THRESHOLD

Legends of the Shires

2017 - Nuclear Blast

A CURA DI
VALERIO TORCHIO
09/01/2018
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Introduzione Recensione

Un nuovo disco dei progsters britannici Threshold è sempre una buona notizia. Per chi apprezza la loro musica, innanzitutto, considerata la qualità media costantemente elevata delle loro produzioni. Per chi suona musica come la loro, perché un gruppo che, dopo quasi vent'anni di carriera, possiede la freschezza e la sicurezza di sé per pubblicare un concept album della durata di ottantadue minuti, mettendosi in gioco per l'ennesima volta, costituisce un esempio di valore indiscutibile. E, infine, più prosaicamente, per chi di musica vive, dai musicisti stessi ai produttori, alle case discografiche, se teniamo presente che ogni loro disco ha saputo superare i precedenti quanto a copie vendute, e "Legends of the Shires", undicesima tacca della loro nutrita discografia, non ha fatto eccezione, facendo addirittura capolino nella top 100 in terra d'Albione. Sappiamo bene, ad ogni modo, che nessuna di queste tre ragioni è fondamentale nella creazione di un'opera d'arte, la cui genesi risponde solo ad un'esigenza espressiva dell'artista, ovvero alla traduzione in forma estetica di tensioni che percepisce e si trova a vivere. E situazioni problematiche, durante la composizione di questo disco, non sono certo mancate alla band. Dopo una decina d'anni di relativa stabilità, la line-up attraversa infatti un nuovo sconvolgimento: tra febbraio e marzo del 2017, infatti, abbandonano il gruppo sia Pete Morten, che ormai da anni dividevacon Karl Groom le partiture chitarristiche, sia, e soprattutto, Damian Wilson, storico cantante sui primi album dei britannici, rientrato nei ranghi fin dal 2007 e presente sugli ultimi due dischi in studio, nonché in diversi tour in Europa e oltreoceano. Separazioni di peso, queste, benché avvenute senza significative frizioni, a quanto sembra (nonostante Wilson abbia raccontato alla stampa di settore, poco dopo la sua fuoriuscita, che non si sia trattato di una decisione condivisa e che il suo desiderio di avere, nell'economia del gruppo, parità di ruolo con i compositori principali Karl Groom e Richard West avesse provocato attriti negli anni precedenti), tanto che lo stesso vocalist fornisce ai restanti membri della band una lista di nomi da cui scegliere il suo sostituto. Le sue indicazioni non sono, però, prese in considerazione: Groom e West, che non intendono sobbarcarsi una serie, magari anche inconcludente, di audizioni, preferiscono puntare su un usato sicuro ed immediatamente disponibile. E che usato: proprioquel Glynn Morgan che aveva già militato nel gruppo attorno alla metà degli anni Novanta ed aveva prestato la sua ugola, dotata tanto di estensione quanto di una corposa ruvidità, alla seconda prova in studio dei britannici, Psychedelicatessen, oltre ad aver partecipato alle successivedate dal vivo in Europa e Giappone. Morgan, dal canto suo, era sempre rimasto in contatto con gli ex compagni e, libero com'è da altri impegni, non attende altro che una chiamata da parte loro per tornare dietro al microfono; e non solo, dal momento che, approfittando della sua abilità anche in veste di chitarrista, la band può risparmiarsi la ricerca di un secondo addetto alle sei corde, ridefinendosi quindi come quintetto. Verrebbe da citare il classico proverbio secondo cui non tutto il male vien per nuocere; ancora di più, se si pensa alla qualità della musica composta dal gruppo una volta uscito da questo turbinio di avvenimenti non esattamente piacevoli. I cambiamenti in atto spingono, infatti, a sentire l'album in fase di composizione come un nuovo capitolo nella storia della band, che decide, così, di testare se stessa nel tentativo di dar vita ad un album in cui complessità e profondità superassero quanto realizzato negli anni e nei dischi precedenti. L'ispirazione scorre fluida fin dall'inizio: dopo una prima stesura, che produce già quasi un'ora di musica, ed una prima rifinitura in studio, Karl Groom sente che il processo compositivo non è ancora giunto a completamento e di avere ancora parecchie idee da sfruttare; contatta allora Richard West, all'opera sulle melodie e sui testi, e quest'ultimo coglie l'occasione per proporre al chitarrista il concept a cui sta pensando e per il quale avrebbe bisogno di altra musica inedita: il nuovo lavoro dei britannici inizia dunque a prendere l'impegnativa forma del disco a tema unico, il secondo della loro produzione, dopo l'ormai lontano Clone, uscito nel 1998. La seconda sessione compositiva porta il minutaggio totale a quasi un'ora e venti minuti, definitivamente poi arrotondati ad ottantadue grazie all'aggiunta di due brevi pezzi, il primo dei quali ha il compito di inaugurare la scaletta, introducendovi la melodia guida, mentre il secondo funge da raccordo fra la sezione centrale e la conclusiva dell'album stesso. Ma su quali argomenti verte, allora, lo sviluppo di questo nuovo sforzo discografico della band britannica? Logico immaginare che, se la musica si avventura lungo la strada che porta ad arrangiamenti articolati ed a strutture ricche di variazioni e sfumature stilistiche, anche il comparto lirico non possa essere da meno. Ecco dunque delinearsi una serie di capitoli che narrano di come una nazione, rappresentata appunto dalle Shires("Contee") inglesi, stia cercando il proprio posto nel mondo; se è vero, com'è vero, che le nazioni non sono formate da altro che da individui, si può comprendere come questi racconti si attagliano benissimo tanto al macrocosmo nazionale quanto (se non di più, per certi aspetti) al microcosmo individuale, quello, cioè, della singola persona immersa nella lotta quotidiana con la propria realtà e piena di domande su quale possa effettivamente essere il ruolo che le compete. Argomento ricco di sfaccettature e che si presta ad essere considerato da molteplici angolazioni, proprio com'è tradizione del progressive rock che, per un gruppo come i Threshold, è un punto di riferimento costante. Ed alla volontà di omaggiare quello storico filone musicale si può certamente ricondurre anche la scelta della copertina, opera dell'artista russa Elena Dudina: un suggestivo panorama dominato da elementi naturali e tinto dalle sfumature di verde scuro, grigio ed azzurro, in cui la presenza umana si riduce ad un edificio dai chiari tratti gotici, che allude alle epoche passate della terra inglese; il tutto è coperto da un cielo in parte plumbeo, contro il quale cerca di farsi largo, poco sopra la linea dell'orizzonte, un sole ancora velato e pallido. Un'immagine che comunica, dunque, mistero e grandeur, intonandosi perfettamente al tema narrativodall'album e presentandosi come ideale sfondo per le diverse storie narrate. E il completamento perfetto di un doppio album davvero ambizioso per il gruppo britannico, che sicuramente vuole cogliere l'opportunità di cancellare la lavagna, dopo gli ultimi scossoni subiti dall'organico, e di ripartire col botto, ossia con un disco in cui presentare una rinnovata voglia di sperimentare senza, tuttavia, rinunciare a quello che è ormai un vero e proprio marchio di fabbrica sonoro, riconoscibile in pochi ascolti. Non ci resta che lasciarci guidare attraverso i vari capitoli in musica di questo undicesimo lavoro a firma Threshold, alla scoperta non solo di quale sia la collocazione di una nazione nella storia del mondo che conosciamo, ma anche di quale sia, per il singolo individuo, o meglio per ciascuno di noi, il posto in cui finalmente poter trovare un senso alla nostra storia ed al nostro mondo.

