WITCHES OF DOOM
Funeral Radio
2020 - My Kingdom Music
NIMA TAYEBIAN
31/05/2020
Introduzione
Li abbiamo attesi con trepidazione, e a distanza di quattro anni sono ritornati. Di chi sto parlando? Ma naturalmente dei nostrani Witches Of Doom, che dopo due prove eccelse (Obey del 2014 e Deadlights del 2016) ci hanno fatto aspettare qualche annetto in più rispetto all'intervallo intercorso tra le due prove precedenti (uscite l'una a distanza di due anni dall'altra), ma ne è valsa la pena. I nostri tornano infatti con Funeral Radio (per l'etichetta My Kingdom Music), prova in cui si intravede una certa maturità stilistica insita in un lotto di brani davvero gustosi e dotati del giusto tiro. Dunque è andata decisamente bene. Aspettare un paio di annetti in più e ritrovarsi con questo autentico gioiellino è da considerarsi tempo "ben speso", considerato che si è dato modo ai nostri di elaborare trame ancor più goderecce, studiate e perché no, anche "personali". Non è un segreto che i nostri abbiano come "mentori spirituali" gruppi tipo i Type O Negative, i Black Sabbath e i Moonspell, ma, per quanto anche in passato la loro personalità si è saputa elevare al di sopra di tutte queste influenze, stavolta - secondo il modesto parere di chi scrive - si compie un ulteriore passo in avanti, avanzando in personalità e lasciando leggermente dietro richiami evidenti ai gruppi di cui sopra. Poi, se si vuole giocare a tutti i costi a fare i R.I.S. (ma non serve, dato che la bellezza di una proposta trascende le eventuali strizzatine d'occhio), chiaramente alcuni piccoli richiami ai Black Sabbath, o ai Danzig, o ai Monster Magnet, sono percepibili qua e là: come nell'opener Master Of Depression, in cui vengono messe in campo certe influenze stoner/doom, la più "evidente" delle quali (evidente da virgolettare, dato che ho già specificato la loro fortissima personalità) è proprio riferibile a quella della band di Dave Wyndorf. Se entrate al cospetto di questo disco armati di bisturi sicuramente, sezionando il tutto a dovere, troverete qua e là altre strizzatine d'occhio. Ma se l'intento è di ascoltare per sezionare vi consiglio vivamente di passare ad altro: qui ciò che conta è quanto ogni singolo brano sia capace di trasmettere emozioni, e, ragazzi miei, i brani contenuti in questo energico florilegio di emozioni ne trasmettono a iosa. Siamo di fronte ad un parto discografico dotato di grande energia, emozionante, che riesce a rincarare il proprio appeal metallico rispetto al disco precedente (più oscuro, più gotico) e dunque portandosi maggiormente verso lidi stentorei, granitici ci assale con una gragnola di brani forgiati sul miglior stoner/doom che si possa chiedere al giorno d'oggi, almeno da una "nuova realtà" del settore. Inutile citare un brano rispetto ad un altro dato che sono tutti di ottimo livello. Almeno non qui, dato che queste poche parole vogliono essere una sommaria introduzione al disco. Quello che ci interessa sapere è che con questo nuovo disco i nostri sono riusciti a totalizzare un bellissimo risultato, e chi mi conosce e sa l'importanza che do al terzo disco di un gruppo, sa bene che per chi scrive questo è già un traguardo. Ma voglio evitare di dilungarmi oltre, lasciando varie considerazioni più approfondite per la parte finale di questa recensione. E, prima di passare alla nostra consueta track by track, vi lascio con uno spaccato biografico dei nostri pescato direttamente dalla loro pagina facebook: "La band romana Witches of Doom nasce a Gennaio 2013, quando Federico Venditti -chitarra (ex Ossimoro), Danilo Piludu-voce-, Eric Corrado-tastiere - Jacopo Cartelli - basso- e Andrea Budicin-batteria uniscono le