THRESHOLD
Wounded Land
1993 - Giant Electric Pea

VALERIO TORCHIO
07/11/2017











Introduzione Recensione
Quello dei britannici Threshold potrebbe essere un caso di scuola: sulle scene da quasi trent'anni, una cospicua serie di album apprezzati da un pubblico fedele e dalla critica più attenta, protagonisti costanti delle stagioni concertistiche, sia con tour itineranti sia nelle scalette di festival fra i più quotati, europei e non solo. Eppure, non hanno mai abbandonato lo status, amato ed odiato allo stesso tempo, della cult band, del nome per intenditori del metal progressivo; di scuola inglese, of course. Difficile, peraltro, trovare una causa vera e propria per questa loro condizione: l'esordio discografico in un periodo, siamo nel 1993, storicamente "difficile" per le sonorità che propongono? Sarebbe, dopo tutto, un'attenuante non da poco. Da prendere quanto meno in serissima considerazione, alla luce di tanti fattori che caratterizzarono gli anni '90. Il famoso decennio, come ben sappiamo, fu il più ricco e complesso dal punto di vista dei cambiamenti e perché no, degli stravolgimenti che arrivarono a ridefinire prepotentemente i concetti di Rock e Metal, apportando ai due macrogeneri tante modifiche ed integrazioni, le quali virarono prepotentemente le attenzioni del pubblico verso un qualcosa di assai diverso, dalla rara merce proposta invece nei dorati eighties. Il 1990 ed anni seguenti, gli anni del Grunge di bands quali Nirvana ed Alice In Chains, giusto per citare due nomi altisonanti. Gruppi antitetici all'attitudine mostrata invece dei Threshold, gruppi dediti ad un sound prepotente e diretto, per molti versi malinconico ed introspettivo, chiassoso ma ricco di sofferenza, figlio dei lati più sfacciati e ruvidi del Punk e del Rock. Per non parlare poi dell'incredibile successo riscosso dai Pantera di Dimebag Darrell, figli rinnegati degli 80s ed in seguito divenuti simbolo del Metal anni '90, a suon di pubblicazioni leggendarie come il rivoluzionario "Vulgar Display of Power" (uscito un anno prima dell'esordio dei Nostri). Andando avanti, impossibile non citare i Crowbar di Kirk Windstein e la loro miscela di Doom Sabbathiano unita a quel pizzico di follia tipica dei Melvins; ed ancora, i Type O Negative di un Peter Steele oscuro quanto affascinante, ammaliante quanto dedito ad un sound cupo, lento, riflessivo e per molti versi catartico. Ben capirete, amici lettori, quanto sarebbe stato difficile - per un gruppo di amanti del Progressive - imporsi in un panorama così vasto, tendente a tutt'altro tipo di attitudini e sonorità. La vicenda più temporale e concorrenziale, tuttavia, non può e non deve essere l'unico motivo per il quale gli interrogativi circa il tortuoso proseguo dei Threshold sorgano inesorabili. Che sia stata veramente, solo una questione di "tempismo"? Oppure una line-up spesso sottoposta a diversi cambiamenti, in particolare nel ruolo, inevitabilmente cruciale e rappresentativo, del cantante? Una proposta musicale troppo complessa per i rockers e i metallari "duri e puri" ma, allo stesso tempo, non abbastanza soft per gli appassionati della tradizione prog rock di Yes o Genesis? E dire che il loro esordio ufficiale, dopo i consueti anni di gavetta, possiede tutte le caratteristiche ideali per farne un classico istantaneo: pezzi complessi ma mai dispersivi, un sapiente equilibrio compositivo che smorza i riff più granitici con arrangiamenti ariosi e mai eccessivamente barocchi, un concept di sapore ecologista, ben chiaro nell'artwork e nel titolo, "Wounded Land", ispirato da un racconto (quasi) omonimo dello scrittore statunitense Stephen Donaldson. Il gruppo, che aveva da poco rafforzato la line-up iniziale, costituita dalle due chitarre di Karl Groom e Nick Midson, dal basso di Jon Jeary e da Tony Grinham dietro le pelli, con un tastierista di ruolo, Richard West, poteva anche vantare l'eccellente voce di Damian Wilson, cantante che affiancava alle performances da rocker una consolidata carriera teatrale. Una line-up definita la quale aveva deciso di lasciarsi alle spalle le cover eseguite "in gioventù" (le quali proponevano dei veri e propri voli pindarici, all'interno delle scalette: dai Ratt ai Testament!) per dedicarsi maggiormente a pezzi propri, scritti fra un rifacimento e l'altro. Le premesse per un lavoro di grande qualità, insomma, c'erano tutte: se i Threshold, dunque, non hanno raggiunto numeri paragonabili a dischi analoghi, ma di provenienza U.S.A. ed infarciti di estenuanti intermezzi strumentali e pezzi di bravura da saggio di fine anno, forse a doversi processare è il pubblico, e non l'artista.

