VOIVOD
Kronik
1998 - Hypnotic Rcords
FABIO FORGIONE
16/07/2017
Introduzione Recensione
Quando si parla di sperimentazione, innovazione, commistioni, capacità di commisurarsi con le varie anime del Rock e del Metal, non può non venire in mente il nome Voivod. La band canadese, infatti, è stata un eclatante esempio di come si possa passare, con incredibile maestria e apprezzabili risultati, da un genere all'altro senza mai perdere un briciolo in termini di originalità. Fattore, questo, che molte volte ha caratterizzato in maniera indelebilmente negativa le produzioni di tante pluriosannate bands che abbiano tentato, nell'arco della loro carriera, una qualche sorta di virata sonora, con il nefasto risultato di vederne fortemente snaturata l'essenza. Il caso dei Voivod, pertanto, resta uno dei più singolari, affascinanti, peculiari e clamorosi della storia del nostro amato genere musicale. Capaci di partorire con disarmante semplicità ed intrinseca naturalezza vere e proprie bordate Thrash old school, come il debut War And Pain (1984), in cui alla tipica componente thrash si univano le fosche tinte del Black primigenio (quello di Venom, Bathory, Hellhammer e Celtic Frost per intenderci) in un primordiale connubio di sonorità, passando per il thrash sporcato di hardcore proposto in quel capolavoro rispondente al nome di Rrröööaaarrr (1986), o per il thrash che cominciava a strizzare l'occhio al prog metal, condito di venature punk ma che non disdegnava atmosfere psichedeliche di Killing Technology (1987). Soprattutto, questo LP merita particolare menzione in quanto, oltre al già citato audace esperimento sonoro, cominciano per la prima volta a fare capolino le avveniristiche tematiche a sfondo fantascientifico e cibernetico (da cui trasse origine il cosiddetto cyber-thrash di cui proprio i Voivod furono pionieri). Frutto del genio folle e visionario del singer "Snake" (Denis Bélanger) e dell' estro creativo del batterista "Away" (Michel Langevin), autore peraltro dello splendido, futuristico artwork del disco, racconta di un mondo caduto in balìa delle macchine, con l'uomo relegato alla miserevole condizione di schiavo della tecnologia. Il successivo Dimension Hatröss (1988), prosegue il discorso intrapreso con l'illustre predecessore, ma vengono abbandonate le più roboanti e furiose componenti punk a tutto vantaggio della psidechelia. La voce dello stesso Snake è qui incredibilmente pulita e lontana anni luce dal graffiante e ruvido screaming degli album precedenti. Il disco è un oscuro concept che narra di un mondo catapultato in un'era post atomica,con immagini e visioni oniricamente deliranti e avanguardistiche, che inducono più che mai l'ascoltatore a profonde riflessioni. Anche in questo caso il comparto lirico è frutto della premiata coppia Snake/Away, con quest'ultimo autore di un altro sorprendente artwork, il quale rapisce letteralmente l'ascoltatore conducendolo in un immaginifico viaggio sensoriale, in mondi ignoti e lontani popolati di creature aliene e tecnologie mai viste prima. Dopo aver dato alla luce i primi due album per la Metal Blade di Brian Slagel e i due successivi per la Noise Records, la band firmò per la Mca Records, label che nel 1989 licenziò il seguente Nothingface, ad oggi considerato il miglior disco del combo canadese, e che prosegue sulla falsariga del precedente, capace di farlo piazzare al 114 esimo posto della classifica Billboard 200. Celebre, a tal proposito, resta la cover di Astronomy Domine dei Pink Floyd. I primi anni novanta conobbero una leggera crisi della band, causa l'allontanamento del bassista "Blacky"(Jean-Yves Thériault) avvenuto dopo le registrazioni di Angel Rat (1991), mentre il successivo The Outer Limits (1993) fu quasi totalmente un lavoro a tre, vista la saltuaria collaborazione di Pierre St-Jean alla realizzazione delle linee di basso. Di queste due ultime release, la prima contiene accenni alla New Dark Wave, mentre il secondo è un disco quasi esclusivamente di carattere psichedelic, ma con vaghi richiami al cyber thrash di Dimension Hatröss. Nel 1995, all'indomani del tour di supporto a The Outer Limits, anche Bélanger, a causa di una forte depressione, lasciò la band, e fu rimpiazzato da Eric Forrest, che andò ad occupare il duplice posto di bassista e vocalist. In concomitanza con i cambi di line up, la Noise Records si rifiutò di rinnovare il contratto con la band, la quale firmò per la Hypnotic Records, licenziando Negatron (1995) e Phobos (1997). Questi ultimi due lavori, grazie all'apporto di Forrest (ribattezzato E-Force) rivelatosi subito determinante, fece registrare un considerevole recupero delle sonorità più dure dei primi album ma con forti venature Industrial/Avantgarde. Soprattutto Phobos (tra i cui credits compare Jason Newsted, all'epoca ancora nei Metallica, per la canzone M-Body) mostra interessantissimi spunti critici, oltre a far segnare una netta ripresa rispetto al non proprio esaltante Negatron. La raccolta - prima in assoluto dei Voivod - che è oggetto di questo articolo, Kronik, licenziata nel 1998 per la Hypnotic Records, si propone proprio come un naturale compendio dell' immenso, straordinario bagaglio di esperienze musicali maturate dalla band durante la prima metà della sua magnifica carriera. Contiene in tutto undici brani, di cui tre sono versioni remixate di vecchi pezzi, quattro inediti ed altre quattro incisioni live di brani storici, per un totale di oltre sessanta minuti di musica. Un viaggio sensazionale che ci apprestiamo a compiere insieme.