proprie forze e le proprie esperienze musicali per dar vita ad una band di goth-stoner-doom rock, che spazia dai nomi tutelari anni 70 fino agli anni 90. Il combo capitolino inizia a provare subito pezzi propri cercando una formula musicale più personale possibile. Dopo un paio di mesi le "Streghe" iniziano a calcare i palchi di molti club romani mettendosi in mostra per la loro carica goth rock, facendosi le ossa con molti gruppi già affermati. Avendo composto più di dieci brani inediti, la band si concentra nell'arrangiamento degli stessi e ad inizio Novembre si rinchiude negli Hombre Lobo Studios con l'esperto Fabio Recchia in cabina di regia, dando vita al debutto "Obey", dieci brani di puro goth-stoner-doom rock, che pesca e prende ispirazione dai Black Sabbath, Cult, Paradise Lost, Doors ma anche Sisters of Mercy e Depeche Mode e molti altri. La band subito dopo l'uscita del disco firma per la Sliptrick Records e si imbarca in tour nei paesi baltici e in diverse date in Italia riscuotendo un ottimo responso di pubblico e di critica di settore. Nel 2015 i WoD registrano con Paul Bento ( ex Type O Negative e Carnivore) alla chitarra solista il singolo New Year's Day degli U2 filmando anche un video. Nel 2016 la band torna agli Hombre Lobo Studios per registrare il secondo lavoro Deadlights, mixato da Fredrik Folklare degli Unleashed. Il sound del gruppo versa non piu' solo sullo stoner doom, ma anche sul goth dark- wave e industrial. I Witches of Doom hanno aperto le date del tour nord Europeo dell'ex Misfits Michale Graves. Alla fine del 2019 la band firma un nuovo contratto discografico con la My Kingdom Music per la pubblicazione del terzo disco Funeral Radio in uscita il 3 Aprile 2020.". Benone, detto questo direi di passare alla nostra consueta disamina delle varie tracce.
Master Of Depression
Si inizia benissimo con la opener "Master Of Depression" (Signore Della Depressione), introdotta da un preambolo vagamente "misterioso" a suon di basso e batteria (molto dosata). Presto tale introduzione si apre a ritmiche possenti trainate da un riffing poderoso e roboante e da una batteria ben più decisa. A neanche un minuto entra in campo la voce di Danilo "Groova" Piludu che ci pone di fronte ad uno spaccato "introspettivo" di un personaggio non specificato. Il testo proposto, infatti, evidenzia tutte le paranoie, le angoscie di un uomo che sembra perseguitato dalla depressione. Una depressione che sembra quasi assumere i caratteri di un qualche tipo di "essere", un oscuro signore pronto a dispensare tormento (come si evince dal passaggio che recita "Signore della depressione/ Che uccide tutti i miei sogni"), per quanto tale personaggio sia in realtà la personificazione del male di vivere del protagonista. L'uomo sembra destabilizzato, funestato dal malessere, ad un passo dalla follia, e anche rivolgersi alla sua depressione dandole forma sembra essere un chiaro sintomo del suo lento scivolare verso una insondabile bruma mentale. Nel mentre il brano sembra assestarsi su coordinate in mid tempo di chiaro retaggio stoner/doom, fregiate da un rifferama pregevolissimo reiterato ad libitum. La batteria si dimostra parca, non invasiva, perfettamente funzionale alla struttura del brano. Pochi gli scossoni in un pattern che sembra acquistare un netto plusvalore proprio dalla sua gustosa linearità. Qualche lieve variazione ritmica verso il minuto e venti, con un brevissimo frangente quasi alienante, reiterato in maniera non dissimile circa un minuto dopo. Quindi uno stop and go di batteria quasi verso i tre minuti e venti che porta ben presto ad un gustosissimo intarsio strumentale, che riprende in poco tempo il motivo di base.
