VEREOR NOX
Noli Respicere
2016 - Vacula Productions

JONATHAN BONETTI
22/11/2017











Introduzione Recensione
La volontà di creare può portare a grandi risultati, soprattutto se accompagnata da ottime idee, e può farlo contro ogni avversità. Di questo ne sono testimoni i Vereor Nox, band italiana estremamente meritevole. Questi ultimi nascono per volontà di Beatrice Traversin e Gianluca Moreo, rispettivamente soprannominati (in accordo col concept che qui ci mostrano) Fenrir e Kronos. I problemi, per questa formazione, nascono ancor prima che l'idea venga veramente consolidata e resa sostanza, nel 2014. Infatti, le menti dietro questo progetto abitano in due città diverse, rendendo così il lavoro di scrittura ed ideazione se non impossibile sicuramente estremamente arduo. La volontà è però superiore a qualsiasi impedimento di qualsiasi tipi, le idee sono molte e non mancano: così, i due riescono a creare una formazione (comprendente Cernunnos anch'egli alla chitarra, Krampus al basso e Seth alla batteria/tastiera) ed ecco che nel 2015 possiamo ascoltare tre loro brani; i primi due son quelli che portano i nomi di Beatrice "Fenrir" e di Gianluca "Kronos". La loro storia è breve, e quindi c'è ben poco da dire. Questi vogliono presentarci un Black/Death metal molto particolare e personale (soprattutto per quanto riguarda il terzo brano uscito, "Mujina: Sadness"), dominato da un continuo alternarsi, quasi ossessivo, di melodie ben congeniate e fasi di metal estremo con una componente rabbiosa fortissima e carica d'odio, così tanto che è impossibile non rimanerne quanto meno stupefatti. La componente emotiva è forte già anche nei tre brani usciti durante l'anno (che, decontestualizzati dal concept, perdono tantissimo) e che fungevano quasi da demo, un'anteprima su quella che è la vera potenza distruttrice dei Vereor Nox. La loro musica è accompagnata da quello che forse è la maggior bellezza di questa band: la composizione di concetti precisi e ben descritti, a partire anche solo dal nome del gruppo. Vereor Nox, un imperativo: la notte va temuta con silenzioso rispetto, per coloro che della notte fanno parte, proprio vivendo nel silenzio. Si tema la notte, che non sia priva di significato. Così, alla fine del 2016 il talento dei Vereor Nox emerge con prepotenza all'uscita del loro primo album, "Noli Respicere". Non guardare. Altro imperativo, che stavolta non trasmette timore o orgoglio, ma vergogna e paura, disprezzo per la propria vita. Se il contrasto fra titolo nome della band è forte è ancora nulla rispetto al concept dietro "Noli Respicere", che a tratti ha del genio e non risulta mai banale o poco ispirato. Qui infatti i Vereor Nox hanno intenzione di mostrarci una realtà eterea, incorporea, quella degli dèi che vivono oltre il tempo e al di sopra delle nostre vane vite, prive di significato. Questa realtà divina è però mostrataci attraverso gli occhi degli stessi dèi che si ritrovano qui a raccontarci gli uni i destini infausti degli altri; al centro v'è quanto di più umano possa esserci, la psicologia. Degli Dèi in un certo senso ben poco divini, ben poco lontani dall'iperuranio o comunque dallo stato di atarassia nel quale dovrebbero risiedere. I loro desideri, le loro volontà e i loro pensieri sono antropomorfizzati allo stremo. Gli dèi non sono realtà a noi distanti e privi di connessione con il mondo reale, risultano invece essere, come noi, dominati da desideri più o meno piccoli, tormentati da paure, struggenti dolori e illusioni infelici. Gli dèi altro non sono che proiezione dell'uomo e della sua volontà e ciò pone così l'uomo e i suoi conflitti interiori al centro di Noli Respicere. Ogni divinità ci racconta di quella protagonista del brano che la precede mostrandoci i suoi turbamenti, le sue angosce, la sua rabbia e l'odio che brucia in loro, soprattutto i loro conflitti interiori. Questi ultimi possono portarli anche a rovinare la loro intera esistenza che quanto eterna è l'unica esistenza possibile, senza mai fine e senza mai pace. I disturbi nelle menti di questi dèi, le deviazioni delle loro identità, delle loro morali e della loro stessa essenza ci accompagnano in un concept fortissimo e magistralmente costruito. Dopo aver spiegato la storia di quest'album non rimane ormai che ascoltarlo e cimentarci in un metal estremo rabbioso e funesto come pochi, affidandoci nelle mani degli dèi... e che ci mostrino noi stessi.