Forlorn
Pronti, via! Si parte con la versione remixata di Forlorn (Abbandonato), traccia estrapolata da Phobos (1997). Se la versione originale della canzone aveva a dir poco stupito per la straordinaria comunicatività data dai massicci e sincopati suoni di chitarra, se aveva stordito l'ascoltatore con le sue venefiche distorsioni e ci aveva condotto in un mondo lontano e tetramente fantastico grazie ai suoi reiterati suoni elettronici e futuristici, senza però farci dimenticare la base fortemente thrash del pezzo, complice anche il devastante growl di E-Force (Eric Forrest), questa versione presenta sostanziali differenze con la versione madre; a cominciare dalla durata, 6 minuti e 55 contro i 6:01 di Phobos, i quali si estrinsecano in una commistione di sonorità stravaganti e vagamente fuorvianti. Il tutto a discapito di una considerevole riduzione del comparto lirico in cui, a differenza della versione originale, Forrest si limita a urlare per due sole volte il dirompente refrain: "perso in questo mondo, sono disperato, ho perso questo mondo, sono disperato/Perso in questo mondo, sentirsi abbandonato, ho perso questo mondo, sono disperato". Il testo, giova ricordarlo, parlava di un personaggio di nome Anark che, tornato da un viaggio interstellare, aveva il compito di salvare il suo pianeta dall'oppressione di uno spietato invasore straniero. Anark scopre ben presto, a sue spese, di trovarsi invece solo, debole, disperato in un mondo a lui ignoto, in cui il primo ostacolo da superare e nemico da combattere è sé stesso. Sa che dovrà lottare per sopravvivere, ma ben presto si vedrà catapultato in un vero e proprio inferno, in preda ad angoscia e smarrimento. Nessuna speranza, Anark è destinato a perire e a dileguarsi inesorabilmente per l'eternità. A dispetto di un vago pessimismo di fondo che sottende all'intera traccia, a fare da contraltare in questa versione abbiamo tutta una serie di suoni e di "rumori di fondo" che la differenziano in maniera eclatante dalla versione originale, in cui, a parte il cantato viscerale di Forrest, vi era un validissimo alternarsi di accelerazioni e rallentamenti, staccate violentissime e repentine riprese della ritmica di partenza. Qui invece, dopo la prima parte tipicamente thrash, potentissima ed estremamente ruvida, dopo circa due minuti ha inizio una sorta di fantasiosissima session in cui Forrest (al basso), Piggy ed Away si divertono letteralmente ad inseguirsi su differenti registri, passando per parti più cadenzate e ritmate, suoni tecnologici che rimandano a dimensioni future. A farne le spese è, per chi vi scrive, la potenza nuda e cruda del suono delle chitarre, reso meno massiccio e possente della versione madre, proprio in ragione della estrema ricercatezza e dell'appeal esplorativo che è l'autentico trademark dei Voivod. E che non si smentisce mai, con una innata capacità di offrirci una sperimentazione nella sperimentazione. Grandissimi musicisti, nulla da eccepire. Io però continuo a preferire la Forlorn di Phobos, non foss'altro che per quell'asfissiante e claustrofobica sensazione di smarrimento che emana ogni singola nota.
Nanoman
Negatron (1995) era stato l'album che aveva visto, per la prima volta nella storia dei Voivod, l'allontanamento dei padri fondatori Blacky ed Away - quest'ultimo a causa di una forte crisi depressiva - sostituiti poi entrambi dal versatile Eric Forrest, che si accollò il doppio ruolo di bassista e vocalist. Ebbene, dopo copiose manifestazioni di velleità sperimentali, la band canadese pare tornare, in larga parte, vista la pressoché costante attitudine ad incarnare le diverse anime del metal, ad interpretare il thrash old school degli esordi. Aspetto più che mai evidente nella traccia in questione, quella Nanoman (Nano-uomo) che aveva fatto la felicità dello zoccolo duro del seguito del combo canadese (per l'occasione un terzetto). Eh già, perché proprio Nanoman, se paragonata al resto delle tracce del full, era quella che più incarnava lo spirito thrash puro e primordiale della band, con i suoi ritmi veloci e le sue potenti partiture, su cui svettava incontrastata la timbrica feroce di E-Force, che con il suo growl selvaggio aveva di fatto sostituito, in maniera epigrafica, i memorabili scream di Bèlanger, un interprete davvero troppo diverso e, a mio parere, di gran lunga più completo del pur bravo Forrest. Nanoman si apriva con uno spaventoso lavoro di batteria di Away, fatto di precisi e ripetuti colpi di doppia pedaliera, subito seguito dai granitici riff di chitarra di Piggy. Il dialogo ideale su cui far innestare le folli elucubrazioni del selvaggio Forrest.Va innanzitutto detto che, rispetto alla versione sentita a suo tempo su Negatron, questo remixaggio si distingue per la presenza di suoni che vanno e vengono, di parti che scemano per poi riprendere vigore subito dopo, spiazzando non poco l'ascoltatore, e proiettandolo in una dimensione ancor più fosca e malvagiamente distante di quella narrata dalle lyrics. Il tutto, anche nel secondo dei remix sinora incontrati (i remix, lo dico in tutta franchezza, non mi sono mai stati tanto simpatici), a discapito dell' attitudine diretta, feroce e sfrontata tipica del thrash. Ma, tant'è, eccoci scaraventati dalla voce filtrata e cavernosi di Forrest, nei deliri di un mondo siderale, in cui fanno breccia fenomeni di bizzarra natura, messi lì a mo' di lista, freddi e spietati: effetti collaterali di visioni di tunnel, technofix di silicone, rumori che rimandano a liquidi minacciosi. A dirigere le operazioni vi è uno sciamano della Cyber Anarchia, un transistor di memorie inutili. E qui, nella ruvida follia del refrain, urlato da Forrest con tutta la ferocia possibile, facciamo la conoscenza