Coma Moonlight
"Coma Moonlight" (Chiaro Di Luna Comatoso) si caratterizza per un testo decisamente poetico per quanto venato di una luce scura, catacombale: un uomo si aggira per delle strade in cui sembra regnare la desolazione, perdendosi in strane elucubrazioni, tipo che "gli uomini morti raccontano e non dicono bugie". Strani passaggi sembrano accentuare il carattere assai particolare di questo testo: inizialmente si è portati a credere che sia il buio a regnare sovrano, e la parte che recita "le luci vengono uccise, stasera", sembrerebbe convalidare questa tesi. Non fosse per un nuovo passaggio, poco più in là, che parla di una luce bianca, luce vergine, che inonderebbe tutti queli ormai rimasti nella più totale solitudine. Ma il brano sembra vivere di "emozioni", di particolari spaccati lirici, quindi penso sia inutile e fuorviante tentare un'interpretazione. Fulcro di tutto rimane comunque la solitudine, ben espressa in più frangenti, che sommerge tanto le strade "marce e perverse" solcate dal protagonista, quanto l'animo di quest'ultimo. Sul piano musicale il brano si caratterizza per un'introduzione basata du un rifferama avvilente, umbratile, destinata nell'arco di una trentina di secondi a svilupparsi verso un mid tempo ancora caratterizzato da un andamento tendenzialmente cupo. Il tutto viene gestito su un mid tempo portato avanti su reiterati stop and go di chitarra e batteria, ed assume sin da subito un carattere pregno di sepolcrale fascino. Una piccola variazione nel pattern generale viene messa in campo verso il minuto e dieci (e reiterata successivamente), quando agli gli stop and go di cui sopra si sostituisce un riffing cristallino, energico, melodico sul quale si erge la voce ancor più decisa di Piludu. Dal minuto e quaranta il brano si riassesta sulle sue coordinate portanti a base di stop and go e una voce più mesta del bravissimo singer, e il tutto subisce pochi scossoni sino al riaffacciarsi di una parte non dissimile a quella già udita verso il minuto e dieci. A circa metà brano fa il suo ingresso un frangente strumentale di ottima fattura, capace di spezzare egregiamente un pattern tutto sommato lineare, e che proprio di tale linearità fa il suo cavallo di battaglia. Ancora un brano ottimo in un disco che ignora completamente qualsasi genere di cedimento.
Queen Of Suburbia
Con il terzo brano "Queen Of Suburbia" (Regina Della Periferia), ancora una volta siamo deliziati da un testo ricco di spunti poetici: stavolta, infatti, il brano sembra concentrarsi su una visione idilliaca di una coppia arsa dall'amore e accomunata da un egual destino. I due sembrano volare e cadere nel cielo dipinto di rosso, ed entrambi hanno la sensazione di poter toccare le stelle. Corrono e volano più alti di ogni cosa immaginabile, e, tramutandosi quasi in comete, sembrano fondersi sino a divenire una sola cosa. Si abbatteranno e bruceranno da qualche parte, moriranno velocemente come hanno vissuto, veloce come è stato il loro intensissimo amore. Due fuochi che arderanno per sempre, anche al termine della loro vita, dato che l'amore è una imperitura fiamma destinata a perdurare in eterno. Musicalmente il brano è inaugurato da un fregio chitarristico "denso" ed emozionale, presto raggiunto da sparuti rintocchi di batteria. In breve si scivola nella struttura principale, impostata ancora una volta su tempi medi e caratterizzata inizialmente da un riffing che ripesca dal primo intarsio chitarristico. Presto a tale riffing ne subentra uno ben più deciso e granitico, ben scandito da ossessivi colpi al drum kit. Superato ampiamente il minuto il brano si assesta su una struttura decisamente melodica, gestita su tempi medi e corroborata dall'ottima ugola di Piludu. Successivamente (quasi verso i due minuti) il pattern è screziato da un passaggio particolarmente incalzante (movimentato dai colpi irrequieti d batteria) prima di un ritorno alla main structure melodica ed avvincente. Oltrepassati i tre minuti e venti ci si incanala in un frangente più "misterioso", atmosferico, sostenuto da un incessante tamburellare di batteria, quasi tribale. A serpeggiare al suo interno, una melodia lontana, lasciva, che fa capolino qua e la apparendo e scomparendo nel tessuto brumoso imbastito. E in breve si scivola verso un frangente strumentale ancora una volta estremamente pregevole, che dona nuovamente grinta al brano. Sugli scudi un lavoro di chitarra decisamente evocativo ad opera del grande Federico Venditti.