Consume to live
Un'evocativa sovrapposizione di effetti di synth e di chitarra apre la strada ad un roccioso riff cadenzato, quasi sabbathiano, suonato all'unisono dal basso e dalle due asce, su cui si staglia un breve solo di tastiera di sapore orientaleggiante; al suo esaurirsi, su un secco giro di basso, accompagnato dalla sola cassa, scivoliamo direttamente nella strofa, e subito la voce di Wilson, squillante ma corposa, declama con enfasi i pericoli che la Terra ed i suoi scriteriati abitanti stanno vivendo: "Vivere nella serra / crescere raccolti di cui non possiamo nutrirci / Fare soldi per mezzo della povertà / Trasformare le foreste in carne / Abbiamo le nostre dita sul grilletto di un'arma suicida / La popolazione sta diventando più numerosa sotto un sole morente". Il testo, scritto dal bassista Jon Jeary, è diretto, senza mezzi termini, e prospetta il disastro ormai incombente sull'umanità. Ancora più espliciti i due chorus, resi dinamici da un efficace controcanto tra linea vocale e cori: "Ogni giorno l'ozono si sta assottigliando / Sotto ogni aspetto la vita sta peggiorando / I polmoni di ognuno stanno sviluppando il cancro / Ognuno ha qualcosa in più da perdere". Sull'acuto di Wilson, in chiusura del secondo ritornello, la band innesta un magistrale cambio di passo, trascinandoci in una sezione mid tempo ricca di groove, scandita da robuste chitarre sincopate e da una linea vocale accattivante, che si sublima in un crescendo proprio in corrispondenza delle parole che danno il titolo al brano, Consume to live ("Consuma per vivere"). Da qui in poi la scena è tutta per gli strumenti: sul medesimo giro di basso che aveva aperto il pezzo, si ritaglia spazio, con un caratteristico assolo melodico, la chitarra di Karl Groom; il finale, poi, con suo alternarsi di riff, pause e riprese, omaggia palesemente i maestri del progressive più duro, i canadesi Rush, fino alla chiusura definitiva. Un viaggio sonoro di oltre otto minuti, ma durante il quale è impossibile perdersi in meandri improbabili o avvertire cali di tensione. Un lasso di tempo assai ampio, nel quale (come dicevamo pocanzi) la fine dell'umanità viene vaticinata a suon di messaggi di gusto vagamente apocalittico. Non parliamo, però, di asteroidi o quant'altro: la situazione dinnanzi alla quale veniamo posti in maniera nuda e cruda riguarda una sequela preoccupante di mali veri e concreti. Malattie sviluppatesi a seguito del nostro inquinare l'aria senza ritegno alcuno, campi ormai sterili, aridi e resi fertili unicamente da additivi chimici i quali andranno via via a sostituirsi al normale operato di madre natura. Insomma, una mossa decisamente suicida, quella che l'umanità sta compiendo - giorno dopo giorno - nei riguardi di se stessa, noncurante delle conseguenze verso le quali si sta avvicinando, ogni ora sempre di più.

Days of dearth
Atmosfere più epiche contraddistinguono Days of dearth ("I giorni della carestia"), seconda traccia di questo album. La carestia a cui allude il titolo non è, però, semplicemente di tipo materiale: qui si parla, semmai, della mancanza di una dimensione spirituale, tipica dell'umanità contemporanea, soffocata dal materialismo, dall'avidità e privatasi in modo quasi irreparabile del rapporto vitale con la natura che la circonda. Le liriche di Jon Jeary, com'è suo solito, lasciano ben poco spazio ad interpretazioni alternative: "L'uomo moderno ha voltato le spalle alle antiche filosofie / Ha perso l'universo spirituale e guadagnato realismo / Venera denaro, scienziati e la tetra normalità / A cosa servono logica, potere e ricchezza senza più nessuna società?". Si riaffacciano, poi, nella seconda strofa, le tematiche ecologistiche già viste nella precedente Consume to live: "Quando le foreste diventano deserto e i mari sono riempiti da melma / I fiumi trascinano via il suolo, noi continuiamo ad ignorare i segnali / Dobbiamo affidarci agli istinti che abbiamo lasciato sepolti nella nostra testa / I ricchi mangeranno i loro soldi quando avranno lasciato il mondo morto stecchito?". Le somiglianze con il pezzo d'apertura, però, si esauriscono con l'aspetto lirico: in questo caso si tratta, infatti, di un mid-tempo piuttosto granitico e tutto sommato tradizionale nella struttura, che si suddivide fra strofe poggiate su un riffone serrato e di sapore oscuro, quasi doom, ed intermezzi strumentali più aperti, scanditi da un evocativo canto di chitarra; anche l'apporto delle tastiere, in questo caso, si limita ad assecondare l'umore cupo dei riff portanti, contribuendo sì ad ampliare lo spettro sonoro, ma senza stemperarlo, anzi, caricando di ulteriore ieraticità il contesto sonoro. Meno convenzionale, invece, la linea vocale, che vede Damian Wilson evitare picchi vocali, che pure padroneggia, per calarsi in un'interpretazione lineare e aderente all'andamento più darkeggiante del brano. Solo la conclusione del pezzo ci porta a distendere la tensione compositiva, grazie ad una progressione chitarristica in crescendo, punteggiata dal suono di organo di Richard West, le cui tastiere si avventurano ad evocare un feeling da rito sacro, grondante epicità; su questo sfondo si staglia il ritornello, in cui le sovrapposizioni vocali altro non fanno che accrescere lo spirito sacraleggiante ed inquieto di tutto il brano. Nella sua durata, decisamente più breve rispetto all'epica opening track, Days of dearth dimostra comunque l'indipendenza compositiva della band: quanti ascoltatori considererebbero, infatti, poco meno di un sacrilegio, per un gruppo di estrazione progressive metal, la completa assenza di sezione solistiche, tanto delle chitarre quanto delle tastiere? Un brano più snello ed essenziale, che fa di un'atmosfera quasi sacrale il suo punto di forza, in sintonia con il messaggio ancora una volta drammatico delle liriche: aver perso contatto con la natura e con il pensiero degli antichi, che vivevano nel rispetto dei ritmi naturali del nostro pianeta e degli elementi che lo compongono, ci ha impoveriti interiormente e resi schiavi di nuove e più mostruose divinità, quali la smania di possesso, di potere o di essere accettati per "normali". E se l'interrogativo posto ironicamente in chiusura della seconda strofa può sembrare persino un po' ingenuo, una rapida occhiata alle cronache di ogni giorno, ieri come oggi, basterà a dargli un senso ben più concreto.