delle creature protagoniste del brano. I Nanouomini, una sorta di mezzuomini avveniristici, con forti pressioni chirurgiche, consentono ai loro sottomessi (la razza umana) di vagare senza meta, salvo poi riempire le loro vittime di strane sostanze, trasformandole, appunto, in creature simili a bambini. Sono i Nanouomini. I ritmi tribali che già permeavano la versione originale diventano qui opprimenti, quasi ossessivi, con Away che picchia sul suo drumkit come in preda a un raptus. Altra caratteristica dei Voivod dell'epoca,considerando che siamo nella fase centrale del brano, il momento in cui qualsiasi thrash band di blasone piazza il classico solo al fulmicotone, è invece proprio l'assenza di momenti solisti. Particolare questo che non fa che accentuare e rendere a suo modo fascinosa la vena artistica e compositiva dei canadesi. Salvo far storcere il muso ai puristi nostalgici e imperterriti accoliti dell'assolo a tutti i costi. Categoria alla quale, ahimè, appartengo, e che mi preclude gran parte del piacere nell'ascoltare un brano dei Voivod del periodo post thrash. Pur rimanendo un pezzo geniale e ottimamente concepito ed eseguito. Il delirio prosegue, e giù con immagini sinistre e impensabili: livelli atomici di vibrazione, ego bizzarri in plastica simil-umana, unità e domanda di pensiero messi a fuoco, replicatori di nebbia irreale. Frasi apparentemente insensate urlate da Forrest con malcelato disinganno. I Nanouomini lasciano che tu ti stupisca come un bambino, riempiendoti subito dopo di sostanze che ti trasformano in un essere simile a loro. Eccoci dunque giunti, tra le tracotanti ritmiche e gli andirivieni di chitarra e basso, alla spiegazione saliente del testo: siamo nell'era dell'erosione, una sorta di fine del mondo posta in uno scenario semi apocalittico, in cui la fine viene segnalata dalle macchine, eterno incubo e generatrici di terrore per la specie umana. Esse, alte come secoli su secoli fatti di metallo, saranno in grado di orchestrare l'atomo, distruggeranno satelliti in un batter d'occhio, permettendo a milioni di atomi di volteggiare da soli nell'aere. "Sono i Nanouomini", urla teatralmente per un'ultima volta Forrest, "lasciano che tu ti stupisca come un bambino e subito dopo ti rendono simile a loro, cancellando ogni traccia del tuo essere e della tua identità". E proprio la perdita d'identità, la sostituzione di personalità, erano e sono tematiche care a tanta narrativa e cinematografia di fantascienza, la linfa vitale dell'impianto lirico dei Voivod.
Mercury
Terza traccia di questa compilation ancora tratta da Phobos. Mercury (Mercurio), è un perfetto esempio della duttilità compositiva della band canadese. Si tratta infatti di una traccia che alterna in maniera impeccabile le sfumature avanguardistiche tipiche dei Voivod post thrash, a parti più tendenti al death metal, non trascurando groove micidiali ed un cantato che, pur tra i tanti filtri, trasuda una forte carica drammatica. I ritmi tribali della intro di batteria, che già avevano fatto la loro massiccia comparsa sull'album d'origine, diventano qui ossessivi ed esasperanti. Le chitarre,che vanno via via aggiungendosi, contornate da una miriade di suoni "cibernetici", ripetuti e sovrapposti, tessono trame ruvide e sincopate, in perfetta sintonia con il drumming forsennato di Away. Il brano è un crescendo inarrestabile e violento di sonorità al limite del razionale, in cui dall'inizio alla fine si ha la sensazione di essere travolti dagli strumenti e trascinati in mondi ignoti e oscuri, con Forrest che graffia letteralmente le liriche. Pezzo dalla struttura pressoché sui generis, non componendosi infatti di vere e proprie strofe, ma proponendo perlopiù una serie di epigrafici ed ermetici micro versi, talvolta soltanto vocaboli. La fantasia perversa di Away e Piggy partorisce anche stavolta un testo che pesca a piene mani nella fantascienza, ma strizzando amaramente l'occhio alla realtà. Siamo infatti al cospetto di un progetto di rinascita politica, accompagnata ad un tentativo di instaurare l'anarchia sul pianeta Mercurio. Ci viene fornito un resoconto dettagliato della ricerca di una fonte di energia in grado di riscattare l'individuo dalle catene e dall'oppressione di chi lo tiene prigioniero. Una casta di schiavisti che si nutre delle energie vitali dell'uomo, identificata con dei demoni che tiranneggiano sugli innocenti. Tra i ritmi folli di Away e le chitarre aspre di Piggy, Forrest urla il suo growl furioso: "rinascita, bisogno di energia, necessità di introdurre l'anarchia, non puoi vedere perché devi esserci, il ritorno della razza dimenticata, stanotte non vi è tempo per condursi in rovina. Devi esserci, non puoi vedere, demoni vitali, spirito di Zoth, vapori tossici, leader di anime, ci sarai,vedrai, Anark, trasmutazione". Il rapido susseguirsi di immagini evocative e angoscianti non conosce tregua: "viene la Luna e Zoth è libero, Mercurio, Zoth è libero, Anarchia, Anark, concludi, riforma, rinnova e ritorna, conquista un'altra volta". Come quasi sempre, nel comparto lirico dei Voivod non vi è un finale dai tratti ben delineati e definiti, ma vi è la costante intenzione di voler lasciare aperte diverse ipotesi interpretative, le più caotiche, disparate ed imprevedibili possibile. Anche questa traccia si presenta dunque piuttosto criptica. Zoth è uno dei cosiddetti Antichi, personaggi fantastici tratti dall'universo immaginario del noto scrittore Howard Phillips Lovecraft. Zoth, infatti, si riferisce al lovecraftiano Zogh-Ommoth, personaggio tratto dal celebre ciclo letterario noto come i "Miti di Cthulhu". Gli Antichi Dei sono potenti entità malvagie che hanno il solo scopo di portare il caos nel mondo che conquistano.
