WARREL DANE

Praises to the War Machine

2008 - Century Media Records

A CURA DI
GIANCARLO PACELLI
04/09/2019
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione recensione

Se dovessimo fare un'ipotetica classifica delle band più fondamentali in ambito metal di stampo anni '90, è impossibile non accennare ai Nevermore, combo formato nella Seattle tappezzata di grunge del 1994 da Warrel Dane e Jim Sheperd. Si trattava di un'epoca di certo assai difficile per il mondo dell'heavy metal, che vide in pochi anni il decadimento di frange fondamentali come il thrash metal o il glam. Il metallo pesante, a metà anni '90, si trovò quindi, quasi inaspettatamente, a "soffrire" la presenza e la risonanza ingombrante di gruppi che avevano tutt'altra attitudine rispetto al roboante universo del metallo: un universo che aveva dominato la decade degli anni Ottanta con l'illusione di fare lo stesso nel decennio successivo ma che, a conti fatti, non è stato così. I Nevermore quindi muovono i primi passi in questi anni di rivoluzione per la musica. Anni di certo non proprio facilissimi, in quanto la valenza commerciale dei gruppi scritturati da etichette discografiche come, ad esempio, la SubPop (nota per aver "gettato" il seme dello sporco grunge), dominavano le richieste. Nonostante tutto, la band riuscì' a racimolare un gran quantitativo di popolarità grazie ovviamente alla percettibile qualità della proposta. Non serve un orecchio particolare per intendere la finezza con cui le geometrie venivano intavolate dal combo. Dopo aver stabilito una sua solida line-up, il gruppo non ha tentennato troppo nel mostrare la propria pasta, e grazie anche all'estro micidiale delle corde di Jeff Loomis, è riuscita a collezionare dischi su dischi dal valore sopraffino, in cui vengono immessi in un'unica atmosfera la violenza del thrash con la raffinatezza dell'US power, il tutto condito da una punta di progressive nelle composizioni. Non a caso il gruppo avrà una sua personalità che farà a suo modo scuola all'interno degli ambienti competenti, sempre aizzati dalla fiamma del metallo nonostante l'incursione molesta dell'alternative rock macinatore di chart. L'elemento principale che spicca quando si scorgono i secondi di una canzone dei Nevermore è, oltre alla tessitura di un guitar hero come Jeff Loomis con in braccio la sua sette corde, l'abilità vocale del cantante/paroliere Warrel Dane, che in poco tempo è riuscito a scavalcare altri nomi anche più blasonati, diventando sempre più possente sia a livello attitudinale sia per quanto riguarda il modo con cui i suoi vocalizzi impattano nella costruzione dei pezzi. In pratica Warrel era uno strumento aggiuntivo, rabbioso nei momenti più funesti e rapidi, e delicato nei pressi di un abbassamento tonale o in concomitanza con arpeggi acustici; la musica venne vista come valvola di sfogo per un frontman circondato da fantasmi e inghiottito da demoni. Ciò che rendeva i Nevermore una grande band era proprio Warrel Dane: un autentico giullare della sofferenza, che nel 2008, nel bel mezzo del periodo in cui la band era in pausa, decise di realizzare il suo primo effettivo lavoro solista, messo in piedi sotto l'attenta egidia della Century Media Records (label che ha anche affiancato la band madre). Un lavoro che, quindi, si prospetta come la mera riproposizione del Nevermore Sound rivisto sotto un'ottica più sfumata nelle retrovie cantautorali? Da un certo punto di vista Warrel dona al suo "Praises To The War Machine" un'atmosfera meno violenta e più ragionata, improntata su composizioni meno irruente rispetto all'anima anticonformista dei Nevermore. La formazione messa in piedi dal vocalist, nonostante non arrivi a livelli tecnici come quella della band madre, offre nomi pesanti del mondo heavy; il pacchetto include Peter Wichers alla prima chitarra/basso (fondatore dei Soilwork), Dirk Verbeuren (noto per il lavoro svolto con gli stessi Soilwork e Aborted) dietro le pelli e Matt Wicklund alla seconda chitarra (ex chitarra degli Himsa, formazione metalcore statunitense). Detto questo non resta che augurarvi buona lettura!