Funeral Radio
"Funeral Radio" (Radio Funebre), la title track, ci regala un ottimo testo basato stavolta sulla dipendenza da droghe, e lo fa con la solita finezza poetica tipica dei nostri. Già nelle prime battute la cosa è palese: una voce fuori campo ammonisce il protagonista di gettar via quella pillola - la propria coscienza che vorrebbe che lui smettesse di assumere droghe? - che gli fa vedere "dinosauri neri e verdi che si sciolgono in un mare galattico". La voce - che, come specificato, si presuppone sia una voce interiore dello stesso protagonista - gli dice di lasciar stare tutti quei mostri cosmici, di "ucciderli" eventualmente. E in breve il protagonista inizia a sentirsi bene, rilassato, in mezzo a quel fumo che "rimbomba e ammazza le luci". La radio funebre (al canale 666: probabilmente un omaggio a Dylan Dog dato che il numero 15 della testata si chiama proprio così) trasmette una sinistra melodia che accentua ancor più il senso di relax del protagonista. Si percepisce che è ancora sotto effetto di narcotici. Questi sente quasi di volare, di essere una sorta di selvaggio. E sente di dover afferrare la pistola e con un gesto repentino di fulminare all'istante tutti quei mostri che potrebbero varcare la soglia della sua casa. Stavolta nel brano l'introduzione è affidata ad un intarsio chitarristico tanto misterioso quanto accattivante. Si gioca parecchio sulla creazione di atmosfere, intessendo con una certa semplicità un preambolo soffuso e crepuscolare. Subentra in breve l'ugola di Piludu, inquietante nel suo uso di tonalità quasi allucinate. Il brano si assesta così su un pattern fosco gistrato su tempi relativamente rallentati. Verso il minuto e venti la voce di Piludu diviene tonante, e immediatamente il brano scivola su binari totalmente e magnificamente doom, impreziositi dal chitarrismo ossianico di Fed Venditti, che ancora una volta si domostra maestro nell'architettare trame di sommo fascino. Il pezzo improvvisamente si rivitalizza scivolando su tempi medi possenti, granitici, e iniziando ad avanzare come un mastodontico pachiderma imbizzarrito. Tra un preziosismo e l'altro, i nostri ci regalano un finale magistrale basato su un frangente strumentale di estrema bellezza, decadente quanto basta e perfetto per porre il sigillo ad un brano considerabile tra i migliori di questo lotto di autentiche perle.
Sister Fire
"Sister Fire" (Sorella Fuoco) sembra riagganciarsi, testualmente, al secondo brano "Coma Moonight": ancora una volta abbiamo un personaggio solo, intento a camminare per le strade di una città. Stavolta la città è descritta come "città della luce" (che può avere valenze poetiche/oniriche), e l'uomo, nella sua solitaria camminata, sembra celebrare la luna piena. I suoi ricordi sono vividi e si perdono in mille rivoli, come quando fu partecipe di una qualche estate indiana. E quella estate, quegli accadimenti, lo portano a strane riflessioni sul fuoco che arde, relazionato nella sua mente al suo eterno desiderio. E pensa a quella città, sordida, sporca, peccaminosa che sembra strisciare come un cane stanco distribuendo peccati ai suoi figi bastardi. Fuoco fraterno, dispensatore di vita in una città riprovevole, dispensatrice di morte. Il brano è stavolta inaugurato da un riff energico che in breve permette alla struttura di stabilizzarsi su tempi più scattanti rispetto ad altri pezzi sentiti in precedenza. La chitarra pennella un riffing fragoroso, e la voce si erge tonante. Facile percepire una seppur vaga somiglianza con il mood dei Type O Negative meno lugubri, con la chiara differenza insita in un singer dalla voce meno catacombale e più arcigna. Ottimo il refrain (verso il minuto e dieci), parecchio melodico e in linea con il resto del brano. Degno di nota anche un affascinante frangente strumentale piazzato a metà brano: uno passaggio inizialmente atmosferico, dai toni algidi e pacati, che impenna acquistando energia nelle ultime battute.