Sanity's end
A far da contraltare ad un pezzo più compatto e stringato, la tracklist ci offre la portata più abbondante: la suite Sanity's end ("Fine della sanità mentale"), che con i suoi dieci minuti e ventuno secondi si guadagna la palma di brano più esteso ed articolato dell'intero album. Un compendio delle diverse anime della band, che riesce a trovare un equilibrio compositivo notevole senza, tuttavia, sacrificare nessuno degli elementi caratterizzanti del proprio suono. D'altronde, solo un gruppo cosciente delle proprie capacità e dotato di un'identità solida piazzerebbe, circa a metà del disco di debutto, un affresco musicale così complesso senza rischiare di apparire presuntuosa o naif. L'accurato dosaggio dei vari ingredienti musicali del loro ricettario permette invece ai Threshold di superare l'ostacolo e di comporre un pezzo variegato, di ampio respiro ma allo stesso tempo del tutto godibile, libero dalle "secche" di certo progressive di maniera. Fin dall'apertura, è chiaro che la vera protagonista della suite è la melodia: un giro di synth dal suono ispirato smaccatamente agli Yes (o ai più recenti Marillion, se si vuole) e caracollante su un tempo shuffle ci proietta senza troppi preamboli nel bel mezzo dei tormenti di una mente sull'orlo del delirio, argomento delle liriche ancora una volta composte dal bassista Jon Jeary: "È solo un'altra vittima del maledetto coltello del sistema / Uno che elude i problemi, uno che fugge dalla vita / Un Soma temporaneo, non ancora prescritto / lo ha privato del suo ego ad ogni boccata che assorbiva". Più che mai complessità chiama complessità: in un pezzo che ha richiesto uno sforzo compositivo notevole, anche i testi si infittiscono di echi letterari, come quello del Soma, la sostanza stupefacente che, diffusa nell'aria, sedava le esistenze dei cittadini nel romanzo Brave new world di Aldous Huxley. Alla prima, tumultuosa strofa ne segue una seconda, il cui tempo più disteso e arrangiamento arioso sembra proprio imitare il senso di pacificazione percepito da una mente placata da qualche sostanza chimica; è solo una pausa momentanea, tuttavia, che prelude al ritorno della tensione espressa nella prima strofa. Colto da visioni allucinate, il protagonista delle liriche finisce per abbandonarsi ad esse, come rimarca un nuovo cambio di atmosfera musicale: un arpeggio di chitarra rarefatto, di sapore pinkfloydiano, sostenuto da una sezione ritmica pulita e lineare, che sfocia in un maestoso ritornello melodico, che non sarebbe stonato neppure in un contesto AOR, ma dal testo inequivocabilmente drammatico: "Scappo - demoni - scappo - che controllano il mio cervello / Vado fuori di testa - sto guarendo - vado fuori di testa - sto impazzendo / Sono aggressivo - sensazioni - sono aggressivo - non riesco a spiegare / Comunico - ho le vertigini - comunico - pronunciando il mio nome". Successivamente il riffing si fa più presente e massiccio, nel momento in cui si riaffacciano, alla mente del protagonista, gli incubi già vissuti; un breve canto di chitarra introduce un secondo ritornello, a cui fa seguito, però, una sezione solistica, durante la quale chitarra e tastiere hanno possibilità di sbizzarrirsi liberamente, fino ad una conclusiva fuga armonizzata. A questo punto il viaggio nel delirio del protagonista volge al termine; la strofa conclusiva, infine, che riprende, a mo' di chiusura circolare, il tema melodico dell'esordio, si rivolge direttamente a quanti abusano di sostanze psicotrope: "Per il bene della tua salute, della tua famiglia e dei tuoi amici / lascia i viaggi nel subconscio ai guru e agli uomini / che sono preparati ad un viaggio senza inizio né fine / perché una mente che si è guastata è una cosa difficile da riparare". Ad essere oggetto dell'attenzione del gruppo, dunque, nel corso di questa suite, non è più il rapporto tra l'essere umano e l'ambiente che lo circonda, ma fra l'essere umano e l'ambiente racchiuso dentro di lui: lo spazio della mente, esplorato non attraverso la progressiva conoscenza di sé ma per mezzo di additivi chimici potenzialmente pericolosi. Come nel succitato romanzo di Huxley, l'abuso di droghe si svela per quello che è in realtà: ben lontano dall'infrangere le regole della società e dal configurare il "ribelle" all'ordine costituito, diviene lo strumento perfetto per il controllo, concretizzando la celebre profezia dello scrittore britannico, secondo il quale il mondo contemporaneo è diretto verso un totalitarismo dolce in cui, rifacendosi alle sue parole, "la gente narcotizzata gode della propria schiavitù". Sposando questa visione sconsolata e distopica ad un suggestivo arrangiamento melodico, i Threshold danno vita ad un brano che difficilmente lascia indifferenti.