The Shire (part 1)

Compito di inaugurare il viaggio musicale del disco spetta a The Shire (part 1) ("La Contea, parte prima"), un brano introduttivo di durata contenuta, caratterizzato da una linea melodica che si rivelerà essere il tema guida di questa corposa opera prog rock (e sarà infatti ripreso in momenti successivi del disco). Aperto da distanti suoni di campane, il pezzo si fa strada, dolce e melanconico, grazie ad un leggero accompagnamento di chitarra acustica e di pianoforte, su cui la voce del redivivo Glynn Morgan ha completo agio interpretativo; il suo timbro versatile ma solido, espressivo senza eccessivi compiacimenti estetico-interpretativi (che, com'è noto, sfociano spesso in forzature grottesche, finendo per inaridire il succo emotivo di quella che, piccola o grande che la si consideri, è un'espressione artistica) dona il giusto calore ad una melodia portante orecchiabile e segnata, fin da subito, da una sottile eco epica, chela tiene lontana da ogni scontatezza. A ribadire, poi, il ruolo introduttivo della traccia coopera anche il testo, in cui si presenta, con accenti quasi favolistici, il protagonista dei diversi episodi della storia narrata: "Once there was a man of many means/ Inherited by someone else's dreams / He said one day I'll plough and sow the seed / If only I could learn to tame the weeds" ("C'era una volta un uomo dalle molte risorse / Ereditate dai sogni di qualcun altro / Disse: un giorno mi metterò ad arare e a piantare i semi / Se solo potessi imparare a domare le erbacce"). Non è difficile intuire, fin da queste prime parole, un riferimento all'argomento guida di tutto il disco, vale a dire la ricerca di un posto nel mondo, come chiaramente indicato dalla band stessa nel prologo, sia che si parli di un intero popolo, sia che riguardi una singola persona. Seguiamo, dunque, i passi dell'io narrante, mentre ci ricorda che "This life was meant for me" ("Questa vita è stata destinata a me") ed immedesimiamoci nei suoi dubbi, nelle sue certezze e nelle scoperte che compirà lungo il suo cammino attraverso le suggestive Contee inglesi.

Small dark lines

Il vero e proprio slancio iniziale all'album lo dà Small dark lines (Piccole linee scure): tempo sostenuto, riff di chitarre in primo piano e appena accompagnati da effetti elettronici, basso e batteria compatti a sostenere le frequenze più profonde? Tutti gli ingredienti usuali di un robusto pezzo heavy rock "classico", su cui la timbrica di Morgan si può ispessire ed avere corpo senza perdere in chiarezza espressiva.Non a caso il brano è stato scelto come singolo di lancio dalla casa discografica, seppur in una versione leggermente abbreviata, e correlato di un videoclip indubbiamente d'impatto.Una scelta tutto sommato controcorrente, per un gruppo che si riconosce nella definizione "progressive", quella di percorrere la strada dell'essenzialità e della accessibilità; la band, d'altra parte, non è nuova, fin dai suoi esordi, a proporre brani che abbiano la caratura, appunto, del singolo, cioè dotati di orecchiabilità e basati su strutture non necessariamente complesse, sempre salvaguardando il proprio marchio di originalità e senza scadere in frivolezze da classifica pop. Mestiereda musicisti smaliziati? Per nulla: qui si parla di accortezza compositiva, quella che, in un gruppo dall'esperienza consolidata, risalta, ad esempio, nella dosata costruzione del crescendo all'interno di un pezzo dai fronzoli non eccessivi, come questo. Così alla strofa, più serrata e cupa, si aggancia un ponte in cui le tastiere preparano l'apertura melodica del ritornello, davvero rifinito ad arte per esplodere in una riproposizione dal vivo: sia l'attacco corale, sia i passaggi in cui la linea vocale è unica e punteggiata da piccole variazioni ritmiche hanno come obiettivo immediatezza e memorabilità, enfatizzate da una doppia cassa sostenuta ma non invadente. Ad una seconda successione di strofa, ponte e ritornello subentra, però, un cambio ritmico, essenziale a spezzare una struttura che poteva apparire fin troppo scorrevole e scontata: su un tempo dispari sincopato si innesta un breve solo di tastiera, particolarmente ricco di effettistica, cui segue un breve intermezzo e l'inevitabile risposta in solitaria della chitarra di Karl Groom, sullo stesso riff protagonista della strofa. Ad un ultimo ritornello nella tonalità usuale si aggancia un secondo, variato però da una modulazione sottolineata dalla sovrapposizione delle linee vocali, che ci conduce alla chiusura del brano. Da notare come, per tutta la durata del pezzo, Morgan, cantante dotato di estensione vocale senza dubbio ragguardevole, si sappia mettere al servizio della melodia portante, senza eccedere nel ricorso ad acuti che pure fan parte del suo bagaglio tecnico. La sua interpretazione ricca di chiaroscuri, del resto, è funzionale alla resa ottimale di un testo che descrive le incertezze e le indecisioni di un uomo che vuole dare una svolta alla propria vita ma che, per farlo appieno deve lasciarsi alle spalle tutti le piccole bugie, i dubbi, le insicurezze, espresse dai toni cupi e delle strofe: "There's a glint on the wind and the future's waiting / If my dark little words don't blow the whole thing / And I know that the the world can be mine to conquer/ If my dark little thoughts don't start to wander / I feel them slipping away ("C'è un bagliore nel vento e il futuro sto aspettando / Se le mie piccole parole scure non spazzano via tutto quanto / E so che può diventare una mia conquista / Se i miei piccoli pensieri scuri non iniziano a divagare / Li sento scivolare via"). Come detto prima, fortunatamente, non tutto è insabbiato in questi dilemmi: "I know that your loving eyes are onto me / And living life is such a high risk strategy" ("So che i tuoi occhi amorevoli sono su di me / E che vivere la vita è davvero una strategia ad alto rischio"), recita il testo nel ponte, prima di definire quale sia la natura di tutto ciò che intralcia il protagonista, e tutti noi con lui. "There are small dark lines on my heart tonight / From all those times that I crossed the line / Hallmark scars that were left behind / Memories never fade / Iknow I should never be forgiven / Given all the little lies I'm living / So I suffer all those linesas a warning sign / That never goes away" ("Ci sono piccole linee scure nel mio cuore stanotte / Per tutte le volte che ho oltrepassato il limite / Cicatrici caratteristiche che erano state lasciate alle spalle / La memoria non svanisce mai / So che non dovrei mai essere perdonato / Considerate tutte le piccole bugie che sto vivendo / Perciò sopporto quelle linee come un segno di avvertimento / Che non scompare mai), e l'invito è chiaro: ci dobbiamo portare addosso i segni di ogni trasgressione che compiamo nei confronti di chi ci sta vicino, oppure ci capita di incontrare nella nostra vita, come una cicatrice, un tratto distintivo delle esperienze difficili che abbiamo attraversato e che dobbiamo elaborare, al fine di poter avanzare nuovamente. Se dunque non è possibile superare completamente quelle esitazioni, quelle incertezze di cui si è parlato, facciamone per lo meno un punto di non ritorno, un capo tempestoso da doppiare nella ricerca di un porto sicuro. Quale poi questo possa essere, non è certo: quegli occhi amorevoli sopra citati saranno umani, sconosciuti, o divini?

