TWISTED SISTER
Come Out and Play
1985 - Atlantic Records
SIMONE D'ANGELO SERICOLA
25/11/2020
Introduzione Recensione
Lo sappiamo tutti. Mantenere il successo raggiunto è cosa difficile, quasi quanto raggiungerlo appunto. Lo sanno gli artisti che quel successo se lo sono guadagnato con enormi sacrifici, mettendo la loro passione al primo posto, davanti ad ogni cosa, sputando sangue e veleno per ritagliarsi, fra le varie attività giornaliere e le necessità cui la vita ci mette di fronte (prima fra tutte quella di un lavoro che consenta di vivere), lo spazio ed il tempo necessari da dedicare alle prove col gruppo. Gruppo da mantenere in vita, lottando con le unghie e con i denti contro tutto e tutti, spesso anche la famiglia, anzi, soprattutto la famiglia, nelle figure dei genitori, che non vorrebbero i vedere i loro figli inseguire il sogno di una vita nel mondo della musica, fatto di un percorso pieno di incertezze, ostacoli e ogni sorta di pericolo dietro l'angolo, assolutamente più incerto di un lavoro ordinario; se poi la carriera si pensa di averla in ambito Metal, il genere musicale più ostacolato di sempre, anche quando dominava, le difficoltà e le conseguenti preoccupazioni aumentano. Ma ce la fai, la tua carriera ha inizio, decolla e, ad un certo punto, i pianeti si allineano e l'agognato successo arriva. E' a questo punto che devi avere i nervi ben saldi, ancora più di prima, per non perdere quello che hai conquistato. Non riguarda più solo te, adesso riguarda anche le persone che fanno parte della tua vita: la tua famiglia di origine, quella che hai formato tu, i compagni di band, la casa discografica che adesso punta su di te, perché ormai sei fonte di introiti. Lo sanno gli artisti dicevo, lo sappiamo noi fans, per aver letto centinaia di volte le dichiarazioni dei nostri idoli sulle pagine delle varie riviste specializzate o online. E' questa la situazione nella quale troviamo i Twisted Sister nell'anno di grazia 1985. Il coloratissimo combo è infatti reduce da un album come "Stay Hungry", quello che ha fatto il botto, quello della svolta, certificato multi platino dall'alto dei suoi tre milioni di copie vendute, con i singoli "I Wanna Rock" e "We're Not Gonna Take It" a sventolarne fieramente la bandiera, tormentoni all'epoca e classici oggi, degnamente accompagnati dall'immancabile power ballad, nel caso di specie "The Price", uno dei cliché del Suono Duro, in particolare nella decade ottantiana. Di più, quel platter dimostrava ancora una volta la validità della regola non scritta del "terzo album", quello da cui, nel bene e nel male, dipende un'intera carriera, anche nella sfumatura del paragone, nel senso che ciò che c'è stato prima e ciò che verrà dopo sarà misurato anche in base a quel successo. Ecco quindi il delicato momento in cui i nostri devono cautamente scegliere e pianificare con cura la prossima mossa: continuare a percorrere la via già battuta (certamente la scelta più rassicurante) o tornare alle origini e ripescare un sound più ruvido? Magari anche osare in virtù dello status raggiunto e cercare così di conquistare una fetta, anche se minima, di pubblico estraneo al genere? Il gruppo optò per la via intermedia, proponendo brani scintillanti e caciaroni come in passato, insieme a qualche sfuriata più metallica accompagnandoli ad alcuni esperimenti con sonorità non proprio rientranti nel loro radar e di chi li seguiva religiosamente. La decisione fu rischiosa e ambiziosa al tempo stesso, illustri ospiti vennero chiamati ad offrire il loro contributo come Alan St. John alle tastiere e Don Dokken e Gary Holland alle backing vocals (di altri ospiti parleremo un po' più nello specifico più avanti), mentre la scelta di dovesse essere chiamato a produrre il platter ricadde sul noto Hans-Dieter Dierks. Con una forte motivazione e con una squadra rodata si entrò negli studi The Hit Factory di New York e a Los angeles per iniziare la lavorazione del disco che venne pubblicato, via Atlantic, il 9 novembre del 1985.
