ULVER
Riverhead
2016 - House of Mythology

PAOLO FERRANTE
19/10/2017











Introduzione Recensione
Nell'anno 2016, oltre a pubblicare l'impronunciabile "ATGCLVLSSCAP", gli Ulver fanno uscire "Riverhead". Pubblicato dalla House of Mythology in versione CD e vinile, questo lavoro - sin dalle premesse - si presenta molto diverso dall'altro album pubblicato nello stesso anno: se il precedente è stato una rielaborazione artistica ed improvvisativa di alcune esibizioni live, "Riverhead" è invece la colonna sonora di un film. Gli Ulver lo fanno ancora: ancora una volta una colonna sonora per un film fuori dal comune, sicuramente ostico e sperimentale, di un regista emergente. La formazione è composta da: Kristoffer Rygg (elettronica e voce), Tore Ylvisaker (tastiere ed elettronica), Daniel O'Sullivan (tastiere, chitarra e basso) e Jørn H. Sværen (varie); una formazione ridotta rispetto a quella che, per forza di cose, si esibisce dal vivo. Per iniziare ad addentrarci nelle sonorità proposte occorre prendere atto della trama del film, che questa musica si propone di accompagnare. L'omonimo film per certi versi ricorda, alla lontana, l'approccio di "Svidd Neger": una storia lenta, che si sviluppa a tratti quasi grotteschi e che offre pregevoli scorci di rilevanza paesaggistica, e che permette anche di dare uno sguardo ad una cultura (o sottocultura) poco conosciuta. Ambientato nel Newfoundland, una grande isola a nord del Canada, dal rigido clima subartico, con una popolazione dalle origini prevalentemente inglesi ed irlandesi, il film sembra voler rievocare un tema ricorrente nella tradizione anglosassone - in particolare irlandese, probabilmente - che è quello del blood feud. La faida di sangue è quel concetto sul quale ruota e si sviluppa l'intera trama, tipico di quella testardaggine tutta irlandese. Anche in questo caso è impossibile non fare un paragone con Svidd Neger che, con un'ambientazione simile, ruotava tutto attorno ad un rancore che potremmo definire come una lite familiare. Il grottesco di questo film, però, non assume toni parodistico/demenziali, ma diventa grottesco in alcuni punti, specie quando - usando un dialetto abbastanza ostico del luogo - i personaggi interagiscono senza risparmiare le volgarità più grette. Col proseguire del film, il personaggio principale (interpretato da un attore alla sua prima prova, con un grande risultato) si esprime con un linguaggio ostico; il film, infatti, non si preoccupa molto di essere comprensibile per gli abitanti del continente, i quali vengono calati nella realtà raccontata senza alcuna preparazione. Tale linguaggio diventa sempre più volgare, e le reazioni diventano sempre più violente perché, col proseguire della faida, il protagonista viene consumato, la sua sanità mentale viene messa in pericolo. Il conflitto, la faida, passa velocemente da piccoli dissapori ad una ossessione; a ogni azione corrisponde una reazione leggermente più forte, e così si innesca una spirale incontrollabile di scontri in cui lo spettatore, spesso, è portato ad immedesimarsi e a "perdonare" i gesti violenti, in quanto giustificati da torti subiti dal protagonista o dai suoi cari. L'avversario, un giovane aggressivo e pronto a tutto pur di pareggiare i conti, è il nemico perfetto; offre anche un contrasto fra l'animo riflessivo e malinconico del protagonista. In definitiva, il film mostra uno spaccato culturale di una zona del Canada lontana dai riflettori, una cultura forse un po' chiusa e certamente fuori dalla portata. In una storia del genere, in cui il perdono è assolutamente fuori discussione, le circostanze - forse anche un senso dell'onore - portano a conseguenze sempre più forti, in un crescendo drammatico in cui i confini tra "giusto" e "sbagliato" appaiono sempre più vacui. In copertina troviamo una fotografia monocromatica: l'attore protagonista in primo piano e sullo sfondo il paese, di notte, sfocato. Il volto del protagonista è un misto tra determinato e malinconico, è il volto di chi, dopo averne passate tante, è deciso a non mollare proprio adesso e, dentro di sé, magari se la ride a pensare alla prossima mossa. L'abbigliamento è un misto tra urbano e rurale: l'iconica camicia di flanella abbinata al berretto di lana appare un must intramontabile per affrontare i rigori invernali, giubbotto di pelle e zaino sono quegli elementi più urbani - seppur con la loro innegabile aria di vissuto - che caratterizzano il personaggio. Per forza di cose, trattandosi di una colonna sonora, la musica dovrà essere un sottofondo, un accompagnamento per le scene, ma questo non dovrebbe essere un problema per gli ultimi Ulver, i quali stanno diventando sempre più eterei, astratti e - soprattutto - sempre più contaminati da uno stile Drone che hanno ormai fatto proprio, approfondendo quelle tonalità più acute tanto spesso trascurate nel genere.

