UNTIMELY DEMISE
Systematic Eradication
2013 - Punishment 18 Records
GIACOMO BIANCO
07/01/2014
Recensione
Direttamente da Saskatoon, la Città dei Ponti – così chiamata per i suoi sette viadotti di attraversamento fluviale – arrivano gli Untimely Demise, combo technical thrash metal formato dai fratelli Murray e Matt Cuthbertson (rispettivamente basso e chitarra/voce), Cory Thomas (batteria) e Sam Martz (chitarra solista), con quest’ultimo entrato nel gruppo solo a registrazione ultimata. La band si è originata nel 2006 dalla ceneri di un altro complesso, omonimo, ma di ben altro genere musicale (i vecchi UD facevano infatti un inedito tech-punk). L’intento del gruppo è stato, fin dall’inizio, quello ricreare un sound potente ma al contempo assai tecnico, basato su un guitar work – come vedremo – molto elaborato e complesso. Se si percorrono queste strade è inevitabile fare un paragone con i maestri del genere, ovvero i Megadeth. La creatura di Dave Mustaine ha influenzato molto il combo canadese non solo a livello di composizione, ma anche per quanto riguarda la produzione. Nel novembre 2010, infatti, gli Untimely Demise han fatto il loro debutto con l’album City of Steel, prodotto appunto dall’ex chitarrista di Megadeth e King Diamond Glen Drover. Oltre ad aver prestato la sua opera in fase di mixing e mastering, la sua mano si è fatta sentire in prima persona eseguendo alcuni assoli su quell’album, che è stato definito dalla critica specializzata un autentico lavoro di vero technical metal. A distanza di tre anni, la band è ritornata sulle scene con Systematic Eradication, l’album che andremo ad analizzare, una vera botta sonora che, sono sicuro, lascerà colpito positivamente l’ascoltatore. Ancora una volta, in sede di produzione, i Nostri sono stati coadiuvati da Drover, che per l’occasione ha di nuovo ricoperto il ruolo di chitarrista aggiuntivo. Fin dalla copertina notiamo che ci sono delle somiglianze più o meno palesi con l’artwork dei Megadeth, in particolari con quello di lavori come Peace Sells… But Who’s Buying? e Rust in Peace. L’affinità di cui si sta parlando è sostanzialmente stilistica, in quanto sia il lavoro degli UD che i suddetti dei Megadeth sembrano rifarsi a quel filone di fanta-azione che tanto era in voga negli anni ’80, complice anche il successo di un vero blockbuster come Terminator di James Cameron. Tornando al disco, il robot raffigurato in copertina non può che lasciar pensare ad una raggiunta e definitiva supremazia degli androidi ai danni dei loro stessi creatori, gli umani. Costruiti inizialmente per servirci, le “macchine” han preso il decisivo sopravvento e da questo momento si prospetta solo più una “eliminazione sistematica” di tutta la razza umana: gli androidi si son fatti più evoluti e minacciosi ed ora cacciano ogni umano che ancora resiste o fugge. La prima traccia dell’album è “Spiritual Embezzlement” e fa capire da subito quale possa essere lo strumento musicale più caratterizzante degli Untimely Demise: nonostante una sezione ritmica macinasassi, è il lavoro davvero intricato delle chitarre ad emergere come cifra stilistica qualificante della band canadese. Dopo una brevissima sezione di potenti stacchi, la chitarra solista di Glen esplode in un vero vortice musicale che dà l’impressione di risucchiare chiunque si ponga davanti al suo raggio d’azione. Al di sotto di essa, una batteria ordinata ed essenziale spiana la strada ad una componente ritmica di notevole spessore, perché, pare ovvio dirlo, non può esserci un grande lavoro del solista se al di sotto non c’è un groove valido su cui poggiarsi. Poco più di trenta secondi e fa il suo ingresso la voce, caratterizzata da una timbrica graffiante che a tratti può ricordare quella di MegaDave, ma anche quella dei Sadus o dei Sabbat. Su una musica davvero aggressiva e ben suonata, si dipanano lyrics intrise di una certa tragicità nel raccontare come lo spettro della violenza abbia oramai