Come Out and Play
I nostri ci danno il benvenuto e ci portano a conoscere la loro nuova creazione facendoci ascoltare immediatamente la title-track "Come Out and Play" (Vieni a giocare), con il suo inizio che riprende l'iconica scena del film "The Warriors", quella in cui, da dentro la loro auto, il capo dei Rouges, il folle Luther, chiama i Warriors esortandoli ad uscire per battersi. Tralasciamo adesso i retroscena del film (di cui ci siamo già occupati in sede di recensione del greatest hits "The Essential") per dedicarci alla canzone. Come vi ho già detto nelle succitata raccolta, è il buon Dee che rifà il verso a Luther/Kelly esortando i Twisted Sister ad uscire a giocare, prima che una serie di potenti accordi, insieme ad una batteria non da meno in quanto a forza, ma è giusto una fase transitoria perché la serie si interrompe lasciando il posto ad una nota sostenuta, che viene lasciata suonare fino a smorzarsi e subito seguita da un'altra secca e potente. Creata questa atmosfera la voce esordisce, lenta e dai toni dimessi, ma non per questo meno truce, cominciando a narrare la sua storia per quello che potrebbe sembrare un brano lento, ma che all'improvviso subisce un'accelerazione che ha l'effetto di un proiettile sparato da un fucile e la velocità, lanciata da un urlo da posseduto di Snider, memore del miglior Punk, ovviamente ripulito e reso metallo più lucente e duro, sfocia nell'anthemico quando arriva il coro intonato a pieni polmoni dai Twisted Sister. L'assolo, su base di batteria ad alto regime e basso pulsante, con lavoro ridotto alla chitarra ritmica, si adatta con naturalezza al tiro del brano, con un J. J. French bello carico che fa correre rapide le dita sul suo strumento, momento sotto i riflettori della sei corde al termine del quale la traccia continua con immutata veemenza, anzi, il singer sembra addirittura più arrabbiato e corre decisa fino all'ultimo potente refrain con relativa chiusura di forza. Un brano dalla struttura interessante, diviso in quelle tre sezioni. La paura è argomento di questa prima sezione, quel sentimento che ti fa temere il buio, di cose spaventose che si animano e crescono nella notte, dietro le porte chiuse dell'armadio, tutto ciò che succede dal momento in cui le luci si spengono. Snider e compagni ci esortano a non avere paura della notte, perché dall'oscurità emerge una luce autentica... è la luce dei Twisted Sister che ci esortano ad entrare a far parte del loro mondo, un posto perfetto in cui trovare rifugio, al cui interno possiamo essere al sicuro perché siamo protetti come un'ostrica custodisce la perla. Il divertimento lì è assicurato, quasi stabilito con un'ordinanza e ti consente di cavalcare al di sopra della tempesta, sulla mediocrità, fieramente. Tutte le nostre più selvagge fantasie diventano realtà lì, dobbiamo solo aver fiducia e seguire il gruppo, unirci a loro e cavalcare la tempesta al loro fianco. Ci spetta, perché da fans abbiamo contribuito a creare il loro mondo, lo abbiamo reso possibile col nostro supporto, col nostro amore verso la loro musica. E loro ci dànno dentro ancora di più, perché sono stati "programmati" per creare stupore, e riconoscenti ci dànno il benvenuto al loro show. Non è eccitante!? Non sentiamo dentro di noi la voglia di uscire a giocare!? Sarebbe bello aggiungere qualcosa riguardo alla scena di "The Warriors" qui ripresa dal quintetto newyorchese e di come Kelly l'abbia improvvisata, ma ne abbiamo già parlato in modo esaustivo.
Leader Of The Pack
Il primo risultato dell'approccio all'ibridazione sonora scaturita dal tentativo di abbracciare altri generi, o almeno sfiorarli, fu "Leader Of The Pack" (Il Capo Del Branco). Purtroppo lo si deve ammettere, scegliere di fare una cover di un tale motivo equivaleva ad un suicidio, o almeno ad un tentativo di suicidio; si che il gruppo era solito proporla dal vivo già da tempo, ma il live è una cosa del tutto differente da un lavoro in studio, è una festa, un appuntamento di gente scalmanata che è lì per divertirsi e, a meno che un gruppo non stia già offrendo uno spettacolo mediocre, una capatina verso sonorità inusuali il pubblico te la concede pure, ma posta su un album atteso quasi religiosamente e addirittura come singolo apripista, beh, è chiedere un po' troppo. Da subito non tutti all'interno del gruppo erano d'accordo, mi riferisco in particolare a Mendoza, ma i contrari vennero inesorabilmente messi in minoranza. Il testo fra le due versioni è leggermente differente in quanto nell'originale una fanciulla racconta alle amiche di come si è innamorata del capo di una banda di motociclisti, in quello dei nostri Snider racconta ai compagni di come una fanciulla si è innamorata di lui che è il capo di una banda di motociclisti; la musica è invece indurita quanto basta per non farla suonare come uno scialbo pop, ma non è sufficiente a farla star bene in un album Metal. L'inizio sarebbe anche bello se fosse quello di una canzone dal tono più duro e un po' più curata nel suono, una di quelle introduzioni tipiche di certo Metal funereo alla Black Sabbath o Mercyful Fate se solo insieme a batterai e basso ci fosse una campana invece di un piatto. Le prime voci che sentiamo sono quelle degli amici del protagonista che, un po' stupiti, gli fanno domande riguardo ad una ragazza che frequenta mentre lui, sulle prime, si limita a rispondere di si. Quando poi comincia a raccontare come l'ha conosciuta sceglie di farlo cantando, accompagnato da coretti in sottofondo. Poi il brano entra più nel vivo con un ritmo molto basilare ed accordi ridotti all'osso, un tema che va avanti piatto, senza guizzi di alcun tipo, con un chorus scialbo, che non ha nulla a che vedere con quelli tipici dei Twisted Sister e che hanno fatto in parte la loro fortuna. L'unico