THRESHOLD

Psychedelicatessen

1994 - Giant Electric Pea

A CURA DI
VALERIO TORCHIO
19/07/2018
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Introduzione Recensione

Wounded land, l'esordio su lunga distanza, aveva portato soddisfazioni impreviste ai britannici Threshold. Un successo ampiamente imprevisto, tanto per la band, quanto per la Giant Electric Pea, filiale inglese della Inside Out ed etichetta che aveva licenziato l'album: se le previsioni si attestavano sullo smercio di forse un migliaio di copie, e mentre i musicisti pensavano solo di avere una storia in più da raccontare ai nipoti, la quota di oltre quindicimila superata a poco più di un mese dalla data di uscita sul mercato, catalizzata da una serie di recensioni entusiastiche, specie sulla terraferma europea, cambia drasticamente le carte in tavola. C'è materiale su cui lavorare, per gli addetti ai lavori, e in breve il sestetto si ritrova imbarcato nel proprio primo tour, ventidue date fra Germania, Belgio e Paesi Bassi, oltre alla nativa Inghilterra, in compagnia dei norvegesi Conception, che promuovono il loro, ottimo, secondo disco, Parallel minds. Il vento, inoltre, di una nascente, presunta scena "progressive metal" (forse più sognata da qualche giornalista musicale di quanto si potesse cogliere in concreto), che soffia prepotente da oltreoceano, sembra dunque gonfiare le vele anche di consimili realtà nel Vecchio Continente. Le buone notizie, tuttavia, si arrestano qui. Al momento di partire per la serie di concerti prevista, il gruppo inizia a registrare impreviste defezioni: il primo, e senza dubbio più serio, addio è del cantante Damian Wilson, al quale giunge una proposta di contratto da parte di un supergruppo AOR con base a Lussemburgo, dal nome LaSalle, nella cui line up brillano elementi come l'ex basso di Whitesnake e Black Sabbath Neil Murray, David "Dee" Palmer, arrangiatrice e tastierista nei Jethro Tull, ed il braccio destro di Mark Knopfler, sia nei Dire Straits sia nei suoi lavori solistici, Guy Fletcher. Offerta decisamente ricca, a colpo d'occhio, a cui il singer inglese non si sente di rinunciare, vista la relativa incertezza del prosieguo con gli autori di Wounded land (benché il debutto omonimo dei LaSalle sia riuscito, in realtà, a raggiungere il traguardo della registrazione sì, ma non della pubblicazione), costretti, così, a rimediare un sostituto in grado di competere con i carati vocali del predecessore. Ricerca che, nonostante l'handicap di partenza, si conclude positivamente con l'ingresso nel gruppo del giovane Glynn Morgan, la cui estensione vocale tallona da vicino quella di Wilson ma che può, d'altro canto, vantare una timbrica più aggressiva e ruvida, pronta a rivelarsi controparte ideale del lavorio chitarristico essenziale nelle trame compositive di casa Threshold. Compiuti gli impegni concertistici, tocca poi al batterista Tony Grinham gettare la spugna, poco allettato, a causa dei propri impegni famigliari, dalle lunghe assenze che una tournée può comportare. Per tappare la nuova falla, Karl Groom, ascia e compositore della band, ricorre allora ai servigi di una conoscenza personale, Nick Harradence, che assieme al chitarrista dei progsters del Surrey condivide il progetto parallelo Shadowland, con il quale Groom coltiva, inoltre, la sua collaterale attività di tecnico del suono e produttore. Il nuovo, ancorché già noto, acquisto si rivela ottimo ingranaggio di scorta per il motore ritmico dei britannici, nonostante un'apparenza assai poco ortodossa, almeno secondo i dettami stilistici della moda metallara (memorabile la foto di gruppo nel libretto del disco, che ritrae Harradence, in un tripudio di cuoio borchiato e chiome fluenti, con un capello azzimato da studente liceale modello ed un giubbotto in jeans pallido che sarebbe sembrato démodé persino addosso a qualche comparsa dell'ineffabile telefilm La casa nella prateria). A questo punto, rinsaldato l'organico (compreso l'inserimento in pianta stabile di Richard West alle tastiere), l'opzione numero uno è il rientro in sala di registrazione, negli stessi Thin Ice Studios presso cui aveva preso forma il disco precedente (dei quali Karl Groom è gestore assieme a Clive Nolan, noto ai più come compositore principale degli alfieri del neo-progressive Pendragon): il debutto su lunga distanza non aveva esaurito il repertorio già a disposizione del gruppo e l'integrazione di forze fresche dà spinta al processo compositivo, specie nel caso di Morgan, che, per quanto scelto per le sue doti vocali, è anche un capace chitarrista, in grado di poter dire la propria al momento di stendere i nuovi pezzi. Così, piuttosto celermente, tra la conclusione del tour, attorno alla metà del 1994, e l'autunno successivo i britannici possono presentare una manciata di canzoni di nuovo conio, che mostrano un volto, nel complesso, più roccioso e solido della band, una svolta del tutto coerente anche alla timbrica più roca e corposa che il da poco acquisito cantante ha aggiunto alle risorse musicali del gruppo. Il secondo album della loro discografia, intitolato, sulla scorta di un'intuizione del bassista e principale paroliere Jon Jeary, Psychedelicatessen ("Psicogastronomia"), rappresenta a tutti gli effetti un passo avanti rispetto al più ingenuo debutto. Potate alcune ridondanze che in qualche punto appesantivano alcune composizioni del precedente capitolo, i brani si presentano più snelli ed efficaci, senza che, in virtù di questo approccio più asciutto, si perda in varietà, come da ricettario di ogni buona gastronomia che si rispetti. E le portate offerte al pubblico da Groom e compagni esibiscono ingredienti saporiti e qualitativamente garantiti: riff di chitarra variegati, linee vocali memorabili ma anche robuste al punto giusto, composizione ricche di cambi di tempo e di durata considerevole, sempre, però, attente alla fruibilità dell'ascolto per mezzo di un'attenzione ben evidente per melodie gustose e mai scontate, senza trascurare l'approccio lirico profondo e provocatorio che funge da ulteriore spezia, stimolo per i nostri palati intellettivi. Permettiamo, dunque, alle prelibatezze messe in esposizione dai progsters albionici di tentarci, e che sia l'assaggio diretto a comprovare le virtù della loro cucina musicale.

Sunseeker

Un'alba improvvisa di effetti tastieristici fa da introduzione al brano d'apertura dell'intero disco, Sunseeker (Osservatore del Sole), primo esempio, a detta della band, di stesura collaborativa fra il preesistente nucleo compositivo (i chitarristi Karl Groom e Nick Midson più Jon Jeary, deputato alle linee vocali ed ai testi) ed il tastierista Richard West. È, tuttavia, un roccioso e piuttosto cupo riff di chitarra su tempo dispari a rubare subito la scena, ottimamente puntellato dalla sezione ritmica e da suoni che rievocano la sacralità dell'organo. Prima di entrare nel cuore vero e proprio del brano, un nuovo cambio di giro chitarristico, questa volta su un quattro quarti scandito dai colpi della gran cassa, che in comune con il riff precedente ha il tocco oscuro ed evocativo che caratterizzerà quasi tutto il brano. Una veloce sferzata solistica della sei corde di Karl Groom lascia infine spazio alla voce di Glynn Morgan, impegnata, su un ennesimo riff sulfureo e quasi sabbathiano, ad interpretare il piglio polemico e sarcastico con cui le parole di Jon Jeary prendono di mira tutti quanti si illudano di poter trovare la propria libertà nell'adesione cieca a culti misteriosi, bizzarri esoterismi o sindacabili letture di segni celesti: "I've spread my wings, I've cut the strings / My puppet days have died / I've prayed until i have free will / I've shut out all the lies / I can't make sense of fate's portents / On patterns I've relied / I've given in, my demon twin / Lies dying by my side" ("Ho spalancato le mie ali, ho tagliato i lacci / I miei giorni da marionetta sono morti / Ho pregato finché non ho avuto il libero arbitrio / Ho chiuso fuori tutte le bugie / Non riesco a trovare un senso ai prodigi del fato / Sulle strade a cui mi sono affidato / Mi sono piegato, il mio demone gemello / Giace morente al mio fianco"). Con gusto per il paradosso, il testo ci presenta la ferma convinzione del convertito che, nel suo fanatismo, crede fermamente di aver ottenuto la propria autonomia gettandosi mani e piedi fra le braccia della fede; in cosa, per la verità, non importa. Ancora un cambio di riff a caratterizzare il ponte fra strofa e ritornello, dove Morgan cominciare a dare spazio al suo registro più alto, e nel quale l'antifrasi raggiunge la propria climax, tratteggiando una ipotetica libertà che, nei fatti, è la più totale coercizione di pensiero, parola ed azione: "The future is a mystery now / The stars have turned to grey / My freedom rests on knowing how / To think and do and say" ("Il futuro ora è un mistero / Le stelle sono diventate grigie / La mia libertà risiede nel sapere / Come pensare ed agire e parlare"). A sorreggere il ritornello è il medesimo riff in quattro quarti che aveva fatto da vero e proprio attacco al brano, e sulle cui note è invece Morgan ad attaccare predicatori, aruspici del nuovo millennio e santoni improvvisati di ogni specie: "Sun-sign believers, enlightenment achievers / Oh you strange deceivers, you are not my kind / Sun-sign believers, speaking tongue receivers / Tarot cards faith healers / The blind leading the blind" ("Credenti nei segni del Sole, conseguitori di illuminazione / Voi, bizzarri liberatori, non siete il mio genere / Credenti nei segni del Sole, ricevitori con lingue parlanti / Guaritori con fede nei tarocchi / Il cieco che guida il cieco"). Alla seconda serie di strofa, ponte e ritornello fa seguito una vistosa apertura melodica virata su tonalità maggiori e strutturata su lunghi accordi di chitarra, amplificati da evocativi inserti delle tastiere di Richard West; una cornice ideale perché la voce di Morgan possa stendersi ampiamente, arricchendosi poi grazie ad armonizzazioni stratificate che ne esaltano la timbrica corposa. Anche il tono lirico si fa conforme all'arrangiamento meno spigoloso, nonostante il piglio vagamente predicatorio: "We must invent again ourselves / Become the sum total of our perceptions / Do not react as you did yesterday / Don't you become a slave to your memories" ("Dobbiamo ripensare noi stessi / Diventare la somma totale delle nostre percezioni / Non reagire come hai fatto ieri / Non diventare uno schiavo dei tuoi ricordi"). Una scala ascendente, doppiata dalle due asce, fa da gancio per una breve sezione solistica delle stesse, che conclude la sua corsa in un ultimo ritornello. Che non pone ancora, però, il sigillo al brano: una lunga sezione strumentale paga il doveroso tributo alla scuola progressive, ma senza dimenticare il lato metallico della musica dei Threshold. Gli strumentisti, all'unisono, affrontano prima un articolato saliscendi ritmico su un tempo dispari; lo riconducono, poi, ad una struttura più quadrata, punteggiata dalle tastiere, a cui è concessa una rapida incursione in primo piano; altra scala ascendente, infine, ed un breve richiamo al riff iniziale ci congeda definitivamente. Traccia variegata ma bilanciata con perizia, questa posta in apertura di Psychedelicatessen, che rende bene l'atmosfera generale, tesa alla ricerca del contrasto fra luci ed ombre musicali, fra chitarre rocciose ed arrangiamenti più ariosi, ancora più che nel debutto, e capace di asservire le capacità dei singoli alla resa generale, pur senza rinunciare del tutto alle divagazioni che, della musica progressive, sono considerate (a torto o a ragione) un elemento caratterizzante. Attenzione, prima di chiudere, alle poche note di organo che svaniscono sul finale: nulla di superfluo, bensì, senza svelare troppo e rovinare così l'ascolto, anticipazione di altri contenuti del disco. La curiosità freme, certo, ma bisogna attendere ancora qualche brano, prima di quietarla.