Ghost Train
La successiva "Ghost Train" (Treno Fantasma) si fregia di un testo davvero particolare, a tratti anche vagamente introspettivo: una voce fuori campo sottoinea, sin dalle primissime battute, che "il problema è un luogo deserto", e riferendosi ad una qualche persona asserisce che sul suo volto sono scolpite la fede e la devozione. Ma che tutta la fede del mondo, tutto l'amore per Gesù non potranno mai essere testimoni delle pene patite nella sua vita (auto riferimento da parte della voce narrante). L'uomo - voce narrante e protagonista - dichiara di aver perso la fede per diventare ricco, e ricorda con una certa amarezza gli amici perduti nella città solitaria da cui proviene. Un treno "fantasma" lo porta in un lungo viaggio ne quale in nostro riflette sulla sua ascesa che lo ha portato quasi alla follia. Passando alla parte musicale, notiamo come nelle primissime battute si aprano le danze con dei rumori confusi, voci giustapposte, strane frequenze: come una radio che fatica a sintonizzarsi su una stazione precisa. In breve si entra nel brano vero e proprio, pennellato su toni mesti, che vede quasi subito l'ingresso della voce di Piludu: e stavolta il paragone con i TON, oltre che per la tipologia di brano proposta, viene spontaneo dato un impostazione vocale che ricorda abbastanza quella di Peter Steele. Il brano nel giro di pochissimo inizia a caratterizzarsi come una sorta di nenia sepolcrale, macilenta e dall'andamento contenuto. Ma dopo non molto si passa ad una parte più grintosa, energica, in cui fa bella mostra di se un riff possente che funge da perfetto contraltare alla voce possente del singer. Il refrain, verso il minuto e venti, si caratterizza per una certa inclinazione melodica, che ben si sposa con il resto delle trame articolate. Dal minuto e quaranta il brano scivola nuovamente verso un andamento più soffice, riacquistando vigore passati ampiamente i due minuti. Un pezzo di notevole fattura, al sapor di ballad, che ancora una volta sottolinea con vigore l'indubbia bravura dei nostri.
November Flames
"November Flames" (Fiamme Di Novembre) si nutre, testualmente, di materia brumosa, crepuscolare, decadente: siamo in un'ambientazione notturna - a mezzanotte precisamente - e un uomo è immerso nella solitudine in presenza di poche candele che bruciano, uniche testimoni delle sue confessioni. Questi sembra perdersi in brevi barlumi introspettivi amareggiandosi nel ripensare al suo passato. Ma sono brevi riflessioni, destinate a durare il battito di ali di una farfalla. Brevi flash nella sua memoria segnata dal dolore. Fuori brilla la luna, nel massimo del suo splendore, mentre dentro di lui arde un sole nero. E inizia a cadere la pioggia. Pioggia acida che cade sulle fiamme di novembre mentre i sogni di un'altra vita inchiodano l'uomo al suo destino. Stavolta il brano è inaugurato da un riffing malinconico, emozionale, ben cesellato da un Venditti come sempre particolarmente efficace. Un riffing crepuscolare che ben si sposa con il testo proposto. Intorno al quarantesimo secondo, in concomitanza con un cambio strutturale (evinto dall'uso di stop and go di chitarra) subentra la voce grintosa di Piludu, che da un impostazione più "classica" (per i suoi standard) passa in breve a toni arcigni. Il brano prosegue su tempi cadenzati per poi aprirsi, verso il minuto e trenta, a un passaggio decisamente più melodico. Verso i due minuti il pattern viene interrotto da un frangente passaggio quasi "atmosferico", per riprendere in breve energia e riassestarsi su ritmi cadenzati screziati sovente da stop and go di chitarra. Arrivati ai tre minuti siamo deliziati da un altro passaggio melodico, memore di quello già evinto verso il minuto e trenta. Si impone uno stop in fade out verso i quattro minuti, che in maniera organica fa confluire il brano verso una parte fondamentalmente strumentale, in cui c'è solo un residuo blando e distante della voce di Piludu, avvertibie in lontananza. Un minuto dopo il brano sembra animarsi ulteriormente attraverso rintocchi se possibile più decisi di batteria, e un cesello chitarristico grintoso e passionale. Nenache trenta secondi dopo il brano incrementa la sua velocità, con una batteria che scandisce rintocchi sempre più decisi, e pochi secondi dopo la velocità sembra aumentare ulteriormente (sempre merito della batteria), sino alla fine del brano. Ancora un ottimo brano, perfetto in ogni sua parte, capace di fare breccia sin dal primissimo ascolto nel cuore di ogni metalhead che si rispetti.