When We Pray

La natura primordiale del pensiero di Warrel esce subito allo scoperto nella prima composizione proposta: When We Pray (Quando Noi Preghiamo). Soffermandoci sul verbo messo in luce, si capisce immediatamente che il tasto dolente che si andrà a toccare riguarda la religione e tutto ciò che ne consegue. L'amarezza è impregnata nei primi versi di questa opener track, che offre inizialmente una fragorosa sezione ritmica: Dirk Verbeuren sforza fino all'inverosimile le sue bacchette con una introduzione ferrea e sistematicamente agganciata ai primi passi delle sue chitarre ; il dialogo di queste ultime e la batteria fomentano l'atmosfera iniziale. Un amalgama nichilista e furibondo, direttamente correlato di invettive contro la religione e lo stato: Just look at how far that we have fallen / I am a slave, I feed the fire, I am a pawn / Within this world gone so wrong (Guarda quanto lontano siamo caduti / Sono uno schiavo, nutro il fuoco, sono una pedina / All'interno di questo mondo andato così male), c'è bisogno di aggiungere qualcosa? Tutto fila liscio, con una sintassi diretta e senza fronzoli, così come il riffing che, in questo momento, evita divagazioni fin troppo melodiche. Le chitarre bruciano, le linee di basso (suonato dallo stesso Peter Wichers) fanno da supporto mentre il drum set sa muoversi come si deve, permettendo al brano di mostrare la sua faccia più ariosa e pomposa; una volta giunti al chorus, quest'ultimo mette in luce la profondità vocale di Warrel perfettamente inserita nel pacchetto strumentale, mentre liricamente il nostro affonda come si deve contro l'incompetenza delle amministrazioni, dei governanti, che sanno solo aumentare la loro avidità disinteressandosi dei problemi che affliggono le persone normali (Il mondo è governato da sciocchi e ladri / Con un talento per il potere e un gusto per l'avidità): qui tastiamo una certa componente residuale dei Nevermore, noti appunto per essere il mezzo con cui Dane sputava le sue sentenze mirate. Il ritornello appena addentato assesta le parti di questa "When We Pray" con le due asce, che attenuando per qualche secondo la loro predisposizione thrash, si aprono con accordature meno serrate. La dinamica del brano non presenta stravolgimenti, in quanto lo schema esercitato dagli strumentisti non si discosta dalle metriche iniziali, sebbene in questo momento la melanconia abbia ancora più preponderanza; ma la cosa oggettivamente spettacolare è il già citato ritornello, in quanto permette a noi ascoltatori di addentrarci meglio nei meccanismi lirici proposti da Dane. La tonalità bassa delle vocals di Warrel, miste alle segmentazioni vocali (sempre di Warrel), immesse in background, favoriscono entrate armoniose di un certo tipo, come ad esempio le note esaltanti dell'assolo conclusivo che cristallizza l'efficacia di questo brano. Un brano di heavy metal melodico che non disdegna entrate thrash e speed, quindi perfetto per inaugurare questo disco.

Messenger

L'assetto strumentale preme sin dal primo secondo nella seconda traccia Messenger. Un giro ondulatorio di accordi rotea come una trottola allacciandosi al basso e alla batteria, prima che percettibili cambi di tempo permettano a Warrel di impugnare le redini del brano. Assetto heavy fino al midollo quindi, con un Dirk Verbeuren che si immette nel torrenziale dello storytelling di Dane: nuovamente vengono scagliate frecciate nei confronti di un soggetto che non viene direttamente espresso dal cantante, ma potremmo definirlo come ciò che non ci permette di agire per paura di sbagliare. Dane si scaglia contro qualunque forma in grado di diventare contaminatrice del nostro pensiero umano, in maniera negativa naturalmente ("I'm the one you called a liar"; Sono quello che hai chiamato bugiardo). Le parole di Dane bruciano producendo un fumo asfissiante che arriva a toccare il cielo; nel mentre il basso punge come una pianta spinosa e le chitarre modulano una serie di accordi acidi come la propensione vocale di Warrel, che in questo caso giunge a toccare livelli arcigni e meticolosamente rabbiosi; e non potrebbe essere differente da così se riflettiamo un po': qui la vena da songwriter emerge in maniera più poderosa mentre, strumentalmente, "Messenger", permette il riecheggiare di varie rimembranze dei Nevermore; non a caso non abbiamo solo una traccia costruita su trame pulite ma Dane sforza in modo evidente il proprio timbro. Ma tutto questo evidentemente crolla appena arriviamo allo step ritornello, il punto in cui tradizionalmente Warrel cerca di aprirsi su di uno spettro arioso e meno incisivo rispetto alle altre sezioni del brano. Le linee di chitarra di quest'ultimo presentano una stesura ancora più mirata e organolettica, e questa si deve alla presenza della sette corde di Jeff Loomis, proprio il guitar hero dei Nevemore è presente in questa "Messenger", rendendola una traccia dal punto di visto della scelta e del gusto melodico molto più dinamica e fresca. Terminato il ritornello riaccogliamo le vocals di Dane, di nuovo tirate a lucido e molto più taglienti e seghettanti; sembrano provenire da una esperienza epilettica e delirante, il modo con cui si spalmano lungo l'asse ritmico è ciò che fa alzare il livello generale del pezzo. Un pezzo che preme e che spreme le nostre orecchie, con una certo tasso di orecchiabilità che giova alla struttura della composizione. Quest'ultima subisce un ulteriore tocco magnetico con l'assolo di Loomis: come sempre, la presenza e la padronanza dello strumento del chitarrista statunitense presuppone un certo livello tecnico, una certa scelta di note assolutamente non standard. La conclusione del solo fa deragliare "Messenger" verso nuovo mondi sensoriali, guidati ovviamente da Warrel, impregnato della sua nota capacità di catturare l'ascoltatore.