The man who saw through time

Il triangolo di soluzioni compositive che caratterizza Legends of the Shires potrebbe dirsi chiuso già con questa terza traccia, The man who saw through time ("L'uomo che vide nel tempo"): l'equilibrio del disco oscilla, infatti, fra i brani-raccordo, ove ricorre la melodia guida presente in The Shire (part 1), quelli più diretti e di durata più contenuta, ben rappresentati da Small dark lines, ed elaborate, ampie suites, come il pezzo in questione. Se è vero che composizioni di questo genere fanno parte dell'armamentario compositivo della band fin dai suoi primi vagiti discografici, la loro forma è andata (e non è un gioco di parole) progredendo col tempo ed ha assunto, senza perdere di imprevedibilità, una struttura più armoniosa e internamente coesa. In questo caso Richard West, compositore unico del brano, ha puntato inequivocabilmente a ricreare un'atmosfera di sapore teatrale, evocando, nei vari movimenti del pezzo, la grandeur e il senso di stupore che lo svolgersi di uno spettacolo possa suscitare nello spettatore. Tutte le risorse compositive e tecniche del gruppo, dunque, devono essere impiegate per riprodurre adeguatamente la scena che si svolge, non davanti agli occhi, ma negli orecchi degli ascoltatori; ecco spiegata la ricchezza stilistica di cui il brano abbonda. Se i primi minuti, quasi a mo' di introduzione, sono affidati solamente a piano, basso e voce, con la chitarra, comprimaria in languidi arpeggi,che riemerge solo in un malinconico canto, quando la storia entra nel vivo, vale a dire nel momento in cui il protagonista ha la prima visione di ciò che lo attende nel futuro, il tempo si fa più serrato, trascinato da frequenze basse enfatizzate e scandito da distanti accordi della sei corde. Più tale visione si fa intensa, più gli strumenti incalzano: un breve riff articolato, intrecciato a suoni elettronici di tastiera e a tocchi sincopati della batteria, porta ad un ritornello arioso ed alla sua calibrata modulazione fra minore e maggiore, a simboleggiare l'ambivalenza delle premonizioni vissute dal protagonista una volta che i suoi occhi si sono aperti ad esse, così narrate da Morgan: "How he cried at all the pain / How he glowed at his success / He watched his life unfolding /How he hid from all the shame / How he laughed when he was blessed / His lows and highs beholding / But now he knew too much / The man who saw through time" ("Come aveva pianto per tutto il dolore / Com'era raggiante per il suo successo / Aveva visto la sua vita svelarsi / Come si era nascosto da tutta la vergogna / Come aveva riso quando si era sentito fortunato / Mentre osservava i suoi momenti cattivi e buoni / Ma ora sapeva troppo / L'uomo che aveva visto attraverso il tempo"). Conosciuto il proprio futuro, il protagonista, soddisfatto, scorda le fatiche con cui aveva raggiunto il suo successo; e quando queste riappaiono sul suo cammino, quando le incertezze minano la sua felicità, tenta di nuovo di accedere alla visione. Il quadro, suo malgrado, non sarà lo stesso della precedente: "How he cried at all he saw / How he grieved for his success / He watched his life unfolding / Now his life brought only shame / Now unsure if he was blessed / More lows than highs beholding / For now he knew too much / The man who saw through time" ("Come aveva pianto per tutto ciò che aveva visto / Come aveva provato dolore per il suo successo / Aveva visto la sua vita svelarsi / Ora la sua vita portava solo vergogna / Ora non era sicuro di essere stato fortunato / Mentre osservava più momenti cattivi che buoni / Perché ora sapeva troppo / L'uomo che aveva visto attraverso il tempo"). Lo sconforto provato prende così la forma del disprezzo per quanto ottenuto, che non gli appare altro che "ripples on a tide" ("increspature sulla marea") e la drammaticità del momento è coerentemente rispecchiata dall'andamento del brano, che presenta infatti una variazione basata su una sequenza di accordi dal sapore classicheggiante, in cui la chitarra elettrica, suonando singole note lunghe sui registri bassi, è impiegata quasi a imitazione degli strumenti a corda da orchestra sinfonica, nello sforzo di riproporre la tensione narrativa;ennesima riprova della flessibilità e della capacità del gruppo di ritagliarsi spazi di originalità anche in strutture ormai consolidate. A proposito di topoi, difficile negare cittadinanza, in una suite come questa, ad un corposo stacco solistico; fortunatamente, all'usuale funzione di luna park per velleità esibizionistiche, si associa, data la natura del pezzo, il valore di rappresentazione musicale dei turbamenti del protagonista. Ecco dunque tastiera e chitarra rincorrersi su di un tappeto ritmico ricco di spezzature, ivi compresi gli immancabili tempi dispari, fino ad un veloce finale armonizzato che sfocia a sua volta in una riproposizione prima della variante classicheggiante, resa ancora più teatrale da un rallentamento conclusivo, e poi del malinconico canto di chitarra che aveva terminato la sezione introduttiva del brano, impreziosito da una piccola fuga con coda in tapping. A sancire, infine, la voluta circolarità della struttura compositiva, la chiusura del brano è affidata ai medesimi accordi di piano ed alla medesima linea vocale che l'avevano aperta e che gettano una luce di speranza sull'esito del viaggio virtuale compiuto dal protagonista nel proprio domani: sembra, infatti, che abbia trovato le motivazioni smarrite poco sopra: "Back at home he made a bold decision / Working harder than before / To obliterate that second vision / And find the other one he saw / And every time it hurts or felt a little worse / The more he fought the tide / So maybe he'll fulfill / Greater stories still / The man who saw through time" ("Tornato a casa prese una decisione coraggiosa / Impegnarsi ancora più di prima / Per cancellare quella seconda visione / E trovare l'altra che aveva visto / Ed ogni volta che avesse provato dolore o si fosse sentito peggio / Avrebbe combattuto ancora di più la marea / Così forse realizzerà / Storie ancora più grandi / L'uomo che aveva visto attraverso il tempo").Cadere e rialzarsi, insomma: un classico della letteratura per un brano che vuole ispirarsi ai classici del rock progressivo, aggiungendo quel tocco di aggressività che il retroterra metallico dei Threshold permette. E senza dubbio gli ingredienti funzionano: nonostante raggiunga quasi dodici minuti di durata, non c'è spazio per la noia dell'ascoltatore smaliziato né per i disorientamenti del neofita; il primo, anzi, apprezzerà, passaggio dopo passaggio, l'attenta costruzione dei diversi momenti in questa sorta di rappresentazione in musica, mentre il secondo sarà attrattodalla pregevolezza delle linee melodiche e si appoggerà alla circolarità della struttura, in cui davvero minimo è il superfluo. Se un piccolo appunto si può muovere, il taglio narrativo delle liriche rende, in qualche punto, un po' sfuggente il corso della vicenda; non sarebbe mancato spazio per un racconto più disteso, ma forse questa scelta si spiega con la volontà di preservare il sapore suggestivo del "non detto", tipico appunto delle leggende che danno il titolo all'intero album. Dettaglio, comunque, che non comprometterà lo spettacolo.