Hotel Paranoia
Concludiamo alla grande con "Hotel Paranoia", dove stavolta ci si affida ad un testo particolarmente cupo, in cui un uomo, ospite di un Hotel chiamato Paranoia, è soggetto al tormento ossessivo di uno strano personaggio (voce narrante fuori campo). Quest'ultimo rende già dall'inizio manifesta la sua acredine, tentando di spaventare l'uomo ("ombre spaventose ti circondano/ io sono l'ossessivo che ti chiama a mezzanotte") e facendogli presente che, nel caso dovesse sentire un qualche rumore sospetto, questo potrebbe essere in realtà la sua voce, e la cosa potrebbe essere sintomatica di una sua morte imminente. Gli dice che non sarà più lo stesso (dandogli ironicamente il benvenuto nell'Hotel Paranoia), e mentre cade incessante la pioggia lui non potrà fare più affidamento alle sue menzogne - da quanto si evince più in là le menzogne potrebbero coincidere con la sua fede - per salvarsi. Anche qualsiasi possibilità di fuga è impensabile, considerando che il persecutore ha sottratto le sue chiavi della macchina. La sua fede ben presto sarà sepolta con le sue spoglie sei metri sotto terra. Quest'ultimo grande brano si caratterizza per un'introduzione vagamente misteriosa di synth, a cui fa seguito, oltrepassato il trentesimo secondo, un riffing spettacolare, poderoso e dotato di un fascino immenso. Il grande Venditti nello sciorinare un passaggio simile, dotato di tantissimo carattere, si è superato. Superato il minuto si entra a pieno regime in ritmiche cadenzate supportate dalla voce stentorea di Piludu, che ancora una volta non esita nel lesinare le proprie doti canore. Il brano prosegue imperterrito su queste ritmiche sino al refrain (intorno al minuto e trenta, che ricorda vagamente quello di Hotel California in salsa spettrale. Un refrain stupendo, angoscioso e godereccio. Quindi si riparte nelle coordinate portanti, su ritmiche cadenzate sorrette dal riffing magico di Venditti e dalla batteria di Ciacciarelli. Ancora una ripetizione del refrain, quindi un breve stop (in fade out) che lascia presto spazio ad un intarsio psicotico di chitarra, e, in seconda battuta, al tamburellare marziale del drum kit. Il tutto scivola prestissimo in un frangente strumentale malinconico ed emozionale destinato a perdurare sino a ben oltre il quarto minuto. A seguire abbiamo urla strozzate del vocalist che fanno da contraltare ad una parte estremamente cadenzata, e una parte successiva basata su reiterati stop and go di chitarra e batteria. Al termine di tale parte si sciorina nuovamente il refrain. Arriviamo ai cinque minuti e mezza, e il brano ricomincia a muoversi su tempi cadenzati, stavolta strani, morbosi, pachidermici e mortiferi. Una lunga coda strumentale che ci porta magnificamente alla fine di questo brano, che, senza dubbio è possibile classificare tra i migliori del lotto.