Ilmatar: The Weight Of The World
Il viaggio dei Vereor Nox nelle tormentate menti degli dèi, attraverso le loro frustrazioni più occulte ed umane, incomincia nella mitologia finnica con "Ilmatar: The Weight Of The World" (Ilmatar: Il peso del mondo). E' proprio qui, nel mito cosmogonico finlandese che ritroviamo il tormento di portare con sé il peso del mondo, della sua saggezza e del suo fato: ogni componente di questa enorme creazione è un'afflizione per chi l'ha creata, e la vergine Ilmatar non è da meno. Il brano si apre con fare maestoso, un ché di sinfonico estremamente oscuro ed inquietante che dopo poco subisce la violenza delle chitarre e della batteria le quali esplodono rendendo il tutto ancor più possente. In tutto sembra vigere un ordine difficile da afferrare, l'atmosfera è inquieta e distorta con suoni lontani che creano melodie per poi svanire; le chitarre ricoprono tutto col loro riff potente seppur lento. Ecco che la musica subisce un blocco, la chitarra domina solitaria e con pochi accordi ci introduce al brano. Ecco che col riff che incombe il brano comincia il suo violento incedere, entrando in scena dopo poco anche la voce cruda e oscura di Beatrice "Fenrir" Traversin, la quale con dei meravigliosi quanto semplici versi del Kalevala ci introduce all'inquietante condizione della vita sofferente di Ilmatar. Lo fa, rispettando il concept dell'album, nei panni di Mujina. "La sua esistenza triste e disperata | Così sola, vive per le ere". Lentamente il blast beat ci avvolge e da questi pochi versi cantati dalla furia di Fenrir capiamo che l'afflizione di Ilmatar risiede nella sua stessa esistenza, nel fatto stesso ch'ella esiste a quel modo. Ilmatar infatti è una creatura eterea, condannata all'eterna solitudine e al tormento di tutti i suoi pensieri, unica cosa reale in quell'ambiente surreale ed etereo nel quale vive, il quale è tutta la sua vita. Nessuno mai capirà in profondo la solitudine dell'etere. Un nuovo stacco della chitarra e subito siamo travolti dall'incessante blast beat e dalla sei corde spietata. La batteria continua ad evolversi mentre la voce continua a descriverci la protagonista come la madre d'ogni cosa, colei su cui il mondo poggia e soprattutto colei da cui il mondo dipende. Ed è a ciò ch'ella, già portante il fardello della sua solitudine, è costretta: sopportare quel peso nell'anima, il peso di tutto il mondo, d'ogni saggezza e d'ogni cosa reale. La musica, nella sua semplicità, sarà sempre precisa nel sottolineare con precisione momenti importanti, riuscirà sempre ad imporre grande enfasi là dove deve, non risultando mai veramente piatta. Ilmatar portò in grembo l'intera esistenza umana per ben settecento anni, gravidanza donatale dal vento stesso, ed oramai sembra esser rimasta bloccata nel tempo, frustrata dal peso che la costringe a soffrire. Il blast beat ci aggredisce con maggior forza, la musica s'innalza sempre più, mentre abbiamo a malapena il tempo di ascoltare i suoi pensieri che si autodefiniscono come dolore e figli d'un duro fato. Ancora uno stacco brevissimo che ci dà il tempo di prender fiato, siam di nuovo aggrediti dall'imponente violenza musicale della band. Ecco che vediamo quanto il suo giogo la stia distruggendo, della sua esistenza rimane sempre meno. Il brano cambia rotta e un nuovo riff ci accompagna verso la fine ove la narratrice, Mujina, protagonista del brano successivo, ci dice che Ilmatar non percepisce più né spazio né tempo, è ridotta ad un'esistenza eterea ai limiti dell'esistenza stessa e che la sta facendo a pezzi. Però Ilmatar ha la creazione, figlia sua, che la sostiene e la guarisce del suo dolore... Mujina invece non può crear che paura. Il brano si conclude così, con un incedere maligno della voce e della batteria. Tutto è buio, tutto è tragedia in questo brano dominato dal fato malevolo. Eppur questo pezzo altro non è che l'introduzione ad un nuovo tormento, quello di Mujina.

Mujina: Sadness
Il nuovo narratore è Kronos che, con un passo di Koizumi Yakum ci introduce alla nuova divinità e ce ne mostra la storia: "Mujina: Sadness" (Mujina: Tristezza) è forse uno dei brani più emozionanti dell'intero disco, qualcosa che non ti aspetti e che quando arriva ti colpisce con forza brutale, coi suoi sentimenti amari e disperati. Un cupo suono di archi apre il brano con una melodia semplice ed efficace. La batteria squarcia lentamente tutto e ci trasporta nella furia che questa band è capace di trasmettere, ad essa si unisce subito anche la chitarra. Per un istante abbiamo l'illusione che quell'aura sinfonica stia tornando, poi ecco che siamo aggrediti dalla voce e dal riff preciso e potente. La voce è di una potenza e una cupezza uniche e ci narra, dapprima coi versi di Yakumo, la solitudine che Mujina è costretta a portare per tutta la sua vita in un'epoca superstiziosa e misteriosa, oramai lontana. Dopo la prima strofa abbiamo un istante di respiro che viene disintegrando da una batteria potentissima che col suo blast beat guida l'attacco, seguita dalla chitarra e infine dal lavoro sorprendente della tastiera, che se da prima potrebbe sembrare fuori luogo, si integra invece bene col resto della musica. Un nuovo riff, scandito alla perfezione da Kronos, ci accompagna nel vortice tormentoso della storia di Mujina: con la voce che imperversa disperata fra la musica, infatti, ci si palesa dinnanzi una scena. Mujina è sola, come ogni notte, ed è costretta alla sua condanna. Ella piange e le lacrime scendono nonostante lei non abbia occhi, i suoi lamenti s'elevano silenziosi nella notte. E' su un ponte, trema e piange: un uomo la sente e si preoccupa pensando che ella possa saltar giù nel fiume abbracciando così la morte. La figura delicata "come un fiore di loto" porta l'uomo a parlarle. Le sue parole divengono tragiche grazie alla musica la quale diviene d'un tratto più possente che mai e mentre le melodie ben nascoste nello sfondo si scontrano con l'ira del resto della musica ecco che, come già detto, quest'uomo comincia a parlare a Mujina. "O-Jochu! Non piangere, dolce fanciulla! | Se potessi aiutarti, ne sarei felice! | Rimetto la mia