momento che spezza la monotonia è quello centrale, in cui la linea vocale viene rimpiazzata per un attimo da una sorta di narrato, ma subito si torna alla precedente melodia fino alla conclusione sfumata. Dal punto di vista del testo siamo in presenza di una canzonetta che il gruppo in questione non riesce a far apparire granché diversa dall'originale, una volta che la si conosce. Il capo del branco di cui sopra racconta ad i suoi amici come ha conosciuto la ragazza su cui loro gli fanno domande; parla del modo in cui l'ha fatta innamorare, sorridendole in un negozio di caramelle. Sin dal primo momento gli amici di lei hanno cercato di farla tornare sui suoi passi parlandole male del ragazzo, inventando bugie sul suo conto, come la sua provenienza dalla parte più malfamata della città, mettendola in guardia sulla cattiveria di lui, ma la fanciulla non li ascolta, accecata com'è dall'amore. Poi un giorno si presenta da lui, scura in volto, con una triste novità: suo padre è venuto a sapere qualcosa sul conto di lui e la ragazza gli dice quindi che tra di loro è finita. Il ragazzo non può credere a quanto le sue orecchie stanno ascoltando e stupito chiede cosa sia successo, ma in tutta risposta lei lo bacia per l'ultima volta e gli occhi cominciano a riempirsi di lacrime, poi si volta e se ne va, mentre il ragazzo assiste a tutto ciò ancora incredulo. La tristezza lo assale, rivede passare davanti ad i suoi occhi tutto ciò che loro due hanno vissuto e sa già che non la dimenticherà mai. Cosa sia passato per la testa ai nostri allora si fa fatica a capirlo ancora oggi; voglia di divertirsi forse, di osare sfidando la sorte, troppa fiducia data dal successo del precedente lavoro in studio... quel che è certo è che la label ci mise del suo in termini di pressione. Quando, oltre al bassista, anche gli altri si resero conto dell'inopportunità della mossa, i giochi erano ormai fatti, dato che il mea culpa sarebbe arrivato quasi vent'anni dopo.
You Want What We Got
"You Want What We Got" (Tu Vuoi Ciò Che Noi Possediamo) arriva a darci un po' di sollievo dopo una traccia francamente fuori luogo su un disco della Sorella Stravolta. Questo è infatti un pezzo che vira di nuovo verso sonorità più congeniali al gruppo, quelle in cui si è sempre sentito a suo agio e che hanno fatto la sua fortuna. La traccia viene introdotta direttamente del chorus scandito in modo chiaro da Snider in solitaria, senza l'apporto della musica che comunque non si fa attendere poi molto, rivelando immediatamente la sua natura "australiana"; si tratta infatti di un sound ed un mood vicini, ancora una volta, a quelli resi celebri dalla gang dei fratelli Young. Il tipo di beat, di ritmo, riprende, con approccio leggermente meno grezzo, la lezione degli Aussie, con le chitarre ritmiche che in alcuni punti si sovrappongono con un bel boosting del riff. Il brano non indulge certo verso soluzioni sofisticate essendo improntato su una struttura minimale, seppur estremamente gustosa, di quelle che ascoltate anche una sola volta ti entrano immediatamente nella testa e che poi canticchi per tutto il giorno, in primis il chorus. Il momento che precede l'assolo di chitarra rappresenta un piccolo diversivo rispetto al trend lineare della canzone, possiamo infatti a ascoltare degli stop and go degli strumenti che in quel particolare momento fanno da "antagonisti" alle vocals e, com'è abitudine dei nostri, avendo chiaro in mente lo scopo di creare una condivisione con il pubblico durante le sfuriate on stage. Il momento riservato alla chitarra solista si sostanzia in un caldo e blueseggiante solo che pesca a piene mani dal repertorio della pentatonica, ben piantato però negli '80 riguardo a suono ed atmosfera. Abbondano i bending che così tanto colore conferiscono in termini di espressione del feeling in quel particolare genere di espressione solista. Segue a ruota l'intonazione a pieni polmoni del refrain sostenuto solo dalla batteria ed in un secondo momento da anche da tutti gli altri strumenti, compreso un secondo assolo di chitarra, mentre il brano va a concludersi sfumando. Una "rielaborazione" dello stile AC/DC che in futuro sarebbe stata ripresa anche da altri gruppi come ad esempio i Cinderella. Non è certo facile essere parte si un gruppo sopra le righe come i Twisted Sister, così appariscente, a suo modo oltraggioso, che dichiara apertamente il suo rifiuto delle regole imposte dalla società, prima fra tutte quella di vivere una vita monotona, àtona, senza sorprese o imprevisti che la rendano eccitante ed interessante. Non è facile esserlo in una società bacchettona che è pronta a farti notare ogni tua deviazione dalle regole, ma ancora più difficile deve essere l'accettazione passiva di quelle regole quando in realtà vivere come questi cinque ruspanti musicisti è un tuo desiderio nascosto. La Sorella Stravolta lo sa benissimo, ti ha letto nella mente dei benpensanti forzati, ha dato un significato preciso alla loro opinione. Tutte le critiche e le cattiverie vomitate sul gruppo non sono altro che maldestri tentativi di nascondere la propria gelosia nel vedere le loro vite realizzate. Chi li critica vorrebbe in realtà la stessa cosa, per questo guarda con gelosia ed invidia a Dee e soci, per questo li denigra di continuo. Il sentimento che però cova più insidioso nell'animo dei detrattori è in realtà la paura, la paura di provare certe sensazioni, certi desideri, la paura di ammettere che anche loro vogliono le stesse cose. Questa loro paura la band gliela sbatte in faccia, perché sa benissimo qual è il loro gioco e li ridicolizza trattandoli alla stregua di pagliacci, che celano la loro vera identità dietro una maschera che qui non è intesa solo come effettivo trucco di scena, ma come scudo, protezione della propria condotta.
