VARIOUS ARTISTS

The Cult of Necrodeath

2017 - Black Tears

A CURA DI
MAREK
03/03/2018
TEMPO DI LETTURA:
7,5

Introduzione Recensione

Ricordo ancora i miei albori da metallaro, quando incauto mi muovevo a tentoni all'interno di una scena vastissima; il più delle volte, composta da persone ben più esperte del sottoscritto. Con le quali - forse per timore reverenziale - temevo il confronto, convinto di venir trattato come l'ultimo dei "poser". Fu il mio genuino amore per la musica a fare in modo, con la dovuta calma, che quei contatti cominciassero a prendere la forma di amicizie sia fisiche sia epistolari. Non ho certo l'età di un veterano, ma ricordo con piacere quelle intere giornate passate fra pc e scartoffie, confrontandosi su questa e quella novità, scambiandosi dischi ed opinioni. Soprattutto dischi, a dire il vero. Fu più o meno così che la mia vita cambiò radicalmente, quando entrai in contatto con un disco il quale, al pari di "Deathcrush", "Reign in Blood", "The Day of Wrath", "In Death of Steve Sylvester" e "To Mega Therion", fu fondamentale per la mia crescita più "estrema" ed "oltranzista", in ambito prettamente metallico. "Mater of All Evil", questo il suo titolo. La band recava, reca tutt'ora un nome che - a parer del vostro affezionatissimo - riesce come pochi a descrivere l'idea di una musica potente quanto violenta, senza fronzoli alcuni, carca nella sua magrezza, vogliosa unicamente di far del male. Del male, sul serio: loro erano, sono i Necrodeath. Morte, necrosi... di chi sia la compagine ligure, cosa sia e cos'abbia significato per il Metal italiano ed internazionale, spero tutti ne siate a conoscenza. Altrimenti, potrei rinfrescarvi la memoria, divulgando giusto qualche informazione utile a comprenderne il peso storico e musicale. Un'opinione a caso, quella del buon Phil Anselmo. Il quale, qualche tempo fa, non si fece scrupoli nel definire i Nostri come "la band più estrema di sempre". Opinione non certo unica, dato sì che a parlare sono soprattutto i dischi, più che le opinioni altisonanti. Era cominciato tutto con il tellurico "Into the Macabre" (1987), seguito da una doppietta micidiale: "Fragments of Insanity" (1989) ed il molto postumo - nonché già citato - "Mater of All Evil", classe 1999. Dieci anni nei quali la band rischiò di scomparire, salvo poi riformarsi rilasciando un gran capolavoro. Da lì in poi, la strada fu tutta in discesa: la bellezza di altri nove dischi, tutti validissimi, mai un capitolo deboluccio o comunque trascurabile. Considerando le mie preferenze per i vari "Ton(e)s of Hate" (2003) e "100% Hate" (2006), non ho comunque trascurato neanche i lavori più recenti, tanta è stata la passione con la quale mi sono approcciato ad una band che, all'unisono, è considerata fra le più importanti di sempre, all'interno della nostra scena. Condividendo il podio con realtà quali Schizo, Bulldozer e Death SS, i Necrodeath hanno si da sempre saputo come porsi, in che modo. Possenti e torreggianti, crudeli fino al midollo: non esiste un loro disco che non trasudi odio e paura, amore incondizionato per l'estremo, per la violenza sonora vivida e pulsante. Vari motivi per i quali, questa grandiosa compagine, è stata omaggiata con un disco tributo: una compilation ricca di bands desiderose di omaggiare gli esimi colleghi, riproducendo alcuni dei loro pezzi più famosi, storici, iconografici. Sorte già condivisa con i colossi Death SS e Strana Officina, dopo tutto. I primi furono tributati nel 2000 con il rilascio della compilation "Beyond the Realm of Death SS"; i secondi nel 2011, quando venne realizzata per l'occasione "Officina dei Sogni". Tanti furono i gruppi interessati, sia da una parte sia dall'altra: Dark Quarterer, Etrusgrave, Eldritch, Abysmal Grief, Church of Misery, Stormlord... insomma, un "roster" di tutto rispetto, così come risulta quello protagonista di "The Cult of Necrodeath", battagliero ed agguerrito più che mai, intento a far rivivere grazie alla propria musica la leggendaria epopea di una delle band estreme più importanti della storia italica e non. Possiamo citarle tranquillamente a mo' di elenco, per poi approfondirle man mano che l'articolo prenda corpo, concedendogli maggiore spazio nella nostra consueta analisi track by track. Dati alla mano, appello in fieri, abbiamo la presenza accertata di Death Mechanism, Malignance, Damnation Gallery, Killers Lodge, E-Force, Fog, Barche a Torsio, Cadalso, Hornhammer, Path of Sorrow, Septem, Necrobreath, Schizo... ed una chicca finale, per la quale dovrete attendere, amici lettori. Per ora, vi basti gioire di questa sequela di bands ultra-valide, nostrane ed internazionali, le quali possono finalmente convivere assieme sotto un'unica bandiera: l'amore per l'estremo, nella sua forma più particolarmente e squisitamente malvagia. Insomma, non esisteva modo migliore per omaggiare una compagine che, alla nostra scena, ha sempre dato moltissimo, in termini di qualità e notorietà internazionale. Se - tornando al famoso esempio - persino Phil Anselmo arrivò ad accorgersi dell'esistenza dei Necrodeath... questo può voler dire una sola cosa. Avere sostanza, alla base delle proprie idee. Riuscire a concretizzarle in maniera ottimale, donando forma e sostanza ad un progetto il quale, dopo lunghi anni, è ancora vivo e vegeto, pronto a distruggere ed a dispensare guerra a qualsiasi avversario gli si paia dinnanzi. Fra una settimana scarsa, "The Age of Death Christ" vedrà la luce: un nuovo, attesissimo album d'inediti nel quale Flegias, Peso, Pier e GL riverseranno tutta la loro ira, la loro voglia di urlare al mondo: I NECRODEATH NON MORIRANNO MAI. Fino ad allora, gustiamoci questo "antipasto", per quanto la sua abbondanza lo faccia apparire più come una portata principale, of course. Let's Play!    