Riverhead
Riverhead è la traccia d'apertura, secondi di silenzio e poi il suono dei violini, come all'opera; progressivamente si riesce a leggere una sinfonia, che lentamente si arricchisce di elementi e volume: si tratta di una sinfonia microtonale, fatta di acuti e sovracuti che fischiano, a volte anche stridono. Il crescendo continua e quindi un'onda di bassi si piazza in sottofondo, abbiamo superato abbondantemente il minuto e questa traccia sa molto di introduzione, di trailer: un crescendo di intensità che vuole probabilmente comunicare tutto il potenziale, senza farlo necessariamente esprimere. Ci si aspetta di sentire, da un momento all'altro, il boom della deflagrazione; perché sembra una bomba pronta ad esplodere, il suono si satura sempre di più ed il crescendo diventa quasi insopportabile. Come il montare della rabbia prosegue inesorabile, i violini offrono variazioni dissonanti, tasselli di un disegno incomprensibilmente armonioso; il basso ondeggia in sottofondo senza mai spegnersi, come i flutti del mare, il suono si assesta e quindi sono i bassi a crescere, avvolgendo le altre sonorità. Quello che colpisce maggiormente è appunto l'approccio microtonale: abbiamo un pattern ostinato, praticamente fisso, che rimane apparentemente immutato dall'inizio alla fine; all'interno di questo pattern monotono anche la più piccola e infinitesimale variazione salta all'orecchio, ed è appunto con tali minuzie che si sviluppa un tema musicale, pur sempre troppo lento per essere propriamente apprezzato. Ora sono i bassi a proporre delle variazioni più evidenti, mentre i violini restano immobili, il basso trema e sfarfalla, creando suspense ed aspettativa. In tutto questo ondeggiare di bassi si rintraccia il riferimento più chiaro alla località, dalla quale prende nome il brano: un'isola, in cui il mare - appunto - è elemento fondamentale. Così come il mare scandisce il ritmo della vita isolana, così le onde dei bassi scandiscono il ritmo pulsante ed eterno di questo brano. Talvolta, anche nella notazione classica, capita di trovare qualche ostinato in cui il compositore a margine annota: "all'infinito"; questo è un caso del genere e si riferisce probabilmente a tutte le parti di tutto il brano. L'eternità, o quantomeno un'aspettativa di vita più che ragguardevole, è ciò che si può facilmente attribuire al luogo: l'isola che fa da scenario a questa tragedia che si sta per consumare di qui a poco.

Dark Alley
Con Dark Alley (Vicolo buio) non ci allontaniamo molto dalle sonorità del primo brano: un inizio sfumato in crescendo rivela un sound formato dalla sovrapposizione di tanti elementi. In questo caso, però, si avverte c'è un qualcosa di "sbagliato" nell'aria, è una forma di presentimento, una paura ingiustificata che serpeggia. Il ritmo accelera ed è tremolante, come lo sfarfallio di un neon che illumina a tratti una via buia, una strada malfamata in cui ci si aspetta di trovare ogni genere di balordi; ogni piccola minuzia, in questo caso, spaventa, perché ogni ombra sembra assumere i contorni di un mostro pronto a balzare su di noi. Gli archi continuano la loro furiosa sinfonia monotona, mentre le atmosfere si muovono lentamente e basse in sottofondo, quando il brano pare stabilizzarsi si aggiungono ulteriori frequenze, più acute, che seguono lo stesso schema degli archi. Un rumore che sembra quello dei piatti che sfumano fa una fugace e velata apparizione, sono particolari. Poi il pezzo ha una svolta, come se - attraversando il vicolo - questo si immette in una strada più ampia: la sensazione che si riceve è quella di una rivelazione. Attraversato il percorso oscuro si apre, dinanzi a noi, una strada più ampia e spaziosa, ma ancor più piena di mistero: adesso non è tanto il timore a predominare, quanto lo stupore ed il fascino. Il brano si distende e le melodie delle atmosfere prendono il sopravvento, lasciando echi che nel finale riverberano in modo sempre più insistente e disturbante, dissonante, stridente. Con questo brano abbiamo una prima svolta, una prima rivelazione: qualcosa sta succedendo e non è propriamente rassicurante, ma neanche necessariamente malvagia.

Road to Town
Segue Road to Town (Strada verso il paese), dal titolo più sereno. Anche in questo brano c'è un lungo silenzio prima di iniziare a sentire qualcosa, che fa capolino davvero timidamente e lentamente. Un brano probabilmente più simile a quello di apertura, ma con sinfonie forse più intricate: un suono saturo formato da un'abile lavorazione sintetica. Atmosfera satura, riverbero persistente, sembra di essere all'interno di una camera di risonanza, investiti da una serie di onde sonore che risuonano sulle pareti che ci intrappolano. Questo è un brano che sarebbe stato perfettamente coerente con quanto è possibile ascoltare nel precedente album. È l'ambiente a suonare, è come se gli Ulver abbiano voluto isolare la risposta dell'ambiente, omettendo proprio il corpo che emette questo suono che viene riverberato; un brano che riesce bene nel compito di descrivere un luogo, un luogo che in questo caso appare solare ed ampio, sterminato, forse troppo arido e spoglio a tratti. Si avverte un curioso misto di solennità e malinconia: l'immutabilità di un luogo che resiste al tempo, ma allo stesso modo si porta dietro tutti i problemi che lo hanno sempre caratterizzato, tutta la sua asprezza. Stiamo parlando di un'isola sferzata dalle onde gelide e salmastre, un luogo rigido in tutti i sensi che - per forza di cose - plasma uomini altrettanto duri. La strada verso il paese è dunque una larga, dritta, monotona strada asfaltata; di tanto in tanto c'è quella stazione di rifornimento, quell'indizio di vita rurale e faticosa, ma nient'altro che spezzi la monotonia. Brano decisamente atmosferico e freddo, viene da pensare ai raggi solari che si poggiano su un terreno innevato. Il finale sfuma molto lentamente, lasciando che il riverbero faccia tutto il suo corso fino a perdersi nel silenzio.