A Tension of Souls

Lunghi accordi di chitarra e tempi dilatati inaugurano il secondo capitolo dell'album, A Tension of Souls (Una tensione di anime). È un chiaro indizio del carattere maggiormente riflessivo ed evocativo che lo attraversa, come conferma anche un testo incentrato sui pensieri di un io narrante che contempla la propria amara condizione di miseria e di abbandono. "I have lost the unobtainable / I am faithless and afraid / My emotions are unstable / Control is hanging by a thread / And the misery of the world / Is weighing heavy on my shoulders / My belief has not unfurled / And I'm not getting any older / No I'm not getting any older / And the world is turning colder" ("Ho perso ciò che non si poteva ottenere / Sono privo di fede e impaurito / Le mie emozioni sono instabili / Il controllo è appeso ad un filo / E la miseria del mondo / Grava pesante sulle mie spalle / l mio credo non si è svelato / E non sto invecchiando per nulla / No, non sto invecchiando per nulla / E il mondo sta diventando freddo"), canta Morgan con deliberata lentezza, quasi a far pesare ulteriormente parole già di per sé colme di consapevole drammaticità; e proprio sulle frasi a chiusura questa prima strofa si staglia una lamentosa melodia discendente di chitarra armonizzata, legame ideale per una nuova sezione in cui le sei corde si fanno ben più presenti, grazie ad un riff a tinte cupe e di sapore classico, adeguatamente rimarcato dalla timbrica asprigna del cantato, che dipinge scenari tempestosi e quasi apocalittici: "There's a gathering storm eating up the night / There's a tension of souls can you feel it bite? ("C'è una tempesta montante che sta divorando la notte / C'è una tensione di anime, puoi sentirla mordere?"), prima di lasciare spazio ad un passaggio più marcatamente progressivo. L'obiettivo è quello di comunicare il senso di sospensione, di irresolutezza attraversato dall'io narrante nella sua ricerca di risposte, e quindi ecco un riff monotonale di chitarra e basso sorretto da una ritmica insistita della batteria, ricalcata a sua volta dalla linea vocale, che rievoca i diritti da lei bramati: "The right to give, the right to fail, the right to fall, the right to live, the right to have feelings" ("Il diritto di donare, il diritto di fallire, il diritto di cadere, il diritto di vivere, il diritto di avere sentimenti"), e in chiusura di strofa, quello di trovare "the right answer", "la giusta risposta" alle proprie domande esistenziali. La parentesi autoanalitica si conclude con la presa di coscienza dello scacco in cui si trova la coscienza del protagonista: considerazione amara, giustamente accompagnata da un nuovo giro di chitarra plumbeo, quasi minaccioso, e rimarcata dagli exploit vocali di Morgan, che descrivono una situazione sempre più disperata ed irrecuperabile: "I am nailed to the cross of my own pernicious anguish / And I'm bribed by irresistible, strangled by the air / Blind and still equivocal, dispossessed by heir" ("Sono inchiodato alla croce della mia perniciosa angoscia / E sono corrotto da una forza irresistibile, strangolato dall'aria / Cieco e ancora ambiguo, cancellato dallo stato di erede"). Il passo del brano si fa più veloce, e prepara una sontuosa modulazione sul ritornello, le cui linee melodiche in tonalità maggiore dipingono una doppia opposizione con il precedente segmento del brano, sia sotto l'aspetto prettamente musicale, sia dal punto di vista lirico, intento a descrivere un soggetto che continua ad essere irresoluto e bloccato, ma sembra rivelare i primi segni di una riscossa della propria volontà: "Well I have no faith, I have no unbelief / There is no neutral ground there is no relief / I didn't get what i expected to receive / Don't let them tell you what they want you to believe" ("Beh, io non ho fede, non ho mancanza di fede / Non c'è terreno neutrale, non c'è sollievo / Non ho ottenuto ciò che mi aspettavo di ricevere / Non permettere loro di dirti cosa loro vogliano che tu creda"). Dopo l'abbagliante apertura del ritornello, sono riff di chitarra massicci e sincopati a ritornare in primo piano, alternati a stacchi di sola batteria e rintocchi sui piatti, nei quali si stagliano, benché pronunciate appena, le parole di Morgan: "And I'm drowning / In the sea / Of my own / Futility" ("E sto affondando / Nel mare / Della mia stessa Futilità"). Altra strofa serrata e un secondo ritornello, a cui, a sua volta, segue un'incursione solistica del synth, orchestrata con la consueta perizia da Richard West. Il crescendo cromatico del fraseggio costituisce un gancio ideale per l'ultima occorrenza del ritornello, prima che le chitarre, sul fraseggio staccato di cui sopra, ci accompagnino in una lenta discesa verso il silenzio, fra lunghe note armonizzate in bending e la frase, ripetuta fino alla dissolvenza completa "Look at me drowning in a sea ..." ("Guardami affondare in un mare?"). Un finale del tutto degno di un brano che, come asserito dalla band stessa, ha il compito di essere la rappresentazione in musica degli abissi della disperazione umana; d'altronde, l'attrazione fatale che condiziona le vite di quanti si lasciano sedurre dal lato oscuro non poteva che esprimersi per mezzo di toni cupi e soffocanti, resi ancora più percepibili dalla scelta di un apparato di arrangiamenti davvero essenziale per un gruppo collocato tradizionalmente sotto l'etichetta (comunque poco significativa, come la si voglia declinare) "progressive metal". Una scintilla di speranza, tuttavia, riesce a far capolino anche nella situazione apparentemente disperata appena descritta, e prende la forma del desiderio di indipendenza, della ricerca del libero arbitrio che nasce dalla delusione per l'anelito verso ciò che non si può ottenere, vale a dire una vera ed univoca risposta alle ansie esistenziali dell'essere umano. La strofa che precede l'ultimo ritornello è chiusa da questo verso: "A silent frustration breeds in every crowd" ("Una frustrazione silenziosa si sviluppa in ogni moltitudine"), e questa smania muta altro non è che il desiderio di una chiave di lettura della vita e del mondo. Il nostro narratore non la possiede; a noi resta, però, di vedere se sarà il mare della sua futilità ad annegarlo fra i suoi flutti, o se la sua brama di libertà intellettuale possa trarlo in salvo.