Trust the process

A seguire la ricca portata costituita dalla suite è Trust the process ("Fidati della procedura"), brano che, seppur non di molto inferiore, nei suoi quasi nove minuti, quanto a durata, mostra un volto diverso della band. Qui sono ritmi più incalzanti e riff di chitarra in primo piano a caratterizzare l'impianto del pezzo (non a caso scritto dal chitarrista Karl Groom), lasciando alle tastiere il compito di allargare dove necessario lo spettro sonoro e di offrirsi come elemento di varietà, atto a stemperare i passaggi più diretti. L'apertura, affidata ad un riff dissonante su tempo dispari, mette subito in evidenza la ricerca dell'impatto; suggestivo, inoltre, l'impiego di orchestrazioni d'archi ad enfatizzarne l'andamento, per non parlare della doppia cassa a ruota libera di Johanne James. La prima strofa rappresenta invece un momento di respiro, in cui la batteria, su un più usuale quattro quarti, e il basso permettono alla voce di Morgan di spiegarsi al meglio, mentre effetti elettronici ed un arpeggio lontano fungono da "quinta". Nel passaggio da una strofa alla successiva un ascoltatore attento può apprezzare il ricorso a quella cura per il dettaglio già rilevata più volte: l'ingresso della chitarra distorta ad ispessire il tessuto sonoro, ed il cantante ad aggiungere, da parte sua, robustezza e ruvidità. Un riff più spezzato prepara la modulazione che sfocia nel ritornello, in cui l'opposizione fra una sezione strumentale serrata e l'approccio melodico tipico della band è sublimata dal ricorso a cori che espandono ulteriormente l'impatto sonoro.Appropriatamente, a giovarne è il testo forse più apertamente "politico" dell'intero lavoro: "But when the leader doesn't know which way to go / How can you follow him? / Trust the process /And when the more we learn the less we seem to know / How can you swallow it? / Trust the process" ("Ma quando la guida non sa quale strada prendere / Come puoi seguirla? / Fidati della procedura / E quando più impariamo e meno sembra che sappiamo/Come puoi mandarlo giù? / Fidati della procedura"). Il gruppo non ha fatto certo mistero di alludere, benché senza entrare in territori apertamente polemici, al pasticcio creato nella loro patria, la Gran Bretagna, dalla tanto chiacchierata Brexit; pur potendosi indirizzare a qualsiasi leader, è difficile non cogliere, nelle parole del ritornello, una frecciata diretta agli attuali rappresentanti politici britannici. Dopo strofa e ritornello successivi, a sorprendere la nostra attenzione è una variazione tra le meglio congegnate dell'album, strategicamente piazzata a metà del brano: pianoforte staccato, tempo dispari, contrappunto vocale, ancora una volta suggestioni operistiche in campo rock, in cui le liriche, appositamente, assumono toni più ironici: "There's no use/ Hiding from the truth / You'll be standing on the roof / Ignoring all the stars / There's no use / Pointing at the truth / You'll be riding on a mule / In a world full of cars" ("Non serve a nulla / Nascondersi dalla verità / Starai in piedi sul soffitto / Ignorando tutte le stelle / Non serve a nulla / Criticare la verità / Starai in groppa ad un mulo / In un modo pieno di automobili"). A ruota, un breve canto di chitarra armonizzata ci porta direttamente ad una prima sezione solistica, che culminain un riff all'unisono di chitarra e di organo Hammond (strumento, questo, piuttosto insolito nell'economia sonora del gruppo inglese); un secondo momento di libertà per tastiera e chitarra, subito dopo, è abilmente posato su uno dei tempi più articolati non solo del brano, ma di tutto il disco, a ribadire la sicurezza esecutiva dei musicisti in questione. Un'ultima serie di strofa, ponte e ritornello ci porta al finale, in cui ad accompagnarci alla chiusura è prima il riff intrecciato dalla sei corde e dall'Hammond, poi lo stesso che aveva aperto l'intera traccia. Come si nota, anche in questo caso la circolarità della composizione permette di donare organicità e di rimanere nei confini della forma-canzone, evitando però strutture logore e scontate. E si può perdonare alla band, almeno nell'occasione, una certa autoindulgenza nel concedersi una sezione solistica abbastanza estesa, omaggio, in fondo, alla tradizione musicale da cui provengono; l'impatto della traccia non ne risulta compromesso, e la rete di richiami interni fra le varie sezioni, come già detto, circoscrive la trama musicale, evitandole di sfilacciarsi. Trust the process, dunque, scuote l'inerzia dell'album, dopo l'inevitabile pausa costituita dalla suite precedente, e soprattutto inietta una sostanziosa dose di chitarre nelle orecchie dell'ascoltatore.Se, infatti, l'aggettivo progressive fa capolino spesso e volentieri quando si parla dei Threshold, non scordiamoci però dell'altro che li definisce: metal.