In a Wooden Coat
In a Wooden Coat (In un rivestimento di legno) ha un titolo ambiguo: perché se coat è il cappotto, winter coat è il cappotto invernale (come quello indossato dal protagonista in copertina); wooden coat può essere un rivestimento in legno per l'isolamento dell'abitazione. Non sarebbe la prima volta che gli Ulver giocano coi titoli, creando ambiguità e doppi sensi che, in sé, racchiudono significati che - stante l'assenza dei testi - non si potrebbero esprimere altrimenti. In questo caso, con uno sforzo immaginativo, si potrebbe pensare ad un cappotto di legno nel senso della chiusura mentale, dell'ottusità che caratterizza gli eventi della faida in cui ognuno, appunto, si isola in se stesso e proprio non vuole nemmeno provare a capire la situazione dell'altro. Il concetto pare trasferirsi anche in musica perché, dopo i consueti secondi di silenzio assoluto, si propone un suono ambientale timido ma - qui sta la differenza coi precedenti brani - vistosamente ovattato. I suoni sono quindi molto umidi, niente acuti e niente sinfonie complesse: vibrazioni basse e statiche, tutto molto impastato e sfuggente. Sprazzi di melodie acute ma incomplete, come se stessimo ascoltando - con l'orecchio alla porta - delle persone che parlano in un'altra stanza: si riesce a percepire qualche sprazzo, si perde molto della conversazione, i suoni giungono ovattati. Dei piatti spezzano la reclusione, perché il loro suono è cristallino, i suoni si fanno da dungeon, con degli echi lunghi e tenebrosi. Se nella prima fase del brano possiamo immaginare un soggetto che tenta di ascoltare e decifrare ciò che proviene dall'esterno della propria gabbia legnosa; in questa seconda fase pare che l'ascoltatore si scosti dalla parete, si ponga al centro di questa stanza e si metta in ascolto di ciò che riverbera nel proprio guscio di legno. I suoni della seconda fase sono infatti più limpidi, non sono ovattati, filtrati; ma sono altrettanto criptici, non c'è melodia da seguire, è una chiusura che obnubila. Sempre presenti, le frequenze basse la fanno da padrone con ondeggianti pulsazioni spezzate talvolta dai piatti, nel finale il suono progressivamente sfuma fino al silenzio. Un brano, questo, che si differenzia dagli altri: se nei precedenti l'uso delle micropolifonie in chiave Drone era l'elemento comune, stessa cosa non può dirsi in questo brano, che è un Ambient Dungeon a tutti gli effetti.

Idle Hands are the Devil's Playthings
A cosa porta quella chiusura mentale, oscura, che abbiamo trovato nel precedente brano? A nulla di buono: pone il protagonista nella condizione di essere mal consigliato. Idle Hands Are the Devil's Playthings (Le mani oziose sono il giocattolo del Diavolo), un precetto che sembra rievocare quello ancora più antico: ora et labora. Il lavoro nobilita l'uomo, in questo caso si può aggiungere che lo tiene lontano dalle cattive strade perché chi ha un'occupazione difficilmente può essere blandito da cattive ispirazioni, si responsabilizza in un certo senso. Quelle mani oziose ed inattive, ricche di forza inespressa, rischiano di trovare la loro occupazione in ambiti meno nobili; quelle mani che a fine giornata dovrebbero essere stanche ed alla ricerca del tepore domestico, sono ben riposate e trepidanti all'interno di un pub, magari scalpitano al pensiero di una scazzottata per futili ragioni. Saltano fuori le polifonie con gli archi, sonorità vagamente celtiche, dissonanze cantilenanti si sovrappongono e susseguono in continuazione senza un ritmo preciso. Timbri chiari e freschi, ma con qualcosa di sbagliato rappresentato dalle dissonanze e da un disturbo, sempre più forte, che ostinatamente si ripete sporcando la sinfonia principale. Non c'è nessuna armonia nella cantilena proposta, è un equilibrio spezzato, una sinfonia fuori tempo e confusa; sembra voler rappresentare la mente di chi inizia a percepire le cose in modo sbagliato. Forse è esattamente questo il momento in cui si genera l'incomprensione, il malinteso che porterà al dramma della faida; il lavoratore stanco non ha tempo per attaccar brighe, nemmeno si trova in situazioni potenzialmente fertili per la scazzottata. Il protagonista, invece, ci si trova e probabilmente è questo il momento in cui inizia a covare il rancore che porta al primo scontro, foriero di innumerevoli altri. Come inizia, così il brano finisce: è la fotografia di un momento, di un sentimento, fatto musica.