Vortex
La successiva Vortex (Vortice) è una traccia contenuta nella B side del singolo Nanoman, uscito nel 1996. Il pezzo insegue stavolta schemi piuttosto "classici", a metà strada tra il thrash e l'hardcore. Il basso di Forrest apre alle chitarra ruvida e massiccia di Piggy, autrice di riff potentissimi, e, anche qui, alquanto sincopati. L'ensemble è pressoché perfetto, Piggy e Forrest tengono dietro alle bordate di Away mentre, dopo una manciata di secondi, lo stesso Forrest inizia ad esclamare versi all'insegna della fantasia più spinta e morbosa. Stavolta abbiamo a che fare con un uomo alle prese con un vortice di forze i cui effetti sul suo corpo non possono non lasciarlo esterrefatto. Il protagonista, in preda ad un evidente stato confusionale, si chiede se con lui vi sia qualcuno che possa spiegargli come mai le cose non vadano per il verso giusto. Non è finzione, qualcosa in lui sta realmente cambiando. In quello che potremmo definire il refrain, Forrest urla il suo growl feroce e possente. Egli è solo, fuori controllo, in preda a bizzarri movimenti rotatori. Le immagini, frutto di un delirio perverso e terrificante, continuano ad impestare la vista del Nostro, tra le nerbate violente di chitarra e pesanti colpi sul drumkit da parte di Away. È in atto una rivoluzione selvaggia, il Nostro deve stare molto attento, poiché è come paralizzato, quasi ipnotizzato. Ma non è solo il corpo a correre rischi, poiché egli sente di aver perso la sua anima all'interno della "zona del vortice". Si chiede sgomento e terrorizzato come mai questo fenomeno continui, e non riesce a darsi una spiegazione. È tutto sbagliato, vorrebbe scappar via e si domanda se vi sia un modo per farlo, se ci sia qualcuno disposto a salvarlo, da qualche parte. Ma le sue invocazioni non vanno, purtroppo per lui, a buon fine. Ben presto le urla selvagge di Forrest ci comunicano che è stato spazzato via dal vortice. Per sempre. Da solo, fuori controllo, il vortice gli ha fatto perdere per sempre la sua stessa anima. Anche in questo caso, sebbene siamo al cospetto di un episodio assai meno stravagante e più "lineare", se paragonato a certi stilemi del combo canadese, l'aspetto bizzarro e fuori dagli schemi è dato dalle lyrics, immaginifiche e angoscianti all'inverosimile. Un pezzo basato nella sua interezza su una ritmica compatta e possente, in cui non trovano spazio virtuosismi né, tantomeno, momenti solisti.
Drift
Drift (Deriva) è una traccia contenuta sulla versione di Negatron destinata al mercato giapponese. Un brano a mio avviso eccellente, per quello che può valere il giudizio in merito ad un album "spiazzante" come Negatron, sospeso a metà tra sonorità tipiche della band e atmosfere assai più cupe e opprimenti. Ed è proprio con un arpeggio oscuro, pesante, claustrofobico che si apre questa Drift, un incedere ossessivo della durata di circa un minuto che sfocia, improvvisamente, in una fragorosa esplosione di suoni in cui le chitarre assassine di Piggy svolgono la parte del mattatore, e in cui Forrest urla letteralmente i consueti deliri provenienti da altre dimensioni, le angosce e i timori interstellari a cui i Voivod ci hanno abituati. Chitarre, basso e batteria procedono all'unisono in un massiccio blocco sonoro, magistralmente completato dal growl disperato e feroce di E-Force, il quale, con ogni buona probabilità, veste i panni di una cavia umana da esperimenti attuati da una qualche razza aliena che ha invaso la Terra. Si tratta di un errore, si chiede sgomenti il Nostro, qualcosa scorre nelle sue vene, qualche sostanza venefica, poiché egli soffre, soffre terribilmente. Soffre e prega perché la sofferenza cessi. Eccoci giunti al refrain, ove il cantato acre di Forrest diviene un vero e proprio concentrato di ferocia e disperazione, circondato dal suono martellante e ossessivo della chitarra e della batteria. Sta scivolando sempre più giù, attende un'ultima chiamata prima di passare completamente dall'altra parte, prima che la trasmutazione sia totalmente compiuta. L'oscurità è l'ultima meta della sua cavalcata. Il pezzo ritrova i suoi consueti ritmi dopo il fragore del refrain, ma la sostanza non cambia. I giorni putridi vengono ora a galla, come incubi, come memorie su un letto di morte, l'infelicità trova il suo posto: è un caso senza speranza ormai, un danno irreversibile. Sembra quasi di toccare realmente con mano l'angoscia del malcapitato protagonista. Il quale torna a urlare tutta la sua disperazione nel refrain. Un lieve accenno di assolo, più che altro un lamento quasi impercettibile ma pungente e acre, non fa che aumentare il pathos morboso del brano, mentre il Nostro prosegue nel suo delirio: la decadenza è ormai il suo nemico, lo fissa come un corvo, l'aver scelto il suo onore lo ha condotto alla fine del suo viaggio. Non vi sono più speranze di salvezza né di fuga. Egli giace lì immobile e impotente, nell'attesa della sua fine. Il feroce groove sinora presente lascia repentinamente posto ai macabri arpeggi iniziali, a riprova di uno schema ad anello che, se in principio aveva messo in risalto lo sgomento e la terrificante sensazione di sorpresa del Nostro, ora, sul finale, ne demolisce ogni aspettativa di salvezza, conducendolo per sempre verso chissà quale aliena metamorfosi. O forse alla morte.