devastato il mondo, tanto sul piano fisico che su quello psicologico dei suoi abitanti. L’annullamento della volontà è diventata all’ordine del giorno, macabro gioco orchestrato dai piani alti di una società ormai peccaminosa e senza più alcun ritegno o valore morale. Nel chorus la voce si fa ancora più ruvida, rasentando i limiti dello scream acidulo dei primi Death, mentre la canzone continua a velocità sorretta grazie ad un adeguato lavoro di doppia cassa. Dopo il ritornello il brano tende a variare grazie alla sua ritmica un po’ meno spedita, ma comunque potente, con dei buoni stacchi sui tom e chitarre trascinate e marcate. Su questi ritmi parte l’assolo di Matt, a dire il vero un po' corto, ma che lascia intravedere la perizia tecnica del musicista. Da questo momento ritorna la voce, timbricamente variata in favore di una tonalità più grave (che rievoca gli echi “testamentiani” di Chuck Billy), che non può che effettuare un ritratto desolato del mondo in cui viviamo (credevate fosse un testo fantasy, forse?). La mediocrità dilagante ha costruito un mondo dove domina solo più il dio-denaro, mentre i media, sotto il controllo di pochi oligarchi, diffondono un senso di normalità apparentemente tranquillizzante, ma sotto sotto alienante e deleterio per l’individuo. Al minuto 2:15 inizia una sezione particolarissima, ma davvero ben riuscita, che si costruisce su una batteria solo apparentemente “esile” per colpa del charleston chiuso, che di certo non inspessisce il groove. Oltre ad una ritmica incalzante, si notano dei bei fraseggi all’unisono di chitarra e basso, con Murray che emerge distintamente dal muscolare muro di suono sprigionato dalla band. La parte solista è melodica e fa da contraltare alla chitarra ritmica, sempre molto martellante. Ma è al minuto 2:27 che le partiture s’infittiscono con un ottimo risultato, fino a che lo scream del vocalist si alza a difesa dell’integrità di un Io fin troppo vituperato. Ecco che la parola d’ordine diventa così “resistere”: occorre innanzitutto risvegliare la nostra coscienza, di modo che si possa contrastare questo indottrinamento forzato. Solo così avremo una mente davvero libera, grazie alla quale si potrà migliorare l’aspetto cognitivo dell’individuo, altrimenti sempre sottomesso al volere altrui. Al minuto 2:57 la canzone varia di nuovo, fatto che non può che farci sorridere per la facilità con cui i nostri partoriscono riff davvero validi. Basso e chitarra lavorano davvero in sintonia, mentre la solista si sposta di una terza più in alto per conferire maggior melodia, il tutto mentre il drummer Cory gioca abilmente con passaggi ride-charleston. A 3:22 le ritmiche si fanno nuovamente più serrate, ritorna la doppia cassa ed il fraseggio torna ad essere più incisivo, con un ultimo riff davvero elettrizzante che chiude la canzone. Ottimo biglietto da visita per cominciare questo album. Seconda canzone in scaletta è “The Last Guildsman”, che si apre con un agrodolce assolo di chitarra ad opera di Matt, le cui note scivolano via mentre un delicato basso accarezza gli arpeggi d’accompagnamento. Le lyrics sono espresse con un feroce scream che parla di scrupolosità per ogni dettaglio, di una maniacale pignoleria che ha portato via “molte notti passate in bianco”. I versi ci mettono un po’ a farci capire che si sta parlando di un membro di una corporazione, le cosiddette Gilde, ovvero antiche associazioni tardomedievali che regolavano e tutelavano l’attività degli appartenenti ad una stessa categoria professionale. Il protagonista, piuttosto di rivelare i segreti del mestiere, è pronto a portarli con sé nella tomba, a causa degli enormi sacrifici che ha dovuto sopportare per raggiungere la perfezione. La canzone arriva in maniera assolutamente lineare fino al ritornello (in cui è abbandonato lo scream in favore di un cantato più tranquillo). In netta antitesi con la prima traccia dell’album, The Last Guildsman è fin qui molto quadrata, con