Paradox
Nel rispetto dello schema precedente, al brano epico segue uno più breve e strutturalmente tradizionale, che si potrebbe senza fatica definire il singolo di questo album, benché non si tratti certo del classico pezzo infesta-orecchie, prevedibile e confezionato dalle mani di qualche sapiente produttore al solo scopo di scalare qualche volatile classifica di vendite o di ascolti. Paradox ("Paradosso"), una canzone la cui gestazione risale ancora al periodo di gavetta della band, ha invece i pregi del singolo, cioè melodia ed immediatezza, senza metterne in mostra le scontatezze ed il feeling plastificato da prodotto seriale che, vale la pena ricordarlo, pochi anni prima avevano scavato la fossa ad un movimento musicale di enorme successo di pubblico e mercato, come l'hard rock statunitense. Non gli fa difetto, infine, un tema lirico accattivante: a quale situazione, più che al rapporto squilibrato fra l'uomo contemporaneo e la natura, può intonarsi un pezzo con questo titolo? Non a caso, dunque, fin dal loro esordio discografico, Paradox è la chiusura ideale di ogni concerto dei Threshold, per la capacità che la band vi infonde nel combinare con equilibrio linee melodiche accattivanti e gusto per l'architettura sonora (il minutaggio di questo cosiddetto singolo ammonta, in ogni caso, a più di sette minuti!). Il piglio spedito del brano, che è lanciato da una raffica di sedicesimi sulla tastiera di Richard West, è sostenuto da un giro di chitarra e basso che più classico non si potrebbe e da linee vocali che spingono subito sulle tonalità più acute; dopo una prima strofa, pur senza rallentare il passo, l'atmosfera si fa più rarefatta, grazie al basso pulsante in sottofondo e ad una chitarra pulita ad accompagnare i saliscendi di Wilson, che dalle prime frasi, più soffuse, della strofa passa senza fatica a spremere le sue corde vocali su un ponte scontato fin che si vuole, ma cantabilissimo, che risolve con naturalezza nel ritornello, il cui testo esemplifica perfettamente il paradosso del titolo: "Ha un potere colossale, ma è indifeso come un agnello / È una massa di contraddizioni, il paradosso dell'uomo". Ancora una seconda strofa, seguita, come da copione, da ponte e ritornello, prima della doverosa variante: sul dissolversi della voce di Wilson, le tastiere si stendono a far da tappeto sonoro per un breve passaggio solistico di basso, cui segue un intervento delle due chitarre armonizzate in un malinconico canto. Sono poi di nuovo basso e tasti d'avorio a condurci in una sezione in cui l'incalzare della batteria sembra trascinare l'intera band, mentre Wilson intona l'ennesima serie di contraddizione dell'umanità: "Il suolo diventa polvere, può mai durare il suo potere? / Le catene di ciò che ha ottenuto rivelano i segreti del suo passato / Amara è la sua avidità, ma l'uomo non pagherà mai / Oh, guidami, guidami attraverso le colpe della sua smania". Il ritorno del riff tastieristico iniziale ci guida all'ultima strofa e al finale in dissolvenza, sul quale si rincorrono la voce di Wilson e la chitarra di Groom, abile a fare da contrappunto al cantante con un solo che intreccia plettrate veloci e passaggi dominati dal ricorso allo wah-wah. Nel suo essere certamente fra le canzoni più accessibili dell'intero disco, Paradox non rinuncia, comunque, a sottolineare con decisione l'atteggiamento incomprensibile degli esseri umani, che appaiono lanciati in una corsa all'autodistruzione ormai priva di freni. E, in fondo, è comprensibile che un messaggio tanto semplice e fondamentale trovi corrispondenza in un pezzo dalla struttura più scorrevole e classicamente rock: non si dice, forse, che nell'arte la forma deve essere adeguata alla materia che si affronta?

Surface to air
Ad inaugurare quello che, ai tempi del buon vecchio vinile, si sarebbe definito "lato B", si presenta il secondo "peso massimo" del disco, un nuovo tour de force di oltre dieci minuti che non si aggiudica la palma di brano più esteso soltanto per una manciata di secondi. Surface to air ("Fra terra e cielo"), questo il suo titolo, non molto diversamente dalla precedente suite, è un brano cangiante ed articolato, incentrato però, dal punto di vista lirico, sulle contraddizioni del rapporto fra l'essere umano e tutto ciò che si può definire soprannaturale o, se vogliamo, divino. È il suono del piano elettrico di Richard West a muovere le danze, in un'introduzione dal gusto malinconico, sottolineato anche dall'interpretazione vocale di Wilson, che si fa qui più morbida e ricca di vibrato: caratteristiche, queste, che non possono che far sentire a casa ogni amante del rock progressivo. Anche le chitarre, tuttavia, reclamano il proprio spazio, attaccando la prima vera e propria strofa spartendosi i ruoli: l'una debitamente distorta, l'altra a tessere un arpeggio dalle tinte cupe e ricco di chorus, quasi a voler gettare nel medesimo calderone musicale anche la lezione del prog metal di scuola statunitense. In linea con queste trame sonore, il testo è particolarmente pessimistico e sembra voler spazzar via ogni possibile dubbio sull'autentica natura di culti e divinità assortiti: "La saggezza dei mistici è il vero travestimento del diavolo / Le sue dita giocano con il mazzo dei tarocchi, tengono ipnotizzati i deboli / Cosa avrebbero nascosto delle menti perverse dietro al culto della morte vivente? / L'uomo e la natura profanati in modo simile, un cigno bianco con la testa da falco". Al di là delle similitudini, forse un po' rozze, l'intento di rivelare l'incompatibilità fra l'essere umano ed il mondo dell'ultraterreno è