VANDERBUYST

Flying Dutchmen

2012 - Van Records

A CURA DI
ANDREA CERASI
05/06/2014
TEMPO DI LETTURA:
7

Recensione

Riuscire a emergere di questi tempi è impresa davvero ardua, non basta il talento soltanto, che anzi molto spesso non va a braccetto col successo, e non conta nemmeno il paese d’origine per accorciare la strada per la popolarità. Nel terzo millennio bisogna aggraziarsi chissà quale divinità dell’Olimpo per lasciare un segno nella storia e restare immortali, tutto ciò non solo per quanto riguarda la musica ma per l’arte in generale. I Vanderbuyst suonano anacronistici, è vero, ma io ringrazio di imbattermi ogni tanto in band come loro, che provano a lasciare un segno suonando un Hard ‘n’ Heavy genuino e carico di passione che colpisce sicuramente dritto al cuore i puristi del metallo (come il sottoscritto) legati a sonorità anni 70 e primi anni 80, tralasciando la sperimentazione di chissà quali suoni solo per attirare l’attenzione della stampa e dimenticando le proprie radici musicali. Detto ciò i tre musicisti: Jochem Jonkman, voce e basso, Willem Verbuyst alla chitarra e Barry Van Esbroek alla batteria, provenienti dall’Olanda, si danno da fare, nonostante si siano formati solo nel 2008, e hanno già all’attivo, oltre a questo terzo capitolo dal titolo Flying Dutchmen, altri due album di buon valore (“Vanderbuyst” del 2010 e “In Dutch” del 2011) e un quarto in procinto di uscire, perciò non stiamo parlando di principianti, tantomeno di giovani sprovveduti, inoltre questi ragazzi hanno sulle spalle decine di concerti in giro per il mondo assieme a vere e proprie celebrità come Saxon, Judas Priest, Blue Oyster Cult, Motley Crue, Ozzy Osbourne e Thin Lizzy e un ottimo riscontro di critica e pubblico soprattutto in patria. Come appena accennato, le note del platter in questione, uscito per la "Ván Records" nel 2012 e carico di buona musica, rispecchia il lato più seventies dell’Hard Rock, a cominciare dalla copertina minimalista (a dire il vero poco appetibile), cruda nella sua semplicità, che mostra la line-up su sfondo bianco e che ha un intento ben preciso: quello di riportarci indietro nel tempo, ovvero nella decade d’oro del Rock più ruvido e sporco. I Vanderbuyst hanno le idee chiare e “Flying Dutchmen” suona vintage, a cominciare dalla produzione, la proposta è ottima, in linea con quanto fatto all’epoca, ovvero canzoni brevi ma coinvolgenti che compongono un disco compatto che non lascia spazio alla noia o alla distrazione. Insomma, per chi non l’avesse capito, qui c’è sano Rock ‘n’ Roll.