un bel basso che occupa tutti i vuoti di un sound fin qui volutamente più scarno rispetto agli standard cui ci avevano abituati. Al minuto 1:26 Matt parte con un assolo molto semplice, ma sicuramente melodioso ed a tratti epico nel suo cominciare. Com’era da aspettarsi, dalla melodia iniziale la chitarra sembra virare verso parti più complesse in concomitanza dell’entrata della doppia cassa di Cory. Matt, in questi attimi, ci sta deliziando con un pregevole assolo davvero tecnico, a tratti virtuoso, ma l’ascoltatore appassionato si stupirà anche degli ottimi fills di basso, che fanno sfrecciare lo strumento a velocità sostenute. La seconda parte della traccia, notevolmente più accelerata, vede l’autocelebrazione dell’artista, che si glorifica tra gli altri artigiani, in un mondo composto prevalentemente da impostori. Ma attenzione, perché il passo dall’elogio a delle vere manie di grandezza è davvero breve: grazie ad un integerrimo comportamento che gli è valsa notevole abilità sul lavoro, il dono che l’artista fa al mondo sarebbe da considerarsi alla stregua di una “elargizione prometeica”, un dono divino. La chitarra si scatena in un riff ripetitivo ed ipnotico, mentre l’onnipresente basso regge degnamente il confronto quando le chitarre raddoppiano la carica melodica grazie alla sempreverde soluzione “all’Iron Maiden”. Dopo una pausa che sembrava aver terminato la canzone all’improvviso, il testamento dell’artista è affidato ad una terza strofa di otto versi (che rende assolutamente speculare l’intera composizione, con l’assolo a far da asse di simmetria nel mezzo): sebbene il cuore umano sia destinato a smettere di pulsare, ciò che è stato creato in vita, se davvero utile, durerà per anni o addirittura secoli. La visione del maestro non lascia spazio alla autocommiserazione, bensì sembra citare il poeta latino Orazio, in particolare la terza delle sue Odi: “Non omnis moriar” (non morirò interamente). Benché la persona fisica sia destinata alla morte, rimane la consapevolezza di aver eretto un monumento alla memoria più duraturo del bronzo, giacché la propria invenzione durerà per sempre e per sempre gli verrà tributata la giusta fama. Paradossalmente, dopo tutto questo testo davvero inusuale, non ci è lasciato conoscere quale sia effettivamente la creazione del professionista, forse perché si è portato davvero con sé i suoi segreti... Tirando le somme, la canzone si presenta complessivamente buona, meno carica della precedente, ma non per questo meno valida. La terza traccia è “Somali Pirates”, che grazie ai suoi stacchi sembra riportarci ai fasti dell’opener. Il riffing di chitarra è incalzante ed ossessivo, mentre la batteria spazza via ogni resistenza, ancor di più quando esplode in un battere incessante. Come ci suggerisce il titolo, è facile intuire quale sia il tema della canzone, sottolineato anche da un selvaggio urlo che sembrerebbe preludere ad un vero arrembaggio. Su di un verso sistematicamente ritmato dalla doppia cassa, Matt questa volta ci parla dei pirati somali, più volte sugli schermi televisivi per i loro crimini efferati a danno delle navi che transitano nel pericolosissimo golfo di Aden. Nemmeno le forze dell’ONU sono mai riuscite a debellare davvero questo pericolo, che non preoccupa più di tanto nell’ottica del commercio mondiale, ma piuttosto per i suoi saldi legami con gruppi islamisti radicali. Sebbene inizialmente si sia originata come attività per far fronte alla fame ed alla miseria dilagante nella Somalia, questa problematica è diventata di caratura mondiale quando sono state attaccate enormi petroliere: ecco che così ritorna in auge il tanto declamato dio-denaro dell’opener. La potenza musicale finora ascoltata accompagna bene questo tema, così come la voce aspra ricalca con ferocia parole come “AK” (il classico kalashnikov dei “cattivi” dei film americani, quello col calcio di legno). Nel ritornello, immediatamente collegato alla strofa, il