Into the Light

Quale immagine più potente, evocativa e allo stesso tempo classica della luce? Guida e abbaglio, elemento indispensabile alla vita ma intollerabile, se troppo esposti ad essa. E, fin dalle più remote origini della storia, manifestazione sensibile, per chi crede, della presenza del divino, del soprannaturale. Che, a ben guardare, ne condivide la natura allo stesso tempo ambigua e affascinante: ancora di salvezza spirituale per alcuni, per altri incomprensibile abbandono a credenze indimostrabili. Proprio su questo crinale si muove Into the Light (Nella luce), sviluppo definitivo di un brano, dal titolo Endless sea, risalente addirittura al primo demo del gruppo ed ora destinato a ricoprire, con i suoi dieci minuti di durata, l'intoccabile, per ogni prog band che si rispetti, ruolo di suite all'interno del disco, con tutto ciò che comporta quanto variazioni d'atmosfera e di architettura sonora. Un arpeggio di chitarra pulita traccia, in apertura, un paesaggio sospeso, su cui si staglia l'ugola di Morgan, abile ad alternare toni sommessi a slanci più squillanti, che permettono di apprezzare la versatilità della sua timbrica, estesa ma non eccessivamente sottile nelle parti acute e adeguatamente corposa nel resto dello spettro. Anche con l'ingresso di basso e batteria le sei corde proseguono ad intrecciare note rarefatte e dilatate, sulle quali sono, ovviamente, le linee melodiche vocali a farla da padrone, mentre danno corpo alle contraddizioni che animano l'intero testo: "Colder than starlight, older than the sun / Straight lines converging, collapsing into one vast soul / A voice that has not spoken for 2000 years / A jealous benefactor and a yardstick full of fears" ("Più freddo della luce delle stelle, più vecchio del sole / Linee dritte che convergono, sprofondando in un'unica vasta anima / Una voce che non ha parlato per duemila anni / Un benefattore geloso, e una pietra di confronto piena di paure"). Non disdegna un certo gusto polemico, che d'altra parte serpeggiava già nei brani precedenti, il paroliere Jon Jeary, nel cercare di descrivere i tratti dell'entità soprannaturale con cui il protagonista del testo sembra confrontarsi. A spezzare il tono meditativo delle strofe è la vera e propria irruzione di un ritornello non solo ricco di melodia, ma calibrato in modo accorto per contrapporsi alle strofe: laddove avevamo una linea vocale singola, qui sono le armonizzazioni a catturare subito l'attenzione, come pure la robusta distorsione delle chitarre al posto dei fraseggi puliti, oltre alla modulazione in tonalità maggiore, che corrisponde, a livello lirico, alla presa di coscienza dell'io narrante, le cui richieste all'essere superiore si fanno perentorie: "Motivate your mystery, I'm young enough to try / Quantify your influence, I'm old enough to die / Signify your energy, I'm tired of asking why / Resolve your dichotomy, 'cause I am both truth and lies" ("Motiva il tuo mistero, sono abbastanza giovane da provare / Quantifica la tua influenza, sono abbastanza vecchio per morire/ Manifesta la tua energia, sono stanca di domandare il perché / Risolvi la tua dicotomia, perché io sono sia verità che menzogne"). Una seconda strofa arpeggiata conduce ad un secondo ritornello, che lascia spazio, a sua volta, ad un inciso particolarmente pesante e ad alto tasso metallico, in cui Morgan può sfruttare a pieno l'espressiva ruvidità naturale della sua ugola, sorretto dal lavorio lento e cadenzato di chitarre e batteria. A stemperare l'atmosfera giunge una fuga solistica della sei corde di Groom, prima sui medesimi accordi dell'inciso e poi su una nuova sezione, di gusto più arioso; le variazioni non sono, tuttavia, ancora esaurite. A questo punto si inserisce, infatti, una strofa in tempo dispari, guidata all'unisono da una fitta sequenza di note fortemente sincopate, cui fa da collante il suono delle tastiere, a sua volta quasi percussivo; ad aggiungere ulteriore particolarità, la voce di Morgan è sostituita da quella del bassista Jon Jeary, intenta a mostrare agli ascoltatori il discutibile punto di vista dell'entità divina con la quale il protagonista dialoga: "This way is easy, it is logical and cruel / You can be powerful and make up your own rules" ("In questo modo è facile, è logico e crudele / Puoi essere potente e crearti le tue regole"); e ancora, più chiaramente: "Your whole existence is the reason for my fun / Your weak resistance is an indulgence I've become" ("La tua intera esistenza è la ragione del mio divertimento / La tua debole resistenza è una debolezza che mi sono concesso"). Il titolare delle linee vocali si riappropria a viva forza del suo ruolo quando si contrappone all'arrangiamento meno immediato del passaggio precedente, un nuovo, massiccio riff sul quale Morgan può far valere tutte le sue ottave e la sua timbrica aggressiva; il suo grido dona, inoltre, il giusto peso all'amara constatazione del protagonista, che, riconosciuta oramai la natura inaffidabile della divinità, avverte se stesso e gli altri: "Dont you see? It don't matter what you believe" ("Non vedi? Non importa ciò che credi"), parole che sono l'apice dello scetticismo e della sfiducia nel soprannaturale. A propria volta, poi, l'essere sfuggente a cui l'io narrante si rivolge nel testo fa ben poco per evitare la scarsa considerazione mostratagli, rivelando piuttosto, nell'ultima strofa, l'autentica sua natura, sempre diretta ad ingannare l'umanità ed a trascinarla dove più le pare: "I was there at the beginning I will be there at the end / I'm your secret enemy and your fair weather friend / Help yourself to all my gifts and my seductive charms / Sign your name in blood give me all your love / With me or against me I still have no need of faith / Ignorance is no excuse, not one of you is safe / 'Cause I control the selfishness that keeps you all in line / You're running out of time I control your minds" ("Ero lì all'inizio e sarò lì alla fine / Sono il tuo nemico segreto e il tuo amico nei momenti buoni / Ti aiuterò con tutti i miei doni e il mio fascino seducente / Firma con il sangue e dammi tutto il tuo amore / Con me o contro di me, non ho comunque bisogno di fede / L'ignoranza non è una scusa, nessuno di voi è al sicuro / Perché controllo l'egoismo che tiene tutti voi sotto controllo / Stai esaurendo il tuo tempo e io controllo le vostre menti"). Il gioco si svela, dunque, dal punto di vista lirico, in corrispondenza dell'ennesimo cambio ritmico, con le asce del duo Groom / Midson che plettrano fuori il riff più duro e veloce dell'intero brano, fin quasi a sfiorare lidi thrash (in qualche fraseggio sembra di cogliere, infatti, qualche reminiscenza ritmica di band come Metallica o Megadeth) inframmezzato da stacchi con lunghi accordi, dove si infiltra il lavoro oscuro delle tastiere. La successione di accordi che aveva chiuso la precedente sezione solistica fa da ponte per una seconda, le cui note finali aprono la strada ad un ultimo e conclusivo ritornello, ideale palcoscenico per le qualità di Morgan, vista la trasposizione dell'intera melodia un tono sopra. Una coda, affidata all'effettistica di Richard West e a sporadiche incursioni di chitarra, sopra alle quali vocalizzi filtrati (ripresi da una versione demo del brano, cantata da Jeary) riprendono le parole dell'ultima strofa, chiude definitivamente il brano. Difficile credere che, fra cambi di tempo e d'atmosfera, momenti solistici e ritmiche serrate, linee melodiche orecchiabili ed arpeggi sospesi si sia giunti tanto rapidamente ai dieci minuti complessivi di durata; l'abilità compositiva di un gruppo dalle ambizioni progressive, dopotutto, sta proprio nel condurre l'ascoltatore in un viaggio sonoro anche articolato e complesso, come in questo caso, senza che l'esperienza diventi pesante o inutilmente complicata. Sempre ricercato e peculiare, inoltre, l'aspetto tematico, anche nel concentrarsi su argomenti di trattazione non certo semplice, come il rapporto con un soprannaturale qui dipinto con tinte decisamente poco accattivanti, anzi, persino con accenni velenosi, il cui chiaro obiettivo è di mettere in guardia chiunque si trovasse a vacillare sul pericoloso crinale che separa la fede cieca dalla consapevole ragionevolezza che dovrebbe contraddistinguere l'essere umano. Come volesse ricordarci che quanto cerchiamo nella luce potrebbe rivelarsi ben diverso da quel che appariva in un primo momento ai nostri occhi abbacinati.