L’apertura è affidata a Frivolous Franny, cavalcata hard rock dai ritmi rallentati che richiama i primi Riot e che esplode in un grandissimo assolo di chitarra. Narra di un omicidio, un ragazzo di nome Franny che ha ucciso una donna e che scappa dal luogo del misfatto, un angolo non lontano dall’ufficio postale, con le mani insanguinate, ma un passante nota il cadavere dai capelli biondi e allerta la polizia. L’assassino scappa e maledice il suo dottore, probabilmente lo psichiatra dal quale è in cura, additandolo come uno sciocco freudiano che ha la presunzione di guarirlo dal male, ma la sua anima ormai sguazza nelle acque torbide e la sua mente insana non gli dà tregua. Lui cerca il paradiso ma trova solo dolore perché la belva interiore che lo domina è troppo forte. Troppo tardi per il perdono, inutile chiedere scusa, il folle gesto è stato commesso e non si può tornare indietro, rimane solo il ricordo di una gioventù affogata nel peccato e un cuore d’oro perduto in un mondo di menzogne. Intanto i poliziotti bussano alla porta del peccatore per portarlo via, dove non potrà più ferire nessuno. L’esecuzione dei musicisti è impeccabile, anche la voce di Jonkman, pur non essendo estesa e particolarmente tecnica, coinvolge grazie a un timbro ruvido che si adatta bene alla musica proposta. Reminiscenze di heavy classico si colgono subito nel prepotente attacco di chitarra di Waiting On The Wings, che ricorda molto i grandissimi e mai troppo osannati Pretty Maids, canzone dai toni epici e dalle strofe veloci rifinite da un bellissimo ritornello arioso e ricco di cori melodici che ne esaltano l’intensità. Precisa la batteria di Van Esbroek e vigorosi i riffs di Verbuyst che rafforzano la struttura del brano per una delle hit del disco. Il tema è quello della disciplina insegnato ai giovani spartani, destinati a diventare guerrieri duri come la roccia, dal corpo possente ricoperto da armature scintillanti. Il giovane ha l’onore di ricoprire tale carica e di difendere con la spada, in un futuro prossimo, la propria terra, e di essere acclamato dagli uomini più anziani come un grande eroe. Così come suo padre prima di lui, e come suo nonno prima ancora, egli si allena duramente sognando una gloria vinta in duello, attraverso il sangue dei nemici, ma è conscio che la strada per conquistare il regno e la posizione sociale è ancora lunga e impervia. Morte o vittoria, non ha altra scelta per mostrarsi orgoglioso di fronte agli Dei. Se si dovesse descrivere con un aggettivo la canzone: trionfale, perché esalta lo spirito fiero ed eroico appartenuto agli antichi popoli guerrieri, suggellato da un cantato solenne e da uno degli assoli di chitarra migliori dell’intero album. Forse un po’ presto in scaletta, visto che gli animi si sono appena riscaldati, arriva una toccante ballata dal titolo Give Me One More Shot nella quale va sottolineata l’ottima interpretazione del singer, traccia dove si omaggia l’importanza quasi vitale dell’amore, sentimento ancestrale descritto come una droga che cura i dolori inferti dall’esistenza, che non è mai abbastanza e del quale non si può farne a meno. Gli sciocchi lo chiamano Amore con la A maiuscola, e molto spesso ci si ride sopra, lo si sbeffeggia, eppure quando viene portato via, il suddetto impulso è in grado di frantumare l’animo umano e schiacciarlo. Sembra una richiesta alla vita stessa, una preghiera nella quale si chiede un’altra possibilità di amare, prima di essere tagliati fuori da questo mondo, ovvero prima di morire, e di sentire i tamburi della marcia funebre. Tutto ciò che si richiede, per placare le proprie esigenze e vivere meglio, è la possibilità di avere un altro colpo al cuore. Ma il destino sembra essere sordo alla richiesta e l’appello resta inascoltato, come se qualcuno prendesse a calci le febbrili suppliche e le respingesse senza esitazione. Questa è la Vita, questo è l’Amore, è tutto un vortice che travolge casualmente persone e sentimenti, nulla deve essere chiesto perché le emozioni non sono oggetti che si comprano. Insomma ci troviamo davanti a una ballata amara dal bel significato basata su chitarre sommesse e sul dialogo continuo tra voce e martellanti colpi di batteria che trasmettono sensazioni di dolore e supplica. Semplice ma allo stesso tempo toccante. Una batteria cadenzata introduce The Butcher’s Knife, dove si torna a spingere sull’acceleratore, o almeno in parte, essendo un mid-tempo, e nella quale le strofe si arrampicano su linee di basso ben dosate che guidano l’intero pezzo con fare solenne e portando avanti una sorta di pomposa marcia in perfetto stile 80s. Quello che ascoltiamo è un brano cadenzato dal testo, a dire la verità, criptico. Da quello che si può interpretare è una critica religiosa nei confronti dei fedeli più estremisti, che non hanno le mani legate e sono liberi di correre ma non sanno lo stesso dove andare e si dimenticano di pensare, ovvero