipano l'ingresso di Alan White, che segue il tempo cadenzato dettato dal basso di Squire, al quale si unisce all'unisono la chitarra distorta di Trevor Rabin. Insieme alla batteria e la chitarra fa il suo ingresso anche Jon Anderson, con una inusuale linea vocale grintosa. Nel chorus il brano sia apre, grazie alla solare armonia vocale, ricamata da squillanti tastiere. Una potente rullata e ritorna la strofa, potente ed ossessiva, Tony Kaye spara riff che ricamano la linea vocale. Il successivo chorus viene seguito da un breve interludio strumentale di stampo hard rock che precede un breve e stralunato assolo di chitarra. Nella successiva strofa, Anderson incattivisce ancora di più il cantato, che sfocia nuovamente nel melodico ritornello. Un altro rockeggiante stacco, con la chitarra e la batteria in evidenza, precede il secondo assolo, come il precedente strano ed inusuale, dove Trevor Rabin fa ruggire la sei corde come il motore di una Harley Davidson, accompagnato dal potente e ridondante unisono della strofa che ci accompagna fino alla fine. Le città dell'amore sono quelle zone malfamate, dove ragazze di facili costumi esercitano la più antica professione del Mondo. Le ragazze di strada adescano i timidi ragazzi muovendo sinuosamente i loro corpi ballando il Jive, un'antica danza ballata dagli afroamericani durante gli anni quaranta che rientra tra le discipline latino-americane. Spesso i ragazzi vanno per gioco a fare un giro nella città dell'amore, ma nonostante la timidezza di molti, qualcuno viene comunque ammaliato dalla bellezza delle ragazze, finendo fra le loro calde braccia e soddisfacendo le proprie curiosità sessuali. Ma molto spesso, dopo la prima volta, il gioco diventa un vizio, e le ragazze sono li, ad aspettare i baldi giovani ogni notte. I nostri, con classe e disinvoltura hanno brillantemente affrontato lo squallido tema della prostituzione, senza risultare offensivi né nei confronti delle ragazze, che per scelta o per forza si ritrovano a lavorare sui marciapiedi, alla luce fredda della Luna, né tantomeno gli eventuali clienti, che molto spesso si ritrovano per gioco nei quartieri frequentati dalle avvenenti venditrici di sesso. Altro brano di stampo hard rock, per quanto mi riguarda il meno interessante del platter. Il ridondante riff all'unisono ci martella per quasi tutto il brano, fino alla noia, lasciandoci respirare solo nel solare inciso.