Obey

Un mid-tempo heavy e frizzante apre subito lo scenario della terza traccia di "Praises To The War Machine". Obey (Obbedire) annacqua la disperazione già testata  in precedenza , ma qui la stesura lirica si rivela molto diretta e poco stratificata. "Useless faith and numbered days / The end is near, we're all insane" (Fede inutile e giorni numerati / La fine è vicina, siamo tutti pazzi), la religione è solo retorica, è solo una chiacchiera che si insinua nella pelle; è solo un'apparente ancora a cui l'uomo si aggrappa con la speranza di riuscire a risolvere i propri moti interiori, che ovviamente data la loro complessità non saranno mai del tutto sedati dallo spirito religioso. Dopo un'introduzione come sempre molto dinamica, si percepisce una maggiore caratura ritmica con gli strumenti a corda che trasudano plettrate mirate in modo da dare vita a un riffing volutamente discontinuo: qui Warrel si innesta meravigliosamente, con un tono timbrico basso e rigorosamente implementato secondo coordinate puramente heavy metal; dal cantato serrato si passa facilmente ad un parlato che gocciola introversione; ma qui le vocals vogliono solo apparire sicure e tranquille, in quanto mostrano solo una voglia distruttiva di aprire e far aprire gli occhi a coloro che sono trattati come delle marionette (Puppets play your game). Il drumming articolato di Dirk Verbeuren si mostrano ben cadenzato e ritmicamente impostato, con i toni ribassati di Warrel, mentre nel frattempo le chitarre e il basso abbassano le loro frequenze in modo da valorizzare il resto. Ed ecco che il manifesto anti-religioso di Dane riesce a configurarsi con ancora più magniloquenza appena le due asce si aprono verso temi musicali più liberi, accogliendo la potenza vocale del nostro, in grado modulare come vuole il proprio range. Successivamente "Obey" accoglie una situazione arpeggiata, allontanandosi dal flavour iniziale, che dona ovviamente un brio particolare. Se prima accennavamo ad un'apertura melodica delle chitarre in favore della creazione di giuste atmosfere meditative, ora Wichers e Wicklund sparano a tutto volume un insolito ed elegante breakdown, in grado di simulare la tagliente verve di Warrel Dane; un Dane che, verso la conclusione, torna a sganciare una meticolosa e fragorosa tonalità, che si rivela azzeccata nel completare l'architettura della traccia; una traccia breve ma sufficientemente soddisfacente nei nostri confronti.

Lucretia My Reflection

Noto per essere uno dei brani anthemici dei Sisters of Mercy, Lucretia My Reflection (singolo estratto da "Floodland" del 1988) è il classico brano che non è sottoposto alle rigide regole del tempo. Anzi, oggi, come nel 1988, risulta ancor fresco e rigoroso grazie a quel tono in bilico tra malinconico e spettrale. Warrel, in questo primo disco solista, ebbe la brillante idea di voler riarrangiare il pezzo in chiave heavy metal. Non è la prima volta che il cantante ha eseguito una cover cercandola di rileggerla in maniera originale: i più attenti ricorderanno la stratosferica versione di "The Sound of Silence" dei Nevermore, originale brano di punta dei Simon & Garfunkel, impastata secondo paradigmi heavy. In questo frangente, Dane, nonostante non sia oltrepassato da una voglia "decostruttivista", ha eseguito un eccellente lavoro nel  dare una nuova vita al pezzo. Il riff introduttivo parte in lontananza, accolto dall'incedere batteristico di Verbeuren; poi, appena la struttura del brano carbura, ecco che le due chitarre iniziano il loro percorso di ravvivare questo classico eterno chiamato "Lucretia my Reflection". Dopo circa trentasette secondi, i toni chiaroscurali della voce di Dane si spalmano con una calma mistica, per poi colorarsi appena le aperture melodiche delle asce sobbalzano da una parte all'altra della parete ritmica. Qui il brano subisce una ulteriore venatura pesante, la quale raggiunge il proprio limite massimo appena il famosissimo chorus subentra nelle nostre orecchie: We got the empire, now as then / We don't doubt, we don't take direction / Lucretia my reflection, dance the ghost with me. (Abbiamo ottenuto l'impero, ora come allora / Non dubitiamo, non prendiamo la direzione / Lucretia, il mio riflesso, balla il fantasma con me). Beh, questo è oggettivamente un ritornello incredibile, partorito da una grande mente come Andrew Eldtrich, Warrel, dal canto suo, dà il massimo per renderla più confortevole in un lessico heavy metal; un'operazione non facile, ma il risultato finale parla da solo. Conclusasi il ritornello, la sezione ritmica (Wicherds/Wicklund) non delude minimamente, anzi le plettrate si fanno più rigorose e sistematiche, soprattutto quando il nostro innalza il proprio registro verso livelli altissimi. Come ben avete capito, il refrain è il cuore della traccia, ma in fin dei conti un posto importante lo riveste il tema musicale proposto innanzitutto delle battute finali, in quanto Warrel, guidato da una compostezza quasi olimpica, interpreta il tutto in una maniera assolutamente unica. Successivamente, una volta  riproposto il ritornello, una serie di accordi sghembi e di partiture di batteria robotiche, donano un nuovo brio ad un brano semplicemente infinito.