sincerità ai tuoi piedi!" Ecco che il brano subisce una metamorfosi radicale e immediata. Mentre tutto cade lentamente nel silenzio una voce femminile ci sussurra ch'ella continuava nel suo pianto e si copriva il volto. La musica viene ora dominata da un violino che comincia a muoversi sinuoso su una melodia nuova e mentre procede nella sua dolce danza la fanciulla piange; quel pianto rimbomba quasi come un'eco, è straziante. A mostrarci le parole dell'uomo che voleva aiutare la fanciulla lo fa la stessa fanciulla, urlando fra le lacrime, mentre tutto è sempre più immateriale ed etereo. "Egli pose la mano sulla sua spalla | Ma le morbide maniche del Kimono si mossero | Ed ella mostrò il volto che non aveva". Come mostrato anche nella bellissima illustrazione che accompagna questo brano, posta all'interno del disco, il tormento di Mujina è svelato: ella non ha viso alcuno, sembra una scultura delicata e non finita. Quella fanciulla non ha alcuna forma né alcuna espressione. Ella non è neanche vagamente un umano come tutti. Il tormento della fanciulla deriva dal terrore degli uomini che quando la vedono fuggono via dal demone che hanno incontrato, terrorizzati... nessuno mai conobbe Mujina. Anche ora l'uomo corre via lasciando Mujina al suo lamento: la musica infuria e s'innalza potente e maestosa, sottolineando la tragicità della forza oscura che colpisce il cuore della fanciulla in quel momento. Mujina è sola, di fronte ad un fossato profondo e sta seriamente desiderando di lasciare che il suo corpo si perda lì; il corpo che la imprigiona nella sua solitudine che tanto l'affligge. La morte è il suo più giustificabile desidero dopo aver seminato così tanto terrore senza che lo volesse. La sua persona sarebbe comunque condannata ad una condizione di quasi non esistenza, capace solo di creare paura negli uomini, tormentarsi e a nient'altro. Il riff di chitarra diviene più graffiante e la musica continua ad accompagnarci verso un'esplosione di energia, sino alla fine del brano dove Kronos, il protagonista del prossimo brano, compatisce quella povera fanciulla accecata da una folle paura che la tormenta. Egli dice di sapere quanto al paura sia amara. Così il brano si conclude, svanendo nel nulla e lasciandoci trafitti per la triste vita di Mujina.

Kronos: Fear
Ci allontaniamo dalle due mitologie che ci han preceduto e ci immergiamo, invece, in quella che è la culla della civiltà occidentale: si cambia il contesto, ma ancora una volta esploriamo i meandri della mente d'un dio, quel dio che andò oltre il caos e che è tempo. "Kronos: Fear" (Crono: Paura) è forse uno dei ritratti dell'uomo occidentale più comune, quello che affoga sempre più nella sua paranoia ogni giorno, sempre più, con il suo mondo il quale sembra sempre sia lì e lì per crollare. Il brano si apre con un incedere possente dove la musica sembra innalzarsi sempre più. Tutto si spegne per un istante e riceviamo la furiosa sensazione di terrore che qui viene perfettamente espressa col canto frenetico che non lascia respiro. Anche questo brano si apre con una citazione, stavolta tratta da un testo classico, una breve descrizione di Kronos. Mentre la musica infuria sullo sfondo fra blast beat e un riff ipnotico e ripetitivo, vediamo chi era questo Kronos, qui protagonista e racconatoci da Fenrir. Egli fu il primo degli dèi immortali, lontano da dolore e fatica, lontano da ogni tempo ed ogni essenza. Egli era il tempo. La musica ci accompagna in un singolo istante di pace, poi siamo nuovamente avvolti dal growl tenebroso di Beatrice "Fenrir" che col suo inarrestabile incedere fra le graffianti chitarre e la tempesta della batteria ci racconta quanto la vita di Kronos fu una costante agonia a causa della sua "paura". Egli, uno dei maggiori titani figli di Urano, ha passato l'esistenza guidato dalla voce della sua paura, sempre più simile a paranoia, paura che gli rubò il sonno per anni ed anni mentre continuava a pensare ad una profezia, quella che aveva predetto la sua disfatta. Infatti egli sapeva che uno dei suoi figli lo avrebbe spodestato ed umiliato e con questo pensiero la sua vita continuava a sprofondare in un buio abisso: tutta la sua infinita ed assoluta saggezza lo stavano abbandonando e la ragione stava svanendo dalla sua mente corrotta dall'orrore. Le rapidissime pause fra un verso e l'altro donano all'incedere un qualcosa di frenetico capace di mozzare il fiato. La chitarra crea un nuovo riff che ci guida ad una nuova strofa. La musica risulta ora meno frenetica, almeno per i primi versi dove possiamo intuire che egli, protettore della fertilità, sarà condannato proprio a causa di essa. La musica sembra esser sempre più ipnotica e la storia di Kronos subisce una svolta. Il titano, dominato dalla follia del suo terrore, divora i suoi figli i quali non posson perire. Egli non sa, però, che per un inganno della sorella uno dei suoi figli è sopravvissuto all'ira incondizionata del padre: questo è Zeus il quale lo sconfiggerà durante la titanomachia. Kronos è oramai sconfitto, resosi conto della sua impotenza nei confronti del fato, vivrà per sempre incatenato nel regno di tenebre e solitudine del Tartaro, incatenato alla sua misera vita ed al tempo che prima dominava. Kronos è solo un esempio, che ci mostra quanto la paura conduca ad una paranoia sfrenata ed insensata. Ciò porta un uomo, non dissimile da un dio come Kronos, a compiere follie senza sapere che si sta rovinando la vita con le proprie mani e le sue paure si realizzeranno per sua stessa opera. Per l'ultima volta la musica rallenta e subisce una nuova metamorfosi con un lungo assolo molto atmosferico che viene spezzato dalla voce di Fenrir, quel narratore di questo brano, che sembra quasi compatire Kronos e il suo misero tentativo di uccidere gli dèi. Egli sa bene cos'è che ha vissuto Kronos e così, fra le graffianti chitarre che lottano contro la batteria incessante il brano sembra "strisciare" verso la conclusione, che arriva in maniera inaspettata. Così si conclude un brano dalla struttura molto semplice la cui musica riesce a trasmetterci molto bene quella sensazione asfissiante di paura.