Will to Give

Dai cangianti dieci minuti della traccia precedente si scende, dimezzando perfettamente, ai cinque di Will to Give (Volontà di Donare), quarto brano dell'album e composizione tutta dovuta, musica e testi, a Glynn Morgan. E come lascia intuire la durata più contenuta, si volta decisamente pagina rispetto alla complessa suite appena conclusasi. È il tocco plettrato del solo basso a dare il la, con una figura ritmica sincopata e piena di groove, appena rafforzata da colpi di cassa; seguono le chitarre, prima a note singole, poi ad accordi interi, mentre i suoni elettronici delle tastiere fungono da indispensabile collante all'intera partitura. L'ingresso del riff principale ci porta in territori inequivocabilmente metallici, sia nell'esecuzione secca e stoppata sia nella tonalità minore, prima che la prima strofa riporti in primo piano il pulsare solitario delle quattro corde di Jon Jeary, affiancato poi, allo stesso modo sentito in apertura, dalle chitarre (distorta l'una, arpeggiata e pulita l'altra) e dall'impatto percussivo di tom e timpano, a creare un telaio di frequenze basse che sorregga a dovere l'esecuzione di Morgan, qui chiamato a sprigionare emotività attraverso l'alternanza fra passaggi quasi sussurrati e ricchi di vibrato e slanci più acuti e asprigni, adatti a liriche dal taglio personale e appassionate nell'interpretazione: "I thought you weren't contagious / I thought I owned my inner-self / You offer, now I forget the reason I can't have / As you try hard to please me / This need turns to greed down inside / I touch the hand of my sickness / And feel my faith divide" ("Pensavo non fossi contagiosa / Pensavo di avere il controllo sul mio io interiore / Tu offri e ora io dimentico / La ragione per cui non posso avere / Mentre ti sforzi di soddisfarmi/ Questo bisogno diventa avidità nel profondo / Io tocco la mano del mio malessere / E sento la mia fede separarsi"). Arduo ipotizzare quale sia l'effettivo obiettivo di parole aperte a diverse interpretazioni: che si tratti di una relazione soffocante, o di una dipendenza vera e propria, o dell'incapacità di liberarsi di un pensiero-rifugio? Nemmeno il successivo ritornello, articolato sullo stesso riff di chitarra iniziale, chiarisce l'equivoco, anche se ci permette di apprezzare le pregevoli doti vocali di Morgan, che passa da grida quasi strozzate a una chiusura melodica, modulando su una tonalità maggiore ben rimarcata dall'arrangiamento complessivo. Le sue parole, rivolte ad un non meglio precisato destinatario, lasciano aleggiare il suddetto senso di ambiguità: "If I say I would - would you care? / Would you take me there? / And feed my desire with your will to give? ("Se io dicessi che voglio - t'importerebbe? / Mi condurresti là? / E nutriresti il mio desiderio con la tua volontà di donare?"); l'io narrante cammina sul filo del rasoio, fra perdizione e salvezza, e sembra voler dividere il proprio senso di colpa con l'ipotetico dialogante. Un breve stacco giostrato su salti di quinta ed ottava fa da collegamento ad una seconda strofa, più estesa della precedente, che si distingue soprattutto per la scelta di un fraseggio cantato estremamente fitto e serrato, cui segue una doppia ricorrenza del ritornello, al termine della quale interviene un opportuno cambio di struttura. Lunghi accordi di chitarra, sotto ai quali si fanno largo note legate del basso elettrico, fungono da cornice ad un virtuale scambio di microfono fa Jon Jeary e Morgan, che si dividono a metà, in questa nuova strofa, rispettivamente l'attacco e la chiusura di ogni verso. Di nuovo, il basso pulsante sentito ad inizio brano costituisce un momento di pausa, supportato da tastiere che, adeguandosi all'andamento ritmico del brano, simulano suoni percussivi, e lascia spazio ad un intervento solistico ad opera del solito Karl Groom; un riff armonizzato ci avvia alla conclusione del brano stesso, caratterizzata da una raffica in sedicesimi dell'intera sezione strumentale (tastiere escluse), su cui Morgan si produce in un ultimo, graffiante sforzo vocale, prima della tradizione rullata che, come vuole il ricettario classico del rock, pone fine alla traccia. Che rappresenta una indubbia novità, nella grammatica compositiva dei britannici, per la sua natura decisamente orientata all'impatto ritmico e per una struttura spigliata ed incentrata in modo prevalente sul lavoro delle sei corde, oltre all'approccio vocale di Morgan, qui più che altrove di esprimersi a pieno, facendo ricorso senza remore ad un approccio vocale più ruvido, diretto e, in sostanza, più duro e metallico, anche in confronto al resto dell'album. Le ambasce che animano le liriche, d'altronde, giustificano in pieno quest'approccio; pur senza chiarire in modo inequivocabile la polisemia del testo, è ben chiaro di una difficile lotta interna si tratta, che porta al limite la resistenza del protagonista, ben consapevole della necessità di liberarsi dai lacci di una situazione che immaginava forse di poter gestire, ma che si è invece rivelata insostenibile; nel contesto tematico del disco, che indugia spesso sul rapporto fra essere umano e credo, può forse essere letta come la sofferta elaborazione che, nella propria maturazione, ogni persona è chiamata a fare con quella che può essere generalmente chiamata fede: un insieme di legami spirituali che, frequentemente, sorreggono l'individuo nei momenti di smarrimento e sofferenza, ma con quale costo in termini di libertà individuale? Sotto questa luce, le parole conclusive del brano, "the hardest part to take - you still remain" ("la parte più dura da affrontare - tu rimani ancora"), assumono il valore di esortazione a completare la propria crescita intellettuale, superando anche la tentazione, sempre pronta a riemergere, di ricorrere a sostegni trascendenti. Quanto è più difficile restare in piedi senza queste stampelle; ma quanto più sinceramente umano cadere e rialzarsi.

Under the Sun

Oasi di tranquillità dopo la sferzata elettrica della traccia precedente, Under the Sun (Sotto il Sole) costituisce anche il primo contributo compositivo in solitaria all'album e, più in generale, alla produzione della band, da parte di Richard West. Non a caso sono proprio accordi pianistici ad avviare il brano, presto accompagnati da una melodia soffusa e bucolica che si sviluppa su note di flauto riprodotte sinteticamente dalle tastiere. Null'altro a comparire nell'arrangiamento, eccezion fatta per l'ugola di Glynn Morgan, chiamata ad adattarsi alla trama delicata del pezzo; e il cantante stempera, così, il suo timbro naturalmente ruvido, cercando piuttosto di tingere con sfumature ricche di pathos linee vocali morbide, a tratti poco più che sussurrate, senza dubbio adatte a parole che indugiano su riflessioni tanto comuni quanto inesorabili, legate al senso dell'esistenza umana ed al suo inevitabile capolinea: "What do you gain from all that you've done / Everything comes to an end / Ages will go and ages will come / And who will remember you then" ("Che cosa ottieni da tutto ciò che hai fatto? / Tutto giunge ad una fine / Epoche passeranno ed epoche arriveranno / E chi si ricorderà di te allora?"). Senza soluzione di continuità, segue la strofa un ritornello melodicamente affine; l'unica, e ben percepibile, differenza si può notare nell'armonizzazione delle linee vocali di Morgan, più libere, inoltre, di spiegarsi su ottave più alte, specie sugli ultimi versi del testo. Ancora fulcro dell'attenzione del paroliere è l'apparente eterno ritorno che contraddistingue, nella nostra realtà, lo scorrere del tempo, tanto sfuggente ed incontrollabile da annullare, per così dire, ogni sforzo che gli esseri umani siano in grado di produrre: "All that has been it will be again / What has been done will be done / Clouds will return at the end of the rain / And nothing is new, nothing under the sun" ("Tutto ciò che è già stato, sarà di nuovo / Ciò che è stato compiuto, sarà compiuto / Alla fine della pioggia ritorneranno le nuvole / E nulla è nuovo, nulla, sotto il sole"). Il breve canto di flauto sintetizzato sentito in apertura fa da collegamento ad una seconda strofa, diversa solamente a livello lirico dalla precedente ed incentrata su di un altro aspetto fatalmente legata alla caducità della vita, vale a dire l'autentico valore da attribuire ai beni terreni, elencati in modo esplicito dalle parole del testo: "What if I build you a house or a park / What if I bought you a slave / Silver and gold and the treasure of kings / With satin to line your grave" ("Cosa succederebbe se ti costruissi una casa o un giardino / Cosa, se ti avessi comprato uno schiavo?" / Oro ed argento e il tesoro di sovrani / Assieme al raso per foderare la tua tomba"). Il susseguente ritornello non fa che ribadire il concetto della volatilità umana, persino nelle sue componenti più nobili, come il sapere: "As sure as the dust will return to the ground / Yuor knowledge will soon be gone / As sure as a man should enjoy what he does / Nothing is new, nothing under the sun" ("Com'è vero che la polvere ritornerà a terra / La tua conoscenza svanirà presto / Com'è vero che un uomo dovrebbe godersi ciò che fa / Nulla è nuovo, nulla, sotto il sole"). A questo secondo ritornello si aggancia una variazione nella struttura del brano, specie con l'ingresso di una chitarra acustica di accompagnamento alle tastiere: soluzione, questa, che paga apertamente dazio al progressive albionico degli anni Settanta, sia che si parli dei suoi rappresentanti più vicini a territori folk, come i Genesis dell'epoca Gabriel, sia prendendo in considerazione gruppi dalla più schietta matrice rock, come i Queen dei tardi Seventies, non estranei, però, a divagazioni di gusto sì spensierato e popolare, ma non certo prive di ricercatezza ed eleganza compositiva. Ultima occasione per Morgan, qui, di mostrare la propria versatilità, emergendo con il suo vibrato nervoso e la sua naturale asprezza nei passaggi più acuti della linea melodica, e nel finale in particolare, prima di lasciar spazio ad un breve solo di chitarra acustica, che in realtà riprende la medesima melodia del ritornello ed ha compito di gradevole guida verso la chiusura definitiva del brano, effettuata, in maniera un po' scontata, proprio sulla tonica dell'accordo conclusivo, quando, forse, una chiosa più sospesa e meno pedestre sarebbe stata preferibile. Un piccolo neo, tuttavia, non inficia la levigata piacevolezza di questa parentesi decisamente più distesa tanto nell'apparato melodico quanto nella ritmica. Certo, l'assenza fragorosa degli strumenti elettrici e percussivi, indubbiamente, fa sentire il proprio peso nell'arrangiamento complessivo (pur sempre di musica rock si parla, dopotutto); se, però, consideriamo che il brano svolge, come detto, la funzione di pausa riflessiva, di dialogo con la propria interiorità, di momento di sfogo per il pensiero quotidiano, ecco che le scelte compositive di Richard West risultano del tutto funzionali alla ricerca di un'atmosfera ancora inedita all'interno di un album che aveva mostrato, come si suol dire, prima la faccia cattiva, quella creata da chitarroni robusti e batterie massacrate fino alla rottamazione. Ancora più peculiare, inoltre, il contrasto fra melodie soffuse, quasi eteree, e un blocco lirico le cui parole (in più punti ispirate o letteralmente citate dall'Ecclesiaste, libro dell'Antico Testamento in cui il narratore coltiva l'intento, spesso per mezzo di paradossi e provocazioni, di mostrare la vanità e l'inutilità di molto di ciò che siamo portati a considerare un valore) rappresentano un quadro esplicitamente critico, talvolta persino drammatico, dell'inestinguibile attrazione per i beni terreni e dell'attaccamento alla vita in generale, quando, invece, appare ben chiaro, nel testo, che per quanto l'essere umano possa agitarsi e sgomitare per la posizione sociale che brama, possa accumulare averi e ricchezze (tante o poche, non cambia poi molto), possa persino allestirsi una tomba imbottita di raso, nulla di tutto ciò abbia realmente la forza di cambiare gli equilibri millenari dell'esistenza. L'apparente inconciliabilità si risolve, dunque, nella scoperta della immutabile ricorsività della nascita e della morte come unico elemento certo ed indiscutibile del nostro percorso di vita, sigillato dalle leggi di natura e inattaccabile anche alle smanie personali dell'essere umano.