Father's Feud
Entriamo nel vivo del dramma con Father's Feud (La faida del padre). Le sonorità proposte sembrano calcare quelle del precedente brano: abbiamo degli archi vagamente celtici, in un crescendo di intensità, questa volta la sinfonia appare più elaborata. Un timpano irrompe ed esplode potente, il ritmo poi viene portato da rumori che sembrano il caricamento di un grilletto, oppure uno stivale che affonda nella neve rompendo la crosta di ghiaccio soprastante. Timpano e rumori si combinano in un ritmo da trip hop, una soluzione che rievoca Perdition City. Adesso anche le sinfonie si fanno molto ritmate ed incalzanti, praticamente spazzando via la componente statica. Ora tutto, nella musica, è un ritmo che non si dà pace, che continua a crescere e marciare inarrestabile, una spirale che accelera ancora di più e si fa più complesso man mano che si compone di nuovi elementi. Quel timpano batte sempre più colpi nel loop, i rumori raddoppiano, gli archi si adeguano all'andamento frenetico, un climax lungo, assordante, straziante, anche gli archi raddoppiano; il suono è saturo di rumori e di azione, poi si spegne all'improvviso lasciando il rumore di un timpano che pulsa come un cuore, restano solo gli archi che si spengono come il resto. Un brano che fa del ritmo incalzante e progressivo la sua forza, ogni elemento si aggiunge lentamente ed impercettibilmente; quando ci si accorge del cambiamento è ormai in pieno corso. Questo brano ci racconta di una rabbia montante, ci esprime una spirale di odio e violenza in cui ogni elemento non fa altro che aggiungere nuovi colpi e nuova frenesia. Il susseguirsi degli eventi della faide genera un concatenarsi di circostanze che, nella percezione degli agenti, obbliga a prendere dei provvedimenti, che spesso consistono in rappresaglie; queste ripicche sono sempre un tantino più severe rispetto al torto subìto, a loro volta provocheranno una risposta ancora più forte che alzerà ulteriormente l'asticella del conflitto, la sua portata. In un siffatto conflitto sarà giocoforza il coinvolgimento degli affetti, anche i parenti e gli amici diventeranno parte di un gioco morboso al quale non hanno scelto di partecipare: diventeranno bersagli loro malgrado. Una traccia del genere è il sottofondo perfetto per l'azione nel film, per le sparatorie, le risse, ma anche per tutti gli atti preparativi di ogni spedizione punitiva in cui l'uno o l'altro, nonostante ogni protesta dei parenti esasperati che cercano di dissuaderli da fare pazzie, si arma e monta sul pickup per mettere in atto l'ennesima vendetta.

In Memoriam
In Memoriam si presenta timidamente, con degli armonici che piano piano prendono forma, sinfonie lente e tristi, drammatiche, si affacciano. Acuti pulsanti, saturi di frequenze, poi glissando vellutati, quindi un piano straziante che si propone con un tasto solo. Voci corali, angeliche e flautate, creano un incantesimo che progressivamente conquista il centro dell'attenzione. Anche questo brano si costruisce lentamente: ogni tassello viene apposto con calma, anche per far apprezzare meglio tutta la struttura che compone il mosaico. Sonorità che in qualche modo richiamano la sacralità, un pezzo che segue un brano feroce sia per contrastarlo, ma anche forse per redimerci. Il carnefice e la vittima, se prima abbiamo assistito al montare della rabbia ed allo sfogo della stessa, adesso ci spostiamo in campo diametralmente opposto e siamo testimoni delle sofferenze inflitte alle vittime innocenti. Ma, in introduzione, si è già spiegato che in questo film non esistono ruoli precisi: ognuno è carnefice e vittima allo stesso tempo, i ruoli si invertono e ribaltano di continuo tanto che poi è difficile capire chi sia il "buono" e chi il "cattivo" della storia. Non è così facile, tanto che sembra che sia proprio la catena di eventi, il sottostrato culturale, ad essere il "nemico"; come ogni dramma anglosassone che si rispetti, l'onore porta a compiere azioni che normalmente non si compirebbero. Il coro angelico prosegue, cristallino, avvolto di melodie acute e morbide, raggiunto l'apice discende tra bolle di suono che scoppiano, luccicano e splendono candide. Il suono è saturo tanto che il coro si mescola alle tastiere, l'andamento è altalenante, ipnotico, il brano si conclude con delicatezza. Di questo pezzo si può dire che il ritmo e la melodia non sono particolarmente caratterizzanti: la comunicazione principale è svolta dall'atmosfera che si pone come scopo principale del brano. Ascoltando questo brano si percepisce bene come questo sia un sottofondo di un qualcosa di importante, un brano del genere sembra voler dire "Ascolta attentamente..." oppure "Guarda bene cosa succede...", con questo sottofondo un discorso drammatico è quasi d'obbligo, oppure scene in cui i protagonisti hanno un lampo di consapevolezza e si rendono conto della miseria dei loro gesti, della futilità del feudo, delle conseguenze che le loro stupide azioni stanno imponendo ai propri cari.

Stoke the Fire
Stoke the Fire (Attizza il fuoco), un brano che sembra promettere scintille dal titolo, ma inizia lentissimo e drammatico. Una melodia ostinata al pianoforte, si riverbera a lungo con un delay abbondante, in sottofondo un'atmosfera appena percettibile, sembra un violoncello, si rivela progressivamente. Il brano continua in questo modo per tutta la sua durata, con oscillazioni di volumi, specialmente nel sottofondo che ad un certo punto si rivela in tutta la sua presenza. Un brano che sa di thriller, ma non di azione: un qualcosa che si manifesta lentamente e si fa strada nella nostra mente come un tarlo, non come uno shock. Brani del genere sono ideali per rendere ancora più drammatiche determinate scene, in questo caso - anche alla luce del pezzo precedente - potremmo pensare ancora una volta alle drammatiche conseguenze di un'azione che, a loro volta, attizzano il fuoco della rabbia che sta alla base della vendetta conseguente.