I Believe In Rock And Roll
Come quarto episodio ci viene servito un altro inno dedicato al Rock ed al sacro fuoco che scaturisce da esso, dal titolo "I Believe In Rock And Roll" (Io Credo Nel Rock'n'Roll), brano che parte quasi in sordina, con il volume che cresce man mano, ben studiato nei tempi e nei suoni, un riff in chitarra in distorsione con tocco più leggero, accompagnato da sporadici interventi di tastiere in semplici accordi. Dall'ingresso della batteria il volume fa un balzo in alto ed il riff diventa più nitido e acido, trasformando la canzone in un bel mid tempo. Anche se non veloce, il riff è potente e procede con decisione, con basso e chitarre che in sostanza vanno di pari passo, con le quattro corde di Mendoza che comunque lo coloriscono durante il tragitto colmandolo in alcuni punti di infiorettature che lo rendono più musicale. Pugno in alto e fiato nei polmoni per la sezione che precede il refrain al quale i cinque arrivano carichi, declamando la loro fede in per questa musica tutti insieme in coro che è quasi una dichiarazione di guerra. Dopo la canonica ripetizione di quanto appena ascoltato, si arriva al momento dell'assolo con un Ojeda sugli scudi, supportato alla grande dai suoi compagni; il ritmo che fa da base al suo solo è costituito da stop and go decisi e potenti degli altri strumenti che nella seconda parte intensificano il ritmo dando vita ad un ottimo tappeto per il chitarrista che ci dà dentro con pentatonica scintillante, proprio quello che è lecito aspettarsi da un pezzo del genere! Al termine di tutto ciò sono basso e batteria a rubare per un brevissimo momento i riflettori agli altri, soprattutto Mendoza che fa cantare il suo basso accompagnato da un A. J. Pero che riduce all'osso il suo lavoro alle pelli. Come nel brano precedente, segue un tratto perlato da Snider, ma più basso e insidioso e subito arrivano anche le chitarre col riff di base, ma che in questo punto risulta essere più velenoso di prima mentre voci più cupe ed in coro ripetono le parole del refrain recitandole come un mantra e ci guidano verso le fasi finali, in cui la batteria intensifica la potenza ed il chorus è intonato per le ultime volte fino a conclusione. La celebrazione del Rock come stile di vita, come sentimento che unisce tutti gli appassionati come una sola famiglia, un solo corpo che si riconosce come unico, distinto da ogni altra cosa. Un simbolo alla cui bandiera si giura fedeltà al punto di far dar vita ad una nuova Unione di Stati all'interno degli U.S.A., all'interno di ogni altra Nazione come un qualcosa di assolutamente esclusivo. Quel suono diventa un bisogno che aiuta ad andare avanti, perché ogni giorno lavoriamo duro, ci viene detto cosa fare e pensare, ce la sbrighiamo da soli, diventa un bisogno al punto tale da vederlo come la compagna della vita, in salute e malattia, nella ricchezza e nella povertà, nel bene e nel male, finché morte non sopraggiunga, proprio come fosse un matrimonio. C'e chi desidera che le proprie parole siano ricordate e le vorrebbe incise su un disco o scolpite nella roccia, ma chi fa parte di questa Unione sa che l'Heavy Metal sopravvivrà nel tempo, quando tutto il resto sarà polvere. Solo questa musica aiuta ad andare avanti, questa è la via del rocker, simile per certi versi e per la dedizione a quella del samurai.