Babylon Rising

Dopo quella assediata in Siege of Babylon, penultima traccia di Wounded land, ecco la medesima città, ma sotto tutt'altra luce, tornare protagonista di un brano dei Threshold. La cui composizione, peraltro, risale ancora al periodo di gavetta degli inglesi, più precisamente ad una demo dal titolo Cult of the immortal, datata 1991 e reperibile, fra l'altro, solo su nastro (come del resto, usava a quei tempi). Ad aprirne il lato B era Aftermath, vale a dire la versione in divenire del pezzo che, con il nuovo titolo di Babylon Rising (Babilonia in rivolta), possiamo trovare nella scaletta di Psychedelicatessen. Spicca subito, fin dall'attacco, il passo cadenzato e l'impronta marcatamente chitarristica del brano: sono, infatti, le sei corde a dettare i tempi, gemellate prima e poi armonizzate nello sviluppo del riff principale, dalla decisa tonalità minore armonica, attorno a cui si stende un tappeto tastieristico percepibile ma non invadente ed una base ritmica solida e piuttosto lineare, salvo per la comparsa, nella strofa, di un insolito cowbell. Inevitabile, vista la scelta di un arrangiamento parco ed uniforme, l'attenzione sia catalizzata dalla voce: ed in effetti Morgan ha modo di innervare la trama musicale col suo vibrato e la sua timbrica mai eccessivamente limpida, mentre la linea melodica assume anche il ruolo di variante ritmica, evitando di appoggiarsi banalmente agli accenti di chitarre, basso e batteria per giostrare, invece, fra sincopi ed oscillazioni di semitoni. Meno immediate si rivelano, invece, le liriche, in questo caso ancora in carico al bassista Jon Jeary, che parrebbero tratteggiare da un lato l'atteggiamento superficiale e presuntuoso dei potenti d'ogni sorta, dall'altro l'esistenza di un concreto pericolo, quello di una sollevazione, di una rivolta, appunto, contro quelle stesse élites sfruttatrici e guerrafondaie. Ad essa, infatti, sembra essere indirizzata la sarcastica allusione della prima strofa: "Gather round you sinners who don't believe in peace / You can all be winners if you let your soul fly free" ("Radunatevi, peccatori, che non credete nella pace / Potete essere tutti vincitori se lasciate volare libera la vostra anima"). Non è certo un qualche desiderio puro e onesto a spiccare il volo, ma quello malsano e sanguinario di coloro che hanno reso la violenza il proprio ambito affaristico, come ribadito nella strofa successiva: "Businessmen and money spinners rape the earth for gain / They don't like my ideals, they label me insane" ("Uomini d'affari e maghi del denaro stuprano la Terra per il guadagno / Non amano i miei ideali, mi etichettano pazzo"). Frapposto a esse, un ritornello atipico costituito da lunghi accordi di chitarra, distesi a sezione ritmica ferma e supportati dalle tastiere, separati da note singole armonizzate, che lasciano spazio ai versi criptici cantati da Morgan: "Don't be afraid / The threat's not for real /Be very afraid / You've made your last deal" ("Non aver paura / La minaccia non è reale / Devi avere paura / Hai concluso il tuo ultimo affare"); parole che potrebbero essere pronunciate da un demonio che si compiace di aver appena ingannato l'ennesima vittima pronta a cedere anche l'anima in cambio, forse, del successo tanto agognato. Al secondo ritornello segue, opportunamente, un intermezzo, a evitare che il passo cadenzato del brano si risolva in monotonia; ecco dunque un fraseggio armonizzato delle sei corde insinuarsi sotto una versione modulata del riff impiegato nel ritornello, qui marcato ancora più profondamente dai cambi d'accento sul rullante della batteria, mentre sopra all'intero arrangiamento svetta la linea vocale, che richiama il titolo del brano stesso fornendone, inoltre, una vaga traccia interpretativa: "Two thousand years looking for utopia / Two thousand years of Babylon rising" ("Duemila anni a cercare un'utopia / Duemila anni di Babilonia in rivolta"), come se la rivolta della Babilonia menzionata nel testo indichi il desiderio di rovesciare, d'improvviso, il predominio di sfruttatori e criminali in guanti bianchi, devoti solo al proprio tornaconto personale e disposti a sacrificare qualunque cosa ad esso, per raggiungere l'utopia vagheggiata nelle liriche. A questo punto si apre un breve spazio solistico, in realtà non molto più di un canto melodico impreziosito da scale quasi classicheggianti, prima di un ultimo ritornello e della definitiva chiusura del brano, a cui l'intervento delle tastiere di Richard West dona un senso di grandeur spingendo in avanti, rispetto al piano armonico, la tonalità maggiore, ariosa e solare. Un passaggio, questa Babylon rising, senza dubbio meno appariscente e brillante, all'interno dell'album, vuoi per la scelta di ritmiche più compassate, vuoi per l'insistenza su linee melodiche meno immediate; non per questo disprezzabile, in particolare per gli appassionati del lato più tradizionalmente metallico dei Threshold, che sembrano in quest'occasione evocare i suoni più cupi di certa New Wave Of British Heavy Metal, quella più oscura ed ossianica, contemperandola però con l'apporto essenziale di interventi organistici ad ampio respiro, tocco di colore indispensabile su una tela altrimenti soffocante. Vagamente in linea con il tema di fondo del disco anche il comparto lirico, peraltro di lettura non esattamente immediata; d'altra parte, se ogni dettaglio fosse palese agli occhi ed alle orecchie, non verrebbe forse a mancare uno dei tratti essenziali della musica comunemente definita progressive?