Let You Down

Una situazione arpeggiata bussa alla nostra porta nel prossimo brano, probabilmente uno dei capolavori del disco. Let You Down (Lasciati andare) è scoppiettante nella sua semplice struttura che è in grado si sfoggiare tanti colori e sapori. Le due chitarre si aprono impetuosamente con accordature morbide e delicate, quasi estranee ai paradigmi heavy; la valenza strumentale sfocia nel classico tono struggente sbandierato da Warrel tra un colpo di batteria e un altro. L'egoismo dell'essere umano sembra essere intriso in ogni nota proposta, ma non solo: ciò che subito risalta, una volta letto i primi frammenti del testo, è il parassitismo della religione con le sue regole e i suoi schemi; si comporta proprio esattamente come un virus che desidera soltanto insinuarsi nel cervello inerme del povero essere umano e modificarlo a suo piacere. Le parola usate da Dane sono pesanti come macigni, e questo non ci sorprende minimamente: nel frattempo le doppie chitarre enfatizzano la ricerca melodica, che questa "Let You Down", sembra portare avanti con fierezza; e il ritornello , in questo senso, è il preciso punto in cui vi è l'esplosione delle emozioni più recondite di Warrel. Conclusasi il raffinato refrain con la frase "For your deity has abandoned me such is vanity"(Perché la tua divinità mi ha abbandonato tale è la vanità), un ulteriore modo per accelerare la vena polemica di Dane, il brano prosegue senza clamorosi intoppi, in binari sicuri e diretti. L'inusuale utilizzo di chitarre acustiche non fa altro che mettere in piedi questo tappeto "ultramelodico" con nuove floreali movenze, che a conti fatti si dimostrano estremamente coordinate. Un brano che quindi liricamente è impregnato di una verve assolutamente incisiva, mentre per quanto riguarda il discorso strumentale/armonico, "Let You Down" è esattamente l'opposto; il solo di Chris Broderick (noto per essere stato il chitarrista live dei Nevermore, oltre che fido compagno di Dave Mustaine nei Megadeth per un breve periodo ) si inserisce discretamente nello scacchiere proposta, sia dal punto di vista ritmico, non coprendo eccessivamente il precedente lavoro delle chitarre, sia da quello melodico, in quando sembra essere l'equivalente in note della fragorosa vocalità di Warrel. Quindi, in conclusione, qui si punta su una certa sicurezza, su una modalità di intendere la melodia che colpisce in maniera positiva l'ascoltatore che difficilmente si dimenticherà del brano.

August

Come nella traccia precedente, voci registrate sono intelligentemente inserito in un quadro chitarristico inciso a dovere, pronto a supportare qualsivoglia plot strumentale. Ed è cosi che August (Agosto) subito azioni il pulsante "emozione" sin dalle prime battute, con un Dane ispirato come nelle tracce assaggiate prima; Warrel si sovrappone alle prime note di chitarra incantando noi e tutto ciò che ci circonda; tutto soggiace su di un fiume apparentemente tranquillo che però non rimane eternamente eclissato in tale situazione. Sotto un clima di Agosto, mese non scelto a caso proprio perchè si colloca tra l'estate e l'inverno, Warrel sputa gli umori di un uomo con un passato opprimente che merita di essere tumulato con una pietra enorme per sempre. Il clima di "August" si innalza violentemente a partire dal trentesimo secondo, fomentando lo stesso Warrel che, come sempre, impugna la spada di colui che cerca di combattere contro il destino (Destiny where are you? / Destino dove sei?); un'autentica chimera che sceglie le sue prede a suo gusto e piacere. Come abbiamo accennato prima, il tono delle chitarre e del basso aumenta impetuosamente e questo non fa altro che irradiare lo spirito guerrigliero di Dane; accenni strumentali cementificano un'atmosfera che non può non ricordare i Nevermore, ma questa "August" non si propone come una mera scopiazzatura del repertorio della band di Seattle, anzi: si percepisce in maniera discreta la personalità della composizione, nella sua scelta di note e nel chiarore viscerale che la voce del Nostro sprigiona in maniera evidente, soprattutto nel chorus oggettivamente carico di pathos. Conclusasi la prima parte, si riaprono le porte della sofferenza declinata da Warrel che preme con decisa compostezza a narrare le corde dell'anima e della immane tensione di quest'ultima. Ecco, che qui i musicisti coinvolti sfoggiano i loro poteri nascosti: Dirk Verbeuren destreggia un drumming tecnico e raffinato fino praticamente a separare in due questo brano, Peter Wichers regala riffoni esteticamente azzeccati nel fluire del suono qui proposto, che in questo preciso istante abbandona qualsivoglia cenno melodico.