The Fire Still Burns
Caratterizzata da un inizio debitore di un suono che si colloca a metà strada fra la N.W.O.B.H.M. e Queensryche della prima ora, la quinta traccia "The Fire Still Burns" (Il Fuoco Brucia Ancora), un mid-tempo dal suono più pesante dovuto forse all'accordatura ribassata di un semitono, si presenta a noi in tutto il suo splendore. Sin dalle prime battute si evince chiaramente che, nonostante la velocità non sostenuta, il gruppo non rinuncia alla potenza ed all'aggressività; il lavoro alle chitarre ed al basso ricorda vagamente le note iniziali che caratterizzano "Phantom Of The Opera" degli Iron Maiden, ma è la batteria di A. J. Pero che risulta essere più devastante di tutti costruendo, mattone per mattone, un muro del suono fatto di rullate intervallate a potenti colpi e doppia cassa che sembra una pioggia di martelli d'acciaio. Da notare comunque che pur essendo potente, il drumming risulta allo stesso tempo dinamico e frizzante. Un altro elemento interessante, che in realtà non è affatto nuovo al mondo della musica, è come la voce è strutturata sul brano e cioè in modo tale da far si che mentre una linea sta terminando la successiva si sovrapponga alla precedente, solo in una minima frazione, in modo da dare un senso di continuità, da colpire senza sosta chi ascolta. Espediente non nuovo, come dicevo, ma qui molto efficace. I refrain sono solidi e, com'è tradizione dei newyorkesi, concepiti in modo tale da affascinare l'ascoltatore e portarlo ad intonarli a pieni polmoni. Il solo di chitarra, affidato ad Eddie Ojeda, non è dei più impegnativi, nondimeno è perfettamente adatto al mood, con una sapiente scelta della melodia. Segue un classico momento del Suono Duro e cioè quello dell'esecuzione del refrain con partecipazione degli strumenti al minimo (si possono ascoltare solo delle singole e potenti note che danno l'idea di imponenti cannoniere che sparano micidiali proiettili), uno di quelli in cui, in sede live, il pubblico viene invitato a partecipare come se fosse un esercito che risponde all'incitamento del suo generale. Il brano riprende, ma con la ripetizione ad oltranza del chorus con un fraseggio finale di J. J. French che fa molto epico sulla progressione di accordi su cui si staglia. L'esortazione a combattere per vedere realizzati i propri sogni, a non arrendersi, è il messaggio che i nostri lanciano ad ognuno di noi; lo fanno prendendo ad esempio le fiamme della passione per raggiungere i propri obiettivi, il fuoco che silenziosamente continua a bruciare nel sottobosco rappresentato dalla nostra determinazione che sembra sopita, ma che sotto sotto è ancora viva. E' un fuoco che fa vivere nell'inquietudine perché si è ben consapevoli di aver lasciato in sospeso qualcosa di importante, di significativo, e quello stato di irrequietezza continuerà a rappresentare un fastidioso tormento, un pensiero fisso che martella la mente fino a quando non ci si rende conto che è il momento di riprendere in mano le redini del proprio destino. A quel punto la rabbia giovanile, quella che ci rende tutti affamati di realizzare la propria vita, esploderà di nuovo, tornerà a farsi sentire in tutta al sua forza e violenza come un fuoco che è stato sopito a lungo e che brucerà più rovente che mai.
Be Chrool To Your Scuel
In "Be Chrool To Your Scuel" (Sii Crudele Con I Tuoi Studenti), l'episodio che apre il lato b, si fanno le cose in grande con un gran numero di special guests, nomi di peso del panorama musicale, non solo circoscritto all'Hard'n'Heavy, ma che si apre all'intero mondo musicale. Sono presenti: Alice Cooper, in qualità di co-vocalist, The Big Man, al secolo Clarence Anicholas Clemons Jr., attore e sassofonista scomparso nel 2011 (prestò la sua opera nella E Street Band del Boss Bruce Springsteen fino a quella data), Brian Robert Setzer, chitarrista e cantante, nonché leader, del gruppo di Rockabilly chiamato Stray Cats e, successivamente, della The Brian Setzer Orchestra, ancora William Martin "Billy" Joel (noto in tutto il mondo come the "Piano Man"), le coriste Julia e Maxine Waters, più una sezione di fiati composta di quattro elementi dal nome di The Uptown Horns. La presenza di due dei succitati ospiti, segnatamente Setzer e Joel, è indicativa della natura della canzone, vale a dire più tendente al Rock'n'Roll delle origini. Alla partenza affidata alla sezione fiati che prepara il campo fa seguito infatti una festa anni '50 con Dee e Alice a dividersi le parti vocali su un ritmo festoso, mentre il piano di Billy Joel riporta alla mente lo stile incendiario di Jerry Lee Lewis in particolare durante il coinvolgente chorus. La sezione fiati è abile nel sottolineare alcuni passaggi con frasi posizionate nei punti giusti in modo da conferire un senso di pienezza al brano. Quando si giunge al secondo refrain ciò che avviene è la sostituzione del cantato con uno scoppiettante assolo di sax ad opera di Clemons, scelta che conferisce una nota di colore (e calore) che solo quello strumento, nelle mani giuste, può apportare, seguito a ruota da un assolo di chitarra di Setzer che ricalca gli stilemi tipici del genere di musica grazie al quale è noto in tutto il mondo. Terminata la fase dedicata alle espressioni soliste si riattacca subito con il bridge, degno di nota è qui l'apporto delle coriste, seguito dal ritornello, prima eseguito nella medesima tonalità in cui lo si è potuto ascoltare in precedenza, poi in tonalità più alta, espediente usato da molti (e spesso abusato). Una traccia che flirta con un genere inusuale per il gruppo, ma, devo dire, divertente, come divertente è il video che fu girato per promuoverla, in cui, oltre al gruppo ed agli ospiti, compaiono anche il make-up artist Tom Savini, l'attore Luke Perry, giunto alla fama mondiale nella prima metà degli anni '90 (principalmente fra le fanciulle) per aver interpretato il ruolo di Dylan McKay nella serie televisiva "Beverly Hills 90210" (e scomparso, ancora giovane, il 4 marzo del 2019), nonché l'attore Robert Francis "Bobcat" Goldthwait ossia il Zed della serie di film "Police Academy", da noi "Scuola Di Polizia".