Erosion
Erosion (Erosione) è il primo brano davvero inedito di questa raccolta,e si propone come una vera e propria mazzata in pieno stile thrash, con ritmi non forsennati, ma pachidermici. Costruito attorno al granitico main riff, si dipana per tutto l'arco dei quattro minuti e mezzo di durata come un carro armato che travolge e spazza qualsiasi cosa incontri sul suo tragitto. La chitarra rocciosa e compatta di D'Amour ancora una volta detta legge, costruendosi fraseggi di grande impatto, abbandonandosi di tanto in tanto a disturbanti distorsioni. Il testo è, come sempre, frutto delle fantasiose perversioni e delle più recondite paure di Away. Perversioni e paure affidate all'ormai noto cantato vetroso di Forrest che, anche in questo caso, racconta le sue visioni mediante la tecnica delle immagini brevi, una sorta di sequenza di immaginari scatti o, se preferite, rapidi fotogrammi che danno una visione frammentaria e alquanto caotica del suo resoconto, ma dannatamente efficace ai fini della fruibilità del pezzo da parte dell'ascoltatore. Il Nostro rimane qui vittima di una sorta di avvelenamento mentale che ne annebbia le facoltà intellettive e ne preclude l'effettiva comprensione. Essendo il testo molto criptico, non è dato sapere in che modo egli sia finito in una situazione simile ma, conoscendo la passione smodata dei Voivod per gli scenari extraterrestri, è facile pensare ad una invasione aliena o ad un'escursione galattica dagli esiti nefasti. "È come sentirsi squilibrati nel più profondo, trasparenti ,cianuro, illusioni ingannevoli. Bisogna portare avanti una decisione o simulare una soluzione, perfezione, disconnettere, ricezione, trasmettere insanitá". Le bordate di chitarra non danno tregua, mentre le urla squarcianti di Forrest aumentano di intensità con l'approssimarsi di quello che potremmo definire il refrain. Memorie trascurate, il tempo ha terminato il suo giro. Per vedere le stelle, la loro luce aldilà di questo fosco inquinamento. La ritmica si stacca dagli standard sinora ascoltati per irrompere in una brusca accelerazione, particolare, questo, che fa sì che il brano rientri negli stilemi del thrash classico, complice anche la presenza di un qualcosa di vagamente simile ad un assolo. Il tempo stringe, il mondo si prepara a sanguinare, mentre la vita è diventata un vero e proprio pasticcio. Il danno è fatto, tutto è inquinato, urla più volte Forrest nel fragore delle chitarre, consegnando il brano al suo misterioso e triste epilogo.
Ion
Ion (Ione) altra traccia inedita, è forse il pezzo più "classico" tra quelli sinora ascoltati, lontano da sofisticati espedienti o da stravaganti contaminazioni. Un bel pezzo thrash abbastanza tirato e compatto con chitarre e batteria in grandissimo risalto. È proprio Away ad aprire le danze con un rapido giro sui tom, con Piggy e Forrest che imprimono il loro marchio di fabbrica sulla sezione ritmica, andando a bombardare letteralmente i nostri timpani. Il riff, pesante come un macigno, aggredisce il brano dal primo all' ultimo minuto, intervallato, nel corso della strofa, da un sibilo disturbante prodotto dalla chitarra di Piggy, a testimonianza della particolarità che invece, e questo è un dato immancabile, investe il comparto lirico. Stavolta vengono passati in rassegna gli effetti deleteri che possono essere generati dall'alterazione di uno ione. Gli agenti si meravigliano di questo mondo, trasmettitore di bytes vuoti, dove le onde corte annebbiano il cielo. Sono questi i primi versi urlati da Forrest, prima che lo stesso trascini graffiante il refrain, come colto da un raptus di rabbia e ferocia represse. "Ione, via morta, ione, via morta. Non vi è ritorno". Il pezzo è un martellamento continuo che non conosce un attimo di sosta né un accenno di rallentamento. La forza degli oceani sta crescendo, vibrazioni di frequenza, come un colpo psichico inferto dal destino. Quindi ancora il refrain che invoca lo ione, "una via morta". Senza speranza di ritorno. Chitarra, basso e batteria continuano imperterrite a marcare il territorio con i loro colpi impietosi, mentre Forrest, con voce filtrata, si chiede se lo ione giunga attraverso il cuore del destino. Se esso passi tramite una via ignota. È dunque questo tutto ciò che si sa di questo mondo? Trasmettitore di bytes vuoti? L'onda corta annebbia il cielo. È l'ultimo verso di questo bizzarro e inquietante brano,che si conclude esattamente come si era aperto.