Your Chosen Misery

Ad aprire lo scrigno dei ricordi di Warrel ora è una dolce chitarra che ricama sapientemente note su note giocando sull'emozione. La forza acustica di Your Chosen Misery (La tua scelta misera) impatta visceralmente con una negatività di fondo che trova la sua base nelle scelte sbagliate della vita, anzi le "scelte misere" come le chiama Warrel Dane; quelle scelte che noi compiamo ma che si rivelano sbagliate o non come le avevamo previsto. È l'imprevidibilità dell'esistenza, oltre che la delusione che alcune persone recano dopo che tu gli hai posto la tua sacra fiducia. La traccia, come abbiamo detto, inizia spargendo note acustiche semplicemente belle nella loro compostezza; Warrel attacca subito con la sua voce che sa come toccare le corde della nostra sensibilità, della nostra anima che è ricoperta di buchi derivanti dalle precedenti esperienze. Appena termina la prima parte del brano i vocalizzi di Dane premono discretamente sull'acceleratore cosi come Dirk Verbeuren che abbandona per un attimo la sua fama di "sfasciapelli" per abbracciare tempi molto più delicati. Il quadro elegante di "Your Chosen Misery" culmina in quel " And when I fall / I have the strength to learn the steps" (E quando cado / Ho la forza di imparare i passaggi): è chiaro che qui Warrel apre le porte del suo cuore decantando diversi errori commessi in passato, scelte sbagliate che si sono rivelate maledettamente pesanti, ma una cosa non può mancare, ossia imparare dagli errori imparando dagli "steps" (Passaggi) di questi ultimi. Una scelta coraggiosa in quanto aprire il proprio cuore non è certamente semplicissimo; la chiave per sbloccarlo l'abbiamo nascosta nella nostra mente, offuscata dai problemi che ogni giorno ci ostacolano. La melodia proposta prosegue senza ulteriori intoppi fino al ritornello raffinatissimo in cui Dane si pare a più registri abbandonando i toni bassissimi che fino a li erano stati preponderanti. Ed è proprio il refrain, anzi più che ritornello potremo definirlo come "innalzamento umorale" della traccia, a calare l'asso di questo stupenda composizione; stupenda nella sua mirata costanza melodica che non cede il passo a qualche divagazione che invece si poteva rivelare sbagliata. Il solo, anche in questo caso stupendo,  dura pochissimo, giusto il tempo nell'intervallarsi con le schegge vocali di Warrel e con la sua voce opportunamente registrata. Il corretto susseguirsi di vocalizzi e di chitarre corpose cala il sipario a questa traccia, una perla assolutamente indimenticabile. 

The Day the Rats Wents to War

The Day the Rats Wents to War è forse la composizione più diretta di tutto il platter; qui Warrel scatena la propria ira contro l'inutilità della guerra, frutto solo di un gioco di potere che mira solo a soddisfare gli intenti di poche persone. Il brano non può partire corrodendo le anime degli ascoltatori non solo attraverso un riffing mirato e preciso, ma anche mettendo in mostra un supporto degli altri strumento che compiono il loro lavoro di assistere ai vocalizzi magnetici del nostro. Il mestierante Warrel attacca subito con un "Blind are the hypocrites the lizards drunk with power/ Through idiosyncrasies and blasphemy / The world will be devoured; i ciechi ipocriti sono assetati di potere e non aspettano altro che "divorare il pianeta"; la catarsi apocalittica della traccia ci rivela una rabbia di fondo davvero impressionante che diventa sempre più elevata a partire dalla seconda strofa. Giunti a quest'ultima ben capiamo il messaggio lirico che Warrel vuole consegnarci; niente di criptico o strano, il lirismo è dannatamene schietto: While the poor men die the rich men sing / Monetary praises to the war machine / The rats scream for change and equality / While the mechanics of power stain humanity (Mentre i poveri muoiono, i ricchi cantano / Lodi monetarie alla macchina da guerra / I ratti gridano per il cambiamento e l'uguaglianza / Mentre i meccanismi del potere macchiano l'umanità); coloro che soffrono sono vittime di un sistema malato in cui i ricchi esultano; la guerra crea soldi e porta soldi, fa innalzare il valore monetario dell'industria della armi; il quadro descritto narra proprio la nostra realtà, soffocata da piccole e grandi guerre che affliggono varie aree del mondo. Warrel è come sempre impressionante, riesce in maniera naturale a passare in diversi registri tonali, ma in questa "The Day the Rats Wents to War" prevale un cantato disperato e perfettamente congeniale nel narrare ciò che il brano intende emanare. Le chitarre sono sempre trascinanti e mai fin troppo dolciastre come nelle altre tracce analizzate; quest'aspetto si vede in maniera incisiva a partire dal secondo minuto, quando tutti gli strumenti all'unisono sfoggiano le loro miglior carte a disposizione. In questa ottava traccia abbiamo come ospite James Murphy, ex chitarrista di Cancer e Death che innalza il livello ritmico complessivo: il solo di Murphy è paurosamente eccezionale; lo schitarraio della Florida sa come fare il suo mestiere e Dane da questo punto di vista si è affidato ad un maestro dello strumento.