Stars and satellites

Ancora un netto cambio di atmosfera musicale con Stars and satellites ("Stelle e satelliti"), altro brano firmato interamente da Richard West, che si conferma così compositore dallo spiccato gusto per le grandi melodie ed abile nell'inserire variazioni strutturali e armoniche con cui sorprendere ed affascinare l'ascoltatore. Il giro di basso in levare che inaugura il brano farebbe presupporre un'atmosfera misteriosa e financo oscura, come pure l'ingresso di chitarra e batteria in doppia cassa, sostenuto da un enfatico arrangiamento d'archi, ma la prima strofa stupisce aprendosi su un arpeggio sospeso davvero d'effetto, coronato dalla voce di Morgan. L'arrivo degli altri strumenti ha appena restituito spessore al muro sonoro della band, quand'ecco un breve ponte in chiave maggiore a cambiare le carte in tavola nuovamente, prima di un ritornello graziato da una melodia sognante, di certo fra le più cantabili e, perché no, pop mai scritte dai britannici, a cui una semplice armonizzazione vocale dona la giusta corposità e resa ancora più accattivante da uno stacco per sola voce che sembra fatto apposta per chiamare il pubblico dal vivo a lasciarsi trascinare. Ad una simile linea melodica non poteva che addirsi un testo che spinga lo sguardo verso la cupola del cielo e che non disdegna un certo slancio poetico: "The moon goes round the world goes round the sun/ And you won't know your worth until it's done / And I can change your orbit change your size / But I don't want to launch you 'till it's wise / To set you spinning away / Like stars and satellites / Like stars and satellites" ("La Luna gira intorno al mondo che gira intorno al Sole / E tu non conosci il tuo valore finché non è finita / Ed io posso cambiare la tua orbita la tua dimensione / Ma io non voglio lanciarti finché non è saggio /Per farti ruotare via / Come stelle e satelliti / Come stelle e satelliti"). Sembra chiaro, da queste parole, che a dover trovare il proprio posto nel mondo, per richiamare il filo conduttore tematico dell'intero disco, non sia un individuo ormai maturo, ma un giovane, un figlio forse; certo, il pensiero corre subito alle speranze ed ai timori di un genitore, ma l'impianto lirico può benissimo funzionare anche se interpretato da un punto di vista religioso, alludendo ai pensieri rivolti da una mente divina alle sue creature. E, nella scrittura, l'utilizzo di una calcolata ambiguità, che permetta di leggere il messaggio con diverse sfumature di senso, è segno di abilità nel coinvolgere l'ascoltatore; non si tratta, sia chiaro, di affastellare qualche parola dal retrogusto spiritualistico, o frasi sospese che sembrano significare tutto e niente allo stesso tempo: il messaggio di fondo è bene comprensibile, ma può assumere sfumature diverse a seconda della luce interpretativa sotto cui è posto da chi lo riceve. La doppia lettura non viene meno nemmeno nella ripresa di strofa e ritornello successiva, in cui piombiamo quasi bruscamente, ed anzi è sapientemente mantenuta nella sezione corale che segue, anticipata da un breve solo melodico di Groom: "Will you answer the call on the telephone / Will you follow the map we sent / Will you take all the pills and the dollar bills / And the lies that came and went / Will you reach for the sky think that you can fly / Will you tumble and fall from grace / Will you study the plans and those invisible bands  / Till it's time to take your place / Like stars and satellites" ("Risponderai alle chiamate al telefono / Seguirai la mappa che abbiamo mandato / Prenderai tutte le pillole ed i biglietti da un dollaro / E le bugie che sono venute e sono andate / Arriverai fino al cielo, penserai di poter volare / Inciamperai e cadrai in disgrazia / Studierai i piani e quei legami invisibili / Fino a quando è il momento di prendere il tuo posto / Come stelle e satelliti"). Mentre l'ultima frase sfuma, siamo di nuovo presi alla sprovvista da un crescendo di note provenienti da una tastiera pesantemente distorta, che si aggancia ad un secondo momento solistico della sei corde. Un'ultima sequenza di ponte e ritornello, enfatizzato da linee vocali che si inseguono ad eco, ci portano a ritrovare, nel finale, il riff di apertura, ancora una volta irrobustito dagli archi e dalla doppia cassa. E proprio all'inizio accennavamo alla capacità del gruppo di sorprendere l'ascoltatore. E cosa di più stupefacente di un pezzo di un disco prog, di un gruppo prog, che prescinde dalle imprescindibili complicatezze ritmiche ed esecutive del genere? La consapevolezza di aver steso un brano efficace, in cui ritrova il proprio marchio d'autore sotto il profilo compositivo, permette alla band di rinunciare serenamente all'armamentario di genere per dedicarsi a rendere impeccabili i ceselli vocali, fluidi i passaggi fra i diversi momenti e le studiate modulazioni, che diventano così gli unici strumenti con cui tenere l'ascoltatore ad orecchi tesi fino all'ultimo secondo. A volte, contemplare il cielo per com'è stupisce molto più che vederlo stravolto da qualche trito gioco pirotecnico.