I Believe In You
Dopo un episodio piuttosto lontano dallo stile del gruppo si torna, con "I Believe In You" - (Credo In Te), la classica immancabile power ballad, su binari più tipici del genere. Il brano parte deciso, con un ritmo lento ed in distorsione, con un fraseggio di chitarra melodico e triste, subito seguito dall'altra chitarra che gli fa eco con un fraseggio armonizzato per poi lasciare campo libero alla strofa, la quale si compone di arpeggi in clean tone e con la voce sofferente di Snider che si distingue per i sorprendenti toni dimessi con cui interpreta la canzone. Quanto ascoltato fino a questo punto ricorda vagamente i leggendari lenti degli Scorpions, per lo meno come atmosfera generale, impressione confermata dal bel ritornello così ricco di corpo e che fa salire la passione, ma per un attimo, perché si ritorna subito alla strofa. Dopo di questa, per non appesantire troppo la trama, la trovata del gruppo è quella di non far seguire un vero e proprio assolo, ma inserire fra il secondo ed un terzo ritornello un lento fraseggio a doppia chitarra, con due armonie che si sposano alla perfezione e dal suono angoscioso che raggiunge il suo climax nelle note finali che andando sempre più in alto in progressione portano tutto ad un maggior livello di tensione, anche se poi la stessa viene stemperata dal chorus che, quasi in maniera ossessiva, viene intonato fino alla fine con una chitarra che gli fa da seconda voce, con un modo di interpretare le frasi che ancora una volta rimanda ai Maestri teutonici, mi riferisco in particolare al tono straziante che il chitarrista riesce a tirare fuori dalle corde, molto simile a quanto Rudolph Schenker fa in "Still Loving You". Il richiamo al grande gruppo di Hannover non stupisce poi molto se consideriamo che dietro la consolle, in qualità di produttore, sedeva Dieters Dierks giunto alla fama in quel campo proprio per aver prestato la sua opera negli album di Schenker e soci dal 1975 al 1988, mettendo così la propria firma sui lavori del gruppo durante il periodo del grande successo commerciale. Amici, amiche, nel trattare la musica e le liriche dei Twisted Sister abbiamo visto come la lotta per riuscire vittoriosi nella vita ed affermare la propria volontà sia per loro un bisogno primario; molti dei loro inni hanno ad oggetto tale argomento, affrontato nel modo più battagliero e spavaldo possibile, visto dal punto di vista di chi ce la fa nonostante le avversità. Qualche volta, però, anche loro si rendono conto che non si può fare sempre tutto da soli, che un aiuto dall'esterno, sia esso materiale o più morale, è necessario. Per questo a volte si avverte la necessità di ascoltare una voce amica che dia sostegno, che dica che va bene, che si sta agendo nel modo opportuno, una spalla su cui appoggiare la testa e trovare conforto durante la lunga lotta. Non necessariamente amore, no, ma sostegno, qualcuno che sia lì a dare man forte per rialzarsi dopo una caduta. Sentire pronunciare da qualcuno, a maggior ragione una persona a cui si tiene, la frase: "Io credo in te!" dà una carica enorme ed aumenta la forza di volontà, è una spinta potentissima ad andare avanti.
Out On The Streets
"Out On The Streets" (A Piede Libero) è un altro midtempo che esordisce secco, senza la minima introduzione, con batteria e basso con battito vincente che fa pulsare le vene al ritmo delle sue corde d'acciaio. La voce di Snider si fa spazio fra le note, disincantata, dapprima con toni sommessi, ma esplode nella seconda sezione della strofa, quando a supporto del brano arrivano anche le chitarre, e si fa più battagliera, come se intonasse una sorta di canto di guerra. Il bridge ci porta brillantemente al refrain che si traduce nel solito anthem che raccogli e canalizza le emozioni dei fans. L'unica cosa per cui la seconda strofa si differenzia è il fatto che questa volta le chitarre partecipano da subito, rinforzando il brano con una ritmica in palm muting non andando a calcare eccessivamente sulla potenza. Diverso è il discorso per quanto riguarda il secondo bridge ed il secondo ritornello, in cui, come nei precedenti, gli accordi sono chiari e potenti. E' Ojeda ad occuparsi dell'assolo, bello e ben integrato nella linea melodica, ma forse un po' troppo breve; dal canto mio, sarebbe stato perfetto se concluso con una scala dalla velocità leggermente più marcata. Da lì in poi ciò che segue è di nuovo il bridge con conseguente ripetizione ad oltranza del chorus con un maggior numero di battute rispetto a come lo si può ascoltare nel mezzo del brano. Chi si imbarca in un'avventura come quella della Sorella Stravolta sa che potrebbe restare da solo e che potrebbe essere costretto a considerare la strada come la sua casa; è quello infatti il principale palcoscenico in cui si svolgono le vicende dei protagonisti delle loro storie. Quei personaggi con il loro vissuto e quello di tutte le persone incontrate per quelle strade. Ognuna con la propria storia, con i propri sogni, molti dei quali si sono infranti scontrandosi con la dura realtà della vita. La strada è una giungla in cui si avvicendano volti su volti, persone sole che non hanno nulla all'infuori dei propri sogni. Quel luogo ti sconfigge e ti divora, non hai tempo per pensare a ciò che è stato o che sarebbe potuto essere, non hai tempo per piangere, devi solo reagire e, lontano da casa, solo sulla strada, puoi fare affidamento solo su te stesso, è solo il tuo cuore che puoi chiamare casa.