Brother

Dopo otto tracce tutte diverse, ora giungiamo forse al picco emotivo di questo "Praises to the War Machine; il brano più toccante forse mai composto da Warrel Dane. Parliamo di Brother, brano che fa riferimento allo sfortunato fratello del nostro artista. In questa nona traccia il Nostro apre il suo cuore, aspirando al perdono dello stesso fratello che soffre di un male terribile. Lo stesso Dane lo ha spiegato chiaramente nelle varie interviste in seguito alla pubblicazione di questo primo platter solista. "La traccia 'Brother', - spiega Warrel- parla appunto di mio fratello. Non abbiamo mai avuto un bel rapporto? non lo vedo da tantissimo tempo. Ho saputo che è gravemente malato e questo mi ha fatto riflettere su tante cose che riguardano noi e la nostra famiglia. Non credo che avrà mai modo di ascoltare il pezzo? e, sinceramente, lo spero, perchè la cosa mi imbarazzerebbe alquanto". Ecco che ben capiamo i motivi che hanno spinto a scrivere una tale composizione, cosi pregna di una voglia intrinseca di chiedersi il perchè non sia mai sbocciato un gran rapporto con il proprio fratello. La traccia, come ben capite, subisce una impostazione acustica che la eleva ad una semiballad; sin dalle prime note della intro c'è solo Warrel; lui e la sua mente in un dialogo costante tappezzato da perchè. La breccia acustica della chitarra di Peter Wichers accompagna dolcemente i primi lamenti di Dane, quasi emozionato mentre stende i primi vocalizzi su quel tappeto arpeggiato a cui facevamo riferimento prima. Dopo circa trenta secondi ecco che le chitarre si trasformano mutando le loro prestazioni; la cosa che ben colpisce, oltre l'aspetto musical, è il video ufficiale in cui Warrel guarda alcuni scatti di lui e di suo fratello da bambini; la spensieratezza che le immagini emanano cozza in maniera forte con la disperazione che si legge dagli occhi del Warrel adulto; un uomo che ha combattuto diverse battaglie ma che non ha mai perdonato un'infanzia poco serena e felice. La bellezza della traccia aumenta col passare dei minuti, con quelle immagini che sanno di un passato che non ritornerà mai più; le chitarre in questo oceano di nero accompagnano i saliscendi di Warrel, dolcemente triste nei suoi tentativi di far impennare le proprie vocals. La sezione strumentale non superai mai fin troppo i limiti emozionali imposti dal cantante, ed il solo di Wichers si incastra a dovere con la batteria di un atipico Dirk Verbeuren; qui il drummer frena il suo caratteristico modus operandi, e posizione le bacchette in modo da creare battiti di pellame sufficientemente delicati. Come è prevedibile, le immagini che scorrono nel video sono semplicemente emozionanti; è impossibile rimanere interdetti dinanzi a tale costruzione visiva che, a sua volta, viaggia all'unisono con il timbro del cantante. Qui Dane ci dona la sua composizione più sentita,e non possiamo far altro che ascoltarla e riascoltarla in silenzio.

Patterns

Una volta terminata la toccante Brother, il nostro cd ci regala la decima traccia, una nuova prova della qualità immensa d Warrel Dane di far proprio composizione non sue. Infatti il prossimo tassello che analizzeremo è una nota composizione di Paul Simon, componente del famoso duo Simon & Garfunkel. Patterns è la traccia che il nostro Warrel ha deciso di riarrangiare con tutti le difficoltà del caso: una missione decisamente non semplice. Questo straordinario affresco, che Simon aveva composto per l'album "Parsley, Sage, Rosemary and Thyme " (Columbia, 1966), narra sommariamente della fugacità della vita e di quanto quest'ultima sia incasellata secondo fasi che noi sistematicamente percorriamo; un'analisi quindi perfetta per lo spirito di un Dane sempre avvezzo a tematiche del genere. L'intro di Patterns si apre con tempi ben scanditi dal sempre validissimo Verbeuren, che riesce a iniettare quel flavour folk dell'originale in un batterismo sempre molto secco e preciso; a loro volta le chitarre, appena vengono introdotte violentemente nel circuito del brano, abbassano di intensità per permettere a Dane di immedesimarsi nel lirismo quasi surreale di Paul Simon. Gli slanci vocali sono sempre molto perfetti e opportunamente in grado di modularsi secondo la temperatura delle chitarre. "Like the pieces of a puzzle / Or a child's uneven scrawl " (Come i pezzi di un puzzle / O lo scarabocchio irregolare di un bambino): la nostra vita segue un corso ben preciso, e noi siamo pezzi di puzzle che il destino posiziona a suo piacere. Le alte tempistiche delle chitarre permettono a Warrel di posizionarsi in un certo modo, muovendosi come "un puzzle" che si posiziona come alcuni parametri decidono. La melodia cerca di impossessarsi di questa Patterns ma Dane riesce a proseguire stilisticamente con un'impronta sempre molto ruvida che si incastra a dovere con le due asce. "My eyes can dimly see / The pattern of my life / And the puzzle that is me" (I miei occhi possono scarsamente vedere / Lo schema della mia vita / E il puzzle che sono io); quando ci accorgiamo che siamo solo dei semplici pezzettini di un grande disegno, ci rendiamo conto di essere infinitivamente  soggiogabili da forze esterne, e noi non possiamo fare semplicemente nulla in quanto non abbiamo la forza. Nel bel mezzo del brano, alcune rogorese pause si impossessano di questa traccia; ma questo solo per poco, dato che Dane sa quando intervenire e rivoltare il tutto. Il solo di questa Patterns, suonato da Wicklund, è uno degli ultimi sussulti che permettono alla traccia di accogliere il flusso narrativo di Dane, sempre esteticamente magistrale. 