On the edge

Senza interruzione alcuna la traccia precedente si getta in questa On the edge ("Sull'orlo"), unico pezzo composto dal bassista Steve Anderson, a cui spetta anche il compito di chiudere, con i suoi cinque e poco più minuti, la prima metà dell'intero disco. Ed è una bella scossa: il riff di chitarra e basso giocato su salti di ottava, la batteria serrata su ottavi di cassa e rullante ci regalano una vampata di metallo quasi estremo, non fosse per le tastiere, pur relegate a sottofondo. In realtà è solo un momento: brusca frenata, e ci ritroviamo impantanati in una strofa lenta e groovy, comandata da un giro di basso profondo (non a caso, vale la pena ricordarlo, Anderson è il titolare del cinque corde nella band) a cui la chitarra si limita a circolare attorno, sfumata da un'effettistica di sapore psichedelico, mentre una linea vocale obliqua, giocata su tonalità medio-basse, ci narra i pensieriondivaghi di un protagonista che sembra sul punto di perdere se stesso: "I'm on the edge staring into my abyss / No don't let go don't succumb to its grips / Am I in too deep, I've lost my way, colours fade / A hand reaching out in dumb silence afraid" ("Sono sull'orlo, mentre osservo il mio abisso / No, non lasciarti andare, non soccombere alle sue strette / Ci sono dentro mani e piedi, ho perso la strada, i colori svaniscono / Una mano che si stende nel muto silenzio, impaurita"). Il rientro della chitarra, a doppiare il giro di basso, coincide con un crescendo di tensione emotiva e conduce ad un ponte in cui la ritmica si fa saltellante ed incerta, quasi di sapore funk rock, tale che possiamo quasi vedere i passi tentennanti del protagonista cercare un appoggio, fisico e allo stesso concettuale: "A friend in need is a friend indeed / Just let go of blind dignity / You can leave that all behind / In the wake of your will it's for you to decide" ("Un amico in difficoltà è comunque un amico / Lasciamo perdere il cieco senso dell'onore / Puoi lasciare tutto ciò alle spalle / Sta a te decidere in base alla tua volontà"). Uno sghembo fraseggio pentatonico all'unisono fa da tramite con in un ritornello arioso, sostenuto da lunghi accordi di chitarra, in cui la voce di Morgan può finalmente librarsi e cantare dell'aiuto che il protagonista tanto agognava,un aiuto forse soprannaturale, ma che non lo conduce esattamente alla pace perfetta che ci aspetteremmo: "I will always be grateful to the angels that cushion my fall /Leading me back to the flame in the darkness that ignited it all" ("Sarò sempre grato agli angeli che attutiscono la mia caduta / Riportandomi indietro a quella fiamma nell'oscurità che ha dato la scintilla a tutto quanto").Non ad una salvezza celeste, dunque, è ricondotto il protagonista da quegli angeli che lo salvano, bensì alla fiamma nell'oscurità: non ad una perfezione asettica, ma ad un principio vivo e vitale, anche se pericoloso. I suoi continui tentennamenti prendono poi forma in una sezione solistica che, da un lato, dona nuovo slancio al pezzo, accelerandone il passo, dall'altro è una mimesi consapevole dell'equilibrio precario di un indeciso, espressa nell'alternarsi di passaggi più fitti e di note più lunghe, nella ricerca voluta di dissonanze e di passaggi cromatici che sembrano davvero l'oscillazione dei suoi passi sul bordo del baratro, la sua ricerca di un punto saldo attraverso i fraseggi di tastiere e chitarra.C'è ancora tempo per una variazione, e ad accompagnarci, infatti, verso la chiusura del pezzo è una nuova strofa, caratterizzata da una progressione di accordi discendenti tipicamente rock ed impreziosita dalla sovrapposizione delle linee vocali; una pausa di riflessione per il protagonista, durante la quale il suo sguardo sembra vagare sull'abisso mentre raccoglie tutte le motivazioni che lo devono spingere alla decisione finale: "But be wary of this guise, contented is not wise / The shadows may return to take you / Remember all the pain that strips you of your name/ And left you worthless in the darkness" ("Ma diffida di questa parvenza, contento non significa saggio / Le ombre potrebbero tornare per catturarti / Ricorda tutto il dolore che ti ha spogliato del tuo nome / E ti ha lasciato privo di valore nel buio"). L'ultima linea vocale, e non certo a caso la più acuta, scandita da Morgan, che si conclude con le parole "it's time to reveal myself" ("È tempo di svelare me stesso") sul silenzio del resto della band, è il grido di un'anima che rompe definitivamente gli indugi, e decide da quale parte dell'orlo stare: lanciato da una rullata panoramica di batteria, il medesimo riff di chitarra e basso armonizzati che dava avvio agli equilibrismi sonori del brano si prende l'onere di terminarli, con l'aggiunta di una serie di colpi sincopati di batteria, che paiono stagliare un'ombra tragica sull'ultima scelta del protagonista. Quegli ultimi due ottavi, marchiati a fuoco dal rimbombo di timpano e rullante all'unisono, echeggiano forse l'impatto di qualcuno che, dopo aver a lungo indugiato sull'orlo del proprio abisso, ha trovato il modo di "rivelare se stesso", abbracciandolo fino in fondo?