At The Mountains of Madness

Apre le danze una versione di "At The Mountains of Madness (Le montagne della follia)" ad opera dei veronesi Death Mechanism, fondati da Alessandro Pozza (chitarra / voce, anche in forze nei Bulldozer) nel 2002 dopo lo split degli O.D.O. Formato ad oggi, oltre che da Pozza, anche da Manu alla batteria e da Ivan Truzzi al basso, il trio scaligero ci propone un Thrash ruvido e diretto, potente ed arrembante, la cui essenza può esser facilmente carpita appieno dall'ascolto dei tre full-lenght fino ad oggi rilasciati dai Nostri. Perfettamente a proprio agio nel reinterpretare un classicone in origine presente nello storico "Into the Macabre", la compagine veneta parte subito in quarta, facendoci dapprima udire un effetto "reverse" e subito dopo intonando il misterioso e sulfureo riff d'apertura. L'aria diviene sin da subito pesantissima, degno preludio ad un'accelerazione presentata a poco a poco, piece by piece. La definitiva deflagrazione arriva grazie ad un'annichilente scarica di mitragliate ad opera di Manu: i Death Mechanism possono dunque iniziare il loro viaggio verso le montagne della follia, luogo misterioso ed inesplorato, dimora dei Grandi Antichi. Il freddo, il gelo ed i ghiacci perenni ricoprono perentori il paesaggio circostante, neve affatto candida; anzi minacciosa, accecante, sparsa a perdita d'occhio. In linea con il paesaggio Lovecraftiano sino ad ora dipinto dalle liriche, il sound del trio appare soffocante, terribilmente in linea con gli intenti originali dei Necrodeath: azzannare l'ascoltatore alla giugulare, lasciandolo poi lentamente morire dissanguato. Si corre e si distrugge, sino ad arrivare ad una porzione di brano scandita da un preciso quanto ipnotico e marziale battere. La voce di Pozza, violenta e marcia sino al midollo, non fa prigionieri, che i ritmi siano serrati o meno. Si giunge prestissimo a degli assoli velocissimi ed ottenebranti, sorpassati in seguito da un altro rallentamento, in cui a dominare è una sinistra quanto folle melodia. Folle quanto le visioni di chi, suo malgrado, si ritrova a contatto con le bestie antiche più dell'uomo, del mondo stesso. Cosa nascondono, quelle montagne? Cosa celano nel loro cuore? Forse, un qualcosa che mai dovremmo scoprire. Si torna a picchiare verso la fine del pezzo, reso assolutamente alla grande grazie all'attitudine selvaggia ed indomabile dei Death Mechanism, più sicuri che mai calatisi nei panni necrodeathiani del Black/Thrash più oscuro ed oltranzista. Il Necronomicon è stato aperto, le creature in esso descritte stanno prendendo forma: chi potrà mai trovare scampo, salvarsi da un nemico capace di dimorare nelle nostre stesse menti?

Mater Tenebrarum

Secondo atto affidato ai blackster genovesi Malignance, attivi dal 2000, vedenti il proprio nucleo centrale nella coppia Arioch (chitarra, basso, drum machine) e Krieg (voce). Freschi di un ultimo full-length rilasciato appena un anno fa ("Architects of Oblivion"), spetta a loro l'onore di riproporre un altro classico senza tempo. Parliamo nella fattispecie di "Mater Tenebrarum (Madre delle Tenebre)", sempre estrapolata da "Into The Macabre". E' una docile chitarra arpeggiata ad aprire le danze, scandendo una melodia ammaliante quanto sinistra, misteriosa nella sua maligna allusività. Il perentorio battere di tamburi di guerra disperde la calma apparente, i riff divengono più rocciosi e sabbathiani, l'urlo di Krieg infesta l'aria come uno sciame di locuste: il meglio deve ancora arrivare. Come un fiume in piena i Malignance straripano in maniera indegna, distruggendo e travolgendo tutto ciò che gli si paia dinnanzi. Il brano acquisisce una seconda giovinezza, le urla sguaiate del singer e le corde maltrattate del chitarrista abbattono ogni tipo di muro, facendo valere la propria incontrastabile legge. Lesti si giunge ad un rallentamento da manuale, in cui una profonda voce carica d'eco declama parole a mo' di nenia liturgica, mentre Krieg fa valere la sua ugola demoniaca ed un'atmosfera disturbante permea di nubi sulfuree la nostra stanza. "BELLUM, MORTEM, CRUDELITATES, SUBTILES ET IMMENSA FEREMUS, INQUIETAE SUMUS ET INSATIABILES, ODII SATURAE, SUBIECTAE ANIMI IMPETIS, FASTIDIUM, INVIDIA, DISCIDIUM, INTER NOS, SACERDOTES SATANAS STANT", lode tessuta dai suoi sacerdoti alla Mater Tenebrarum, regina dell'inferno. Membro dell'immonda triade delle Tre Madri (Mater Lacrimarum e Mater Suspiriorum), questa violenta e sadica strega risulta la più crudele e spietata delle sue colleghe, personificazione della morte stessa. Protagonista del capolavoro "Inferno" (1980) di Dario Argento, la strega esige dai suoi adepti copiosi tributi di sangue, dimorando in una realtà a noi sconosciuta, parallela alla reale e pure totalmente distaccata dalla normalità. Per bocca dei Necrodeath e ben felici di servirla, anche i Malignance si dichiarano suoi fidi discepoli, tessendone le lodi. Un urlo agghiacciante di Krieg spezza il satanico clamore sciamanico pocanzi passato, si torna a picchiare più decisamente pur mantenendo i ritmi non velocissimi, più cadenzati che altro. Riff di chiara impronta Thrash ben si mescolano ad un comparto Black da manuale, procedendo verso un nuovo assalto di batteria. La componente più oscura e mortifera prende il sopravvento, si corre alla maniera della scuola svedese, fino a rallentare di nuovo, giungendo ad una fine perentoria. La strega ci fissa, ammantata di nero, con i suoi occhi giallo acceso. Non possiamo far altro che fissarla spaventati, ignari del nostro destino, prede di una violentissima ipnosi. Beviamo dal sangue sgorgante dalle sue vene, riempiamo le coppe, giuriamo eterna fedeltà alla Madre delle Tenebre.