He Is I Am

Struttura meno omogenea per He is I am (Lui è, io sono), settima traccia dell'album, ma, in continuità con la precedente, costante abbondanza di riffoni metallici, così da far risultare questa seconda metà del disco particolarmente rocciosa. Impatto assicurato, dunque, fin dall'inizio, con una breve serie di lunghi accordi distorti, cuciti l'un l'altro dalle trame di basso e tastiera, sui quali una voce che sembra echeggiare da chissà quali spazi remoti ripete le parole del titolo. A questa sorta di prologo subentra direttamente la prima strofa, in cui il riffing, più serrato, è intervallato prima da una nervosa scala ascendente, e poi da una serie di accordi discendenti, sempre alla ricerca di effetti di tensione e di un tono generale piuttosto oscuro, sottolineato, da una parte, dal tempo cadenzato della batteria e appena stemperato, dall'altra, dalla presenza, invero mai invadente, delle tastiere e dalla voce di Glynn Morgan, impegnata nel declamare liriche che, in questo caso, sembrano elencare le angosce di un'anima che ha perso i propri punti di riferimento: "Do you feel that your life is in a rut? / That the modern world is all too much? / Do you want to remove the pain? / Do you want to begin again?" ("Senti che la tua vita è bloccata dalla routine / Che il mondo moderno è eccessivo? / Vuoi liberarti dal dolore? / Vuoi ricominciare?"). Nella strofa che subentra, è Nick Harradence a dare maggior piglio al suo lavoro dietro le pelli, mentre una nuova figura ritmica impegna le sei corde di Groom e Midson ed il cantato di Morgan, giocando sullo spostamento degli accenti, contribuisce a rafforzarne lo slancio e ci permette, allo stesso tempo, di comprendere meglio chi fosse a rivolgere quelle domande che formano la prima parte del testo. Le lusinghe con cui questa voce misteriosa blandisce l'anima sofferente non lasciano dubbi: "And if you need it we can re-arrange your life / Take away the misery, the trouble and the strife / Coming from the darkness he is standing at the door / We can feed you inner needs, get you back to where you are" ("E se ne hai bisogno, possiamo riordinare la tua vita / Togliere l'infelicità, i problemi e i conflitti / Dalle tenebre lui sta arrivando davanti alla tua porta / Noi possiamo soddisfare i tuoi bisogno interiori, riportarti dove sei"). Le parole di Jon Jeary rappresentano in modo chiaro l'atteggiamento tipico di certi predicatori da quattro soldi, tesi ad approfittare di quanti si trovino in momenti di incertezza o difficoltà, al fine di attirarli e sfruttarli nel nome di un credo fittizio e ingannatore. La loro missione perversa è poi esposta ulteriormente dalle parole del ritornello, scandite da Morgan su un tappeto di chitarre che riprende il riff d'apertura, alternandolo però a momenti più serrati, e sostenuto attentamente dalle tastiere avvolgenti di Richard West. Pochi versi, ma non certo difficili da comprendere: "He is, I am, we are/ Too late you've come this far / He is, I am, we be / Give us your individuality" ("Egli è, io sono, noi siamo / Sei arrivato a questo punto troppo tardi / Egli è, io sono, noi siamo / Dacci la tua individualità"). Medesimo tono polemico si rileva nella strofa successiva, che anzi non trascura di stigmatizzare l'incresciosa brama di denaro tipica di queste organizzazioni a carattere pseudoreligioso ("A generous contribution will secure your earthly bed", "Una generosa contribuzione garantirà il tuo giaciglio terreno"). Dopo il secondo ritornello, una strofa di passaggio raccorda ad una sezione inedita, che si distingue dal resto del brano per doppia, marcata modulazione e per la maggiore incisività dell'arrangiamento tastieristico, che si intreccia, alleggerendolo, al costante lavorio delle sei corde; non può passare sotto silenzio, inoltre, la prova di Morgan, che sfrutta a pieno la sua estensione senza perdere in orecchiabilità, in uno dei momenti senza dubbio più intensi, vocalmente parlando, dell'intero disco; un'intensità richiesta, peraltro, anche dallo sfondo lirico, dal momento che il nostro protagonista si lancia in un articolato soliloquio, in cui narra il senso di smarrimento provato dopo aver rifiutato la proposta di rinunciare alla propria individualità in cambio della consolazione per le sue angosce. Persino il linguaggio impiegato si tinge di metafore, ad innalzarlo debitamente in corrispondenza di uno snodo ritenuto fondamentale: "And I wandered far away / Couldn't hear their thoughts no more / I was swept on a tidal wave / And was cast to a distant shore / It was the desert of my own desires / I was burnt in the searing heat / My hedonism stoking up the fires / Of my own spiritual defeat" ("Ed ho vagabondato lontano / Non potevo più sentire i loro pensieri / Ero stato sollevato da un maremoto / Ed ero stato gettato su una spiaggia lontana / Era il deserto dei miei desideri / Ero bruciato nel caldo rovente / Il mio edonismo alimentava gli incendi / Della mia sconfitta spirituale"). A concludere questa riflessione, giungono le parole che svelano anche l'effettivo significato del titolo: "And if you look in the mirror, boy / Don't be ashamed of what you see / I was looking for him all alone / But all I found was a piece of me" ("E se guardi nello specchio, ragazzo / Non aver vergogna di ciò che vedi / Io stavo cercando lui tutto da solo / Ma tutto ciò che ho trovato è una parte di me"). La ricerca affannosa di un senso, quindi, sfocia, quasi con rassegnazione, nel ritrovamento di una parte di se stessi, una volta che si è messa a tacere la ridda di voci tentatrici e fasulle che cercano di venderci visioni soprannaturali farlocche ed inconsistenti. Ancora un passaggio solo strumentale ci immette in un'ultima sezione, dal tempo più sostenuto e addirittura incalzante, dominata dalle fughe solistiche di Karl Groom prima (nella quale spicca una veloce figura in tapping) e di Richard West poi, prima della classica e definitiva rullata di chiusura. Un brano, dunque, sicuramente più cangiante ed umorale rispetto alla traccia precedente e dotato della carica e della tensione ideali per spiccare come uno fra gli episodi migliori dell'intero Psychedelicatessen. Si può qui apprezzare a dovere anche l'abilità di un Nick Harradence meno compassato e pronto, se non a sferzare, per lo meno ad incidere maggiormente nell'economia del pezzo, fungendo da catalizzatore tanto nei passaggi più cadenzati quanto in quelli più spediti, oltre all'ottima esecuzione vocale di Glynn Morgan, specie su un registro alto mai così sollecitato come nella suddetta sezione centrale. Degna controparte di un comparto lirico sempre ricercato, com'è abituale per il paroliere Jon Jeary, e perfettamente adeguato al tema di fondo dell'intero disco. Certo, affrontare tematiche così peculiari e, diciamolo pure, ben poco commerciali potrebbe far pensare a chissà quale spavalderia o spocchia intellettuale, almeno a prima vista; in realtà, basta un'occhiata meno distratta per cogliere come la band inglese, pur non rinunciando a punte di linguaggio financo poetico e raffinato, approcci l'argomento con schiettezza, senza mezzi termini, allusioni misteriose o banalità assortite, tanto care, invece, ad altri, ed oltremisura stimati, rappresentanti del medesimo filone musicale. Dopotutto, si può essere provocatori anche in punta di fioretto, se si ha consapevolezza dei propri mezzi: brani come questo ne sono concreta dimostrazione.

Innocent

Secondo contributo di Glynn Morgan in veste di compositore, e non solo di semplice esecutore delle melodie vocali, Innocent (Innocente) ricopre anche il delicatissimo ruolo della power ballad. Doppiamente complicato, nel caso dei Threshold, dal momento che la band non aveva un precedente cui eventualmente dare continuità (e non è probabilmente un caso che autore del pezzo sia appunto Morgan, esterno al nucleo originario del gruppo), oltre al rischio di cadere nella scontatezza che, talvolta, contrassegna questo genere di brano. Gli inglesi aggirano, per così dire, lo scoglio appoggiandosi ad una scrittura di taglio sicuramente classico, impreziosita però da dettagli meno convenzionali e ad un ottimo gioco di squadra, che aggiunge valore alle esecuzioni dei singoli musicisti. Un tratto, questo, che forse non ci si aspetterebbe, quando ad aprire il brano troviamo un semplice arpeggio in tonalità minore, sul quale si staglia quasi subito, nel silenzio della sezione ritmica, un canto di chitarra elettrica, alternato alla voce di Morgan, mai così sussurrata e penetrante allo stesso tempo. Quattro colpi di rullante annunciano il ritornello, in cui si riaffaccia prepotentemente la distorsione delle sei corde, insieme a basso e batteria, ideale palcoscenico per slanciare verso le ottave più elevate la linea vocale. Si dirà: nulla di straordinario, a colpo d'occhio (o meglio, d'orecchio); vero, ma decisamente efficace, grazie, in particolare, al cambio di tonalità rispetto alla strofa, che funge quasi da riflettore sulla melodia portante, dandole la rilevanza necessaria ad apprezzarla appieno. Dal canto loro le liriche, pur rifacendosi, in sostanza, a non propriamente inedite riflessioni su di una relazione troncata, evitano, in linea di massima, abusatissimi luoghi comuni che, di norma, abbondano fra le pagine delle ballate in salsa rock/metal: Take my life away / Or give back the answer you hold / And stand unashamed of what you have done / Don't just walk away / Unlock the chains from your heart / Prove my innocence, cause I did no wrong" ("Prenditi la mia vita / O restituisci la risposta che trattieni / E resta senza vergogna per ciò che hai fatto / Non andartene e basta / Sciogli le catene dal tuo cuore / Dimostra la mia innocenza, perché non ho fatto nulla di male"). Una seconda strofa sovrappone all'arpeggio iniziale un riff roccioso e cadenzato, che si fa via via più corposo e ritmato; ad essa segue, poi, una sorta di ponte, basato su una nuova serie di accordi, destinato a risolvere, però, non sul ritornello, come ci si aspetterebbe, bensì sull'intervento solistico di Karl Groom, realizzato, in effetti, sullo stesso tappeto armonico e decisamente incentrato sulla cantabilità anziché su esibizionismi esecutivi fini a se stessi. Le cui ultime note in bending, peraltro, accompagnano il rientro della voce per la successione di ritornelli conclusivi, autentico climax emotivo del brano, specialmente il secondo, durante il quale agli acuti di Morgan s'intrecciano nuovamente le note della chitarra, che riprende il fraseggio solista, a rafforzare il tocco elegiaco del finale, sancito ufficialmente dallo svanire della distorsione a favore dell'arpeggio e del canto melodico già uditi in apertura. Struttura circolare, dunque, senza particolari intricatezze o complicate architetture compositive; non mancano, tuttavia, tocchi meno usuali che, saggiamente dosati, insaporiscono l'insieme, come la variazione successiva alla seconda strofa, in cui fa capolino un tempo dispari, o la sezione solistica anticipata rispetto al ritornello. Né si può trascurare la notevole prova di Morgan, giustificata, va da sé, anche dal ruolo di compositore unico: il cantante, tra versi appena accennati, passaggi più asprigni e slanci acuti, sfrutta fino in fondo il proprio registro vocale, caricandosi letteralmente il brano sulle spalle. Qualche angolo da limare qui e là (la breve rullata che dovrebbe lanciare il primo ritornello, così come qualche altro passaggio di batteria, suona un po' statica; alcune insistenze sul tono minore generale suonano ridondanti) non pregiudica, tutto sommato, la qualità del brano; addirittura la Giant Electric Pea, intuitone un potenziale impatto commerciale, sceglie di promuoverlo con la realizzazione di un videoclip, invero alquanto amatoriale e prodotto, a vederne il risultato finale, facendo di necessità virtù (la band stessa testimonia la conduzione delle riprese nei locali di un magazzino di Londra, di un bar locale e, ciliegina sulla torta, nella camera da letto di Karl Groom). Più difficile, semmai, ricollegarne il testo, con tutta probabilità steso precedentemente, al tema generale dell'album; d'altra parte, chi ci può assicurare che le parole del testo non siano indirizzate, anziché ad uno scontato destinatario in carne ed ossa, a qualche entità al di là del nostro mondo sensibile?