Bored of Canada
Col brano successivo, Bored of Canada (Stufo del Canada), non si cambia stile, restando sul malinconico e pulsante, ma in qualche modo sembrano aprirsi delle prospettive. Atmosfera che non tarda a mostrarsi in un gioco di sinfonie, sempre una proposta in qualche modo urbana: come se, nella voglia di fuga, si cercassero le luci di una grande città che si immagina piena di vita, all'avanguardia e precisa, efficiente. Le sonorità proposte, infatti, sono futuristiche - o comunque sembrano ispirarsi a quello stile - e potrebbero stare a pennello come sottofondo di una conferenza sui viaggi spaziali. Evidentemente tutto il male subìto ed inflitto, che ha portato alle amare conseguenze cui abbiamo accennato, porta il protagonista ad una riflessione malinconica: "Chissà come sarebbe vivere altrove...". In una grande città, fuori dall'ambiente paesano in cui è svolta questa dannata faida, dove si può ricominciare da capo e dove non esistono certe mentalità e certe dinamiche che possano portare a situazioni del genere. Frequenze medio-alte, prive di bassi rilevanti, si susseguono in un modo ondulatorio, che comprende anche fischi - morbidi, non stridenti - sintetici. Il brano è meccanico, ripetitivo ma affascinante nella sua incantevole precisione. Ecco che in sottofondo tornano i cori angelici, è un'estasi, un sogno: anche soltanto pensare ad una potenziale vita fuori da tutto questo incanta il protagonista. Il sottofondo si fa ulteriormente aperto, rumori cristallini danzano attorno a quelle atmosfere in un continuo crescendo che introduce nuove combinazioni delle stesse suggestioni sonore. Anche in questo caso non si può non pensare al precedente album che, in effetti, nel concetto di sole/suono contemplava simili sonorità; un pezzo non malinconico, dunque, sereno e godibile, seppure ermetico.

Hard Standing
Hard Standing (Alta resistenza), ha un titolo mutuato dall'ingegneria civile: si dice che è hard standing un qualche luogo capace di sopportare un grosso carico, resistendo... si penso ad una pista di atterraggio, o ad un pavimento appositamente pensato per parcheggiare veicoli pesanti o depositare materiale pesante. Una cosa del genere si potrebbe dire anche di uomini dall'alta capacità di sopportazione, che ne passano di tutti i colori senza fare una piega, o magari accusando minimamente il colpo. Il brano inizia col consueto silenzio e sembra voler subito spiccare il volo, con una specie di fischio flautato, che poi rientra e lascia di nuovo spazio all'atmosfera, presto funestata da un colpo di grancassa. La percussione si ripete e riverbera su un ambiente vasto, mentre tutta una serie di pulsazioni futuristiche stanno in sottofondo, appena percettibili, veloci e guizzanti. L'atmosfera si carica quindi di potenzialità, diventa a dir poco statica, con un fischio che sembra quasi quel fischio all'orecchio che segue un rumore assordante. Ancora percussioni, meno aggressive questa volta, mentre il fischio si evolve in una serie di armonici acuti, gli archi quindi emergono e prendono una forma più chiara, diventando una sinfonia. Ancora percussioni, un timpano veloce e crescente, le sinfonie si spezzano di colpo e quindi è silenzio. Possiamo immaginare le percussioni come le avversità che si scaricano, improvvise e pesanti, sull'esistenza del protagonista - rappresentata dalle complesse sinfonie di sottofondo. In una fase iniziale le sinfonie tacciono, potremmo dire che sono in uno stato di quiete, col passare dei colpi emerge un fischio - quel lento tarlo della coscienza - che poi si moltiplica diventando una sinfonia di fischi che aumenta di volume fino a conquistare il centro della scena. Una strenua resistenza, sì, ma non eterna: prima o poi quella serie di colpi ha ragione dello scudo e progressivamente disturba la quiete.

Stalking
Questo brano, Stalking (Seguendo di soppiatto), rappresenta un classico delle colonne sonore: il momento da thriller/horror col timpano ostinato in due mezzi. Sembra di ascoltare qualcosa come la celebre colonna sonora de Lo Squalo, anche in questo caso c'è qualcuno di pericoloso che si avvicina furtivamente ed è pronto a sferrare un attacco. Le sinfonie ermetiche e futuristiche che si inseriscono, dialogando con le incessanti percussioni, danno alla parte una nuova veste molto, ma molto, simile alla celebre colonna sonora di 2001: Odissea nello Spazio (quella della scena con la scimmia che distrugge le ossa, per intenderci...). In questo brano c'è una via di mezzo tra i capolavori proposti: l'ostinazione e la suspense del movimento furtivo dello squalo, assieme alle sinfonie futuristiche che accompagnano la consapevolezza che sorge nella mente del primate. Il sound si fa più umido, fino a quando un'eco distinta di quel suono si riverbera separatamente, raddoppiando così di fatto il ritmo percepito; si genera quindi un qualcosa di meccanico, di ossessivo, malato. Qui non c'è uno spietato predatore che punta una preda cui tendere una mortale imboscata, qui c'è un soggetto spinto dall'ossessione che cerca di colpire l'odiato rivale, col favore delle tenebre. I rumori si fanno ancora più presenti, sembrano uno strofinare frenetico di pantaloni, ritmato: sentiremmo un suono del genere provando a correre velocemente, accovacciati, indossando un paio di jeans un po' larghi. Quello che prima era una grancassa, adesso sembra la corda di un contrabbasso, il timbro è cambiato anche grazie al lavoro sintetico che ha dato una coda più lunga e sporca alla percussione. Un'oscillazione che sferraglia, non è rotonda ma è acida e cattiva; nella fase finale si sente solo questo ossessivo sferragliare, che poi raddoppia grazie all'eco, per poi perdersi nel vuoto. Un brano breve, sì, ma offre una vera e propria svolta: non solo incorpora concetti che provengono dalla più celebre ed alta tradizione delle colonne sonore per film, ma riesce a farlo in modo coerente e brillante. Tutta la morbosità che accompagna gli agguati, ispirati da un odio irrefrenabile nato progressivamente nel corso di quella serie di punizioni e vendette vicendevoli.