Project X
Project X (Progetto X) seconda traccia di Negatron, è anche il primo dei quattro estratti live contenuti in questo Kronik. La versione studio aveva colpito per compattezza e potenza? Bene, questa dal vivo non fa che accentuarne la carica distruttiva ed aumentarne l'impatto sonoro. Tutto il pezzo è costruito sul poderoso riff centrale e ritmi piuttosto cadenzati, ove, oltre alla prestazione del solito Piggy, possiamo assistere ad una micidiale performance al quattro corde da parte di Forrest, che con le sue linee di basso ossessive e strabordanti concorre all'erezione di quel muro sonoro che è questa Project X. Il groove come sempre è devastante, mentre Forrest riesce ad alternare abilmente parti più "nitide" al suo consueto growl rabbioso. Tenendo conto che dal vivo non è mai semplice riprodurre fedelmente le sfumature da studio, il tutto acquisisce ancor più valore. L'esecuzione rasenta la perfezione. Dicevo dei ritmi cadenzati, ma al minuto uno e cinquantatre assistiamo ad una brusca accelerazione che definire esaltante è poco. Away inverte la rotta e preme sull'acceleratore, trascinando con sé gli ottimi Piggy e Forrest. Il tutto per la durata di circa un minuto, fino a che i tre non decidono di tornare alle velocità iniziali, in un furioso e affascinante andirivieni che contribuisce a rendere ancor più interessante la comprensione delle liriche. Già, perché siamo dinanzi all'ennesima fantasia galattico/apocalittica partorita dalla mente di Away, evidentemente ossessionato dalle tematiche catastrofiche e fantascientifiche. È arrivato il momento del giudizio universale, il giorno in cui il pianeta Terra e i suoi abitanti dovranno tirare le somme di una intera, millenaria esistenza. Ma gli ignari abitanti non sanno che stanno per passare sotto i vessilli di una dittatura aliena, chiamata appunto Progetto X. A bordo dell'Apollo Duemila, gli invasori partono alla volta della Terra in un viaggio di sola andata, per imporre ed impiantare il proprio potere. La corruzione e la sovrappopolazione della Terra sono state le piaghe con cui i terrestri hanno firmato la loro condanna. Ora niente e nessuno potrà sottrarli ai loro nuovi padroni. Una nuova razza umana, ma sarebbe più corretto dire umanoide, è in procinto di crearsi mediante chissà quali spaventosi esperimenti. Il destino della Terra è segnato per l'eternità.
Cosmic Conspiracy
Le atmosfere tetre e funeree con cui si apre Cosmic Conspiracy (Cospirazione Cosmica), ottava traccia di Negatron e secondo estratto live di questo disco, ci consegnano un brano sostanzialmente diviso in due parti. La prima appunto, dai toni lugubremente incalzanti,con una melodia altrettanto decadente ed un Forrest che non perde, sul palco, un briciolo del pathos interpretativo e della ferocia mostrata in studio, con la variante che, almeno in sede live, vengono eliminati tutti quei filtri vocali e quegli effetti che ne avevano messo in risalto la "sperimentalitá" sul full di provenienza, consegnandoci un brano assai più sanguigno e diretto, come si evince anche dal suono estremamente compatto della chitarra di Piggy e dal basso frustante dello stesso Forrest. La seconda parte invece, che parte al minuto due e trenta, dopo una bruciante accelerazione, vede tutta una serie di variazioni e modulazioni stilistiche che, pur poggiando su una chiara base thrash, mostrano il grande amore della band canadese per le alternanze e gli accostamenti espressivi. Forrest, che su disco era apparso assai duttile e poliedrico, sembra invece interpretare qui il testo in maniera piuttosto uniforme e omogenea, non discostandosi più di tanto dal suo consueto growl. Le liriche, come sempre, si fanno portavoce di timori e ansie da dominio. Stavolta a farne le spese è un tormentato protagonista che insegue pensieri vaghi e assai confusi. Vittima di un intrigo governativo volto a farlo sprofondare nella più profonda disperazione e nella totale confusione mentale, sente invece lo stesso governo negare qualsivoglia tipo di ignota e pericolosa alterazione perpetrata ai suoi danni o a quelli di altri individui. Egli si sente dunque perseguitato da spie segrete che tramano e cospirano contro di lui, lasciandolo solo e terrorizzato in un misterioso dedalo dal quale non riesce a venir fuori, non conoscendone le tantissime strade. In un continuo e costante scambio di partiture e di ritmi, in cui Away recita la parte del leone col suo drumming estremamente tecnico e variabile, e magistralmente sorretto dal basso di Forrest, le visioni e i timori del Nostro divengono via via più drammaticamente nitide. L'ingrediente principale delle liriche dei Voivod, la fobia della dittatura della tecnologia, fa nuovamente capolino in questo eccezionale brano, ammantandolo di quel senso di smarrimento tipico dell' uomo quando si trova al cospetto di un nemico ignoto ma potente. Perché, si chiede E-Force urlando il suo disappunto, affrontare la fine del tempo in questo modo? Ma non riesce a darsi risposta. Tutto riconduce ad un vigliacco controllo mentale, una guerra psichica in atto contro i più deboli, e che trasforma il futuro di ciascuno in un destino ignoto.