Hearts

E siamo giunti alla conclusione di questo sorprendente 90125, che chiude i battenti con la melliflua Hearts (Cuori), aperta da sognanti tastiere dai sentori orientali che ci catapultano all'interno di un tempio buddhista giapponese. Jon Anderson si trova perfettamente a suo agio, immerso in questa mistica atmosfera e si mette a duettare dolcemente con Trevor Rabin. Dopo circa un minuto la chitarra ed il basso si uniscono alla dolce melodia che fuoriesce dalle tastiere di Mr. Kaye. Alan White ritma con roboanti colpi sulle pelli. Un colpo sul piatto lascia solamente le magiche tastiere di Tony Kaye, il quale successivamente spara un inquietante pad dai sentori gregoriani che riesce a prevalere sul ridondante tema dai sentori orientali, le cui orme sono seguite quasi all'unisono dall'enigmatica linea vocale di Jon Anderson. La sezione ritmica accompagna con una suggestiva tempo sincopato. Una breve pausa, poi un epico riff di tastiera annuncia l'inciso. La canzone si apre, un angelico coro accompagna il santone di Accrington che sforna la prestazione migliore del platter. Andando avanti incontriamo un interludio dove Tony Kaye è il protagonista assoluto, giocando sul riff portante. Jon Anderson lancia messaggi d'amore che aprono le porte all'assolo di chitarra, epico, le cui graffianti sonorità si scontrano con il dolce tema delle tastiere. La sezione ritmica accompagna moderatamente con un tempo sincopato, lasciando il campo alla chitarra e alle tastiere, che nel finale prendono il sopravvento, portandoci di nuovo nel sognante ritornello. Quando il brano sembra volgere al termine, improvvisamente prende una dura piega hard rock, a comandare sono la potente chitarra di Trevor Rabin e il vetusto organo Hammond di Tony Kaye, che con immensa gioia torna a suonare il suo strumento preferito. Jon Anderson è costretto ad irrobustire la linea vocale durante questo inaspettato interludio. Lentamente si fa spazio il tema portante di tastiera, che annuncia un nuovo cambio. Una cullante chitarra arpeggiata accoglie Jon Anderson, che esplode con una solare linea vocale, aiutato da angelici cori. Trevor Rabin ci colpisce con un bellissimo assolo di chitarra che si sposa alla perfezione con le melliflue atmosfere, poi ritorna Jon Anderson, che dopo un paio di battute va a concludere il brano accompagnato dalle struggenti tastiere di Mr. Kaye. Gli Yes avevano aperto con un brano che parlava di un cuore solitario, e chiudono esattamente con l'opposto, sostenendo che due cuori son meglio di uno. Bisogna fare salpare il nostro cuore nel fiume dell'amore, che ci trasporterà con se attraverso verdi vallate, versando le anime nell' Oceano. In queste liriche, l'amore viene spesso paragonato all'acqua, che è la base della vita dell'uomo, come del resto lo è l'amore stesso. Due cuori sono meglio di uno, perché è grazie all'amore che avviene il magico nascere di una nuova vita, che crescerà e verrà educata secondo le regole dettate dai due cuori in sintonia. Poi incontriamo un nuovo paragone con l'acqua, i due cuori si intrecciano come due fiumi dopo un tortuoso viaggio, accendendo la magica scintilla che sfocia in un oceano d'amore. Degna conclusione di un album bellissimo, in Hearts vien fuori prepotentemente Jon Anderson, che da buon ultimo arrivato si era tenuto abbastanza in disparte, e dimostra di dare il meglio di se nell'unico brano che riesce a mantenere un fievole legame con il passato.