chiaro, com'è confermato anche dalla seconda strofa: "Le sabbie del tempo che scompaiono non ci stanno lasciando alcuna traccia / Quale divinità descriverebbe meglio la potente razza umana? / La nostra vanità ha vestito il nostro dio con le sembianze dell'uomo? / Quando egoismo ed avidità e desiderio sono tutto ciò che capiamo". Ad intervallare le due strofe e la loro tessitura musicale di sapore oscuro, due ritornelli caratterizzati da una melodia trascinante e radiosa, opportunamente sostenuta dalle tastiere, e dove anche Wilson può liberare la potenza vocale tenuta precedentemente a freno. La sezione centrale del brano, proprio a ruota del secondo ritornello, è invece occupata da una parentesi d'atmosfera, pressoché interamente strumentale, giocata su un rallentamento della ritmica e su accordi di chitarra e tastiere rarefatti, ideali appoggi per un momento solista, sia di West che di Groom: sintetizzatori, bending sofferti, note lunghe in chiave minore, insomma tutto il tipico repertorio dell'espressività pinkfloydiana, che diventerà tappa quasi obbligata di ogni disco targato Threshold. Un breve canto armonizzato di chitarra ci porta, infine, verso la chiusura del pezzo, in cui un nuovo arpeggio, questa volta più solare, fa da ossatura ad un finale caratterizzato da linee vocali sovrapposte a formare una sorta di sezione corale: "Non posso filosofare con voi finché non vedete le cose che io vedo / Non pensate al di là del limite di questo piccolo mondo in cui siete / Guardatemi ballare sulle nubi, ascoltatemi pensare ad alta voce / Veri credenti, maniaci di Gesù, col paradiso nelle vostre mani / Voi che vi affidate a voi stessi, che santificate, aiutatemi a capire / La cruna dell'ago, liberate le persone nel deserto / Eredita, o mite, loro non lo condivideranno, i padroni della sabbia". C'è giusto il tempo, dopo quest'ultima tirata polemica infarcita di citazioni bibliche, per un rapido sfogo della chitarra solista, prima della chiusura finale, accompagnati dal ripetersi dei cori. Un altro pezzo impegnativo all'ascolto, ma, d'altra parte, suggestivo per la commistione ben dosata di elementi che, pur tutti legati ad un retaggio palesemente progressive, non scadono nel già sentito o nell'omaggio troppo evidente (che, com'è noto, è l'anticamera del plagio, nella musica come in ogni altra arte). Dal punto di vista lirico, la volontà di stigmatizzare le incongruenze di quanti si affidino ciecamente al credo religioso è evidente, come pure una certa autonomia del testo rispetto al concept ambientalista che permea il disco; un'incongruenza tutto sommato trascurabile, e che in ogni caso non rende il brano meno godibile.

Mother Earth
A seguire nella scaletta è un brano risalente alla seconda demo del gruppo, targata 1990, a cui dava persino il titolo: Mother Earth ("Madre Terra"). Si tratta, in questo caso, di un roccioso mid-tempo, indubbiamente meno complesso rispetto alla precedente suite, la cui colonna portante è un riffone chitarristico che, come già successo per altri momenti del disco, non sarebbe affatto spiaciuto ai Black Sabbath più metallizzati di metà anni Ottanta. Alle chitarre, che danno il la alla traccia, si accompagnano presto la sezione ritmica e le tastiere, sempre attente a puntellare l'insieme sonoro e ad espanderlo, aggiungendo, grazie al suono dell'organo, un afflato epico soffuso, lontano da ogni tronfiaggine ma ben percepibile. Le liriche, da parte loro, non sono da meno nel disegnare scenari di ampiezza sconfinata, in cui il ritorno delle già note preoccupazioni ecologistiche si lega, in una suggestione in qualche modo romantica, alla contemplazione dello spettacolo che il pianeta ci offre: "Tra il rotolio delle montagne e la vastità del cielo / Giace un potere di cui noi tutti sogniamo, nessuno di noi sa perché / Lei si infuria all'improvviso ogni volta che si risveglia / Non ci condurre alla distruzione con la confusione che ora creiamo". Sull'atmosfera cupa delle strofe brilla, in pieno (e voluto) contrasto, il timbro pulito di Wilson, che ruba davvero la scena al resto della band al momento della poderosa apertura melodica del ritornello, nel quale la sua estensione vocale raggiunge vette davvero ragguardevoli. "Oh Madre Terra non sancire il nostro destino / Sono ancora in piedi nella luce del giorno" recita, quasi fosse una preghiera, il chorus, nella speranza di ritrovare un dialogo ancestrale e spirituale con la potenza generatrice del pianeta. Un inatteso break melodico, in cui è un arpeggio pulito a dare respiro al pezzo, ci disillude ben presto: "Ma nei templi, dove giocano i bambini / Hanno spezzato l'atomo, trasformando la notte in giorno". Al ritorno delle chitarre più serrate si accompagna un breve solo contraddistinto dall'uso dello wah-wah, ed eccoci di nuovo trascinati in alto dagli acuti di Wilson sugli ultimi due ritornelli, che, intrecciati ancora a brevi passaggi di chitarra, di fatto conducono il brano al termine. Nell'ormai consueta alternanza di pezzi più lunghi e strutturati e di altri più diretti ed essenziali, Mother Earth spicca senza dubbio per la sua più schietta radice metallica, nonché per un ritornello che, complici le doti vocali di un cantante di qualità superiore come Wilson, sembra voler innalzare al vasto cielo citato all'inizio del testo non soltanto una supplica quasi disperata, ma quasi anche l'ascoltatore insieme ad essa, in un tentativo di riconnettersi, come esseri umani, alla Natura madre spesso da noi bistrattata senza ritegno, vittima della nostra trascuratezza, della nostra cupidigia e del nostro incessante bisogno di potere.