At The Roots of Evil

Terzo atto: è la volta dei Damnation Gallery, attivi da appena due anni e dediti ad un Heavy Metal assai roccioso e dalle forti connotazioni teatrali. Un po' Hell, un po' King Diamond, la compagine ligure capitanata dalla vampira Scarlet è qui alle prese con un brano all'apparenza ai propri antipodi: "At The Roots of Evil (Alle Radici del Male)", tratto dallo splendido "Mater of all Evil" (1999). Ancora una volta troviamo un'apertura misteriosa, un crescendo disturbante ed ipnotico sormontato ben presto da una batteria roboante, rocciosa. Inizia sin da subito a prendere corpo un riff squisitamente Sabbathiano, mentre Scarlet decide ben presto di far la sua comparsa, ora cantando in clean ora sfoggiando uno screaming degno del glorioso Black che fu. L'andatura doomeggiante e controllata rende giustizia a questa riproposizione, per forza di cose resa più adatta ad una compagine più orientata verso suoni classici che sul Black/Thrash senza fronzoli o quartiere dei Necrodeath.Si celebra, in questa occasione, l'istinto irrazionale e violento dell'uomo, tradotto in "Madre di ogni malvagità". Quali sono dunque le origini del male? I Necrodeath sembrano ricondurle a molti, molti millenni or sono: il periodo in cui vigeva sulla terra la legge della giungla, in cui la convivenza collettiva poggiava le sue basi sul detto "mangiare od essere mangiati". Viene fatto riferimento alla storia di Caino ed Abele, resoconto di un tragico fratricidio. Invidioso del fratello (non ci è dato sapere se perché maggiormente nelle grazie di Dio, o perché legato ad una bella donna), Caino lo uccise a tradimento, invitandolo per una passeggiata in campagna poi sfociata in un delitto sanguinoso. E' questo che i Necrodeath sottolineano: l'istinto primordiale, l'istinto bestiale nascosto in ognuno di noi, in attesa di saltar fuori per potersi finalmente sfogare, stanco d'esser represso da leggi e regole ad esso non gradite. Possiamo castrarci finché vogliamo, la nostra vera natura prima o poi salterà fuori. Esattamente come questo brano il quale, dopo una parentesi "calma", conosce una decisiva accelerata verso il secondo minuto, quando i Damnation Gallery pigiano sull'acceleratore dando vita ad un pedal to the metal clamoroso. Si picchia a più non posso, si fa del male, si va velocissimi; i Nostri perdono la loro aura più Heavy e misteriosa, calandosi perfettamente nei panni di Blackster arcigni e maneschi. Scarlet è assolutamente magistrale nel ruolo di badessa del Diavolo, e tutta la band si dimostra ultra-capace di rendere profondo onore ad un pezzo storico. Ci si infrange poco dopo verso un altro rallentamento, momento in cui una voce effettata dà il via ad una recita in latino, inquietante e sicuramente disturbante quanto basta. "SIC ERGO VERO EST ALIQUID QUO MAIUS COGITARI NON POTEST, UT NEC COGITARI POSSIT NON ESSE. EC HOC ES TU, MATER OF ALL EVIL!"; usando uno stratagemma già adoperato da Anselmo D'Aosta per affermare l'esistenza assoluta e certissima di Dio, i Necrodeath adoperano a loro volta le parole dell'erudito filosofo per affermare l'esistenza della Madre di ogni cattiveria: il nostro istinto killer, fiero ed indomabile. Si riprende dunque con gli stilemi Heavy - Sabbathiani già uditi in precedenza, per giungere poi lesti alla fine del brano. Una grande prova, tanto di cappello.

Mater of All Evil

Atto quarto: rimaniamo sempre nei meandri di "Mater of All Evil", questa volta è il turno dei Killers Lodge e della loro versione della mitica "The Creature (La Creatura)", open track del masterpiece datato 1999. Una formazione, quella ligure, dedita ad un Heavy a tinte fortemente Thrash, rimandante per molti versi ad alcune soluzioni tipicamente 'n Roll. Tendenze, miscuglio che possiamo ben udire in una track resa senza dubbio meno fredda e spietata di quanto non fosse in precedenza: non vi sono masserizie tipicamente Black ed anche a livello vocale ci troviamo dinnanzi ad un'ugola certo prepotente ma lontana da scream acidi, anzi profonda e cavernosa: la voce di Killerbob ricorda per sommi capi quella di David Vincent dei Morbid Angel, mentre il resto della band (Razorback alla chitarra e Machete alla batteria) cerca di fare il possibile per non risultare da meno del carismatico frontman, andando a fornire il brano tutto di una maggiore dinamica, plasmandolo secondo il proprio essere. La situazione si risolve dunque in un pezzo reso sicuramente meno pesante della sua versione originale, pur non disperdendo carica e malvagità. Una canzone assai breve, recante nel suo comparto lirico uno dei temi maggiormente cari ai Necrodeath: i racconti di H.P. Lovecraft, qui portati in auge da un testo creato pensando a diversi Grandi Antichi e Dei Esterni. Primo fra tutti, Cthulhu; l'immondo e gelatinoso ammasso d'organi, sovrano di R'Lyeh, colui che nella notte attende sognando. Due occhi letali che scrutano tutto il nulla, un'immensa creatura marina dotata di orridi tentacoli, posta nei meandri di una città perduta, ove domina assieme alla sua progenie. Suo particolare potere, sua letale abilità, quella di apparire in sogno ai comuni mortali. Sogni devastanti in grado di distruggere la psiche dei poveri sognatori, ridotti alla follia da tali visioni. Abbiamo anche Yog Sothoth, la cosa oltre la soglia, un cumulo di sfere iridescenti abitante del tempo. Si dice che Yog Sothoth possa trovarsi in ogni luogo in ogni tempo, distruggendo il concetto stesso di spazio-tempo, dominando su ogni tipo di realtà. Ovviamente, tutti gli Dei lovecraftiani aspettano un segnale, la possibilità di potersi risvegliare dal proprio sonno millenario tornando così a comandare sul pianeta terra, loro ancor prima che le iniziali forme di vita unicellulari facessero la propria comparsa. Ovviamente, nessun mortale può anteporre la propria volontà a quella di un Grande Antico o di un Dio Esterno: talmente potenti da poterci spazzare via in un battito di ciglia, senza colpo ferire.