Conclusioni
Cosa aggiungere, arrivati a questo punto? In realtà non moltissimo, considerando che parte delle mie considerazioni sono state riservate per l'introduzione della recensione. Da parte di chi scrive è facile notare un notevole entusiasmo per un parto discografico che non smentisce affatto l'enorme pregio della proposta, e anzi, si pone probabilmente come il disco più maturo e riuscito del combo romano. In precedenza i nostri hanno dimostrato di avere decisamente le idee chiare e di avere un bagaglio di ispirazione invidiabile. In questa loro terza uscita discografica tutta la loro ispirazione e la loro chiarezza di idee vengono riversate in un disco energico, grintoso, ben suonato e cantato, privo a tutti gli effetti di punti deboli. Un disco in cui il fattore ispirazione impera sovrano, allontanando qualsiasi possibile scivolone o sensazione di stantio. Tutto qui funziona alla grande, a cominciare dai vari strumentisti: bravissimi tutti, dal bassista Jacopo Cartelli, parte integrante di questo inossidabile motore, al batterista Francesco Ciacciarelli, autentica macchina da guerra, quasi un tutt'uno con il suo strumento. E menzione particolare al grande Fed Venditti, chitarrista di indubbio valore, che è stato capace di tirare fuori dalla sua ascia un lotto di riff davvero spettacolari. Eccellente il singer, Danilo "Groova" Piludu, duttie ed espressivo come pochi, senza il quale questo disco e i precedenti avrebbero avuto un enorme plusvalore in meno. E un plauso a tutti per tutta l'ispirazione e l'energia messe in campo, che sono risultate indispensabili per tirar fuori dal proverbiale cilindro un simile platter, che, come ripeto, potrebbe porsi tranquillamente come vertice attuale della loro discografia. Insomma, tanto per ripetermi, tutto qui funziona. I nostri possono tranquillamente rivaleggiare con le più grandi realtà del settore, perché, se tre dischi sono stati tre centri, allora abbiamo la piena dimostrazione che i nostri non sono meteore e hanno davvero molto da dire. Sapendolo dire alla grande. Passando ai testi, anche qui la soddisfazione è massima: i nostri dimostrano di padroneggiare una certa poetica, non banalizzando le tematiche affrontate, che pescano in buona parte dallo spleen, dall'angoscia esistenziale e da spaccati visionari gestiti magistralmente. Come nell'opener Master Of Depression o nel brano finale Hotel Paranoia, praticamente due facce della stessa medaglia: il primo narrato dal punto di vista di un uomo "perseguitato" dalle sue angoscie, e il secondo narrato dal punto di vista di un "persecutore", un personaggio in cui è resa esplicita la volontà di dare tormento ad un malcapitato. O negli spaccati visionari di Funeral Radio, in cui si palesano visioni allucinate che provengono dalla mente di un uomo - possibimente - sotto effetto di narcotici. Ma anche nelle istantanee introspettive di Coma Moonlight, Sister Fire e November Flames, incentrate su flash riflessivi di uomini soli, inchiodati al loro spleen esistenziale. Ogni testo messo in campo si dimostra essere una piccola perla poetica, e nessuna delle liriche proposte pecca di scarsa raffinatezza. Dunque, a conti fatti è il caso ribadire che ogni cosa è articolata perfettamente, e tutti gli elementi sono sorretti da una vena ispirata che si palesa nella freschezza complessiva del prodotto in questione. La freschezza e l'ispirazione non sono cose che puoi studiare a tavolino: se questi elementi mancano, anche un lavoro considerabile di buon livello suonerà "posticcio" (o nel caso la mancata ispirazione sia compensata da un mirabile lavoro strumentale e lirico la cosa non sarà immediatamente evidente ma il retrogusto artefatto non mancherà, dopo attenti ascolti, di palesarsi), mentre qui tutto suona fresco, "vivo", emozionante. E sarebbe per me impossibile non promuovere un simile gioiellino con un voto alto, e consigliarlo caldamente a tutti quei metalheads che cercano un prodotto vero, capace di regalare sensazioni, di affascinare. In primis ai metalhead che ascoltano stoner/doom (per loro, già avvezzi a questo sound, sarà un qualcosa di stupefacente), e in secundis ad una fascia più generalizzata di metallari, quelli onnivori, quelli occasionali, che non hanno remore, non sono attaccati ad un preciso genere e non hanno problemi nell'ascoltare di tutto. Anche per loro sarà una gustosissima sorpresa. Non perdete l'occasione per fare vostro questo gioiellino, dato che stavolta i Witches Of Doom si sono superati. Bravissimi ragazzi, e attendo con ansia il quarto disco. Se queste sono le prospettive, la prossima volta è facile aspettarsi un lavoro a dir poco immenso!!!
2) Master Of Depression
3) Coma Moonlight
4) Queen Of Suburbia
5) Funeral Radio
6) Sister Fire
7) Ghost Train
8) November Flames
9) Hotel Paranoia