cantato è in bilico tra le varie modulazioni che fino ad adesso abbiamo incontrato: c’è una parte minima di scream, di cantato alla Testament, ma soprattutto risalta quel tono caratteristico che Matt ottiene bilanciando sapientemente tutte queste componenti. Tutta la canzone è molto energica, meno tecnica del solito, ma assolutamente portentosa, così come non bisogna prendere sul ridere gli intenti dei pirati, che sanno esprimersi convincentemente coi loro proiettili. Al minuto 1:16 la trama ritmica – fittissima finora – si spezza grazie ad un inserto di chitarra che ha un che di orientale, davvero a fagiolo in questo contesto. A 1:29 Glen si prodiga in un assolo sia melodico che un poco dissonante, di breve durata ma intensissimo, supportato alla grande dal tappeto in blast-beat di batteria ma anche da un egregio lavoro della chitarra ritmica. La terza strofa si mantiene sulle medesime velocità e rallenta solo in occasione di un nuovo riff di chitarra, sempre molto valido. Il giro dell’intro viene così trasposto a fine canzone, giusto per introdurre l’assolo di Matt, che chiude il brano con un effetto riverberato , schiantandosi sugli ultimi stacchi della batteria. Un traccia di notevole impatto. La quarta traccia, “Redemption”, si apre in modo terremotante grazie un batteria sontuosa, poi il duo di asce della ditta Matt & Glen si produce in uno dei riff più azzeccati dell’opera, ben bilanciato in un mix di potenza e melodia. Cory lavora su un certosino pattern di batteria, giochicchiando su ride e charleston con sotto una base di doppia cassa ben massiccia, mentre in seguito tocca di nuovo a Glen l’onore dell’assolo introduttivo, con il ritmo che progressivamente sale. Le vocals si orientano di nuovo verso uno scream ferale, davvero intonato con l’argomento della canzone. Le liriche infatti parlano di famelici selvaggi che attaccano i malcapitati vittime delle loro trappole, lasciando poi i loro cadaveri martoriati al sole cocente, con annessa descrizione non proprio amena della decomposizione dei corpi. Tra le prime due strofe si frappone un corto inframezzo di chitarra, che collega le due stanze senza per forza a ricorrere già al ritornello. Finita la seconda strofa, viene nuovamente riproposto l’intermezzo, questa volta accompagnato al minuto 1:18 da un assolo di Matt, davvero valido e supportato da un songwriting tecnicissimo ma non fine a sé stesso. Da questo momento il cantato si fa davvero cadenzato, raccontando di un tizio che vuole respingere questi selvaggi, attirandoli a loro volta in una trappola, sfruttando il fatto che loro sentono “l’odore della paura”. La seguente strofa abbandona lo scream in favore di un cantato vagamente punkeggiante e, anche se musicalmente il brano si dimostri sempre interessante, qui i versi sono un po’ forzati nel loro senso logico ed a stento conducono l’ascoltatore su quello che vogliono comunicare, in quanto alludono ad un test, non meglio precisato, che rimanda ad un finale abbastanza ambiguo, con un ribaltamento delle parti, dove sono i selvaggi a doversi salvare dalla furia dell’uomo. A questo punto la canzone varia in modo sostanziale, prima accelerando notevolmente i tempi, con il solito riffing ambizioso di chitarra, poi con la comparsa del chorus, decisamente melodico ma che non si fa apprezzare a tutto tondo perché, pur se da una parte la musica sia sempre di qualità, è la voce a scadere un pochettino, o meglio è la soluzione qui adottata a non convincere proprio: il cantato risulta troppo pulito e sgraziato, paradossalmente più duro da digerire rispetto al solito scream. A 3:08 degli stacchi rabbiosi, uniti ad un giro di chitarra vigoroso, aprono al terzo assolo della canzone, sempre ad opera di Matt, che non tradisce di certo nelle aspettative. Il chitarrista si cala in una parte solista di rapida esecuzione, mentre la sezione ritmica ci regala un capitolo davvero technical thrash, sempre di ottima fattura. A 3:48 il ritmo si