Master of Morphine

Quinto atto, si esce dal reparto "classiconi" per recuperare un brano direttamente estrapolato da "100% Hell", platter datato 2006. A proporci "Master of Morphine (Maestro della Morfina)" sotto nuove vesti abbiamo dunque i primi ospiti "stranieri" della compilation, i thrashers francesi E-Force, attivi sin dal 2001 e forti di un membro fondatore (Eric Forrest) con un passato nientemeno che nei Voivod, con i quali incise sia "Negatron" (1995) che "Phobos" (1997). E' un arpeggio assai delicato a dare il via alle ostilità, una chitarra acustica che ben si destreggia, serpeggiando nelle nostre orecchie, presto supportata da strani effetti elettronici e dalla voce sussurrata / sulfurea di Eric. I tamburi cominciano di lì a poco a rombare minacciosi, la chitarra si dona a qualche piccola variazione dal tema principale, finché i riff diventano violenti e pesanti, taglienti come rasoi. Il brano mantiene un'andatura non velocissima, riuscendo comunque a far del male, snodandosi benissimo su ritmiche essenziali e mai assassine. La prova dei francesi risulta convincente, anche se sembra in qualche occasione mancare leggermente di mordace; un po' più di convinzione in più, forse, non avrebbe poi guastato. Sembra proprio che i Nostri stiano semplicemente svolgendo un compito, certo ben presentato, ma in alcuni casi non propriamente esaltante. Il refrain, sezione più melodica del pezzo tutto, rimane sicuramente il frangente più convincente, davvero ben riproposto ed eseguito. Si giunge lesti a degli assoli niente male, brevi ma ben suonati, sorpassati da un ultimo ritornello, a sua volta doppiato dall'arpeggio iniziale, il quale torna a far capolino, concludendo il brano. Rapido ed indolore, in sostanza: non un capolavoro di pathos ma neanche una prova da buttar via. Protagonista delle liriche, un dottore associabile alla triste compagine degli Angeli della Morte: ovvero, tutte quelle persone operanti nel campo sanitario (anche infermieri ecc.) le quali abusano letteralmente della propria posizione, per poter compiere autentici atti di violenza ed omicidio. Soprattutto in questo caso notiamo come il Dr. Robert (questo il nome del personaggio) ami somministrare ai suoi pazienti dosi letali di morfina, calmante ed antidolorifico alcune volte adoperato addirittura come vera e propria droga. Una dose eccessiva potrebbe risultare letale, dove per dose eccessiva si intendono anche pochissimi grammi. Chi è dunque Robert? Un pazzo serial killer, un folle dotato di inquietante lucidità? Non possiamo dirlo con certezza. Quel che sembra ed alla fine è, riusciamo a scorgerlo sin troppo bene. Robert ama la morte, ama uccidere. In barba al giuramento di Ippocrate, in barba ai doveri di un medico, egli continuerà sempre a girare per le camere e corsie con in mano il suo strumento di morte, la sua fedele siringa stracolma di morfina.

Red as Blood

Atto numero sei, torniamo in territorio italico per fronteggiare una massiccia riproposizione di "Red as Blood (Rosso Sangue)", ad opera degli spezzini Fog. Compagine Death attiva sin dal 1997 ma giunta al debutto in full-length solo nel 2015, con la pubblicazione del validissimo e roccioso "Mors Atra". Si recupera a piene mani dalla tracklist di "Black As Pitch" (2001), è subito un urlo straziante e ruvidissimo a dare il via alle ostilità; la batteria corre e scalpita, le asce risultano ben calibrate e pronte alla guerra. Il brano si forgia di un'andatura assai cadenzata, non troppo diretta. Ritmiche interessanti rendono il tutto particolarmente dinamico, dotando la canzone di un groove sicuramente accattivante, da tenere d'occhio. Riusciamo a bearci di una riproposizione massiccia ed incazzata, ora più dedita a soluzioni ritmiche complesse ora più diretta e sciolta; un'alternanza sapientemente gestita da una sezione basso/batteria da manuale, così come da manuale risultano chitarre e voce, ben stagliati e spalmati lungo i virtuosismi dei propri colleghi. Il momento più violento ed in your face ha luogo verso il minuto 2:20, quando i Fog iniziano a correre all'impazzata, accelerando a più non posso e presentandoci, di seguito, un assolo killer. Appena accennato e non eseguito per chissà che importante lasso di tempo, comunque assai pregevole. Abbiamo, nel finale, tempo per degli ultimi refrain sempre grooveggianti e ricchi di dinamica, un buon modo per i liguri di dimostrare la loro attitudine certo di picchiatori, ma non di "macellai". Una band che sa dotare i propri pezzi di personalità, non ricorrendo per forza alla violenza senza quartiere. Si descrive, nel testo, la folle visione d'una camera "dei giochi", arredata e predisposta da un folle affinché l'ambiente possa ospitare le sue vittime. Il rosso, è il colore che domina: rosso come il sangue versato da chi ha avuto la sfortuna di ritrovarsi sulla strada di questo assassino, intenzionato a sfogare la sua pazzia su chiunque gli capiti a tiro. Nessuno è al sicuro, nessuno può salvarsi: una fredda lama corre lungo la nostra pelle, sudore di paura ed ansia la ricopre a mo' di armatura. Sentiamo quel coltello scivolarci addosso, penetrare nelle nostre carni. Un primo rivolo di sangue sgorga copioso, ben prima che il taglio divenga troppo profondo per rimarginarsi. Il cervello dello psicopatico vomita emozioni continue, un'immagine, quella della sofferenza altrui, che lo fa godere come poche altre cose al mondo. Non si accontenterà di un semplice taglietto, andrà a fondo finché il nostro corpo non risulterà orribilmente sfigurato, smembrato e decapitato. Staccherà i nostri arti dal tronco, getterà la carcassa in un angolo assieme ad altre già in avanzato stato di putrefazione. Questo è l'incubo di cui siamo protagonisti, e non c'è modo di svegliarsi.