A Waste of Your Father's Life
Adesso A Waste of Your Father's Life (Uno spreco della vita di tuo padre), che dal titolo sembrerebbe un qualcosa di davvero molto triste e drammatico. Niente di più errato: lunghi secondi di silenzio, qualche armonico di assestamento, appena percettibile, e dopo un ritmo sostenuto. Si viene a creare, in pochi secondi, un ritmo tribale/sciamanico; suoni sintetici sembrano voler mimare il timbro del sitar, le sue vibranti evoluzioni, in tutto il fascino orientale. Il tamburo incalza, mentre le atmosfere se la prendono comodo e disegnano contorni evanescenti, si cade in uno stato di trance mistica: tempo in quattro quarti, battuta scandita, ipnosi irresistibile, estasi perversa. Disturbi elettronici si mescolano a queste sonorità mistiche, spezzandone la valenza ascetica e mostrandone tutti i limiti, tutta la perversione umana che contamina la perfezione. Il brano, mantenendo la stessa sonorità, pare volerci far vivere nella mente di chi - in preda a questo irresistibile ed ipnotico richiamo - non riesce più a distogliere i suoi pensieri dal proposito ultimo: la vendetta. Una musica del genere calzerebbe bene in un contesto in cui si parla di vittime della dipendenza patologica: persone assuefatte dal loro vizio morboso che gli sta rovinando la vita. Allo stesso modo la faida, in tutta la sua spirale di perversione, ha una meccanica che si avvicina molto alla perversione del gioco d'azzardo compulsivo (o comunque ogni altra forma di dipendenza patologica); gradualmente, a piccoli passi, una briciola in più e si finisce - senza accorgersene - rapiti in un labirinto di assuefazione e dissolutezza. Un piccolo sgarro, una cosa da niente, che genera tutta una serie di risposte reciproche che alzano sempre di più la posta e - senza neanche accorgersene - se prima ci si giocava una piccola offesa, poi ci si è giocati la reputazione, poi la salute, infine la posta in palio è diventata la vita stessa. A circa tre quarti il brano sembra volersi spegnere, in effetti lo fa e seguiranno tanti secondi di silenzio, pesanti perché probabilmente vogliono simboleggiare la fine di quella vita che è andata sprecata. Quel padre, dunque, invece di cercare la felicità e curare gli affetti familiari, si è lanciato in questa faida credendo che - così facendo - avrebbe tutelato gli interessi della famiglia: alla fine non solo quello che è stato fatto non ha giovato alla famiglia, ma l'ha anche messa in serio pericolo, coinvolgendola.

Spiteful Things
Con Spiteful Things (Cose spregevoli) torniamo nei binari, se così si può dire, di quanto già trovato nel corpo principale di questo lavoro: micropolifonie, forse più lineari, accompagnate da suoni di fiati che sembrano mimare richiami di rapaci notturni. Un brano oscuro, buio in tutti i sensi, rinforzato ad un certo punto da parvenze di percussioni che danno una spinta in più all'atmosfera che, con rinnovato vigore, si fa strada spazzando via i richiami notturni. Con timbri da archi, queste polifonie creano una base carica di attesa, dall'andamento altalenante - ma lento - che caratterizza molti dei brani fin qui ascoltati. Un pezzo che non brilla, non decolla, un momento di passaggio dall'identità poco marcata. Tante le suggestioni che entrano in gioco: quei fiati che ricordano i gufi e le civette, percussioni ovattate, quel crescendo di archi che presto rientra nei ranghi di un qualcosa di incerto, desolato a tratti. La drammaticità è forse resa da questa incompletezza che il brano si porta dietro, quell'impressione che fa pensare che sì, il pezzo è ermetico ed in stile ultimi Ulver, ma non si capisce dove voglia andare a parare. Calo di creatività o intenzionale realizzazione, al fine di generare quel senso di inutilità che sta dietro alle azioni spregevoli? Un pezzo che lascia un vuoto dentro, un vuoto pieno di elementi: come la vendetta consumata da manuale, in modo impeccabile, come quella vendetta tanto agognata che, alla fine, non dà quella soddisfazione che ci si aspettava, ma lascia con questo senso di vuoto incolmabile. Questo probabilmente perché se, come il saggio sa, il fine ultimo sta nel viaggio e non tanto nella destinazione; una volta consumata la vendetta si scopre che quell'insipido premio non ha ripagato l'orrendo viaggio che si è fatto per raggiungerlo, viaggio che comunque ormai è giunto al termine. Al vindice, dunque, non resta niente perché a quel punto tutto ciò che guidava le proprie azioni è stato realizzato - con magra soddisfazione oltretutto. Tonalità più alte vengono offerte nella seconda fase del brano che si arricchisce di altri e nuovi rumori notturni, che in questa parte si avvertono nella loro natura sintetica. Il dialogo tra rumori ed atmosfera si incanta, l'alternanza si trasforma in staticità e viceversa, fino ad arrivare ad un insoddisfacente finale, che lascia l'amaro in bocca.