Fenrir: Liberation Through Sacrifice
A raccontare, il lupo norreno passa il testimone alla babilonese Ishtar per mostrarci questo brano molto particolare, narrante proprio di questo mostro odiato degli dèi del nord. Il profondo e estremamente curato testo di "Fenrir: Liberation Through Sacrifice" (Fenrir: Liberazione Attraverso Il Sacrificio), capace di colpirci fin dalle prime frasi, sembra essere totalmente in disaccordo con una sezione strumentale che sembra esser invece la meno curata dell'album, lasciandoci interdetti durante tutto l'ascolto. Con una chitarra esplosiva il brano si apre inoltrandosi in un riff preciso, accompagnato dai tamburi oscuri: il riff però svanisce presto, ed eccoci catapultati nel pieno del brano da subito, con la chitarra che procede nel suo inarrestabile incedere e alcuni versi dell'Edda, poema nel quale troviamo la storia di Fenrir. Da questi primi versi ciò che capiamo di lui è tutt'altro che rassicurante: la sua bocca, grande tanto da toccare sia terra che cielo, era aperta dando sfoggio alle sue mostruose fauci. Non sappiamo altro, ma solo che il suo ruggito viene interrotto da una spada. Il riff che si ripete in continuazione comincia a diventare ipnotico, la diabolica voce costantemente in growl comincia a parlarci di lui, cercando di mostrare la sua parte meno mostruosa. Anno dopo anni, per secoli o millenni, egli rimase imprigionato fra oscurità e dolore, nel regno glaciale di Hel, circondato da strati di sofferenza e freddo che lentamente lo consumavano e distruggevano la sua mente. La sua vita ormai non è che una lenta attesa mentre "quegli occhi gridavano nel vuoto di un deserto". La voce si ferma, il riff domina solitario e incessante. Il giorno della sua vendetta giunge quando egli fugge al suo carceriere, egli oramai etichettato come bestia feroce; la ferocia, la sua unica amica. Un sussurro, "Sofferenza e dolore", poi il vorticoso riff torna ed è qui che il brano comincia a dare più l'impressione di ripetitività che di ipnosi: il ripetersi continuo di determinate situazioni sembra rendere l'ascolto più pesante. Quando la voce di Beatrice torna ecco che vediamo il tanto agognato giorno, quel Ragnarok tempo nel quale ogni legame è sciolto, ultimo giorno degli ultimi tempi, ed è in quel giorno che Fenrir spera, quello sarà il suo giorno. Tutti gli dèi temono la sua furia, egli s'innalza e risale dagli inferi, la morte e il caos lo seguono. Qui abbiamo un cambiamento nella musica, nel momento che forse può esser definito come il più maestoso nell'esistenza di Fenrir: egli, il suo odio, la sua morte, strappano la vita a colui che è il padre di tutti gli dèi, il supremo, Odino. La musica sembra acquisire un qualcosa di glaciale nel sound, la batteria è il vero protagonista. Ancora una volta tutto varia, la musica si fa più pesante, siamo coperti da una tempesta potentissima: Egli ,non ha fallito. Ha passato tutti i suoi incalcolabili ed interminabili anni legato nei ghiacci abissali mentre l'odio e la furia lo divoravano, rendendolo quella bestia mostruosa che tutti temevano. Il fato è soddisfatto di lui, tutto è compiuto, Odino è morto per mano sua e la sua sofferenza non è quindi stata vana. Un assolo di chitarra ben costruito ci accompagna per pochi secondi andando a modificare l'intero brano, che continua a distorcersi sempre più. La gloria di questa bestia, del lupo che è Fenrir, è pari al dolore al quale egli fu sottoposto, alla sua umiliazione, dinnanzi alla quale s'è sacrificato, rimanendo in silenzio, nei secoli. Ora, appunto, v'è il suo riscatto e la sua gloria è immensa: nonostante anche lui, combattendo odino, abbia perso la vita. La vittoria non è venuta senza un prezzo da pagare, ma è avvenuta. Un suono vuoto ci avvolge, echi lontani ci raggiungono, il brano si approccia alla fine, svanendo lentamente nel nero inferno che Ishtar ha intenzione di raccontarci.