Astronomy Domine
The Piper At The Gates Of Dawn, 1967, primo storico album dei Pink Floyd. Al suo interno vi è una traccia che, senza perdermi in troppi preamboli, è diventata una delle pietre miliari del Rock: Astronomy Domine (Il signore degli astri). Frutto (come del resto l'intero platter) della genialità folle e onirica del compianto Syd Barrett, il brano descrive il fantasioso resoconto di un viaggio interstellare compiuto dal chitarrista sotto l'effetto di acido lisergico, pratica al tempo assai diffusa e della quale i Pink Floyd divennero un po' gli indiscussi mattatori. Potevano dunque i Voivod, volendo coverizzare un brano famoso appartenente al glorioso passato, esimersi dal reinterpretare un brano di siffatta caratura e dai connotati che, più che in qualsiasi altro caso, si sposano alla perfezione con i propri dettami artistici? Il pezzo fa parte della tracklist di Nothingface, capolavoro del 1989 che vedeva al microfono il grande Snake. La versione live oggetto del nostro articolo è invece l'unica riproduzione esistente fatta con Eric Forrest nei panni di vocalist, oltre che, ovviamente, di bassista. E qui ci si può davvero sbizzarrire nel rilevare analogie o differenze tra la versione madre e quella dei Voivod. In nome della sperimentazione e dell' audacia compositiva che li contraddistingue praticamente da sempre, i Voivod danno vita ad una cover carica di personalità e a tratti estremamente originale. La componente psichedelica, tratto distintivo dei primissimi Floyd, viene non solo conservata, ma elevata ad una dimensione superiore, grazie alle interpretazioni magistrali di Forrest al basso, abilissimo nel riprodurre col suo strumento, pulsante e perpetuo, le frequenze radio che mantengono il contatto tra lo spazio e la Terra. Piggy poi, con la sua chitarra, rende le armonie più compatte e furiose di quelle create dal grande Syd. Il pezzo, anche qui, risente di quel romanticismo visionario, fantastico e talvolta macabro dei Pink Floyd, ma con quel tocco di follia in più che solo una band geniale come quella canadese può mostrare. Manca, è vero, il tappeto stellare tessuto dalle tastiere di Wright, ma la maestosità del canto di Forrest e della chitarra di Piggy colmano egregiamente questa mancanza. Il testo, a tratti oscuro e tenebroso, descrive il rapporto simbiotico dell'uomo con la natura, in un quadro dai colori sgargianti ("il verde lime/il blu sconosciuto"),e dalla spiccata sensorialitá ("le gelide acque sotterranee). Il tutto pare rimandare al concetto della morte, una morte vista non come cessazione del tutto, ma più come una sorta di flusso continuo che reca cambiamenti nel tessuto spazio/temporale e nel mondo della natura. Non bisogna dimenticare che questa è un'esibizione live, e quindi assai più diretta e aggressiva della stessa versione dei Voivod presente su Nothingface. Qualcuno, non senza qualche forzatura di troppo, ha voluto vedere nel dualismo del titolo vaghi riferimenti alla contesa tra Usa e Urss per il monopolio, e il dominio mondiale, della scena spaziale durante la guerra fredda, con tanto di relativi lanci in orbita di navette shuttle da parte delle due contrapposte aeronautiche. Non è che una delle svariate interpretazioni che nel tempo si sono susseguite riguardo ad un brano il cui titolo è a tutt'oggi oggetto di dibattito. Un'altra interpretazione vede il dominio di presunte entità superiori ("Domine", appunto), sul mondo degli astri (Asyronomy), creature bizzarre e capricciose incontrate da Syd durante i suoi viaggi interstellari indotti dall'LSD. Tralasciando le diverse esegesi e le diatribe filologiche, a noi resta l'eredità di un pezzo immortale di una band immortale, assimilato e sublimato da un gruppo che, sotto il profilo tecnico, si colloca come uno dei più grandi di sempre. Musica nella sua più alta accezione semantica.
Nuclear War
Trasferiamoci ora, per l'ultimo brano di questa raccolta, sulle lande ghiacciate e desolate della immaginaria terra di Morgoth, lo scenario fantastico creato dalla fantasia di Away, e nel quale si svolge la maggior parte delle vicende narrate nelle liriche dei Voivod. Nuclear War (Guerra nucleare) è l'ultimo della tracklist di War And Pain, disco d'esordio dei canadesi, ed è una traccia che mette clamorosamente in mostra l'attitudine thrash dei Nostri, arricchita di quel gusto per la sperimentazione che, nonostante la canonicitá espressiva del brano stesso, comincia qui a dare le prime avvisaglie. È un thrash grezzo, primordiale, selvaggio nell'incedere e sulfureo per certi versi, la cui potenza sonora viene oltremodo accentuata dalla dimensione live, complice anche la vocalità truce e astiosa di Forrest,che fa il paio meravigliosamente con la follia descritta nelle lyrics.Se Snake aveva saputo modulare la sua timbrica, più versatile e camaleontica per sua stessa natura, Forrest non va invece tanto per il sottile, inanellando una serie di urla grevi e cariche di sofferenza, le quali si sposano alla perfezione con il chitarrismo di Piggy, il solito istrionico mattatore e creatore di riff devastanti e sinistri che, in questa traccia, mette in mostra tutto il suo appeal decadente e il suo sviscerato amore per il Metal. Il rintocco a tre battute di Away apre ai tetti riff dell'ascia, seguito a ruota dal basso sempre pulsante di E-Force, prima che lo stesso inizi a urlare letteralmente il delirio, l'angoscia, il terrore, la follia dei testi. Non vi è traccia di componente melodica, il brano è tutto un susseguirsi di violente nerbate plasmate nella disperazione, con il growl rabbioso di Forrest a fare da complemento alla sezione strumentale. Del resto, dando un fugace sguardo alle liriche, non è che ci si possa aspettare il trionfo della melodia più pura suffragata da arabeschi suadenti e idilliaci di chitarra. No, questo pezzo trasuda dolore e paura per tutto l'arco dei suoi cinque minuti di durata (la versione originale ne contava sette), e non si concede a cali di tensione o a smorzate, sia pur minime, del pathos che lo attraversa. Le conseguenze della guerra nucleare con il suo lascito di orrori e nefandezze, lo scenario apocalittico fatto di desolazione e distruzioni, sono perennemente sotto i nostri occhi. Il caos regna sovrano, sia sulla terra di Morgoth, sia nella struttura del brano, dove le folli partiture tessute da Piggy conducono l'ascolto alla deriva,inducendolo quasi a perdere la ragione. Gli stessi brevissimi, ripetuti solos che incontriamo a metà traccia, contribuiscono a plasmare ulteriormente il nostro animo alle sensazioni di perdizione eterna e alla totale mancanza di redenzione. È stata la nostra avidità, la nostra cieca brama di potere a produrre questa putrida guerra, e ora non ci resta che pagarne le conseguenze. Armi di distruzione di massa, pioggia di neutroni, rifugi sotterranei roventi, radioattività deturpante e letale. Tutto è pervaso dal fluido malsano e mortale di strumenti di morte e di vile tortura. E non vi è via di scampo, l'umanità è condannata per l'eternità. Alla fine, guardare la propria faccia riflessa in uno specchio, un volto sfatto e deturpato dai congegni atomici, può condurre alla follia. È questo il destino riservato all' umanità: la morte o, in alternativa, la follia eterna. Quale delle due preferire?