non fanno uso del cervello che gli è stato donato dalla natura e perciò si sottomettono ai soliti ciarlatani avidi di potere e in grado di plagiare gli illusi. I religiosi sono come cani pronti a scagliarsi sui poveri malcapitati e a sbranarli per averla vinta e imporsi sui più deboli. Il coltello del macellaio rappresenta invece la religione, pronta a infliggere la pugnalata, che in questo caso è una vera sentenza, nei confronti dei blasfemi peccatori, visti come pecore senza lana e tremanti di fronte alla lama. C’è spazio anche per una critica alla misoginia, dove la donna è il seme della vergogna e madre del peccato insito nell’uomo, dove tutto deve essere purificato col sangue. Tears Won’t Rinse segue le stesse coordinate della precedente traccia ma accelerando ulteriormente il passo, il ritmo sfrenato la fa da padrone, sembra di sentire echi dei mitici Thin Lizzy di “Jailbreak” sia nella struttura strumentale sia nel modo di cantare di Jonkman. L’incedere è buono, divertente e il ritornello colpisce in pieno ("Purgatory, Time stands still" - "Purgatorio, il tempo si ferma"), elaborato e ricco di sfumature invece è l’assolo centrale di Verbuyst, sempre in prima linea con la sua chitarra. Testo profondo che narra di un peccatore pentito ma con la mente perduta nel Purgatorio in attesa della condanna divina, dove è troppo tardi per i rimpianti e le lacrime non servono a spegnere il senso di colpa che arde come un incendio né a sciacquare e purificare l’anima salvandola dal castigo. Tutto, prima o poi, si paga nell’aldilà e allora si scoprono le colpe stampate come disegni sulle mani insanguinate. Il Purgatorio è la fase intermedia, se vogliamo anche un tribunale, dove il tempo si ferma e quel che è fatto è fatto. Adesso è giunto il momento del giudizio, che arriva febbrilmente e impavido come la marea sotto un cielo azzurro. Never Be Clever è la cover di una delle icone più importanti del Rock & Roll olandese, Herman Brood (1946 – 2001), che la incise nel 1979 per l’album “Cha Cha – Soundtracks Of The Movie”, e non si discosta molto dalla versione originale rispettando lo stesso minutaggio e mantenendo la stessa energia. Il risultato è esilarante, Rock anni 70 sparato a mille per decantare la vita degenerata del cantautore, il quale si chiede come mai sia tanto difficile sentirsi bene e godersi gli attimi nonostante abbia tutto dalla vita: soldi, una donna con la quale trascorrere momenti felici, popolarità. Nonostante tutto egli è freddo, assente, depresso, e gli sembra di buttare il suo tempo, perciò si riduce a fare l’unica cosa che lo spinge ad andare avanti per sopravvivere in un mondo di finzione: scrivere canzoni, scendere in città a testa alta e dirigersi nei quartieri popolari frequentati dalla gente comune dove trovare ispirazione. E’ lì che il cantante si ritrova a casa, in mezzo alla folla dove riconosce tutte le facce e dalle quali prende spunto per scrivere una canzone e creare. Never Be Clever rappresenta l’essenza stessa di Brood, che nella realtà non ha mai trovato la pace interiore tanto desiderata negli anni, avendo vissuto una vita di eccessi, a cominciare dalle droghe da cui era schiavo, passando per la depressione cronica, fino al suicidio avvenuto nel 2001 gettandosi dalla stanza di un hotel di Amsterdam. Per dirla con parole sue, non è “mai stato intelligente”, perseverando nell’errore di una vita al massimo. Segue in scaletta l’elegante In Dutch, traccia dalle linee melodiche sinuose e dai ritmi accelerati e di continuo rallentati, che si dipana su un testo di sfida e su un ottimo bridge ma il cui ritornello un po’ sottotono non la fa elevare, possiede uno spirito quasi battagliero, in una minaccia piena di acredine nei confronti di chi deturpa il territorio, in questo caso la terra olandese, e vi giunge con fare altezzoso cercando di cambiare le regole e di fare i propri comodi. Ma il nemico in questione, che potrebbe essere chiunque, dallo Stato al cittadino comune fino ad arrivare alle istituzioni comandate dai potenti, è avvertito e tenuto d’occhio. Siamo in Olanda e certe cose non sono permesse, ribadisce la band orgogliosa delle proprie origini. Ancora una canzone a sfondo religioso e dai toni accesi nella quale, come viene citato nel titolo e poi ribadito nel ritornello, Johnny è il fortunato protagonista di questa Johnny Got Lucky, gustosa song dal sapore retrò e con un basso in prima linea, che critica l’incoerenza di una nazione che segue il verbo del Signore ma che poi legalizza la compravendita di armi da fuoco anche tra i ragazzi (forse U.S.A.?) e che cerca di traviarli con belle parole su Cristo, sul volere di Dio e sugli insegnamenti della bibbia ma che in realtà non riesce a placare il bullismo a scuola dove giovani schizzati e imbottiti di medicinali (Zoloft e Luvox, che sono dei neurolettici) danno sfoggio delle proprie frustrazioni e dei propri istinti feroci uccidendosi a colpi