Ishtar: Toughness
A prendere il testimone della narrazione è ora Marte, che ci presenta una storia forse dal carattere più positivo rispetto alle precedenti. Qui ci vien presentata forse la più importante divinità babilonese col brano "Ishtar: Toughness" (Ishtar: Tenacia). Un riff molto lento ci introduce al brano, carico di energia ed oscurità, gettandoci in un'ipnosi di appena qualche secondo, quel poco tempo che precede l'ingresso della furia esplosiva nella voce che influenza tutta la musica. Il cantato in growl risulta frenetico, le parole hanno qualcosa di criptico. Fra la chitarra e la batteria che si intrecciano perfettamente ad una velocità da lasciare a bocca aperta ci viene presentata la divinità babilonese dell'amore e della fertilità in tutta la sua bellezza, bellezza che oramai l'ha abbandonata poiché ella ha accettato di sacrificarla per qualcosa di più importante. Ella abbandonò cielo e terra. Una chitarra distorta ci accompagna alcuni istanti, poi siamo nuovamente travolti dalla musica devastante; qui vediamo la bellissima divinità, Ishtar, che tenta di entrare negli inferi soltanto per amore di suo marito: per lui ella sta andando dove non v'è più ritorno, per salvarlo, nonostante attraversare i cancelli infernali la porterà all'umiliazione e al sacrificio di tutto ciò che le è caro. Tutto ciò solo per amore. Appena si compie questo passo, appena si attraversano i cancelli, siamo circondati dalla chitarra che cambia totalmente l'impostazione del brano, il quale perde la sua furia sfrenata e ci avvolge con suoni striduli, poi rassicuranti, poi oscuri. Un nuovo riff ci si para dinnanzi, la chitarra lo accompagna e la dèa entra negli inferi: ha sette porte da dover oltrepassare, ad ognuna di questa Ishtar viene denudata perdendo il suo splendore e la sua bellezza. Il peso per lei è molto, ma è ben disposta a portarlo: questo peso ci viene evidenziato dal brano che procede con maggior lentezza mostrandoci ciò che accade passo dopo passo, porta dopo porta, umiliazione dopo umiliazione. Ella non ha più oro, abiti, pietre, gioielli e dignità, ma continua perché ha ben chiaro il motivo per il quale è lì. La musica si fa più incisiva con un rullante che ci accompagna con suoni martellanti ed ossessivi: il riff è oscuro, sembra sempre più rappresentare il freddo vuoto nel quale si trovò Ishtar. Ecco che questa arriva al trono di Ereshkigal, colei che regna sovrana negli inferi e su tutto il regno dei morti. La musica incalza, siamo investiti da un Blast Beat incassante, il riff diventa più pieno e potente. L'incontro fra queste due divinità è inquietante seppur metaforico. Ereshkigal, spietata, si alza dal suo trono e quasi come ad obbedire ad un comando, come se ogni anima lì presente fosse controllata direttamente da questa divinità diabolica, Ishtar diviene un cadavere. Un corpo vuoto e senz'anima. Nient'altro. La più bella e splendente divinità di tutte è ora solo carne putrescente e la sua anima svanita nel nulla. Il brano si chiude con un sussurro che ci vuol dare una speranza: valeva la pena compiere quel sacrificio? Sì. Con la musica che svanisce d'improvviso il brano si conclude, come la vita di Ishtar.

Mars: Rage
In "Mars: Rage" (Marte: Rabbia) il demone Krampus ci racconta dell'ira del dio della guerra romano. Siamo da subito investiti da una tempesta di colpi di batteria che insieme ad una chitarra distorta e di forte impatto ci lasciano a bocca aperta. La chitarra ci lascia respirare un istante, la batteria continua da sola trasmettendo un forte senso di disagio: la chitarra si fa sentire appena, vuol solo scandire con forza il ritmo mentre una voce maschile conclude l'intro e ci trascina in una preghiera fatta proprio al dio Marte, il terrore e la morte dei nemici del popolo romano. Questa breve quanto ben orchestrata esaltazione del dio sembra quasi allontanarci dal concept dell'album che vuol vedere gli dèi nel loro aspetto più umano. Questa prima strofa molto semplice e caratterizzata da fitte trame di batteria che s'intrecciano lascia spazio ad una seconda strofa, dominata ora dal growl maligno della cantante. Un riff di chitarra prende il comando e combatte con forza contro la voce che a sua volta tenta di sovrastare tutti. Si parla del più grande disonore che il dio Marte abbia mai ricevuto da un uomo, per di più ricevuto dall'imperatore in persona.
La tradizione vuole che l'imperatore Nerone un giorno di bagnò nella fontana consacrata al dio, mancandogli di rispetto ed insultandolo dinnanzi a tutti senza alcuna vergogna. Questo sacrilegio accende l'ira spregiudicata di Marte che, ricolmo d'odio, deve vendicarsi: quell'uomo deve subire la sua collera e dovrà perire sotto le punizioni divine. "L'imperatore ha disonorato il dio | e per questo sacrilegio | sarà punito". Al terminare di questa frase la musica cambia totalmente aspetto: una chitarra melodiosa ci accompagna qualche secondo, poi un suono distorto attacca con tutta la sua forza. Così riparte un blast beat e le chitarre insieme a lui, mentre quella chitarra più melodiosa continua il suo cammino, non curante e al di sopra di tutto. Qui, dalla voce, ci vengono mostrati il carattere mite di Marte, la sua giustizia, il suo coraggio e la sua intelligenza. Egli non s'è mai lasciato andare alla rabbia se non in questo caso. Quattro versi riescono a farci capire il tormento di Marte durante questi momenti d'odio. Egli non ha più controllo su nulla, la furia prende il controllo, l'odio decide per lui, il suo potere è annullato mentre la rabbia lo domina e gli scorre nel corpo dandogli ancor più potere, ma togliendogli la lucidità. Non s'è mai dato all'ira, ma ora è spaventato e non sa come poter riprendere il controllo di sé. La chitarra cambia ancora una volta con un riff più frenetico e vorticoso mentre ci viene mostrato un Marte piangente, sulle sue ginocchia, senza forze e senza controllo. Il brano si fa sempre più ipnotico e l'empatia con questa divinità diventa forte. "Egli grida al cielo | Il suo dolore impulsivo | Egli urla | Egli piange". La batteria va ad intrecciarsi con magistrale talento al resto del brano che sembra quasi trasformarsi pur rimanendo sempre lo stesso.