A-e reixi do ma

Giro di boa raggiunto con la traccia numero sette: protagonisti dell'atto, i Barche a Torsio, duo folkloristico composto dal chitarrista Giascio e dal cantante Andrea "Zanna" Zanini. Nome, quest'ultimo, assai familiare per chiunque masticasse la scena estrema italiana e non fosse a digiuno di realtà nostrane: parliamo infatti della voce storica dei Sadist, presente nel leggendario "Tribe", disco seminale fra i più importanti della storia Metal tricolore. Ammetto: a l'alta fantasia, qui mancò possa. Esattamente come Dante chiese scusa per la sua incapacità di descrivere alcune situazioni tipiche del suo viaggio ultraterreno, debbo arrendermi dinnanzi al mistero che avvolge "A-e reixi do ma". Un brano interamente cantato nel dialetto di Zanna, supportato a malapena da una chitarra acustica, la quale non si impegna nemmen troppo nel cercare di variare la sua esecuzione, mantenendosi su di uno standard d'accompagno. Il vero protagonista è infatti il cantante, decisamente sul pezzo e teatrale come non mai. Tuttavia, il dialetto ci impedisce di comprendere anche solo minimamente di cosa si stia parlando, salvo qualche sparuta indicazione: Caino, le radici del male (???), che si stia parlando nuovamente di "Roots of All Evil", proposta in versione acustica? Alcune situazioni musicali, pressappoco identiche, sembrano effettivamente coinvolgere un brano già coverizzato qualche track fa. Un esperimento sicuramente simpatico, che trova all'interno di questa tracklist il ruolo di "spartiacque", ben inserito in un contesto estremo, atto a spezzare i ritmi soffocanti ai quali siamo stati sottoposti. Impossibile, dicevo, descrivere il testo: rimando agli amici liguri la corretta interpretazione delle liriche; il vostro affezionatissimo, romano nel midollo, non ha molta dimestichezza con i dialetti del nord Italia.

Thanatoid

Si ritorna a picchiare con l'ottava track, seconda della tracklist a presentarci degli ospiti stranieri. Protagonisti sono i death metallers spagnoli Cadalso e la loro versione di "Thanatoid", presente nel capolavoro "Fragments of Insanity" (1989). Una chitarra inizia minacciosa a cantilenare, mentre la ritmica in sottofondo decide di sormontarla: la melodia stridula ed insistente si ritrova così immersa in un mare di cattiveria, almeno finché il brano non acquisisce una connotazione differente, dall'andatura meno serrata e decisamente più cadenzata e dinamica. Si viaggia comunque su lidi sostenuti ed assai massicci, la rocciosità del pezzo si mostra in tutta la sua furia soprattutto verso il minuto 1:15, momento in cui si comincia a correre sul serio. Grezzi e sguaiati, i Cadalso fanno valere la propria attitudine estrema, lanciandosi in tutta una serie di attacchi frontali condotti in maniera magistrale. Si ha modo di "respirare" (si fa per dire) solo in alcuni frangenti, in cui abbondano ritmiche complesse ed accattivanti; per tutto il resto dell'esecuzione, violenza violenza ed ancora violenza. Si picchia in maniera selvaggia, abbiamo un piccolo break solamente verso la seconda metà del brano, in cui assoli assai melodici fanno capolino, sempre e comunque supportati da raffiche di mitra (una batteria a dir poco magistrale). La furia iconoclasta tipica del Death rende il finale esplosivo e devastante, salvo mitigarsi quest'ultimo con il subentro della cantilena iniziale. Il brano si chiude dunque in questo modo, sfumando e "rilassandosi", come una nuvola di polvere che sinuosa s'alza in cielo, dopo il crollo di un palazzo a causa di un'esplosione. Parliamo di pazzia, nel testo della massiccia "Thanatoid": pensieri di morte e violenza affliggono un ignaro protagonista, similmente a quanto fu per Lucio Fulci nel cult "Un Gatto nel Cervello". Tormentato da strane visioni e pensieri, l'uomo cerca in ogni modo di scacciarle e di distrarsi, non riuscendovi. Una strana sete di morte raschia la sua gola, rendendolo incapace di concentrarsi su alcunché. Vorrebbe morire, togliersi la vita, per liberarsi da tale tormento... eppure, non riesce. Non riesce a fare in modo che la sua situazione migliori, che il desiderio di far del male svanisca. Paranoia ed ansia sono divenute col tempo le sue migliori amiche, strane immagini delle sue vittime passate tornano a tormentarlo, per condurlo alla pazzia. Vorrebbe espiare le sue colpe morendo, ma sarebbe troppo semplice. La sofferenza mentale è quanto di più terribile l'uomo debba sopportare, una giusta punizione prima del trapasso finale - che comunque non giungerà troppo presto - .

The Flag of Inverted Cross

Nono atto affidato al tarantino Hörnhammer, one man band capitanata da Geddon, il quale si ritrova a fare i conti con la mitica open track di "Into The Macabre", "The Flag of Inverted Cross (La bandiera della croce capovolta)". Nemmeno a dirlo, sin dall'apertura carpiamo in pieno le grandi potenzialità di Geddon, black metaller fra i più arcigni e tradizionalisti della scena. Potenza, spietatezza, lucida volontà di ricreare una vera e propria apocalisse in musica: questo il motto di un musicista in grado di far rivivere una seconda giovinezza ad un brano leggendario, simbolo del suo platter di provenienza. La prova del pugliese risulta in questo senso ottima, fra riff al vetriolo e situazioni più dinamiche, dotate di maggior groove. Un bel connubio fra i mondi Black e Thrash, incarnati alla perfezione dall'ascia assassina del Nostro, intenzionato a non far prigionieri. La sua voce acida, ruvida come cartavetro, riesce a graffiarci in profondità, scavando veri e propri solchi nella nostra pelle, lasciando il segno. Urla demoniache e cori infernali trovano il loro attimo di respiro verso il minuto 2:30, momento in cui tutto trova maggior ariosità e sacralità. Toni pomposi ed evocativi in seguito distrutti da un ritorno della violenza, vera e propria, superba protagonista di una riproposizione memorabile, forse fra le migliori di tutto l'album. Se non la migliore, in senso assoluto. Il testo, come da tradizione, ricalca il crasso satanismo tipico dei primissimi gruppi estremi. Abbiamo quindi liriche à la Venom con un pizzico di Morbid Angel, tanto per giustificare il miscuglio fra elementi demoniaci e lovecraftiani. La bandiera, il simbolo della croce capovolta, è naturalmente il vessillo fieramente sventolato dal protagonista, deciso più che mai a far valere la sola legge del Capro. Con Belial e Yog Sothoth al suo fianco, egli riesce a percepire, a far propria la forza delle immonde bestialità. Il sangue dei demoni più forti e spietati sgorga nelle sue vene, inondandolo di sicurezza e malvagità. Il mondo è pronto per essere sottomesso e marchiato a fuoco dalla croce rovesciata, Cristo è ormai morto nuovamente, è ora che i suoi adepti lo raggiungano. Non ci sarà più spazio per alcun dio, se non per Satana: i Grandi Antichi ed i Demoni dell'Inferno sono ormai pronti a governare, instaurando il loro regime di terrore.