Lookin' Out for #1
Un'attitudine più stradaiola è ciò che caratterizza la successiva "Lookin' Out for #1" (Cercando Di Essere Il Numero Uno). La chitarra ci dà il benvenuto un attimo prima che gli altri strumenti si uniscano. Come forma non ci si discosta molto dalla canzone che l'ha preceduta, anche se quella in questione potremmo definirla un po' più "musicale". Sempre la chitarra di prima si produce in un bel fraseggio dalle tinte blues che aggiunge gradevoli spezie al ritmo di base e che trascina con gusto il brano verso la strofa, lasciando il campo alla voce beffarda di Snider che, protagonista come sempre, primeggia sicuro sbattendoci in faccia l'ennesimo messaggio di lotta senza quartiere tipico del repertorio della sua ciurma. Come ho più volte osservato, i loro refrain sono concepiti in modo tale da poter interagire con i fans con lo scopo di farli sfogare durante i live shows e questo non fa eccezione; quando infatti il frontman intona il titolo del brano, gli altri membri gli fanno eco rispondendogli con un energico "Number one!". Sempre facendo il paragone con "Out On...", il guitar solo è qui decisamente più esteso e curato e continua a farsi sentire sul cantato, fino al chorus eseguito questa volta proprio come se il gruppo si trovasse sul palco, con la minima intrusione da parte degli strumenti, è infatti solo A. J. Pero che scandisce le battute con la sua batteria per poi venire raggiunto e coadiuvato dagli altri fino alla fine, quando il brano va a concludersi con un inaspettato "Yeah!" di Snider, pronunciato con un tono di chi si fa beffa di tutti. Il sogno di una vita votata al e dominata dal sacro fuoco del Rock è ammaliante, un qualcosa che ti cattura totalmente e non ti lascia più. Perseguire quel sogno comporta però delle rinunce e dei rischi, primo fra tutti quello di essere accettati dalla società; in fondo con la tua voglia di trasgressione e ribellione rappresenti la cosiddetta "glitch in the matrix", un'anomalia nel sistema che vorrebbe tutti inquadrati a seguire un percorso già tracciato per noi da altri. Quel "noi" che dovrebbe dire tutti uniti, ma in realtà ha la valenza di un'omologazione, viene sostituito da un "io" pronunciato in maniera chiara, decisa, il messaggio che lancia è cristallino: in barba ai dettami della società, si farà di tutto per vivere la propria vita secondo le proprie regole ed i propri desideri. La domanda cruciale è se vogliamo seguire questo animo libero che rema controcorrente, se anche noi vogliamo svegliarci la mattina e sentire sulla pelle il brivido e la soddisfazione di avercela fatta; in quel caso dobbiamo prendere u posizione al più presto, perché in quel caso dovremo impegnarci a fondo, aspirare ad essere i numeri uno, puntare al massimo per ottenere almeno il minimo, anche quella sarà una vittoria, una delle prime.
Kill Or Be Killed
A chiudere il platter è "Kill Or Be Killed" (Uccidi O Sarai Ucciso), il brano più breve del lotto e, insieme alla seconda parte della title-track, quello più veloce e metallico, che si identifica come tale sin dalle primissime battute, introdotto da un assalto di tutti gli strumenti che vanno a creare un solido muro del suono, che dà risalto al brevissimo e tagliente assolo di chitarra che segue subito. Solo un poderoso ariete potrebbe provare a sfondare quel muro e quell'ariete è la voce del singer, solo che carica contro di noi, felici comunque di "subire" il la sua carica. Il frontman infatti prende subito in mano le redini e guida i suoi all'assalto. Essendo la canzone così breve e veloce è anche la più diretta e brucia le tappe arrivando in un attimo al potente ed epico refrain, quel "Kill Or Be Killed" appunto che viene scandito con parole chiare e precise, che suona come un monito, ma anche come un incitamento, l'ennesimo messaggio che sprona a non cedere e lottare fino alla fine. Sembra di vederlo il buon Snider, sulla cima di quel muro con in mano la bandiera del Metal che sventola fiera, mentre lui lancia un assalto impetuoso come l'assolo di chitarra, note che si abbattono su di noi come fossero asce affilatissime. Passata la pioggia di note l'impeto non si placa ed incazzati come non mai i Twisted Sister corrono veloci verso il capolinea intonando di nuovo il potente chorus di un brano di acciaio fumante che chiude col botto il platter. Il testo della canzone in questione non ha un'ambientazione specifica, è una variante rispetto ai temi classici del gruppo non trattando di resistenza alla società, di scontro con i benpensanti. Fa pensare più che altro ad un tentativo di racconto epico, anche se diverso da come il mondo Hard'n'Heavy è abituato ad ascoltare fin dai primi giorni di nascita del genere. L'impressione che se ne potrebbe ricavare è quella di una battaglia in corso, uno scontro durissimo e sanguinoso tra assalitori ed assaliti, con colpi durissimi e micidiali sferrati da ambo i lati. Il triste destino del soldato, chiamato a mettere a rischio la sua vita per un bene superiore, come la salvezza del suo re. Che quello sia il destino del soldato è chiarito dal fatto che la guerra è sempre in corso, ce n'è sempre una che viene combattuta da qualche parte ogni giorno; o una guerra lunga, iniziata anni prima che le giovani leve venissero al mondo ed ora, appena adulti, sono subito catapultati nel mezzo della mischia, esortati a non indietreggiare, non cedere terreno, difendere strenuamente la posizione, che potrebbe essere una porzione del campo di battaglia o una roccaforte. Potrebbe essere l'una o l'altra, non fa differenza, perché quello che viene loro chiesto, sopra ogni cosa, è dare tutto, perché è una questione di vita o di morte, di uccidere o essere uccisi.