Infine, esattamente a metà del brano, ecco la chitarra dal suono melodioso sentita in precedenza. Ora questa è sola, ma lo è per poco. Una chitarra dall'incedere lento e cadenzato entra con forza, la preghiera iniziale viene ripetuta con ora un tono quasi maligno. Al finire della strofa siamo invasi di nuovo dalla furia cieca della batteria con nuovi riff delle chitarre che cominceranno ad intrecciarsi freneticamente per accompagnarci alla strofa finale, cantata in italiano, con la stessa voce udita all'inizio del brano e con una verità inquietante al suo interno. Non deve cessare ciò che sta facendo, Marte, né deve mostrarsi per quel che è. Sarebbe un disonore per sé in ogni caso, il suo tormento deve esser nascosto e deve bruciargli all'interno, per sempre. Il basso prende il controllo quando le parole cessano e ci conduce lentamente al silenzio.

Krampus: Self Love
Quello che è forse il brano dai maggiori toni epici e maestosi, "Krampus: Self Love" (Krampus: Amor proprio), si apre con la musica che lentamente s'innalza, partendo dal silenzio. Si odono solo suoni di tamburi e un sintetizzatore che creano l'atmosfera ricca di riverberi. Tutto sembra arrivare sempre più in alto quando d'un tratto il brano esplode in magica energia condotta principalmente dalle fragorose e potenti chitarre, che in questo pezzo raggiungono il loro apice. Suoni stridenti, contorti, rapidi ed ossessivi si susseguono finché il brano non si trasforma ancora una volta e tutta quell'energia sembra implodere d'un colpo con riff lenti e cadenzati. Tale lentezza dura poco, è solo un'anteprima che ci anticipa quanto sta per accadere: nuove chitarre fragorose che si susseguono forsennate, come in un inseguimento spietato, vanno ad intrecciarsi con la furiosa e cavernosa voce di Beatrice che qui interpreta un nuovo narratore, un nuovo dio: Cernunnos. Da subito ci viene presentata la figura del dio qui protagonista, ci viene mostrata anche qui tramite una citazione d'un testo che lo contiene . L'immagine è tutto fuorché rassicurante: vediamo un dio malevolo, abominevole e che sembra agire per il suo solo odio, senza scopo alcuno. Sotto una tempesta di suoni distorti che continuano a trasformarsi quel che vediamo non è un dio, ma un demonio che prende i "bambini cattivi" e li condanna all'eterna assenza da dio ed eterna sofferenza negli abissi più profondi dell'inferno. Qui questi bambini sono bloccati da catene arrugginite, in pena, e soli, abbandonati in quel luogo di fiamme e zolfo ove s'ode solo il dolore e i lamenti di chi ha perduto l'anima. Un momento quasi etereo, con una voce sussurrata a malapena percettibile in tutto quel caos; ci viene mostrata una parte della sua mente, desiderosa di vendetta contro chi l'ha costretto a viver nell'ombra e nell'odio degli uomini. Un breve intermezzo ci mostra una scissione nella personalità di Krampus che vede, riflesso nello specchio, un sanguinario spietato nel quale non osa riconoscersi. I suoi pensieri si perdono in questo abisso vuoto. La musica cambia, le parole sono scandite con forza e pesantezza e tutto sembra suonare come una condanna per l'anima immortale di Krampus: "Egli era quel fantasma nel riflesso". Quel mostro sanguinario e spietato che si ritrovava dinnanzi era sempre lui ed in lui coesistevano due diverse volontà; una delle due era quella d'un mostro. La musica, sempre più distorta e caotica, ci accompagna nella scoperta più profonda del tormento che affligge Krampus. Egli vuole, e al tempo stesso si rifiuta d'essere un mostro: la morte è il suo unico desidero per il quale soffre, l'anelar le fiamme eterne di eterna sofferenza sembra esser la sua unica salvezza, l'unica salvezza dall'essere quel che è costretto a diventare contro la sua volontà, incatenato al fato e a volontà superiori. Lentamente diviene un mostro, ancora una volta ci vien detto che nello specchio v'è solo un fantasma, ma viene utilizzata una parola diversa per indicare il suo esser fantasma: si vuole rappresentare qualcosa di più etereo ed evanescente, qualcosa di ancor meno reale e più annullato che mai. La sua personalità, quel che egli è, oramai non è più; diviene sempre più dissolto ed è solo un ricordo. La sua persona è costretta a rimaner scissa e non può farci niente. Con un finale che ha qualcosa di glorioso ed epico vediamo che Krampus saprà cosa fare: deve amare sé stesso in entrambe le sue persone, mostruose o no che siano. Deve accettare il lato maligno in lui. La musica ci accompagna con tamburi e chitarre verso una fine tranquilla, che quasi ci culla al termine di questa storia.