Siege of Baghdad
Siege of Baghdad ("L'assedio di Baghdad"), un altro pezzo di durata considerevole, pur senza raggiungere il minutaggio delle due suites già trattate, apre il trittico di canzoni che concluderà Wounded land. Potrebbe sembrare una nuova licenza, liricamente parlando, rispetto ai temi ecologistici fin qui incontrati in modo quasi esclusivo: come il titolo potrebbe far intuire, specie se si tiene presente la data di pubblicazione dell'album, il testo allude in maniera piuttosto scoperta alla Prima Guerra del Golfo, allora conclusasi da pochi anni e sulla quale, senza dubbio, i membri del gruppo dovevano essere ben informati, visto il ruolo non certo secondario giocato in quello scenario dalla loro madrepatria britannica; ma non mancano riferimenti, comunque appropriati, alla ragione fondamentale che provocò il conflitto, ossia le immense risorse petrolifere degli Stati di quella regione, avidamente bramate dai diversi attori della scena mondiale. Per cantare a dovere un argomento tanto scomodo in modo credibile, bisogna dunque pizzicare le corde adatte: meglio ancora se quelle di una coppia di chitarre distorte a dovere. Siege of Baghdad, infatti, si presenta come uno dei pezzi più schiettamente heavy del disco, in cui il riffing oscuro ed imperioso delle asce fa da bussola costante, lasciando alle linee di basso (per una volta più protagoniste) ed alle tastiere il compito di definire i contorni dell'affresco sonoro. In uno sforzo di adesione al contesto geografico forse un po' ingenuo, ma fortunatamente lontano da eccessi di teatralità, le linee melodiche del brano evocano suggestioni arabeggianti, attraverso il ricorso costante a scale diminuite, soprattutto nei frequenti passaggi di basso e chitarra, che movimentano il carattere monolitico del riff portante. Questa atmosfera pervade comunque il brano fin dall'esordio, affidato a laconici colpi di timpano e charleston della batteria su un tappeto tastieristico soffuso: è proprio un canto di chitarra a proporci per primo una melodia di sapore orientaleggiante, prima di lanciare il poderoso riff della strofa. Anche Damian Wilson adegua la sua timbrica al brano, non solo sposandola all'andamento melodico, ma incattivendola dove possibile, a marcare maggiormente il contrasto con i passaggi più puliti ed acuti. Non meno fosche, infine, le visioni evocate dalle liriche: "Mentre ardono in fiamme le sabbie alte su nel cielo / Cupe nubi nere oscurano il cielo, un tramonto di disperazione / E Babilonia è devastata dalle armi del Signore / Che purificano le loro anime nelle guerre sante e cantano in onore della spada". Non è difficile riconoscere Baghdad, capitale dell'Iraq, dietro la citata Babilonia; le parole del ritornello, tuttavia, che rappresenta stavolta un'apertura armonica più contenuta, ma suggestiva, dissipano ogni dubbio: "La potente croce di Gerusalemme / La luna crescente di Troia / Saraceni e aristocratici / Uno sport che tutti quanti amano". Ed ecco le conseguenze delle folli azioni umane, così come le delinea la seconda strofa: "Mentre si agitano neri, i mari inondati, la morte dell'ambiente / I pozzi di petrolio sono incendiati, oscurano una luna buia / Le valli dell'Eufrate invase dalle armate dell'Occidente / Mandate da Dio a reclamare il loro premio, un forziere di oro nero". In coda al secondo ritornello, un'oasi sonora ci rinfranca, grazie ad un breve solo di chitarra acustica, opera dell'ospite Ian Salmon (che diverrà più noto al pubblico, verso la fine degli anni Novanta, nel ruolo di bassista per i prog rockers britannici Arena); ad essa subentrano nuovamente le asce distorte, per imbastire un altro riff cadenzato, pronto ad accompagnarci, con le sue modulazioni, fino al ritorno del giro di chitarra iniziale, su cui Karl Groom ha ancora modo di trovare spazio per un solo veloce, prima che il brano si avvii a dissolvenza. Su questa coda risuona, iterato più volte, il sarcastico invito del testo: "Unisciti alla nuova crociata". La smania di conquista dell'uomo, tanto nel tardo Medioevo, quanto negli anni Novanta del ventesimo secolo, alla ricerca del pretesto giusto: "Non concluderemo mai ciò che abbiamo iniziato, e non spezzeremo il dominio dei tiranni / Proprio come tutti quei crociati dei tempi antichi, siamo gli unici stupidi". Il vero obiettivo, dunque, è solamente il profitto, ottenuto anche per mezzo delle conquiste militari. Ed il lento, pesante e quasi strascicato incedere del pezzo sembra davvero imitare il passo dei soldati e dei mezzi bellici che avanzano in qualche sperduto e sabbioso deserto, alla ricerca del bottino di turno.