Conclusioni
Termina così l'analisi del contenuto musicale e lirico di "Come Out And Play" e possiamo passare quindi a quella del lascito, del risultato finale dopo anni dalla sua uscita sul mercato. Cosa dire in proposito? Le tracce in esso contenute furono una indubbia dimostrazione dell'abilità del combo newyorchese nello scrivere canzoni irresistibili, che ancora oggi si fanno ascoltare con piacere. In quelli più legati al classico repertorio della band (sia del periodo più duro che di quello più edulcorato) abbondano delle gemme godibilissime, in grado di soddisfare i fans più affettivamente legati ai due periodi di cui sopra. Ci sono infatti quelle caratterizzate da una gioiosa e trascinante cantabilità e delle autentiche bordate metalliche fumanti acciaio, come la title-track e "Kill Or Be Killed". Nelle prime è evidente la voglia di divertirsi e divertire, ingrediente fondamentale nella carriera di un gruppo, specialmente se uno di quelli come loro; nelle seconde emerge invece il furore compositivo, soprattutto del vocalist che aveva ben chiaro in mente il suo ruolo di leader indiscusso nell'economia dell'organico e quello della sua ciurma nel marasma di acts che ogni giorno sembravano spuntare come funghi in campo Metal. Aveva anche ben chiaro il carico di pressione esercitato dalla label che si aspettava altri centri come "Stay Hungry". Le sue parole, riferite all'intenso periodo di scrittura del tempo, lo spiegano in maniera chiarissima: "Usavo i tempi morti in studio per comporre nuovi brani. Quando stavamo finendo di registrare 'Under The Blade' io componevo già i pezzi che sarebbero finiti su 'You Can't Stop Rock'n'Roll', e quando registravamo quest'ultimo già stavo lavorando su 'Stay Hungry'. Passavo il tempo liberò così: non andavo alle feste, scrivevo e basta. Il coro di 'We're Not Gonna Take It' risale addirittura al 1980, solo che non riuscivo a completare il resto della canzone!". Le note dolenti sono rappresentate dai due episodi "sperimentali", vale a dire "Leader Of The Pack" e "Be Chrool To Your School", sinceramente inusuali per loro e, come se non bastasse, scelti all'epoca come primo e secondo singolo. Una scelta che possiamo tranquillamente definire scellerata, una pessima mossa, che deluse molto i fans i quali cominciano a guardare confusi al gruppo. Quello fu anche il momento in cui qualcosa all'interno della band comincia a scricchiolare e le prime crepe a manifestarsi. L'album non andò malissimo, raggiunse le 500.000 copie solo negli Stati Uniti, ma era decisamente troppo poco rispetto ai 3.000.000 del precedente tanto che ne risentì anche il tour promozionale; diverse date furono cancellate e, una volta tornati a casa, le crepe cominciarono ad allargarsi. Il batterista A. J. Pero infatti abbandonò (secondo quanto dichiarato da French, per la voglia di suonare qualcosa di più impegnativo dal punto di vista tecnico) e quella fu la prima defezione. Col senno di poi, ma è una mia opinione, il gruppo avrebbe forse dovuto aspettare prima di azzardare il flirt con generi incompatibili, magari consolidando prima il successo dell'anno precedente e poi forse, raggiunta una certa libertà di manovra, provare l'esperimento. Ormai però la storia è scritta, non sapremo mai come sarebbe potuta andare se avessero fatto quel tipo di scelta, quello che ci rimane è un discreto platter che si difende ancora bene nonostante quei due passi falsi e, soprattutto, nono il tempo trascorso.
2) Leader Of The Pack
3) You Want What We Got
4) I Believe In Rock And Roll
5) The Fire Still Burns
6) Be Chrool To Your Scuel
7) I Believe In You
8) Out On The Streets
9) Lookin' Out for #1
10) Kill Or Be Killed