The Hunt
Non facciamoci ingannare dal titolo: The Hunt (La caccia) non è quella corsa adrenalinica che ci si aspetterebbe. Del resto abbiamo già visto, parlando dello squalo, di che tipo di caccia morbosa si tratti in questa trama. Il silenzio lascia spazio a sinfonie flautate, che crescono progressivamente prendendo corpo e riverbero; tonalità che si fanno sempre più cupe e tenebrose, si aggiungono nuovi fiati che dialogano colorando astrusi intrecci. Quella che si forma non è la caccia tipica, che ha come protagonisti il cacciatore e la preda: è una caccia in cui i ruoli non sono ben definiti - o meglio - si alternano e si scambiano di continuo. I protagonisti, infatti, si tengono trappole a vicenda; allo stesso modo le due linee melodiche principali si intrecciano, come se volessero avvinghiarsi, si avvicinano e si allontanano. Quella che stiamo ascoltando non è una fuga, la forma musicale per eccellenza deputata al tema della caccia, che ogni compositore classico non esiterebbe a scegliere, ma un contrappunto libero e dissonante. Sebbene la fuga sia una espressione del contrappunto (per altro la più celebre nella polifonia occidentale), segue degli schemi che potremmo dire più orecchiabili; al contrario, un contrappunto libero (dunque con degli schemi meno rigidi ma anche di meno immediata comprensione) segue schemi diversi, meno "matematici", può ricorrere ai cromatismi e, in quanto dissonante, può anche discostarsi da quella che è l'armonia. Un esempio su tutti: il maestosamente folle Pierrot Lunaire di Arnold Franz Walther Schönberg, in cui il compositore offre un saggio di dodecafonia di alti livelli ed introduce lo sprechgesang, uno stile di canto che sarà alla base dell'avanguardia musicale per tantissimi anni del 1900. Nel brano degli Ulver non si raggiunge un'estrosa intensità espressiva, tutto è più sobrio e contenuto, pacato verrebbe da dire. I lunghi attimi di silenzio che chiudono il brano lasciano ad intendere che la caccia non è ancora finita, un brano che offre molti spunti di riflessione, concepito in modo consapevolmente consono allo stile intrapreso ed al tema che si intende rappresentare. Una musicalità essenziale.

Snake in the Grass
L'album si conclude con Snake in the Grass (Serpente nell'erba), un lungo silenzio vede giungere, da lontano, un'atmosfera carica. Lentamente si affaccia all'orizzonte, si avvicina progressivamente e senza fretta in tutta la sua pienezza: una sinfonia pregna, carica di frequenze di ogni altezza, intervallata da percussioni regolari che ne scandiscono l'avanzare imperioso. Quello che si delinea non è l'avanzata strisciante e sibilante tipicamente attribuita al rettile, no: in questo caso è un'avanzata lineare, non ondulatoria, è un'avanzata imperiosa e costante. Non è una forma sinuosa che striscia nell'erba, è una marea che avanza implacabile e, lenta a vedersi, sommerge il terreno. Siamo circa a metà brano e si aggiungono, all'improvviso, dei rumori elettronici, di stampo quasi Industrial, che scandiscono dei ritmi più accesi, pressanti, le percussioni prendono vita e si esprimono in un tribale frenetico. Tensione palpabile, con archi sintetici e sporchi che prendono ritmo e si ripetono ostinatamente. La figura prosegue e si arricchisce di assillanti percussioni acute che continuano a picchiettare, il ritmo si fa sempre più complesso e ricco, più vicino: non è un serpente ma è un treno che si avvicina! Ancora tensione, suspense, ancora uno stile da thriller, ci si aspetta di veder comparire l'assassino armato di coltello da cucina e sentire lo strillo acuto di una ragazza - tipicamente seminuda ed intenta alla cura del corpo, come impone la tradizione cinematografica che, probabilmente sentendosi colpevole dello spavento provocato allo spettatore, intende quantomeno gratificarlo in qualche modo - e spruzzi di sangue. Ma nulla di così banale sta per accadere, questo è un thriller principalmente psicologico, in cui si versano lacrime amare, non sangue; il ritmo rientra e lascia la parola ed uno straziante e stridente finale che si chiude, con polifonie dissonanti, nel primo (ed ultimo) vero e proprio finale in cui si chiude con un colpo conclusivo, senza lasciare il silenzio in sospeso. Un brano intenso, senza dubbio, che assume i connotati di un modo più tipico di fare colonne sonore per film del genere.