The Shire, part 2

Il medesimo scroscio dell'immancabile pioggia inglese, la medesima melodia disegnata dalla chitarra acustica, la stessa strofa, in sostanza, che ha inaugurato la prima sezione di Legends of the Shires introduce anche il secondo segmento dell'opera, introdotto da The Shires, part 2 ("Le contee, parte seconda"). Se il contesto melodico è del tutto simile, le liriche mettono subito in evidenza come l'entusiasmo che il protagonista aveva esternato all'inizio si stia trasformando in frustrazione dinanzi alle sue continue difficoltà, celate neanche troppo velatamente dietro alla metafora (di sapore biblico) delle erbacce che ne infestano il campo. Il momento della prova, dunque, per il protagonista, come ben chiariscono le parole della seconda strofa: "So off he went and bought some new machines / and chemicals to subjugate the weeds / But now the roots had multiplied and grown / And crowded out the seeds that he has sown" ("Così partì e acquistò delle nuove macchine / E agenti chimici per sottomettere le erbacce / Ma ora le radici si erano moltiplicate ed erano cresciute / E superavano in numero i semi che aveva piantato"). Il culmine di questa consapevolezza si tocca nel breve ponte, sempre caratterizzato da un arpeggio della chitarra acustica, in cui più amaro è il disincanto: "And underneath the setting sun / Now he knew it / All he saw was toil to come / And no way through" ("E sotto il sole che tramontava / Ora lo sapeva / Tutto ciò che vedeva era la fatica in arrivo / E nessuna soluzione"). Più che logico, dunque, che il secondo ritornello sia supportato, a differenza di quanto sentito nel brano d'apertura dell'intero disco, da una solida distorsione chitarristica, specie quando Morgan dà voce al senso di sconfitta del nostro protagonista, che giunge ad esclamare, rovesciando le parole della parte prima, "this life is not for me" ("Questa vita non è per me"), cui segue un solo di chitarra altrettanto ricco di emotività. Una pausa di riflessione, scandita da un'incursione di basso fretless (consapevole tributo ad un topos del genere progressive, ma del tutto a tono con l'atmosfera melanconica del pezzo), lascia di nuovo spazio ad un ritornello, l'ultimo, accompagnato da un breve canto di chitarra elettrica e dalla ripresa del tema acustico che aveva aperto il brano. La seconda parte del conceptdovrà dunque mettere alla prova il nostro protagonista, testare la sua crescita attraverso una fase critica, come in ogni buon racconto di formazione. Al resto dei brani il compito di svelarci quali prove lo attendano, e soprattutto come saprà affrontarle.

Snowblind

Come nella prima parte dell'album, anche in questo caso allo sfumare della melodia di raccordo fa seguito un brano dal piglio più aggressivo e nervoso, Snowblind ("Accecato") sempre frutto dalla vena compositiva di Karl Groom. L'attacco è affidato, infatti, ad un cupo giro chitarristico su cui la voce scandisce le liriche quasi doppiandolo, il tutto incardinato ad un tempo sostenuto di batteria e basso; solo un breve canto armonizzato della sei corde, a chiusura di entrambe le prime due strofe, neillumina l'atmosfera. Strofe che raccontano di uno scacco e dell'apparente impossibilità di smuoversene: "Reflect conceal deflect but don't reveal / One day you won't remember what is real / I'm only one decision from amends / But I'm only one collision from the end / And the wind blows" ("Rifletti, nascondi, devia ma non rivelare / Un giorno non ricorderai più cosa siareale / Sono ad un solo verdetto dal risarcimento / Ma sono ad una sola collisione dalla fine / E il vento soffia").Uno stacco guidato da un nuovo riff sincopato ci ricolloca, inaspettatamente, in un contesto più melodico e riflessivo, durante il quale il protagonista pare appunto considerare la situazione di stallo in cui si trova, accompagnato da un arpeggio crepuscolare e dai sussurri tastieristici di Richard West; il timbro robusto di Morgan, dal canto suo, appare pienamente a suo agio nel colmare lo spazio lasciatogli dagli altri strumenti, dando voce a quei pensieri e ad un segmento lirico fra i più icastici dell'intero disco, rimarcato peraltro da armonizzazioni vocali ad hoc: "Sometimes you know when you've gambled too hard / Sometimes you know that you don't have the cards / These are the moments that defines who you are / And it's time to decide, it's time to decide" ("A volte ti accorgiche hai giocato troppo d'azzardo / A volte ti accorgi che non hai le carte /Questi sono i momenti che definiscono chi sei / Ed è il momento di decidere, è il momento di decidere"). Un breve ponte, che sancisce il rientro della distorsione, conduce direttamente al ritornello, in cui si palesa compiutamente il senso di smarrimento del protagonista: "Giving up giving out giving in / Pretty soon I'll be six feet under / Throwing out every dream to the wind / Cause I've got nowhere left to go / I know I know I know it's just the winter sun but / I don't know where to go to shelter from the storm" ("Rinunciando, cedendo, arrendendomi / Molto presto sarò due metri sotto terra / Gettando via al vento ogni sogno / Perché non mi resta alcun posto in cui andare / So che è soltanto il sole d'inverno ma / Non so dove andare per proteggermi dalla tempesta"). E proprio la tempesta evocata dalle parole del testo sembra prendere corpo in una nuova sezione del pezzo, sferzata da un riff di chitarra imperniato su salti di corda e modulato su diverse tonalità, nella quale è ancora Morgan a fare la differenza ricorrendo alle sfumature più ruvide ed aggressive della sua voce, nel corso di due strofe che sembrano cantare con amarezza due momenti che ognuno di noi ha vissuto, prima o poi:infatuazione e disillusione. "You saw me, you sought me, you taught me / There's more to life than suffering / Encouraged me to look beyond the shore / I loved you, I trusted you, looked up to you,/ I told you all my life dreams and nothing seemed / As hopeless as before" ("Tu mi ha visto, tu mi hai cercato, tu mi hai insegnato / Che nella vita c'è altro oltre alla sofferenza / Mi hai incoraggiato a guardare al di là della riva / Io ti ho amato, io mi sono fidato di te, ti ho ammirato / Io ti ho raccontato tutti i sogni di una vita e nulla sembrava / Disperato come prima") recita il testo della prima, mentre nella seconda la situazione si capovolge: "You used me, seduced me, confused me / And all those doubting moments / Were omensI felt but never saw / You loved me, you crushed me, corrupted me / Till al the lines were deeper / And wider and darker than before" ("Tu mi hai usato, mi hai sedotto, mi hai confuso / E tutti quei momenti di dubbio/ Erano presagi che ho percepito ma non osservato / Tu mi hai amato, tu mi hai spezzato, mi hai corrotto / Fino a che tutte le linee sono diventate più profonde / E più larghe e più scure di prima"). Una lunga scala dall'andamento cromatico, incalzata e doppiata abilmente dalla batteria, raccorda questa sezione ad un momento solistico; un tappeto di riff sincopati funge da base per le evoluzioni turbinose delle tastiere in apertura e chiusura,mentre ad intervallarliè un breve canto di chitarra armonizzata su un accompagnamento molto più lineare della sezione ritmica. Chiaramente, anche questa ricercata ambivalenza è funzionale a mimare le oscillazioni del pensiero del protagonista, dai più furiosi e contorti ai più riflessivi e melanconici. Un ultimo ritornello, introdotto stavolta dalla sola voce di Morgan sulle note pianistiche di West, porta alla conclusione del brano, e a quell'ultimo acuto che scandisce, quasi come una sentenza "I don't know where to go". Il nostro protagonista è dunque perso in una tormenta non certo climatica, quanto emotiva: privo di convinzione e sicurezze, cerca un qualsiasi riparo, un segnale che gli consenta di sperare; gli pare, ad un certo punto, di poterlo trovare in un sole d'inverno, che non lo protegge realmente ma rappresenta, in quel momento di smarrimento, una fonte di protezione, non fosse che ben presto si rivela un'illusione, lasciandolo in balia di quelle "linee scure" che sono il leitmotiv dell'intero racconto. Si potrebbe pensare che la delusione amorosa sia un espediente letterario alquanto dozzinale, per gettare il protagonista nella più nera disperazione: ma siamo davvero certi che si parli solo di amore terreno? Ancora una volta, l'abilità narrativa sta proprio nella capacità di non disseminare indizi troppo evidenti in favore di un'interpretazione o di un'altra. E la magia di questo brano, che può ben dirsi fra i meglio riusciti dell'album, risiede proprio nella compenetrazione fra atmosfere musicali e liriche, senza però che questa finisca per privilegiare qualcuno fra i vari significati possibili. Un'ambiguità semantica celata, a ben vedere, fin nel titolo: snowblind si può dire, infatti, tanto di chi è accecato dalla neve in tempesta quanto di chi si ostina a non riconoscere una situazione ormai evidente, ottenebrato non dalla furia degli elementi, ma da quella dei sentimenti.