Conclusioni

90125 ha suscitato le stesse perplessità della notizia dello scioglimento degli Yes. Le truppe spaziali, affascinate dalle complesse sonorità di Close To The Edge e Fragile, impazzirono di felicità alla notizia di un ritorno dei loro idoli, ma rimasero assai basiti di fronte al banale La-Si-Do-Re di Owner of A Lonely Heart. Come del resto rimase stizzito Mr. Howe alla notizia che il suo vecchio gruppo, ormai dato per morto, si era riformato con un altro chitarrista. Ma se 90125 ha allontanato una buona parte dei fans nostalgici, ne ha attirati altrettanti grazie ai quattro singoli estratti, veri e propri hook che hanno attirato l'attenzione di un vasto numero di persone. Facendo questo coraggioso passo, gli Yes, insieme ai Genesis, sono le uniche band della numerosa armata dei dinosauri del progressive che hanno saputo superare il decadimento di un genere ritenuto ormai obsoleto, genere che per ironia della sorte sarà rivitalizzato dai Marillion nello stesso anno. L'avvento del carneade Trevor Rabin ha portato un sostanziale cambiamento nelle sonorità degli Yes. Il virtuoso chitarrista sudafricano può considerarsi la nemesi di Steve Howe in quanto a stile di interpretare la sei corde. Via i magici ricami ed i preziosi intarsi di chitarra, le avvolgenti escursioni sulla chitarra acustica e la lap steel guitar, dentro taglienti accordi distorti di puro stampo hard rock americano, eseguiti con una ottima tecnica strumentale ed un gusto eccellente. Il nuovo arrivato si segnala anche come un buon tastierista e un ottima alternativa alla voce di Jon Anderson, con il quale sovente si alterna nel corso dell'album. Ma Trevor Rabin ci colpisce soprattutto dimostrandosi una vera e propria macchina fabbricatrice di "hook", alla lettera "uncino", termine che nel gergo musicale sta ad indicare una parte di canzone che cattura in maniera particolare l'attenzione dell'ascoltatore, sia essa una frase ammaliante, un riff semplice quanto funzionale, un passaggio ritmico o un tema di tastiera. In parole povere, secondo i discografici l'hook è ciò che si vende. Trevor Rabin dà una svolta significativa alle liriche, quasi tutte stese prima del nuovo avvento di Jon Anderson. Per lo più si basano su problemi sentimentali, spesso descritti in maniera adolescenziale, puntando molto sulla ripetizione di frasi o parole che catturano all'istante l'ascoltatore, distanti anni luce dai voli pindarici andersoniani. Il figliol prodigo Anderson, da ultimo arrivato cerca di non pestare i piedi, e si divide in maniera consensuale i compiti canori con Rabin, venendo fuori alla grande nei momenti a lui più congeniali. Alan White sembra sentirsi più a suo agio suonando musica meno complicata, sfornando tempi potenti e trascinanti, non disdegnando saltuariamente ritmiche dispari e sincopate come nella conclusiva Hearts. Chris Squire vede frenate le sue scorribande soliste sulle quattro corde, a causa del cambio di rotta sonoro, riuscendo comunque sempre ad emergere con potenti e trascinanti groove. Tony Kaye, coadiuvato da Trevor Rabin, senza eccedere in virtuosismi riesce a mettere la cosa giusta al posto giusto, esplodendo con un assolo di organo nella traccia conclusiva. Ma secondo il mio modesto parere, la vera sorpresa dell'album è Trevor Horn, che in quanto a produzione ed arrangiamenti confeziona uno dei migliori album della storia del rock. Spesso trova geniali e raffinate soluzioni rendendo speciale un brano che arrangiato in maniera diversa sarebbe risultato assai banale. Anche la copertina è distante anni luce dai fantastici paesaggi partoriti da Roger Dean. Affidata a Garry Mouat, si tratta di una composizione grafica computerizzata che vede un cerchio in prospettiva diviso in tre spicchi di colore blu, lilla e giallo, su un futuristico sfondo argentato. Scompare anche l'ormai classico logo Yes di Roger Dean, sostituito da un asettica scritta in stampatello bianco. Nello spicchio di colore blu, è impresso il titolo dell'album, sempre in bianco. 90125 è venuto alla luce il 7 Novembre del 1983, registrato presso i Sarm Studios e gli Air Studios di Londra, fra la Primavera e l'Estate del medesimo anno, distribuito dalla Atco Records, una divisione della Atlantic Recording Corporation. Forse forse, se 90125 fosse uscito sotto il nome di Cinema, non avrebbe destato tutte le perplessità che hanno diviso per l'ennesima volta il popolo Yessano, magari sarebbe stato accolto con simpatia dai nostalgici fans degli Yes, e sicuramente avrebbe dato al mondo della musica la migliore band pop rock del decennio. Allo stesso tempo non potremmo mai sapere se avesse ottenuto lo stesso successo commerciale se privo del marchio Yes. Siamo di fronte ad un album easy listening, lontano dalle complesse sonorità del progressive degli anni 70 e vicino alle brillanti sonorità dell'AOR americano, adatto a tutti i palati e per tutte le occasioni. Le piacevoli canzoni scorrono via veloci una dopo l'altra. Ascoltandolo oggi, riesce a portarci indietro nel tempo fino alle spensierate atmosfere degli anni 80, il tutto fatto con una classe cristallina ed una tecnica sopraffina. Per quanto mi riguarda, le perle sono Changes e la conclusiva Hearts, l'unico brano dove possiamo percepire una leggerissima traccia progressive. Tirando le somme, 90125, colui che ha resuscitato gli Yes da una morte certa, è un signor album di AOR, suonato in maniera impeccabile e prodotto magistralmente. Ma come è avvenuto per il Black Album dei Metallica, il passato non possiamo mandarlo via con un colpo di spugna. Se nelle passate recensioni ho dato la massima valutazione a capolavori come Close To The Edge e Fragile (e a Drama, per cui nutro un affetto personale), e ho messo un gradino sotto a questi l'altro capolavoro The Yes Album, non posso dare la stessa valutazione all'album in questione, che comunque merita una valutazione alta, che sarebbe stata un paio di punti più alta se in copertina avesse giganteggiato il logo "Cinema".

1) Owner of A Lonely Heart
2) Hold On
3) It Can Happen
4) Changes
5) Cinema
6) Leave It
7) Our Song
8) City Of Love
9) Hearts
correlati