Smell of Blood

Decimo atto affidato ai liguri Path of Sorrow, dediti ad un melodic Death/Thrash Metal. A loro il compito di deliziarci con la riproposizione di un brano in origine contenuto in "Draculea", "Smell of Blood (Odore di Sangue)". Udiamo un sound stridulo ed a tratti fastidioso, presto sormontato da una serie di virtuosismi ritmici, decisamente ben eseguiti e molto accattivanti, ritualistici nel loro incedere. Una batteria che galoppa ed in seguito risulta ben più tirata, serrata, salvo concedere qualche piccola apertura/distensione laddove il brano lo preveda: uno splendido alternarsi fra violenza e melodia, in puro stile "swedish", dato sì che il sound dei Path of Sorrow risulta affondare le proprie radici in quella che fu la gloriosa scena di Goteborg. Si picchia ma mi lascia a comparti melodici la capacità di farsi udire, pitturando il brano sì di rosso sangue ma anche di luce, squarciante l'oscurità. Il refrain risulta in questo senso illuminante, il momento migliore della cover. Il gruppo riesce bene ad addentrarsi nei meandri della psiche di Vlad Tepes, detto "l'impalatore". Un uomo, secondo la tradizione, assetato di sangue come pochi altri suoi contemporanei, successori e predecessori. Talmente crudele e spietato con i suoi nemici da essere temuto persino da chi gli era vicino, dai familiari ai servitori: era suo costume farla pagare a caro prezzo a chiunque osasse andargli contro, anche solo per un'inezia. Fu soprannominato "l'impalatore" appunto perché, nei giardini del suo castello, arrivò addirittura a creare una macabra foresta di corpi umani, nemici impalati e lasciati attorno alla sua magione come monito. Un avvertimento a chiunque osasse sfidarlo, un modo per mostrarsi crudele e folle fino alla fine. Il brano, forte delle tematiche, è dunque un bel connubio fra drammaticità e spietatezza: massiccio ed incazzato, eppure evocativo quanto serve. Un modo dicotomico per descrivere appieno la follia eppure il fascino di uno dei personaggi storici più controversi di sempre. Si chiude con un bel refrain, i Path of Sorrow possono tornare a casa soddisfatti, consci di aver compiuto un gran lavoro e di aver reso giustizia al conte Dracula originale, Vlad l'impalatore, cugino nientemeno che della contessa sanguinaria, Erzsebet Bathory, anch'ella famosa per la sua brama di sangue e violenza.

Process of Violation

Atto undici, vengono chiamati in causa i Septem, spezzini attivi dal 2003 e fautori di un Heavy Metal in equilibrio fra tradizione e modernità. Torniamo ancora una volta ad attingere da "Black as Pitch" del 2001, il brano protagonista è "Process of Violation (Processo di Violazione)". Si inizia con la voce sussurrata del cantante ed una chitarra arpeggiata, misteriosa e delicata, ipnotica, suadente. Subito dopo una decisiva impennata, il che permette al gruppo di partire in quarta e di annichilirci con un sound decisamente tirato, ben sugli scudi; non troppo violento, né troppo "pacato" o eccessivamente ancorato alla tradizione Heavy. Un bel compromesso per una riproposizione che funziona, anche grazie all'ugola di Daniele Armanini, in grado di dotare il brano di linee vocali certo inusuali per il genere, ma funzionali al fine di ciò che stiamo udendo. C'è spazio anche per un cantato estremo e sguaiato (ad opera del chitarrista Francesco Scontrini), anche se è il clean a dominare. Un gioco di alternanze sicuramente interessante; il brano ne esce rafforzato, mai noioso o banale. Il colore recato dai Septem al tutto non è cosa da poco, la loro abilità di abilissimi musicisti riesce a risaltare, soprattutto in fase d'assolo. Ci si avvia alla conclusione in maniera sostenuta ed esaltante, giungendo in men che non si dica alla fine, tanto il brano si è rivelato coinvolgente. Il minutaggio non sembra essere nemmeno trascorso, una cover che viene voglia di risentire anche più volte, da inserirsi fra le migliori tre della compilation. Il testo sembrerebbe narrare i tormenti di un uomo casto e pio, forse di un prete. Come ben sappiamo, i sacerdoti sono obbligati a far voto di castità, povertà ed umiltà; il che, di netto, li taglierebbe fuori da piaceri peccaminosi come il sesso e la ricchezza, situazioni che invece - da comuni mortali quali sono - bramano segretamente, desiderosi di testare sulla propria pelle il brivido del peccato. Vivendo in un guscio ed in una prigione costruita dalla loro stessa fede, soffrono sommessamente, cercando appena possibile di liberarsi dal loro giogo, in gran segreto. Eccoli dunque concedersi al demonio, salvo poi pentirsi nel mentre o subito dopo. Tuttavia, non riescono a resistere: la tentazione è troppo forte per non approfittarne, l'occasione è assai ghiotta. Il pentimento successivo servirà a ben poco, torneranno a peccare... perché, in fondo, questo istinto è insito nell'animo umano. 