Devoted

Un melodico arpeggio di chitarra pulita si spegne, un muro di chitarre ci si rovescia addosso. Questo il biglietto da visita di Devoted (Devoti), traccia conclusiva di Psychedelicatessen e netta inversione di tendenza rispetto alla più riflessiva atmosfera del brano precedente. Spetta ad un riff incalzante, quasi ai limiti di certo thrash metal, inaugurare le danze, sospinto ulteriormente dal deciso lavoro della batteria, tra rullante sul battere e doppio pedale; nel contempo, si aprono squarci per le incursioni delle tastiere, via via sempre più presenti, fino a che la corsa degli strumenti si fa meno incalzante, la distorsione si dissolve per lasciar spazio ad una sequenza magnetica di note pulite in arpeggio, su una base ritmica sincopata e ben legata dai fraseggi al basso di Jeary, e una breve fuga solistica di sintetizzatore sembra cullare l'ascoltatore mentre fa il suo ingresso nella prima strofa. Ancora una volta, Glynn Morgan si produce in un'esecuzione di alto spessore interpretativo: sfoggia suadente, nei primi versi, il velluto della sua timbrica più soffusa; innalza, poi, gradatamente la tensione inasprendola; graffia, infine, scalando le ottave a pieni polmoni ed avvalendosi senza remore della sua ruvidità naturale. Interpretazione doverosamente mimetica e calibrata su parole che descrivono la straziante fatica dei devoti, appunto, nella giornaliera ricerca di una luce inafferrabile, quella divina: "We fear this void / Like some dark temptation calling you under / Pulling us off course / Just as we are beginning to get closer / Closer to the light, closer to the light" ("Noi abbiamo paura di questo vuoto / Come di un'oscura tentazione che ti chiama verso il basso / Spingendoci fuori strada / Proprio quando stiamo cominciando ad avvicinarci / Avvicinarci alla luce, avvicinarci alla luce"). Al rientro delle chitarre elettriche corrisponde un raccordo, che sfocia subito in un ritornello decisamente atipico; oltre alla ritmica pesantemente distorta, infatti, arrangiamenti d'organo dal sapore quasi liturgico accompagnano linee vocali armonizzate, a creare effetti di sacralità corale, rimarcati anche dalla triplicazione della medesima frase, "And it gets harder to concentrate" ("E diventa più difficile concentrarsi"), chiaro riferimento al dovere di evitare le lusinghe terrene lungo il cammino verso la rivelazione ultraterrena. Sforzo costante e sfibrante, come ricordano le parole della strofa successiva: "And we must keep our faces / Pointing straight into the light / And upwards into his domain / We can have help as we're getting closer / Closer to the light, closer to the light" ("E dobbiamo continuare a puntare i nostri sguardi / Dritti verso la luce / E verso l'alto, nel suo regno / Possiamo avere aiuto mentre ci avviciniamo / Ci avviciniamo alla luce, ci avviciniamo alla luce"). Ancora un ritornello, ma con una leggera variazione lirica ("And it gets harder to compensate", "E diventa più difficile ripagare") in cui si allude non soltanto alla speranzosa fatica del fedele, ma anche alla possibilità che la divinità sappia effettivamente donare una ricompensa davvero all'altezza dello sforzo prodotto. A questo punto, quando il brano sembrerebbe aver esaurito il suo slancio naturale, la band decide, anziché andare sul sicuro, di giocarsi una carta inedita: nel silenzio delle distorsioni e della sezione ritmica, le sole tastiere fungono da tappeto e da guida per la line melodica della voce, progressivamente arricchita da diverse armonizzazioni, tanto da ricreare la suggestione sonora di una corale sacra. Passaggio davvero riuscito e sorprendente, nel quale non si fatica a riconoscere lo zampino compositivo di Richard West, ammiratore mai celato di gruppi come Genesis e Queen, che della ricchezza vocale hanno fatto un tratto caratterizzante ed identificativo. Sulla scomparsa dell'ultima eco si riaffaccia il resto degli strumenti, che dominano la scena prima riproponendo il riff incalzante della sezione d'apertura, poi quello della strofa; un ottimo palco per le scorrerie solistiche di Karl Groom, qui libero di imperversare con tutto il repertorio della sua sei corde, tra pedale wah-wah, veloci fraseggi pentatonici e tapping, fino alla conclusione del brano stesso. Ingannevole, fra l'altro, dato che, in virtù della sua struttura variegata, finisce per nascondere all'ascoltatore una durata cospicua, attestandosi infine a quasi otto minuti. Eccellente ultima pietra di questo edificio sonoro, Devoted spicca sia per la sua struttura, piuttosto diversa dai brani che l'hanno preceduta, nonostante non sfugga alla passione di casa Threshold per la circolarità dei componimenti; la presenza, tuttavia, di sezioni inedite, come la corale che costituisce il cuore della canzone stessa, e l'attento sviluppo di un crescendo di alta intensità emotiva, in cui la voce ha un ruolo innegabile, la rende senza troppi dubbi uno dei punti più brillanti di tutto il disco, oltre ad un prevedibile classico da concerto, considerato il sapiente alternarsi di riffoni trascinanti (con accordatura ribassata, fra l'altro) e di scorci melodici d'indiscutibile cantabilità, ideali per schiaffeggiare prima e carezzare poi le orecchie del pubblico. Un tour de force musicale che ben traduce in note e parole il proprio argomento lirico, vale a dire le asperità del percorso a cui va incontro il fedele, costretto a rincorrere un qualcosa di ignoto, inafferrabile e, nella peggiore delle ipotesi, inesistente. Una marcia verso un'eternità indefinita di cui, citando il verso conclusivo del testo, "Only the devoted know the cost", "Solo i devoti conoscono il prezzo"; e nell'inquietudine che occupa lo spazio fra i due poli della speranza e del dubbio, l'unica certezza, a volte, è la volontà di pagarlo, quel prezzo.