stabilizza di nuovo su un mid-tempo, granitico come ad inizio canzone, prima che un ultimo verso chiuda di netto il brano. Se musicalmente rimaniamo su alti livelli, purtroppo le lyrics qua scadono un po’, non tanto per la banalità dell’argomento ma per come questo è stato svolto. A questo si aggiungano anche alcune soluzioni un po’ troppo distanti da quanto finora ascoltato ed ecco che, così, si può parlare di un piccolo passo indietro rispetto alle tre canzoni precedenti. Il prossimo brano, “Navigator’s Choice”, è una delle due track più lunghe del lotto, con i suoi 4:45 minuti. La canzone si apre con un semplice giro di chitarra, sotto il quale si distingue un riff di basso essenziale. Dopo pochi secondi le ritmiche s’infittiscono nettamente, mentre il cantato, per il suo incedere, ricorda abbastanza lo stile thrash anni ’80. Le lyrics parlano di un navigatore cosmico che s’imbatte in un pianeta inospitale. Qui deve subito difendersi, giacché strane figure s’annidano nell’ombra. Dopo le prime due strofe, il ritmo diventa martellante, con un tappeto di doppia cassa molto potente, sul quale le chitarre effettuano i soliti e validi riff. L’incontro del navigatore con le presenze indigene è stato breve, essendosi sbarazzato di loro in pochissimi istanti. Uscito illeso dallo scontro, pare che la misericordia non sia esattamente il suo pane. Le strofe tre e quattro sono strutturalmente vicine alla prima tradizione thrash, sia per ritmiche che per schema. La strofa quinta, al pari della seconda, è invece più moderna e death-oriented per le soluzioni più aggressive. A 1:31 ecco arrivare l’assolo di Glen, che ricordiamo essere soltanto il primo di una lunga serie. Sezione solistica a parte, questo capitolo si nota anche per una bella base ritmica, ma è il seguente chorus a prendere bene sull’ascoltatore. Se all’inizio presenta i soliti tecnicismi (come il ride in controtempo), è proprio la sua caratura abbastanza retrò ad esaltarlo come parte migliore della canzone. Terminato il cantato, dove si spiega la natura quasi di “mercenario spaziale” – nonché di signore dell’universo – di questo navigatore, l’eccellente riffing di chitarra apre gli spazi per l’assolo di Matt, supportato egregiamente dalla trasposizione del pattern dell’intro, che sembra innalzare il tasso di tecnicismo della canzone. La sesta strofa ci racconta di un mondo e della sua galassia che sono sull’orlo del collasso: al navigante non resta che effettuare un salto nell’iperspazio per fuggire alla catastrofe. Un ultima, rapida strofa ci lascia poi ad una sezione con ben tre assoli. Il primo, ad opera di Matt, si apre a 3:18 ed è molto melodico, grazie al ritmo che rallenta notevolmente. Matt si concentra su dolci melodie che si fondono benissimo a 3:31 con l’assolo di Glen, carinissimo per la sua soluzione a discendere, ma che sfuma presto in un nuovo cambio di tempo, a dir la verità abbastanza accademico, impreziosito nuovamente da un assolo di Glen, questa volta dinamico ma non eccessivo, che lascia solo più spazio ad un ultimo giro che termina la canzone. Sesta canzone in scaletta è “Warrior’s Blood”, che sembra fin da subito voler imprimere una svolta più violenta al prosieguo dell’album. Gli elementi che ci fanno capire questa scelta sono sicuramente il riffing assassino, con annessi stacchi davvero deliranti e brutali, così come l’urlo iniziale in puro stile death metal. Il testo è forte, molto maschio, anche se prima c’è spazio per due assoli, uno di Matt e l’altro di Glen, molto poderosi e simili tra loro. Già da questo momento abbiamo l’impressione di stare ascoltando qualcosa dei cari vecchi Testament, e ciò è poi confermato quando inizia la strofa: il riffing, infatti, è caratteristico del quintetto di San Francisco, molto dinamico e adatto per l’headbanging, mentre dal canto suo la voce si avvicina ad uno screaming basso, poco urlato ma ferino. Il testo ci racconta di un lottatore, un vero guerriero della strada, che