Eucharistical Sacrifice

Giungiamo al dodicesimo atto e ad accoglierci troviamo i Necrobreath, tribute band dei Necrodeath dedita all'esecuzione di "Eucharistical Sacrifice (Sacrificio Eucaristico)". Rumori temporaleschi lasciano presagire la violenza che di lì a poco si scatenerà... difatti, si inizia immediatamente con chitarre al fulmicotone e blast-beat incessanti. Comparto strumentale senza dubbio sugli scudi (anche se eccessivamente fotocopia), mentre è la voce a non convincere proprio del tutto, a metà fra un clean ed un harsh. Break melodico verso la metà, arpeggi misteriosi fanno la loro comparsa imperando nell'atmosfera, salvo poi tornare a correre verso il minuto 3:00, galoppando su ritmi tirati e molto sostenuti. Non c'è spazio per personalità o comunque soluzioni particolari, il pezzo viene pedissequamente riprodotto, slegandosi dalle cover precedenti proprio in virtù del suo essere una vera e propria "fotocopia" dell'originale. Non che questo assalto Black Thrash, con chitarroni ben spediti e violenza dispensata a mo' di volantino pubblicitario possa far storcere il naso, anzi... ma verrebbe da chiedersi: perché ricalcare in maniera sin troppo fedele la versione originale? Sarebbe quindi interessante paragonare questa cover a quella effettuata dai Barche a Torsio: un totale stravolgimento di un brano estremo, uno stravolgimento comunque vincente, simpatico e ben eseguito. Tanti black metallers o amanti del Thrash / Death potrebbero storcere il naso dinnanzi a chitarre folkeggianti e canzoni in dialetto... sbagliando. Perché, in fin dei conti, qual è il senso di una compilation tributo? Rivisitare un brano a seconda delle proprie esperienze, omaggiando la band interessata della propria musica, del proprio modo di intendere l'arte. Riprodurre in maniera esatta un brano come fatto dai Necrobreath (i quali non me ne vogliano, assolutamente nulla di personale) vuol dire semplicemente eseguire una cover fra amici, non certo tributare. Per il resto, anche il comparto lirico si mantiene stabile sulle tematiche originali: un sacrificio atto ad evocare presenze malvagie, far risorgere antichi imperi ormai perduti. Viene citata nientemeno che Iperborea, leggendaria terra del nord a quanto sembra scomparsa millenni or sono; per il resto, soliti meravigliosi deliri lovecraftiani, fra resurrezioni di grandi antichi e demoni pronti a dominare il mondo.

Enter My Subconcious

"Chiusura" (a tempo debito scoprirete il perché delle virgolette, un po' di pazienza) affidata a degli autentici veterani della nostra scena, una band che non ha certo bisogno di presentazioni in pompa magna. Basterebbe citare giusto un dischetto rilasciato qualche decade fa, un lavoro assolutamente privo di mordace ed abbastanza anonimo; bando all'ironia ed al sarcasmo da due soldi, ovviamente sto parlando dello splendido "Main Frame Collapse" e dei siciliani Schizo, fra le formazioni estreme più importanti della storia tricolore. Uno di quei gruppi la cui sola presenza varrebbe l'acquisto dell'intera compilation, non certo nuovi alle collaborazioni con i Necrodeath. Come i più esperti ricorderanno, i demoni della Trinacria divisero la scena con i liguri già in occasione del progetto Mondocane, band nella quale le due compagini unirono le forze per dar vita allo splendido "Project One" (1990). Questa volta gli Schizo sono lasciati "da soli", alle prese con "Enter My Subconcious (Entra nel mio subconscio)", brano presente nel capolavoro "Fragments of Insanity". E' un assalto Thrash in piena regola a fare la sua comparsa, dilaniando le nostre orecchie in maniera belluina, gettandosi addosso alle nostre gole, desiderosi i Nostri di recidere le nostre giugulari e di saziarsi del copioso sgorgare di sangue. Due minuti ed è già guerra, un piccolo rallentamento poco dopo ma si riparte ben presto di gran carriera, distruggendo e mordendo, tirando pugni, facendo sfaceli. Si rallenta ancora verso il minuto 2:25, proseguendo in maniera marziale e cadenzata sino all'arrivo di una nuova sezione al fulmicotone. Della durata di un microsecondo, in quanto ben presto gli Schizo tornano a picchiare perentori come fabbri al lavoro in una fucina, preferendo la precisione del ritmo alla violenza Speed-Black-Thrash. Non possiamo comunque chiedergli di far troppo la parte dei lenti ed inesorabili Panzer: i siciliani sono delle autentiche saette di nera elettricità, ed eccoli riprendere a correre inaugurando gli ultimi due minuti di brano. Pezzo perfetto per la loro attitudine ed i temi spesso trattati, riguardanti i meandri della mente umana, deviata e deragliante verso preoccupanti lidi di follia. Facciamo un passo in avanti ed entriamo quindi nel labirinto posto in bella vista nella fu copertina di "Fragments...". Un cervello impossibile da decifrare, i deliri di un folle mosso da pulsioni di certo innaturali e violente. Un mondo in cui l'ordinario sembra capovolto ed imprevedibile, in cui sono i fantasmi ed i pensieri di morte a dominare, correndo lungo i corridoi con fare concitato e tormentato. Parliamo di imprevedibilità, e proprio in virtù di questo termine gli Schizo decidono di decelerare improvvisamente, lasciando un'ultima, abbondante porzione di brano, dominata da una desolante melodia, la quale ben presto si spegne sfumando. I deliri del folle si placano un poco, non per molto, tuttavia: non si può sfuggire ad un nemico che vive nella nostra testa e non può morire ciò che in eterno può attendere. Possiamo parlare senza dubbio di migliore tributo della compilation, senza se e senza ma.