Cernunnos: Duality
La penultima storia ci viene raccontata dall'ultimo dio, quel che è il culmine di questo susseguirsi di psicologie divine. Questa narrazione sembra essere un preludio al gran finale, almeno dal punto di vista concettuale. Il narratore di questo penultimo capitolo, "Cernunnos: Duality" (Cernunnos: Dualismo), è niente poco di meno che Seth. L'intro è forse fra le più belle di questo "Noli Respicere", dominata da una chitarra acustica dalla grande bellezza. Senza preavviso siamo travolti dal suono distorto della chitarra e nuovamente senza preavviso siamo travolti anche dalla voce di un growl disperato e soffocato. Le prime parole che ascoltiamo sono un'ode a Cernunnos, dio rappresentante tutto ciò che è la natura: il verde della vita, gli animali, le corna di cervo rappresentanti fertilità; ma anche l'altra faccia della medaglia, un inverno malevolo e mortifero. Egli è tutto ciò che è la natura. Il brano subisce immediata accelerata appena terminata la preghiera che faceva da introduzione, cominciando a farci conoscere un lato di Cernunnos. Vediamo le sue alte corna di cervo intrecciarsi fra i vivi rami del bosco: egli è il gran protettore, signore e guardiano del verde e della vita stessa che esce da lui. Serpenti gli cingono le spalle, la natura è armonia, egli è rifugio per le menti afflitte dei viaggiatori e gli dona ristoro. Il brano ferma la sua sfuriata frenetica e un riff squadrato e preciso si fa sentire coi suoi suoni striduli e strani che ci avvolgono: "Ecco, ora viene la vita | Ecco, ora viene la primavera | Ecco, ora viene il sole | Ecco, ora viene l'estate". Questo è il grande capolavoro di Cernunnos, la sua più grande bellezza, quella che è la massima espressione della vita che in lui trova fondamento. Egli è la vita ed è l'abbondanza di questa. Ma Cernunnos non è un dio buono, come neanche uno malevolo; egli è un pendolo in costante oscillazione e il brano vuole sottolinearlo con una nuova tempesta musicale in perfetto stile Black/Death Metal. Le parole del canto rabbioso della vocalist si susseguono con l'usuale frenesia, l'odio è percepibile ovunque. Ecco quindi l'altra faccia di Cernunnos: un dio malinconico e dai pensieri profondi che cessa di essere quell'uomo verde, guardiano della natura, ma si trasforma in un uomo oscuro capace di distruggere quella stessa natura che con tanto impegno ha creato. Egli apre le porte e lascia passare il gelo che con sé porta morte, le sue corna secche e affilate son più demoniache che divine. Coloro che una volta erano sostenuti da Cernunnos ora trovano la morte per mano sua: per metà anno non vi sarà vita alcuna. "Ecco, ora viene il sonno | Ecco, ora viene l'autunno | Ecco, ora viene la morte | Ecco, ora viene l'inverno". Quale di queste è la sua vera essenza? Egli è un dio buono e portatore di vita o maligno, che la vita la porta via? Riascoltiamo la chitarra acustica dal sound gelido ascoltata all'inizio del brano, delle voci melodiose in lontananza. Siamo quasi cullati dalla bellezza di questa parte che ci accompagna lentamente verso un finale che ci mostra ancora il dualismo profondo di Cernunnos; la musica si fa nuovamente oscura, siamo assediati dal sound pesante delle chitarre e dal growl oscuro della voce. Le chitarre gelide ci accompagnano lentamente con ancora le voci in lontananza che si fanno sentire: Cernunnos è due entità differenti, se non opposte, che convivono nello stesso corpo. Esistono due Cernunnos distinti, ma inseparabili. L'atmosfera acquisisce qualcosa di quasi magico seppur carico d'odio. Il finale è introduzione al capitolo conclusivo del disco, il brano che ha come protagonista Seth, il quale ci dice che egli sa cosa sia realmente una distorsione della propria personalità.

Seth: Identity
Giungiamo quindi alla fine del concept che ci ha guidati attraverso le menti tormentate di grandi dèi che nel loro profondo sono più umani. Qui possiamo vedere il vero fulcro di "Noli Respicere", quel che era il vero centro tematico che tutto il disco s'è preparato ad accogliere: l'identità e l'affermazione di sé, e questo tema così centrale, tanto nel disco che nella vita di tutti noi uomini, ci vien mostrato tramite uno dei brani più belli dell'intero platter: "Seth: Identity" (Seth: Identità). Il brano si apre con una chitarra dal suono mediorientale che tanto vuole creare l'atmosfera nella quale dobbiamo immergerci. Un sussurro ci mostra l'essenza di Seth e della sua maestà: un solo verso che apre il brano, Seth in tutto il disco è l'unico che parla per sé. Un istante di silenzio, poi un riff compare dal nulla, caotico, tanto semplice quanto ben scritto. Il brano ci rivela la sua essenza più pesante, uno scream s'ode sullo sfondo e poi tutto viene assalita dalla voce del diabolico growl di Beatrice. "Ora è giunto il mio momento | Ho atteso per eoni | Io sono Seth il grande | Ed ho troppe facce". Il primo passo nella mente di Seth è il mostrare le sue infinite identità che la storia l'ha costretto ad acquisire. Da prima egli fu rappresentanza di fratricidio, per l'uccisione di Osiride suo fratello: regnò sull'intero Egitto per molto tempo quale dio e possessore del Caos primordiale dell'universo. La sua potenza era immensa. Il brano cambia rotta e le tastiere cominciano a farsi sentire con la loro atmosfera graffiante e maligna, il blast beat erompe nella sua energia. Egli fu protettore degli eserciti, signore della morte, Amon-Ra: i faraoni portano il suo nome poiché è lui stesso a sceglierli. E così per molto