agisce in base alle poche leggi dell’istinto: combattere per cosa si crede, non fermarsi davanti a nessun ostacolo e ricorrere alla forza per superarlo, prendere cosa si vuole… insomma tutte regole degne di un fuorilegge. A 1:26, prima del chorus, abbiamo buone cavalcate di chitarra e basso mentre poi il ritornello è strutturato a salire, in cui ogni tanto irrompono degli stacchi di batteria per spezzare le rapide note della chitarra. La violenza della guerra è come una malattia pericolosa e distruttiva per il protagonista, che con il sangue degli sconfitti riesce a saziare i demoni che albergano in lui: tutto questo proprio perché sangue di guerriero scorre nelle sue vene. A 2:04 la canzone rallenta, mentre l’ascoltatore rimane spiazzato per questa scelta. Nel suo continuum davvero duro ed inteso, tutto ci saremmo aspettati tranne che un melodico assolo di Matt, forse addirittura il più melodico di tutto l’album. Le durature plettrate della chitarra ritmica accompagno il ritmo simil-marcia della batteria, che dà alla canzone un’impronta epica ed armoniosa. Tutto ciò almeno fino a che, al minuto 2:47, un riff lineare e quadrato comincia a ripetersi ossessivamente, mutandosi poi in una buona parte molto thrashy che porta alla conclusione di un brano, tutto sommato, nella media. Penultima canzone del disco è “Revolutions”, aperta da un riff chitarristico davvero ottantiano, accompagnato da una batteria prima quadrata e poi controtempo, oltre che da un basso che sembra aver aperto i toni in favore di un sound più brillante. Il cantato è di nuovo il solito semi-scream di Matt, che ora ci parla di un mondo afflitto da continue rivoluzioni, causate da cittadini scontenti, vittime della schiavitù moderna. La seconda strofa aumenta il tempo d’esecuzione mentre la terza è il manifesto delle intenzioni dei rivoluzionari: i diritti che l’uomo ha conquistato durante i secoli devono essere riottenuti a tutti i costi, anche se molti moriranno per raggiungere questo scopo. Solo chi ha davvero nel sangue questo istinto di ribellione può alzarsi in piedi e mettersi contro un’autorità corrotta, raggruppando contro di questa tutte le genti afflitte dalle sue angherie. A questo punto un piccolo intermezzo, con le chitarre ben melodiche ed il basso che si sente distintamente, spezza il ritmo, ma solo per un attimo perché la situazione si fa subito tragica: le sfere del potere han deciso di sedare nel sangue ogni tentativo d’insubordinazione del popolo. Come si recita nel chorus, odio, paura e morte sono i valori-cardini su cui ormai si regge il nostro mondo, in un assurdo dramma di marionette e burattinai dove nulla sembra più essere autentico. Dal punto di vista musicale, il ritornello, con i suoi cori ad inizio verso ("hate", "fear", "death"), riprende molto bene la lezione anni ’80 dei combo thrash californiani. Poco dopo, a 2:18, una sezione di stop n’ go prelude all’ultima strofa, a cui segue un pre-chorus con le chitarre stranamente fluide, a tratti quasi ronzanti come uno sciame di insetti che ti gira attorno alla testa. La sezione dura poco ma, com’è giusto che sia, riesce a colpire nel tentativo di dare una svolta al brano. Dopo l’ultimo ritornello, Matt s’invola verso un assolo con un sound davvero strano, chiuso e “lontano” si potrebbe dire. A 3:31 inizia questa sezione, prima con partiture lente ed a volte dissonanti, ma poi lascia che sia la melodia a condurla. Sotto l’assolo, una convincente sezione ritmica costruisce per bene le basi per la parte solistica, fino a che questa non termina con una lunga nota vibrante, su cui s’innesta un ultimo riff supportato dalla doppia cassa, che chiude la canzone in modo abbastanza prevedibile. Ultima canzone è “Escape from Supermax”, introdotta in una maniera inedita, ovvero da un riff di basso su di un “latrato” delle chitarre. Il ritmo non è assolutamente sostenuto e per questo la canzone sembra non decollare mai, bensì pare solo caricarsi