The Cult of Shiva

Il vero finale è dunque affidato alla chicca di cui parlavamo in sede di intro ed una traccia fa: arriva dunque il momento per i festeggiati, i Necrodeath, di fare la loro torreggiante comparsa, avendo già ricevuto abbastanza lodi. I Nostri lo fanno presentandoci un brano inedito posto a mo' di bonus track, "The Cult of Shiva (Il culto di Shiva)", il cui titolo sembra in linea con i brani del nuovo ed imminente "The Age of Dead Christ", tutti aperti dall'aggettivo "the" seguiti da un sostantivo ogni volta differente, legati a diverse personalità storiche, mitologiche, letterarie e demoniache. Un vento freddo carico d'odio e terrore spira violento, finché una melodia indiano-acustica fa la sua comparsa, accompagnata dal tipico canto di gola dell'Asia centrale. Una intro misteriosa, affascinante, successivamente seguita da un andazzo à la Satyricon periodo "Now, Diabolical". Un brano che sa muoversi su lidi accattivanti e che nel refrain indugia ancora nelle suggestioni acustiche, presentandoci suoni smaccatamente asiatici; un contesto interessante, soprattutto se consideriamo quanto il tutto suoni comunque "estremo". Pesantezza dei riff e della sezione ritmica, eppure una ricercatezza niente male, figlia della volontà di non suonare prevedibili o comunque banali a tutti i costi. Verso il terzo minuto le incombenze acustiche si fanno più pesanti, alternandosi alla potenza di Pier... ed ecco che il brano si quieta, il solo Flegias (sorretto da delicatissime armonie) viene lasciato in pole position, intento ad emettere latrati demoniaci. Arriva il momento dell'assolo, ben giocato su alternanze di elettrica e sitar, con un Peso ed un GL intenti ad accompagnare pur non battendo troppo. Sembrerebbe quasi la colonna sonora di una battaglia fra Asura, la quale volge al termine lasciandosi sormontare dal vento tempestoso, sfumando nella nebbia. Un commiato degno di tal nome, un brano che funziona alla grande e ci mostra i Necrodeath in un notevole stato di grazia. Più intenzionati che mai a confezionare un nuovo disco che suoni quanto più particolare possibile, e non come una mera celebrazione /ricalco dei tempi che furono. 

Conclusioni

Giunto quindi alla fine di questo viaggio, mi ritrovo con diverse opinioni all'interno del mio sacco dell'avventuriero; le quali, come ogni volta, risultano da un lato sottolineare la validità di quanto ascoltato e da un altro evidenziarne qualche piccolo difetto. Iniziamo comunque da ciò che di buono è stato sicuramente fatto. Perché di ottime situazioni e spunti, amici lettori, "The Cult of Necrodeath" è decisamente pieno. Partiamo dall'inizio: ogni gruppo chiamato a partecipare ha svolto tecnicamente un ottimo lavoro, facendosi valere e soprattutto gestendo al meglio lo spazio ottenuto, mostrando ai "festeggiati" quanto la loro musica sia da trattarsi con il dovuto rispetto. Del resto, stiamo pur sempre parlando dei Necrodeath: una formazione FONDAMENTALE, imprescindibile, che di certo non possiamo piazzare nell'angolino. Un gruppo in grado di offuscare tante altre compagini straniere invece amate a prescindere perché appunto "estere". Non ho mai avuto paura di sostenere il fatto che Peso, Flegias e company possano poter dire almeno mille volte di più di tanti altri loro colleghi, anche in virtù dell'importanza ch'essi hanno assunto, all'interno di un certo panorama estremo. Tutta una serie di fattori che ha per l'appunto portato alla realizzazione di tale compilation, studiata per bene e realizzata con cognizione di causa, facendo in modo che l'epopea della gloriosa morte in necrosi rivivesse lungo le note di formazioni ben più giovani ma comunque agguerrite, desiderose se non altro di lasciare il segno quanto i loro grandi colleghi. Parliamo di autentici "vincitori" nominando i Damnation Gallery, Hornhammer, i Septem ed i Path of Sorrow, fra le presenze che più sono riuscite a convincermi in virtù della loro grande capacità di immettere forte singolarità e personalità all'interno di contesti - per forza di cose - difficilissimi da replicare. Senza nulla togliere agli altri partecipanti (ed ai gruppi esteri), questi sono i quattro cavalli sui quali mi sentirei di puntare seriamente. E gli Schizo? Loro son già nell'iperuranio, non c'è certo bisogno di rimarcare la loro grandezza. Discorso a parte per i Barche a Torsio: un po' le mosche bianche o pecore nere di "The Cult of Necrodeath", con la loro simpatia ed attitudine casereccia sono sicuramente riusciti a strappare più di un sorriso, di certo mostrandosi quanto più originali e singolari possibili. Promossi tutti a piani voti. Giungon però, sul finale, le dolenti note. Non molto dolenti a dire il vero, starà a voi stabilirne il peso... e mi si passi il gioco di parole. Prima fra tutte fra le mie perplessità, l'inserimento dei Necrobreath. Tributo nel tributo, dei buoni mestieranti ma nulla in più di questo. In un contesto in cui tutti hanno cercato di "personalizzare" quanto più possibile il brano assegnato, la compagine qui citata compie un decisivo passo indietro, presentando una fotocopia certo ben confezionata ma comunque abbastanza scialba, rompendo l'ottimo trend instauratosi lungo l'ascolto. Proprio per questo, avrei preferito l'inserimento di un'altra formazione, magari anche di stampo Folk o Power, proprio per mescolare le carte e rimpinguare il serbatoio d'originalità della compilation. Un compito ben svolto ma con l'aria da impiegato, desideroso più di far bella figura con il capo che con il cliente, quello dei tributari: il loro amore per i Necrodeath è certamente smodato, ma altri avrebbero sicuramente giovato maggiormente all'economia del disco. In seconda battuta, la poca varietà "geografica" presente: di certo si è preferito privilegiare band liguri in quanto conterranee dei Necrodeath; e sicuramente, non si poteva certo coinvolgere l'intero mondo, dato sì che "The Cult..." non è certo la prima di una lunga serie di compilation "a puntate". Eppure, si sarebbe potuto allargare il raggio d'azione, magari favorendo maggiormente ragazzi come Geddon, provenienti da tutt'altri luoghi ma comunque ultra-validi e capaci di dire la propria. In modo equilibrato e sapiente, il tiro poteva essere aggiustato, con un pizzico di lungimiranza in più. Magari coinvolgendo altri veterani come gli Schizo, tirando in ballo anche personalità quali Bulldozer o IN.SI.DIA. Ci rimettiamo comunque alle volontà degli organizzatori, sicuramente da non attaccare o screditare assolutamente. In sostanza, un lavoro divertente, certo non essenziale, ma comunque ben riuscito e capace di farci entrare in contatto con tante realtà nostrane, bisognose di supporto e di qualcuno che punti seriamente su di loro.

1) At The Mountains of Madness
2) Mater Tenebrarum
3) At The Roots of Evil
4) Mater of All Evil
5) Master of Morphine
6) Red as Blood
7) A-e reixi do ma
8) Thanatoid
9) The Flag of Inverted Cross
10) Smell of Blood
11) Process of Violation
12) Eucharistical Sacrifice
13) Enter My Subconcious
14) The Cult of Shiva
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