This Old Man

Ad accoglierci in questo undicesimo capitolo di questo lavoro è un leggerissimo arpeggio, che permette la costruzione di primi tasselli heavy introdotti dai colpi di Verbeuren; Warrel non attende molto, e rispetto alle altre canzoni, in questa This Old Man, si immedesima subito nell'atmosfera creatasi. La chitarra di Winchers sonda molto bene il terreno instaurando un riffing dal sapore classico. "I remember this old man and the wisdom he shared with me / Upon his knee I'd listen / I remember words he spoke and the look behind his quiet eyes / In silent bliss life gives little lessons" (Ricordo questo vecchio e la saggezza che condivideva con me / Sul suo ginocchio ascolterei / Ricordo le parole che pronunciò e lo sguardo dietro i suoi occhi tranquilli / Nella beatitudine silenziosa la vita dà piccole lezioni): qui Warrel riapre il cassetto dei ricordi, ricordando un uomo anziano che da piccolo si era affezionato al piccolo Warrel; il nostro cantante riapre cosi il cuore, rendendo il flusso narrativo molto emozionante ed evocativo; si percepiscono quasi le lacrime che qui il singer versa sopra il microfono: tante sono le memorie legate a questo uomo arzillo che regalava a quel ragazzino abbracci intensi. Terminata la prima strofa, il guitar working subisce una impennata incisiva, molto ariosa che trasforma il brano. Ma le soffuse atmosfere iniziali ritornano impetuosamente: la nenia di Warrel prosegue con non poca commozione, raccontanto vari episodi di questo anziano che si sentiva semplicemente solo (He spun tales of worlds unseen); ed ecco che fuorisce il tema effettivo della traccia, ossia la solitudine. Quell'anziano rappresenta proprio questo triste stato d'animo che va alla ricerca di altre anime con cui aprire il proprio cuore. Il chitarrismo come nella prima parte, in un primo momento è cauto e pacato, mentre col proseguire dei secondo diventa sempre più predominante l'aura progressive. Difatti sono numerosi e repentini i cambi tempo che si infarciscono lungo la costruzione di questa traccia molto interessante; una traccia che narra la vita e la morte di quest'uomo, che ha vissuto una vita apparentemente normale, segnata dall'abbandono dei figli: solo ora Warrel Dane capisce dell'uomo (Now I understand the words of this old man); capisce il suo stato d'animo quando la signora solitudine aveva bussato alla sua porta. E secondo voi come possono essere ora i vocalizzi del cantante? Warrel prosegue un percorso molto intimo e a tratti surreale, quasi sussurrato e avvezzo a  riabbracciare simbolicamente quell'uomo che gli ha dato tanto.

Equilibrium

Se pensavate che Warrel avesse totalmente abbandonato il tema politico, allora vi sbagliate di grosso: la prossima, Equilibrium, espone con chiarezza alcuni temi che hanno a che fare con il mondo moderno dilaniato da conflitti più o meno grandi. La traccia si apre con un riffing concentrato, arioso e dinamico, mentre il pellame sta dietro a tutta questa velocità ritmica con molta classe; Warrel ringhia sul microfono sguinzagliando le seguenti parole: These are the days when we celebrate host and parasite / Bold are the words of the cold unfeeling neophyte (Questi sono i giorni in cui celebriamo l'ospite e il parassita / Le parole del neofita freddo insensibile sono in grassetto): ecco, oggi la guerra viene quasi spettacolarizzata, in un modo quasi insensibile, basti pensare a numerose serie tv o film che trattano di eventi bellici; qui il nostro cantante cerca di farci capire che dovremmo riflettere e ritenere la guerra come un male da estirpare e non come uno spettacolo di cui godere. La traccia è estremamente pimpante, rigorosa e puntigliosa nel suo riffing abbastanza standard; l'impianto vocale di Warrel è abbastanza concentrato, anche se ci sono momenti in cui il nostro si apre a sezioni vocali più luminose, ben supportate dalla registrazione ben ponderata. Ma "Equilibrium" è un turbinio di ritmiche e di cadenzate escursioni chitarristiche, oltre alle vocals ben consolidate di Warrel che sgocciolano una voglia irrefrenabile di mostrare al mondo intero le falsità che i media ci propongono ogni giorno: Slowly fading we lose control / Slowly decaying, losing all (Svanendo lentamente perdiamo il controllo / Decadendo lentamente, perdendo tutto), non abbiamo un equilibrio, siamo sempre innestati in territori estremisti che ci portano a giudicare situazioni molto lontane dalla nostra quotidianetà. Come vedrete i discorsi del cantante sono molto attuali. Col passare dei secondo "Equilibrium" diventa meno serrata e più aperta agli slanci delle due chitarre: una di queste ultime si apre, quella di Peter Wichers, ad un assolo ben gustoso dal backround simil-neoclassico. Una ulteriore riproposizione delle effusioni iniziali riprendono vita nel finale di una traccia molto pregna di concetti, un piccolo classico della breve esperienza solistica di Warrel Dane.