all’infinito. Nemmeno ora che entra il cantato in puro scream, feroce e cattivo, il ritmo varia: esso si è standardizzato su un mid-tempo assai particolare, ma ecco che, non appena ci si stava abituando, Cory parte impazzito con una partitura in blast-beat. Il tema affrontato sembra essere legato ad un'istituzione che controlla la vita di ogni uomo, sotto ogni suo aspetto, ma che sembra badare più alla sua disciplina che alla salute. Terminata la prima sezione – costituita dalle due strofe – ecco che il motivo si ripete pari-pari, con nessuna variazione, dove capiamo che il protagonista potrebbe essere intrappolato in una struttura dedicata al perfezionamento della disciplina umana. Un piccolo assolo di Matt dà un tocco di verve ad una canzone che, finora, era apparsa troppo quadrata e meno ispirata rispetto alle altre. Nemmeno il ritornello, che conferma la tesi sopra esposta (in quanto parla di una fuga da una struttura rieducativa), riesce nell’intento di ingranare una marcia in più: i tempi sono sì aumentati, ma le partiture migliori all'interno di quest’album sembrano ormai passate. A 2:35 degli stacchi furiosi sembrano dare torto a quanto appena detto, facendo notevolmente impennare i tempi ed aumentare la qualità. Cory comincia a battere seriamente con una velocissima mitragliata di doppia cassa, sino a che una davvero ottima struttura a crescere apre la strada ad un altro assolo di Matt (3:15), in un eccellente mix di parti solistiche e ritmiche. A 3:25 tocca a Glen mettersi in mostra con il suo assolo, riproponendo tutto sommato le stesse melodie della parte di Matt, che ritorna a 3:35 prima che il chorus rifaccia il suo ingresso. A 4:03 tocca così di nuovo a Glen, ma qui con l’onore di chiudere la canzone, grazie ad un carismatico assolo di chitarra che bene sfuma sul lungo finale del brano. Concludendo, si può dire che per l’ultimo pezzo ci si aspetta sempre una degna chiusura. Visto com’era iniziato, dispiaceva che i Nostri avessero suggellato l’opera con questo brano, ma dal minuto 2:30 in avanti, la canzone migliora decisamente e riporta la qualità sui binari intrapresi ad inizio opera. Una buona chiusura. Dopo otto tracce di media durata (per un totale di 33 minuti circa), ecco che finisce Systematic Eradication. L’album degli Untimely Demise si è presentato come un vero lavoro di technical thrash metal, in cui pare essere stata assorbita a modo la lezione della componente ottantiana, così come non vanno dimenticate alcune influenze death, per lo più nel cantato. A tal proposito, Matt si è dimostrato un valido singer, alternando timbriche più tradizionali ad altre prettamente più moderne. Come chitarrista, poi, non bisogna nemmeno discutere: assieme al compagno d’ascia Glen, i due axemen si sono comportati molto bene, facendo capire che sanno suonare i loro strumenti. Tuttavia, essendo state scritte tutte le partiture musicali da Matt e tutte quelle liriche da Murray, può capitare di imbattersi in frangenti in cui l’impressione del “già sentito” può fare capolino, ma si tratta comunque di un difetto da poco. Murray al basso ha fatto sentire buone cose, ritagliandosi uno spazio, occorre dire, che non era stato previsto, immaginando di vedere soffocato lo strumento in una parte eternamente secondaria (o terziaria). Ancora più sugli scudi è stato il drummer Cory, autore di variegate parti di batteria, ma si sa, ormai tutti i gruppi metal hanno batteristi nettamente al di sopra della media. Complessivamente, dunque, l’album non può che riscuotere i pareri più positivi. Certo è che il genere proposto non è per tutti: i tecnicismi, si sa, non vanno giù a molti, ma in Systematic Eradication gioca pur sempre a favore degli UD la componente thrash, che è poi quella a cui è destinata la vera carica metallica dell’album.
1) Spiritual Embezzlement
2) The Last Guildsman
3) Somali Pirates
4) Redemption
5) Navigator’s Choice 6.
6) A Warrior’s Blood
7) Revolutions
8) Escape from Supermax