Keep it with mine
Sulla dissolvenza della traccia precedente si innesta, senza soluzione di continuità, l'ultimo pezzo dell'edizione originale dell'album, Keep it with mine ("Conservalo assieme al mio"), una breve chiosa riservata alla chitarra acustica (suonata, in questo caso, dal bassista Jon Jeary), alla voce di Wilson e all'accompagnamento delle tastiere, aggiunto, in realtà, da Richard West sul pezzo già composto, poco dopo il suo ingresso nella band. Si tratta chiaramente di un brano di natura delicata, quasi bucolica, il cui scopo è, senza alcun dubbio, quello di concludere con una nota di speranza un full-lenght caratterizzato sia da liriche, sia da atmosfere non certo votate ad ascolti spensierati. Un arpeggio di chitarra in chiave maggiore ci conduce dunque in un'oasi di pace sonora, debitamente sottolineata da un testo pieno di positività e di raccomandazioni a non abbandonarsi all'apatia grigia ed insensibile della società contemporanea: "Come puoi preoccuparti? Abbiamo così tanto tempo / Il mondo può continuare a girare, ma il sole splenderà sempre / Se te ne vai in giro con entrambi gli occhi aperti / Non far capire loro che il tuo cuore è spezzato / Conservalo soltanto assieme al mio". Tutta la speranza, dunque, si affida alla reciproca fiducia fra gli esseri umani, che sola può contrastare la pessima piega presa dagli eventi storici recenti: "Il tempo sta correndo veloce / Ma noi stiamo imparando, finalmente / Lascia splendere sempre il tuo cuore e conservalo assieme al mio / Conservalo assieme al mio". Volendo banalizzare, si potrebbe dire che abbiamo il classico arcobaleno al termine del temporale; non bisogna però dimenticare come l'impiego di passaggi acustici, spesso caratterizzati da coloriture intimistiche, introspettive ma non necessariamente cupe, rientri pienamente nella tradizione progressive, sia da questo lato dell'Atlantico, sia oltreoceano (basti pensare ai numerosi singoli di successo di gruppi come Emerson, Lake and Palmer o Genesis, o ad un brano iconico per la scena quale Closer to the heart dei Rush). Se anche i Threshold hanno deciso di percorrere questa strada, quindi, non è solo per gettare uno squarcio di luce fra le asprezze presenti nella seconda metà di questo disco, ma anche per tributare, più o meno apertamente, una serie di gruppi dai quali, a vario titolo, si sono sentiti influenzati sotto il profilo compositivo.

Bonus Track: Intervention
Se Keep it with mine chiudeva, come si è detto, l'edizione originale del disco, entrambe le ristampe successive includono, come bonus track, un pezzo composto e pubblicato precedentemente, e che rappresenta l'esordio discografico ufficiale del gruppo: Intervention ("Intervento"), questo il titolo del brano, uscì infatti nel medesimo anno di Wounded land, precedendolo solo di qualche mese (luglio, rispetto a settembre), sul secondo volume di una compilation stilata dalla rivista olandese S.I. Magazine, dedicata proprio ad uscite di ambito progressive rock e metal provenienti da diverse regioni dell'Europa ed intitolata, con notevole originalità, S. I. Compilation disc too. Chiusa la premessa, è opportuno rimarcare che non si tratta del classico riciclo, utile a rimpolpare edizioni speciali che, in realtà, di speciale hanno talvolta ben poco; Intervention avrebbe potuto figurare senza problemi sulla versione originale del disco, condividendone linee compositive e suggestioni a livello lirico. Come era accaduto con Siege of Baghdad, infatti, il testo si concentra su un recente avvenimento bellico, in questo caso la guerra nell'ex Jugoslavia, probabilmente l'occasione in cui davvero l'Europa sorta dal secondo dopoguerra ha potuto gettare lo sguardo nel proprio cuore di tenebra. Siamo, però, davanti ad un pezzo meno heavy, giocato piuttosto su un'alternanza più usuale fra sezioni meno irruente ed altre in cui le chitarre dettano legge. L'apertura, anzi, è affidata ad un arpeggio malinconico, mentre l'ingresso del riff principale è fragoroso al punto giusto; ad acuire questa sensazione, il ruolo di semplice riempitivo lasciato alle tastiere, su cui Richard West non aveva potuto lavorare ulteriormente (e delle quali si occupò, in via del tutto provvisoria, il chitarrista Karl Groom). Il crescendo fra strofa e ritornello, pur senza sorprendere, è congegnato a dovere: una prima metà della strofa si regge sul solo arpeggio pulito; nella seconda, la chitarra distorta accompagna il medesimo arpeggio, che lascia il posto al solo riff portante nel ritornello, reso ancora più imperioso dai vocalizzi acuti di Wilson, volutamente opposti ai toni più dimessi delle strofe. Una sezione centrale rallentata, su cui le linee vocali continuano a volare alto, lascia poi spazio ad un lento finale in dissolvenza, nel quale riesce a far capolino anche qualche passaggio solista della chitarra di Groom. Aspetto insolito, in un brano dalla struttura tutto sommato lineare, sono invece le liriche, raccontate, stavolta, in prima persona, dal punto di vista del narratore: "Stavo guidando attraverso le Fens in un pacifico scenario Inglese / Pagato da mio nonno, il vero sogno dell'aviatore / Stavo dando la vita per scontata, anche se ero nato per morire / È passato parecchio tempo da quando una bomba è caduta dall'ampio cielo di Norfolk"; alla descrizione del contesto iniziale, subentra, nella seconda strofa, l'ammissione della propria piccolezza di fronte al conflitto che si scatena in una terra lontana: "Ero lontano da Sarajevo, mi sembrava irrilevante / se fossero le truppe dell'ONU o i diplomatici a dover intervenire / Siamo impotenti nel nostro potere, ci azzardiamo a combattere ancora? / Dobbiamo sempre uccidere per la libertà? Che cosa produrrà l'intervento?". Ancora più dolorose le parole finali, destinate a una piccola vittima di quella guerra: "Non avevano medicinali per confortarla, per attenuare il dolore / Mentre rimuovevano l'eredità insanguinata, una crudele pioggia di schegge di proiettile / Che aveva distrutto le vita di quelli a cui voleva bene, / Che avrebbe scosso la tua fede nel Dio che è lassù". Ora la verità si è fatta palese agli occhi del narratore: "Lei è parte di una nuova Notte dei Cristalli, un giorno di pulizia etnica". E così non rimane che l'amara riflessione finale, "Siamo ignoranti, siamo faziosi" che, ripetuta come un mantra, accompagna l'ascoltatore alla conclusione. La sconsolata durezza delle liriche ben si adatta ad un brano comunque piuttosto duro per gli standard del gruppo inglese, che ha saputo quindi scegliere con oculatezza quale carta giocarsi in occasione della partecipazione alla compilation ricordata all'inizio; presentare, infatti, una canzone che si sarebbe potuta degnamente inserire sull'esordio effettivo non poteva che rivelarsi un valido biglietto da visita, e il susseguente recupero di Intervention nelle riedizioni di Wounded land, senza che risulti estranea nell'insieme dell'album, ne comprovano la qualità.