Conclusioni

Il buon Warrel in questo "Praises To The War Machine", si senza alcun dubbio è circondato di una formazione di livello assoluto e le canzoni, con la loro esplosività, riescono ad esaltare le doti vocali del nostro; una formazione che quindi è stata in grado di stare dietro ai suoi  moniti e alle sue indicazioni di musicista navigato, scrollandosi di dosso la semplice nomea di "frontman dei Nevermore". Con questo disco solista Warrel abbandona il momento di pausa riflessiva, conseguenza primaria dopo lo stop coi Nevermore, in modo da riflettere sul suo futuro e sulle sue qualità. Sembra un ragionamento scontato, ma per un artista il mettersi in gioco costantemente è una prassi a dir poco fondamentale; bene, Warrel non solo si è messo in gioco, smentendo chi presentava delle preoccupazioni dopo il suo annuncio di un nuovo "discutibile" disco solista, ma ha semplicemente surclassato i suoi detrattori, sebbene, a dirla  tutta, la maggioranza era a dir poco entusiasta di udire nuovi brani da un'ugola cosi speciale. La pausa coi Nevermore giovò da un certo punto di vista, in quanto concesse all'artista il tempo necessario di mettere tutti gli ingredienti per dare vita ad un album ispirato, che al contempo si separasse dai Nevermore: questo era il primo timore di gran parte dell'uditorio, ossia prestare ascolto ad una copia della band di Seattle; ma i fatti parlano chiaro, le composizioni, soprattutto da un punto di vista dell'inclinazione delle chitarre, si discostano dal modus operandi caratteristico di Jeff Loomis, che nel frattempo con la sua sette corde pubblicava un ottimo shred-album come "Zero Order Phase" (Century Media, 2008), al servizio di una maggiore caratura melodica; terreno fertilissimo per le articolazioni vocali di Dane, il quale prendeva di nuovo il microfono dopo l'ultimo album in studio pubblicato con la sua ex band tre anni prima ("This Godless Endeavor", Century Media, 2005). Proprio le corde vocali di Warrel disegnano le circonferenze sonore di ogni minimo brano, di ogni minimo solco; non a caso l'esplosività controllata di brani come "Obey" e "Messenger"o la sacra introspettività delle toccanti escursioni di "Brother", mostrano effettivamente cosa Warrel sia in grado di creare; qui ben si vede le capacità intrinseche che vanno ben oltre il moniker madre: al suo posto molti magari avrebbero potuto semplicemente replicare, con le dovute accortezze del caso, un sound già proposto più volte, ma pochi invece avrebbero scommesso in brani cosi equilibrati e umorali. Ed infatti proprio l'umore è la chiave di volta che occorre a noi per aprire lo scrigno emozionale proposto; umore che si tocca con mano, si mostra con un nero brillante, intenso e magmatico come la pece e rovente come l'acciaio fuso; non potevamo aspettarci qualcosa di diverso a dirla tutta; l'anima di Warrel Dane bruciava come un tizzone ricoperto dalle fiamme, inondando i mid-tempo e le sezioni strumentali con il suo stile che ben conosciamo, nonostante non tutti i brani brillino in egual maniera. Ma questo è un aspetto fisiologicamente normale, che possiamo accettare in quanto l'architettura compositiva generale è pimpante ed energica. La formazione, come abbiamo già accennato in precedenza, non poteva non sfoderare assi della manica più che vincenti data la sua preparazione: Dirk Verbeuren è una macchina da guerra assolutamente multisfaccettata ed in grado di dettare i tempi in ogni tema musicale proposto, dai tocchi matematici nei momenti più emotivamente intensi fino a distruggere il drum set negli sprazzi più violenti; dall'altro canto la coppia di chitarre Winchers/Wicklund (non dimenticando le ospitate di lusso come Jeff Loomis in "Messenger", l'ex Death e Cancer James Murphy in "The Day the Rats Went to War" e Chris Broderick in "Let You Down") snocciola interessanti basi solistiche, in bilico tra progressive e thrash. Insomma, Warrel Dane in un periodo delicato della sua vita,  due anni prima infatti alcuni guai fisici nel Settembre 2006 non permisero ai Nevermore di completare l'album dal vivo a Bochum (Germania), poi realizzato pochi mesi dopo, da' la prova delle sue innegabili doti di direttore d'orchestra. Un disco, dunque, che deve essere ascoltato e assaporato come si deve.  ?

1) When We Pray
2) Messenger
3) Obey
4) Lucretia My Reflection
5) Let You Down
6) August
7) Your Chosen Misery
8) The Day the Rats Wents to War
9) Brother
10) Patterns
11) This Old Man
12) Equilibrium
correlati