Lost

Per il sempre ricettivo mercato giapponese, capace, in termini di vendite, di regalare soddisfazioni anche nel corso di quegli anni considerati più ostici per il metal, la band aggiunge alla scaletta di Psychedelicatessen (pubblicato nella terra del Sol Levante dalla Fandango Records) una coppia di tracce bonus, arrotondando così il computo complessivo da nove ad undici brani. La prima di esse, Lost (Perduto), in continuità con Keep it with mine, che chiudeva il debutto dei britannici, Wounded land, è un pezzo completamente acustico, composto, testo e musica, dal solo Jon Jeary, abile a disimpegnarsi anche alla chitarra e supportato con discrezione da alcuni interventi di Richard West alle tastiere. Del tutto diversa, tuttavia, l'atmosfera che aleggia in questa occasione: scomparso il gusto bucolico e un poco naif dell'analogo episodio precedente, è piuttosto un senso di introspezione sofferta quello che si può percepire a livello musicale, oltre che lirico. Non lasciano infatti molti dubbi le parole del testo, doloroso monologo di un individuo che non trova un senso alla propria esistenza, incapace di riconoscere chi sappia corrispondere ai suoi sentimenti: "I'm walking a tight-rope / Stretched twixt truth and illusion / Sometimes it's real / But my life just seems to melt / Into helpless confusion / I just can't deal with / The lust for acceptance / And the pain of rejection" ("Sto camminando su una corda / Tesa fra verità ed illusione / A volte è vero / Ma la mia vita sembra fondersi / In una confusione disperata / Semplicemente non sono in grado di affrontare / Il desiderio di essere accettato / E il dolore di essere respinto"). Ancora, nella seconda strofa, la presa di coscienza della propria solitudine esistenziale e di come solo un sentimento autentico possa effettivamente porvi rimedio: "My heart won't heal / As I circle it round / With a wall of protection / I'm hiding all the pain / And I can't accept the blame and I'm / So alone in a world of love / With no-one meant for me" ("Il mio cuore non guarirà / Finché lo circondo / Con un muro di protezione / Sto nascondendo tutto il dolore / E non riesco ad accettare la colpa e / Sono così solo in un modo d'amore / Senza nessuno destinato a me"). Meritevole di menzione, nell'insieme di un brano volutamente scarno negli arrangiamenti, l'interpretazione sentita ed emotiva di Morgan, che esalta opportunamente i tratti intimistici della composizione, evitando di graffiare e optando, piuttosto, per le sfumature più calde della sua timbrica, a ulteriore riconferma di una versatilità che lo distacca dalla media delle voci heavy rock o metal. Tocca, poi, alle soffuse incursioni tastieristiche di West separare la prima coppia di strofe dalla seconda, che ne ricalca fedelmente la struttura e il giro armonico, e queste ultime dalla definitiva chiusura del brano. Caratterizzata, questa, da un'elegiaca tonalità minore ancora più marcata che in precedenza, congeda l'ascoltatore con la ripetizione di un malinconico proposito della voce narrante: "Don't wanna feel this way again" ("Non voglio sentirmi di nuovo in questo modo"). Conclusione coerente, quindi, con le tinte crepuscolari dell'intero brano, che, pur non rappresentando un episodio imprescindibile nell'economia del disco, rappresenta bene le fonti ispiratrici dei britannici ed in particolare di Jon Jeary, cultore della scena progressive della madrepatria, nella cui storia musicale hanno sempre trovato spazio castoni acustici analoghi a questo, in bilico tra reminiscenze folkeggianti e raffinate melodie da cantautorato.

Intervention

A rendere ancor più invitante l'edizione nipponica di Psychedelicatessen, Karl Groom e compagni inseriscono in coda alla scaletta ufficiale una seconda traccia bonus. Non si tratta, in realtà, di un brano del tutto inedito, bensì, per la precisione, della prima canzone effettivamente pubblicata a livello ufficiale a nome Threshold. Intervention (Intervento) vide infatti la luce per la prima volta nel 1993, sul secondo volume della raccolta SI Compilation, promossa appunto dalla rivista olandese SI Music, non a caso specializzata in progressive rock e metal, poco prima dell'uscita sul mercato di Wounded land, esordio discografico su lunga distanza dei progsters britannici. La versione qui presente, però, non è una semplice riproposizione di una canzone già sentita: approfittando, infatti, della presenza di elementi nuovi in seno al gruppo, gli inglesi la aggiornano, integrandovi le linee vocali di Glynn Morgan al posto di quelle originariamente cantate da Damian Wilson e incrementando la presenza delle tastiere, così da rivederne in meglio l'arrangiamento complessivo (concepito e eseguito da Karl Groom nella versione precedente, mancando ancora un musicista deputato in quel ruolo). Detto che la struttura del brano non è in alcun modo alterata, si può riconoscere che l'insieme ne risenta positivamente, nel complesso, specie per quanto riguarda la voce, che risulta più adatta, rispetto a quella di Wilson, a rendere più stridenti alcuni passaggi, come nel crescendo che porta lentamente alla conclusione del brano; qui l'ugola graffiante di Morgan sublima la tensione latente nel tessuto musicale, quasi a rendere fisico lo strazio descritto nelle liriche, scritte, come consuetudine, da Jon Jeary ed ispirate dalla notizia, allora di stretta attualità, dello scoppio di un conflitto su base etnica e politica nei territori dell'ex Jugoslavia. Significativi, a loro volta, gli inserti delle tastiere ad opera di Richard West, che permettono, da un lato, di ampliare orizzontalmente il suono complessivo, come nello stacco sospeso posto circa a metà del brano, e di approfondire, dall'altro, l'atmosfera cupa dipinta dal riff principale, vagamente sabbathiano, soprattutto in certe scale cromatiche discendenti. Una rilettura che riesce nell'intento di potenziare i punti forti della composizione, e non soltanto uno specchietto per allodole restie ad allargare i cordoni della borsa, oppure malate di completismo; ed un valore aggiunto, quindi, per una scaletta comunque già molto interessante in sé e per sé.

Conclusioni

Se l'esordio dei britannici aveva puntato su una ricetta estremamente esplicita, vale a dire una commistione tra rifferama di chiara estrazione metal (talvolta con toni cupi e monolitici, talaltra con un piglio più spigliato ed hard 'n' heavy) e ricercatezza stilistica mutuata dalla scuola progressive della terra d'Albione (con annesse sezioni solistiche ad ampio respiro, ove permettere selvagge sgroppate agli strumentisti coinvolti), il secondo capitolo discografico della loro carriera propone un'asciugatura quasi drastica di quell'approccio. Il tratto più prettamente progressivo di Psychedelicatessen, infatti, non sta solo nell'inserimento, a volte un po' forzato, di complessi arzigogoli esecutivi, o nell'inclusione di svariati cambi d'atmosfera all'interno della stessa canzone; il sestetto del Surrey, invece, ricalibra il proprio gusto nella ricerca di arrangiamenti meno convenzionali, utili a stemperare l'impatto di un lavoro di chitarre quanto mai ruvido e deciso, oppure a sottolineare le partiture più intimistiche e riflessive. Un ruolo notevole gioca, e non poteva essere altrimenti, il cambio di titolare dietro al microfono: la timbrica naturalmente asprigna e corposa del nuovo entrato Glynn Morgan spinge il resto del gruppo a sfruttare queste caratteristiche, portando ad un indurimento complessivo del suono, che peraltro permette alle sezioni di minor impatto immediato di risaltare ancor di più, come nell'ottima Devoted o nella transizione da strofa a ritornello della sontuosa Into the light (collocata, in evidente parallelo alla precedente Sanity's end, al terzo gradino della scaletta). Anche le sezioni solistiche, lievemente meno debordanti rispetto al recente passato, possono, in qualche occasione, essere lette in chiave mimetica, allo scopo di rimarcare il messaggio lirico o l'atmosfera del brano; segno di una maturazione compositiva che porta a considerare il primo piano sullo strumento non più come un puro, semplice e scontato momento di esibizione, così come consacrato da decenni di tradizione rock, ma come un mezzo di espressione artistica che non si può scindere dal complesso dell'arrangiamento, pena la perdita di significato. Un volontà di asciugare il suono che si può cogliere anche da segnali puramente estetici, come il cambio di grafica nel logo della band (di gusto più elaborato quello che campeggiava sul debutto, più essenziale e compatto il nuovo) e da altri più sostanziali, come la durata totale degli album in questione: laddove, infatti, Wounded land arrivava a superare i cinquantasette minuti con otto tracce, il successore Psychedelicatessen si attesta poco sopra i cinquantasei, ma con un totale di nove brani (escludendo le tracce bonus), in cui spicca per brevità e peculiarità lo spaccato tastieristico ed acustico di Under the sun, una completa novità, dal punto di vista compositivo. E questo senso di varietà, che si ritrova nello scorrere la scaletta del disco, è probabilmente il segreto del diverso fascino di questo seconda opera dei Threshold. Oltre alla già citata Under the sun, scritta in solitaria da Richard West, si contano infatti due brani composti dal solo Morgan, Will to give ed Innocent, entrambi capaci di inoculare sangue fresco nei tessuti creativi della band: la prima con il suo incedere grooveggiante, che occhieggia quasi a certo metal degli anni Novanta, la seconda, pur situandosi comodamente entro i confini della power ballad, che introduce una tipologia di canzone mai prima sperimentata. Se poi aggiungiamo che uno dei pezzi più efficaci del lotto, l'introduttiva Sunseeker, nasce dalla collaborazione di ben quattro membri della band, si può capire quanto forte soffiasse il vento di rinnovamento nei ranghi del gruppo inglese. Proprio questo è forse il tratto più paradossale, a conti fatti: una varietà di compositori e di stili musicali, il cui risultato è singolarmente più omogeneo e meno dispersivo in confronto con il diretto predecessore, che pure, come si è detto, partiva da un'idea di fondo univoca. Unica vera pecca, una produzione non ancora all'altezza, con suoni eccessivamente sottili, che non premiamo certi riff secchi e il prezioso lavoro delle tastiere nel dare corpo all'intero impasto musicale. Errore di gioventù, per così dire, del tutto comprensibile in un gruppo che sta ancora definendosi appieno, e che, ciononostante, si mostra già consapevole delle proprie capacità e desideroso di sperimentare, sfrondando il superfluo senza banalizzarsi. Se progressive significa, dunque, superare le barriere e le secche compositive, trovare soluzioni inedite, costruire, in definitiva un linguaggio per comunicare qualcosa di diverso da quanto già visto e sentito, allora i Threshold, con questo Psychedelicatessen, ne sono la perfetta incarnazione metallica.

1) Sunseeker
2) A Tension of Souls
3) Into the Light
4) Will to Give
5) Under the Sun
6) Babylon Rising
7) He Is I Am
8) Innocent
9) Devoted
10) Lost
11) Intervention
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