Conclusioni
Abbiamo dunque viaggiato lungo i meandri di un album più che valido, decisamente oltre la sufficienza. In sede di conclusione, mi sento quindi di promuovere "Wounded Land" non a pienissimi voti, assegnandogli tuttavia un giudizio più che dignitoso, visto anche lo status di "conosciuti di nicchia" del quale i Threshold hanno sempre goduto durante tutto l'arco della loro carriera. Situazione che, d'altro canto, ho avuto modo di descrivere in sede di introduzione, analizzando tutti i pro ed i contro di un esordio Prog. Metal datato 1993. Arriviamo però al succo del discorso: quel che abbiamo appena ascoltato non è certo il capolavoro dei nostri progster inglesi, anzi. Ritengo, parlando a posteriori (e come avrò modo di dimostrarvi negli articoli successivi), che il talento di questo sestetto all british sia stato espresso in altre situazioni, in maniera decisamente più chiara e lampante. E' forse, però, eccessivamente pretestuoso mettere a paragone un album d'esordio con i suoi successivi, facendo pesare questi ultimi più del dovuto, in fase di giudizio. Quel che mi preme fare è proprio spogliare "Wounded Land" di ogni vicissitudine ad esso postuma, cercando solamente di analizzare il contenuto lirico e musicale, mettendo sulla bilancia del materiale quanto più oggettivo possibile. Cerchiamo di immaginare questo platter come unico e "solo", calandolo sempre nel suo contesto novantiano. Un prodotto di certo agli antipodi, rispetto alle correnti più in voga in quell'epoca di rivoluzioni e cambi repentini di prospettiva. Un disco che ama essere pesante ma anche raffinato, cercando di mescolare lungo otto brani le tipiche finezze prog. con il gusto più massiccio e diretto del Metal. Un disco che, forse, risentiva addirittura dell'enorme successo ottenuto da un suo quasi contemporaneo "a stelle e strisce": quell' "Images and Words" che di fatto catapultò i Dream Theatre nell'olimpo del Prog. Metal, tanto da spingere la critica a tenere accesi i riflettori "solo" sulla scuola americana, dimenticando per l'appunto situazioni come quella dei nostri Threshold, invece da scoprire e rivalutare. Proprio perché - pur suonando ancora, lievemente incerto - "Wounded Land" conteneva in sé tutti i germogli di quel che sarebbe stata la proposta del combo inglese. Una proposta interessante, particolarissima, la quale avrebbe avuto modo di fiorire già negli album immediatamente successivi, veri specchi di quel che sarebbe stato il definitivo sound del sestetto. Insomma, un disco per molti versi costretto un po' troppo all'angolo ma in grado di dire comunque la sua, in un panorama sicuramente affollato e disinteressato, ma anche abbastanza ampio per farsi udire; qualora si decida, molto coraggiosamente, di far la voce grossa. Un urlo che i Threshold hanno voluto lanciare ad un mondo che, dominato dalle uscite targate Dream Theatre o Fates Warning (per non parlare dei successivi Symphony X e Shadow Gallery), avrebbe potuto accoglierli con gioia. Anzi, avrebbe dovuto. Proprio perché "Wounded Land" è un buon manifesto programmatico, un buon insieme di idee tutte da sfruttare meglio, senza dubbio... ma già personali, limpide, indipendenti. Per nulla troppo derivative o comunque da relegare nel calderone dell'imitazione, o del già sentito. Un disco godibilissimo e senza dubbio qualitativamente più che sufficiente, in grado di far nascere in noi quella naturale curiosità, tipica del chi vorrebbe sentire meglio, capire di più. Inutile sottolineare il fatto che, se "Wounded..." fosse stato un esordio contemporaneo, avrei di certo concluso il mio discorso incitando il gruppo, invitandolo a realizzare al più presto un seguito di quanto già sentito. Fortunatamente, parliamo di un album del 1993. Il meglio doveva ancora arrivare e ben presto vi sarà svelato, amici lettori. Nel frattempo, re-inseriamo nel lettore l'oggetto di questa monografia, e torniamo alla scoperta di un gruppo tal volta osannato e tal volta dimenticato... una band che avrebbe meritato di certo di più, ma che non ha ancora raccolto quanto avrebbe decisamente meritato.

2) Days of dearth
3) Sanity's end
4) Paradox
5) Surface to air
6) Mother Earth
7) Siege of Baghdad
8) Keep it with mine
9) Bonus Track: Intervention