tempo gli uomini hanno preso il suo nome, il caos di cui egli è dominatore ed unico rappresentante, l'hanno sfigurato e trasformato in tantissimi modi diversi dando sa Seth sempre nuove identità. Il riff è graffiante, la voce lacerante. Il brano sembra volerci portare avanti con la forza, costringendoci con riff incalzanti e sempre più energetici. Tutto subisce una inaspettata deriva melodica ove una chitarra ci accompagna in terre lontane e nella slunga storia di Seth. Alcuni dei nomi che porta quel che ha rappresentato al figura di Seth, la figura del caos immortale ed eterno dell'esistenza. Si va da Shiva che contiene in sé il caos infiammato dell'esistenza al maligno Apophis per poi passare per l'Hadit della Thalema fino all'essenza diabolica e caotica per eccellenza, Satana, l'angelo caduto e abominato da dio che soffre nel regno del caos eterno nel quale vuol portare quante più anime possibili. "Io Sono Seth", questo è il fulcro del brano ed è qui che la musica esplode nuovamente travolgendoci con chitarre impetuose e tastiere assordanti. Il riconoscere il sé fra tutte le figurazioni che ha subito durante la propria esistenza, il riuscire a ritrovarsi e conoscersi attraverso le ere e le vite. Egli è Seth, il signore del deserto e lo straniero che nel deserto vive, la morte ed il creatore dell'universo. Egli è l'essenza primigenia del caos, è lo stesso caos creatore ed è lo stesso cosmo che domina sul caos. Egli è tutte le definizioni dategli e al tempo stesso nessuna di quelle. Egli è l'unico dio, colui oltre le illusioni e le piccolezze dell'uomo che vive la sua vana esistenza. Il brano si conclude così, col vuoto che ci raggiunge inaspettatamente dopo questa parentesi egiziana. Comprendiamo quindi che l'affermazione del sé, il riconoscerlo, è la conclusione di questo viaggio.

Conclusioni
E' difficile riuscire a parlare di un disco come questo senza perdersi in inutili chiacchiere: "Noli Respicere" è un disco dal concept forte e costruito alla perfezione, molto complesso e profondo. Di fronte ad un disco così si rimane per forza spiazzati ed i propri criteri di valutazione crollano, in quanto a spiazzare è in fin dei conti l'estrema maturità con la quale questi ragazzi hanno voluto parlarci di tematiche così importanti e per certi versi delicate. Tematiche unite ad un interesse storico ed a tratti imponente per mitologie di varie tipo, accuratamente passate al setaccio per estrarre da tutte una figura funzionale al proprio scopo. Trattare gli dèi con fare tragico e romantico, mostrando uno spiccato gusto per le antiche tragedie: decisamente un'operazione degna di nota, se non meravigliosa. Volendo essere pignoli con le classificazioni inutili, decideremmo di collocare questo disco in quella che è la scena Black/Death Metal attuale; è proprio da qui che partirei, da questa inquadratura preliminare, per provare a valutare questo disco dall'innegabile qualità. La scena Black/Death Metal attuale è in una profonda crisi dovuta alla carenza di idee: sono numerosissime le band che definire come fotocopia le une delle altre sarebbe un complimento. Questi gruppi spuntano fuori ogni giorno producendo musica sempre tutta uguale, appiattendo la scena e riempiendoci di musica banale e noiosa. I Vereor Nox riescono, già con questo primo disco, ad andare oltre tale problema riuscendo a creare qualcosa di immenso, magistralmente costruito e dal forte impatto sia musicale che emotivo. La band riesce a coinvolgere da subito e alcuni brani come "Mujina...", "Krampus..." e "Seth..." valgono da soli tutto il platter, risultando dei veri e propri capolavori di ferocia inaudita in perfetto stile Metal, con una velata eleganza e raffinatezza alla quale forse troppo spesso, probabilmente per immaturità della band, viene dato troppo poco spazio in favore sempre (o quasi) di un lato più rozzo e maligno seppur sempre ben congeniato. Le poche parti in cui regnano la quiete, la melodia, i momenti più distanti dal caos che permea ogni nota del disco... l'oscurità è forte tanto quanto il senso d'angoscia. I pochi momenti di pace non servono per darci respiro, ma per lasciare che le tenebre ci divorino con calma. E' questa la sensazione che si prova ascoltando "Noli Respicere". Le tenebre spietate ti divorano e ti possiedono, tenebre e spettri di menti sofferenti e distorte, con le quali solo in pochi riescono ad empatizzare. I contrasti sono costanti durante tutto l'ascolto e i conflitti interiori dominano il disco. Uno dei maggiori punti a favore di quest'album è infatti il concept, travolgente e pieno di testi ispirati e ben scritti. Insomma, i Vereor Nox son riusciti a non essere una delle tante band inutili della scena Black Death, che spuntano come funghi e come funghi spariscono. Sono riusciti ad emergere, a farci capire il loro valore. Forse l'album soffre di alcuni problemi di ingenuità, ma fatto sta che la maggior parte delle band non riesce a creare un primo lavoro di questo livello. Un album, in definitiva, che posso senza ombra di dubbio definire sicuramente molto bello; un ascolto obbligatorio per gli amanti di metal estremo di qualunque tipo. In chiusura, mi sento di affermare quanto segue: non possiamo fare altro che attendere con ansia un nuovo disco dei Nostri, quello che più di tutti (a parer mio) ci mostrerà il loro vero talento.

2) Mujina: Sadness
3) Kronos: Fear
4) Fenrir: Liberation Through Sacrifice
5) Ishtar: Toughness
6) Mars: Rage
7) Krampus: Self Love
8) Cernunnos: Duality
9) Seth: Identity