Conclusioni
Valutare ed inserire nel contesto discografico di una band una compilation è sempre compito abbastanza delicato, che si presta a diverse sfumature interpretative. In tale valutazione rientra una serie di parametri di cui bisogna tener conto se si vuol dare un quadro il più possibile univoco e affine alla realtà. Primo tra tutti, il corpus d'opere prodotto dalla band fino al momento della pubblicazione della raccolta stessa. E qui, nel nostro caso,bisogna dire che siamo al cospetto di una band che, in "appena" tredici anni di onorata carriera, è stata capace di innescare un processo evolutivo e di maturazione artistica che l'ha portata, in nome anche di un eclettismo che ha pochi, pochissimi eguali in ambito metal, a toccare diversi generi, talvolta anche molto distanti tra loro. Hanno iniziato col thrash grezzo e seminale degli esordi (War And Pain), che metteva in mostra una veste produttiva talmente scarna e nuda da sembrare più un demo tape che un vero e proprio full, passando per il thrash più complesso e articolato di Rrröööaaarrr, in cui i quattro cominciavano già a dare segni di una genialità fuori dalle righe. Per approdare infine a quella aulica e ardita commistione di thrash / hardcore / psichedelic / prog che si riscontra nel fantastico trittico "Killing Technology, Dimension Hatröss, Nothingface", con quest'ultimo a rappresentare, quasi all'unanimità, il capolavoro ineguagliato della band canadese. Soprassedendo su Angel Rat e The Outer Limits, lavori che oscillano tra una insidiosa staticità e un lieve cenno di depauperamento espressivo (del resto, erano gli anni dell'invasione grunge, alla quale nemmeno una fucina di classe e talento sopraffino come i Voivod potevano rimanere del tutto indenni), resta da soffermarsi su Negatron e Phobos, di fatto gli unici due album senza Denis Bèlanger alla voce, sostituito per l'occasione, come sappiamo, da Eric Forrest. Ebbene, proprio questi due dischi sono considerati, da critica e fans, i due punti più bassi del primo scorcio di carriera del gruppo. Troppo "pesante" la dipartita di uno dei padri fondatori, nonché vocalist dalle sconfinate capacità tecniche e interpretative, oltre che eccellente collaboratore al fianco di Away in fase di songwriting. E troppo diverso il suo sostituto, il sia pur valido Forrest, incapace di riproporre le poliedriche modulazioni vocali del suo predecessore, ancorato com'è al suo classico growl di matrice thrash/death. Erano dunque più che maturi i tempi per proporre al proprio pubblico una raccolta che si candidasse come naturale resoconto di una cospicua fetta di carriera. Carriera che, come già ricordato, pullula delle più svariate incarnazioni del Metal e del Rock. Le versioni remixate dei primi tre brani,complici anche le eccessive sovraincisioni di matrice futuristica, non rendono, a mio avviso, giustizia ai pezzi originali, facendo perdere agli stessi in immediatezza e appeal, mentre, per contro, la riproposizione live di brani storici ne accentua la carica distruttiva e la componente strettamente "metal". La gran parte del merito in questo senso, e qui vado controcorrente, va ascritta alle prestazioni di un Forrest devastante e sempre sul pezzo, artefice di ottime prove, anche quando chiamato a misurarsi direttamente con Snake (come nel caso di Nuclear War). Se è vero che una compilation serve a dare una visione riassuntiva d'insieme di una band, bisogna considerare il fatto che, viste le mille anime dei Voivod, la scelta dei brani non era affatto di facile gestazione.Ciò che ne è scaturito non è affatto una panoramica esaustiva della carriera discografica dei quattro, mancando all'appello diversi album, quanto piuttosto una serie di rapidi fotogrammi volta a dare un'immagine caotica e priva di particolari punti di riferimento. Semplificando al massimo, non è la classica raccolta con la quale far accostare per la prima volta ad una band anche chi non la conoscesse affatto. Molto, moltissimo, nell' ascolto di questo disco è, per così dire, dato per scontato. I Voivod, che non hanno mai inseguito i facili successi commerciali e né tantomeno i guadagni faraonici, inseguendo il loro perpetuo ideale di band d'élite, hanno deciso che anche una compilation dovesse essere un prodotto di nicchia, qualcosa da destinare quasi esclusivamente a chi sia già capace di intenderne il linguaggio e di decifrarne i criptici messaggi nascosti tra le pieghe delle liriche. Non interessa evidentemente ai canadesi aggiungere nuovi accoliti alla schiera, ma incuriosire e meravigliare ulteriormente gli adepti della loro setta musicale e del loro universo psichico. Del resto, ascoltare un qualsivoglia loro album post 1986, è un'esperienza unica e priva di coordinate univoche. Non si segue una rotta prestabilita, ma lo spirito, l'anima e l'amore per ciò che si suona e si racconta. Non può non saltare alla mente il paragone con altri illustrissimi connazionali rispondenti al nome Rush, ma ci perderemmo per splendidi e impervi sentieri, uscendo fuori del seminato. Acquistate dunque, ascoltate e godete pure di questo Kronik, ma non crediate di penetrare a fondo i loro misteri o di avere piena contezza del loro mondo. Finireste con lo smarrirvi per sempre in qualche remota e ignota galassia o con il rimanere eterni prigionieri nelle lande ghiacciate di Morgoth.
2) Nanoman
3) Mercury
4) Vortex
5) Drift
6) Erosion
7) Ion
8) Project X
9) Cosmic Conspiracy
10) Astronomy Domine
11) Nuclear War