Conclusioni
Questo album, una colonna sonora, non delude e riesce nella difficile impresa di creare un sottofondo sonoro adatto ad un film, pur mantenendo tutte quelle caratteristiche che ormai sono parte distintiva del sound del gruppo. L'approccio minimale, ermetico - che a suo modo può essere anche letto come un ritorno al passato, informato da studi e riflessioni più attente alla musica classica e meno al Jazz - rappresentato in Messe I.X-VI.X, filtrato e purificato come in ATGCLVLSSCAP, munito poi di atmosfere capaci di raccontare una storia. Andando per ordine, da un punto di vista musicale i pezzi riescono ad essere variegati, pur salvando un solida coerenza: si passa da brani a vocazione ambientale, che disegnano e tratteggiano luoghi, a brani che vogliono raccontare uno stato d'animo, un'emozione. Un ottimo lavoro sui riverberi ci permette di percepire, come fossimo pipistrelli, gli ambienti costruiti dagli Ulver; mentre una buona attenzione sulle dinamiche e sui timbri genera in noi suggestioni che ci fanno partecipare ai sentimenti rappresentati. Un lavoro minimale, atmosferico, melodico... su questo ultimo aspetto un cenno in particolare merita l'approfondimento dello stile micropolifonico: un contrappunto che, liberato dalle regole della composizione più canonica, attinge da sistemi più liberi (quale ad esempio la dodecafonia), fa uso sapiente di cromatismi o, addirittura, in molti casi incorpora in sé le dissonanze. Un lavoro indubbiamente Avant-Garde, che sa mescolare in modo vincente e mai banale suoni di ispirazione classica ed elettronica; nell'approccio strumentale, poi, risalta il culto della musica, che sembra trasudare da ognuno di questi brani. Ritmo e melodia sono centellinati, troppo preziosi per essere buttati lì a casaccio, e dosati con cura per non sprecare nemmeno una nota. Il concept del lavoro gira tutto attorno alla faida che vede coinvolti questi due uomini, i quali trascineranno nella spirale di vendette anche le rispettive famiglie. Questa faida è un tarlo che logora, che scava lentamente nella nostra sanità mentale, e che a un certo punto ci porta all'assuefazione finché non arriviamo addirittura a dipendere da questa dinamica, talmente tanto da far ruotare l'intera esistenza attorno a questi atti di odio. Gli Ulver non perdono occasione di descrivere anche i luoghi: siano le coste subartiche a nord del Canada, siano un vicolo buio di un paese. Le sonorità richiamano quelle pacate del lavoro precedente, ma ci sono anche delle novità (comprensive di un parziale ritorno al passato) che stanno in quegli estatici ritmi tribali, quelli che abbiamo notato specialmente nella fase conclusiva. Che siano forse un preludio di ciò che ci sarà dato ascoltare in futuro? O forse sono semplicemente delle soluzioni adottate in corrispondenza ad esigenze contingenti? Per adesso ci basti concludere che gli Ulver dimostrano, ancora una volta, che il loro stile non è una trappola - che impedisce altre espressioni o eventuali digressioni - ma è, al contrario, un'occasione! Il gruppo riesce, inoltre, nell'impresa - al giorno d'oggi quasi titanica - di realizzare una colonna sonora pacata, un'opera che non aggredisce il film, che non richiama l'attenzione su di sé ma che invece cerca di evidenziare, di rafforzare, di sottolineare i contenuti proposti dal film che - risparmiando spesso sulle parole - riesce a comunicare anche grazie agli spunti musicali che accompagnano le scene più significative. In questi brani i silenzi parlano, in questa faida che si svolge in luoghi rigidi, chiusi e solitari, il silenzio è un protagonista imprescindibile; il silenzio è quella componente che, permanendo, inficia il raggiungimento della pace. Il silenzio inasprisce i rancori, il silenzio è la chiusura al dialogo, è l'arroccarsi nelle proprie posizioni rifiutandosi di esprimere cosa c'è che non va. Il silenzio è preludio di tragedie: si pensi ad esempio al fatidico momento in cui la ragazza dice "Non ho niente", affermazione cui segue il silenzio: in quel momento ogni uomo giudizioso, e con un minimo di esperienza, tenterà in ogni modo di annullare tale silenzio - colmandolo di parole, siano anche futili - perché tra le tenebre di quel silenzio è in agguato un mostro vendicativo. Gli Ulver non deludono, riuscendo a fare il loro bel figurone ancora una volta: sono pochi i brani dalla forte e spiccata personalità, gli altri - per forza di cose - devono fare da contorno e riescono perfettamente nel loro intento. Il merito di quei brani è, infatti, quello di apparire incompleti se non si ascoltano durante la visione del film, questo a testimonianza di quanto sia stato abile il gruppo a concepirli. Questo album può essere gustato anche senza guardare le immagini, tanto sono evocativi certi brani, da un ascoltatore che non abbia pretese adrenaliniche e si sappia abbandonare a lente riflessioni, inframezzate da qualche eccezionale colpo più deciso.

2) Dark Alley
3) Road to Town
4) In a Wooden Coat
5) Idle Hands are the Devil's Playthings
6) Father's Feud
7) In Memoriam
8) Stoke the Fire
9) Bored of Canada
10) Hard Standing
11) Stalking
12) A Waste of Your Father's Life
13) Spiteful Things
14) The Hunt
15) Snake in the Grass