di fucile. "Johnny è stato fortunato, recita il ritornello un po’ anonimo, gli hanno sparato e si è salvato, poi si è messo in ginocchio e, grazie al potere della preghiera, è stato miracolato". Johnny è vittima di bullismo a scuola così come è vittima di sudditanza psicologica che lo fa inginocchiare sulle pagine di un libro sacro al quale è costretto a credere forzatamente. Lecherous, letteralmente “Lascivo”, è una buonissima canzone Hard Rock sorretta da potenti riffs, linee vocali azzeccate e batteria pulsante, ha il sapore inconfondibile dello stile Scorpions (ciò non può che far piacere ai classicisti), con strofe che si ripetono ma che accelerano l’andamento mano a mano che si giunge alla fine. Il tema della traccia è ironico, descrive l’inclinazione viziosa alla quale è dedita la figlia di un politico, attratta dalla carne e dagli interessi erotici. La giovane è vista come una spina nel fianco del padre, stimata persona, che guida una Bentley e ha un attico vista-mare, una bella moglie che ricopre di diamanti, che fa beneficenza per i poveri e la domenica è sempre presente in chiesa, ma che nonostante le apparenze, nella maggior parte dei casi ipocrite, deve sopportare il comportamento poco etico della figlia, dedita al vizio carnale. Il testo, come precedentemente accennato, è ironico, eppure una sorta di verità c’è, infatti molto spesso i figli di personaggi importanti godono troppo dei favori dei genitori e godono di un benessere regalato, abbandonandosi poi ai vizi più disparati. E così giungiamo senza sosta alla traccia che da il titolo all’opera, Flying Duchtmen, sicuramente tra le migliori dell’album e della quale è presente anche un videoclip un po’ amatoriale ma ben girato. La titile-track parte rapidamente con chitarre pesanti e un ritornello che si incolla addosso e che è difficile dimenticare e il tutto viene suggellato, nella parte centrale, da un brillante solo di Verbuyst. Il testo è profondo, basato sulla ricerca spirituale, un viaggio interiore per trovare la via giusta per continuare a vivere nonostante le difficoltà che si pongono davanti e che sospingono i vari problemi come la ruota di un mulino a vento mossa dalle acque del torrente. Ma si deve combattere, contro i colpi inflitti dalla sorte, anche se la gloria è andata e il trofeo è stato sbattuto a terra, anche se si è troppo deboli per resistere, bisogna guardarsi dentro, nel profondo dell’animo, e proseguire per la propria strada, magari sognando una corsa migliore e una nuova avventura. E intanto vagabondare e volare cercando se stessi. Grande canzone, semplice, veloce e d’impatto, non si può chiedere di meglio. Punto. A chiudere ecco che arriva Welcome To The Night, altra hit del disco, forse la migliore in assoluto, con un ritmo quasi spensierato che conquista nei primi secondi e che vede in primo piano la possente batteria di Van Esbroek, che fa un lavoro egregio dietro le pelli. Interessanti le strofe e meraviglioso e sensuale il ritornello che è una dedica alla notte stessa, vista come un amante della luna, dalle braccia spalancate e dai lucenti occhi di stelle, dove il crepuscolo attende silente le vittime come una vedova nera che aspetta di infliggere il colpo mortale. La notte è sinonimo di oscurità, una donna fatale dal fascino irresistibile che deve essere alimentata attraverso atti impuri. Il buio è il rifugio degli incubi, dove tutto può accadere e dove gli uomini possono uscire di testa per sfamare questo amore notturno. La donna oscura giunta in città, e metafora di impeto, è un assassino malvagio che cattura e uccide i giovani in cerca di sballo, che saluta al sorgere dell’alba e dà il benvenuto all’arrivo del vespro, cioè quando ricomincia il suo mondo incantato e pericoloso, crogiolo di tentazioni. Anche per questo brano è presente un video ufficiale girato in bianco e nero e molto interessante.



I Vanderbuyst sanno suonare e questo Flying Dutchmen è davvero un ottimo lavoro. Sconsigliato a chi cerca opere complesse e articolate, ciò che si respira in meno di 40 minuti è puro Hard Rock vecchia scuola, con canzoni brevi e d’impatto. Non stiamo parlando di un album eccelso, perciò non posso esprimermi con elogi finti, irrazionali e immotivati, ma di sicuro qui ci sono liriche interessanti (che affrontano vari temi), belle melodie e grandi assoli di chitarra, che faranno contenti gli affezionati del Rock di un certo periodo. Qui dentro si possono ritrovare le radici di un genere, e in un’epoca in cui molto spesso si dimentica da dove tutto deriva, tuto ciò diventa ancora più importante. Il mondo dell’Heavy Metal ha bisogno di queste band, perché per guardare avanti bisogna sempre partire dal passato. 


1) Frivolous Franny
2) Waiting in the Wings
3) Give Me One More Shot
4) The Butcher's Knife
5) Tears Won't Rinse
6) Never Be Clever
7) In Dutch
8) Johnny Got Lucky
9) Lucherous
10) Flying Dutchman
11) Welcome To The Night