Subliminal Freeways

Dopo le atmosfere varie e cangianti di Snowblind, ad attendere l'ascoltatore è un brano più uniforme, Subliminal Freeways ("Strade Subliminali") meno articolato ma impreziosito da un'anima melodica elegiaca e seducente, con cui la band sceglie di raccontare le sensazioni del protagonista una volta presa la fatidica decisione che tanto lo angosciava nel saliscendi emotivo del pezzo precedente. Abbandono, solitudine, silenzio: questo è tutto ciò che sente dopo aver scelto di tagliare i ponti con la situazione che aveva vissuto fino ad allora, alla ricerca di un luogo in cui ritrovare quell'equilibrio mentale che sembrava smarrito. Troncare col passato non è mai semplice, e l'arrangiamento musicale ne deve tener conto: ecco dunque che il brano è aperto contemporaneamente da un robusto e cadenzato riff di chitarra su tempo dispari, a cui la sezione ritmica aggiunge corposità e pesantezza, e da un arpeggio liquido di poche note, che davvero pare perdersi come uno sguardo nel vuoto di una notte di tormenti. Anche la voce preferisce attestarsi su registri medi, adatti ad una strofa dal carattere amaramente meditativo: "I left a note on the bedside table / But all I wrote was a messed up fable / Maladies, analogies / Everything but apologies / The architect of my own betrayal" ("Ho lasciato un biglietto sul comodino / Ma tutto ciò che ho scritto è un racconto confuso / Malattie, analogie / Tutto tranne le scuse / L'architetto del mio stesso tradimento"). Un ponte di lunghi accordi maggiori, ben sostenuto dai colpi sincopati della batteria,  porta uno squarcio di luce che sfocia in un ritornello fra i più ariosi dell'intero album, benché corredato da un testo che esprime in pieno il senso di vuoto che il protagonista vive dopo essersi allontanato da quella situazione di sofferenza: "But I feel no elation / There's nothing in my heart, there's nothing in my heart / No lightfrom isolation / There's nothing in my heart, there's nothing in my heart" ("Ma non provo euforia / Non c'è nulla nel mio cuore, nulla nel mio cuore / Non c'è lucedall'isolamento / Non c'è nulla nel mio cuore, nulla nel mio cuore"). Il prezzo da pagare per poter ritrovare se stessi, per un posto dove "I can hear my thoughts" ("Posso ascoltare i miei pensieri"), nelle parole del testo, è quindi la solitudine, con tutto ciò che ne consegue: in questo consistono le freewaysmenzionate nel titolo, subliminal in quanto non di semplice luogo fisico si tratta. Ad un secondo ritornello segue uno stacco nel quale, silenziatasi la sezione ritmica, solo gli effetti tastieristici di Richard West accompagnano l'arpeggio che ha aperto il brano, a costituire come un momento di riflessione; un canto di chitarra ci introduce quindi al solo di Karl Groom. Al momento solistico si allaccia un ultimo ritornello; la chiusura, infine, si articola sul medesimo intreccio fra riff ed arpeggio che aveva dato avvio al brano. Peculiare la scelta, data la struttura nel complesso convenzionale del pezzo, di accostare a liriche piuttosto desolate un ritornello dotato di una melodia orecchiabile, che sembra concepito, oltretutto, con un occhio alla riproposizione dal vivo, vista la cantabilità e l'immediatezza che lo contraddistinguono. D'altro canto il protagonista vive il culmine del suo momento di crisi, e la musica deve rimarcare questo snodo fondamentale della narrazione. Ancora una volta, la band ribadisce come "progressive" non debba essere un'etichetta foriera di obbligatorie complicatezze, ma un approccio compositivo a tutto tondo e flessibile, in grado di attagliarsi alle diverse esigenze espressive di ogni momento del concept.

State of independence

Accordi di pianoforte, qualche nota di chitarra acustica, voce in primo piano su una chiara linea melodica, tempi rilassati e poi il tocco inconfondibile della bacchetta sull'anello del rullante: ebbene sì, possiamo dirci in pieno territorio power ballad con State of independence ("Stato di Indipendenza"), composta, com'è abituale per i pezzi più melodici di casa Threshold, interamente da Richard West. Fortunatamente, fatto salvo l'approccio melodico del brano, la band non si arena nelle facili convenzioni compositive anche laddove la tentazione potrebbe essere forte, e magari l'eventuale tornaconto di un "singolone" parecchio allettante. Se le prime due strofe seguono, infatti, il suddetto canovaccio (ma i più attenti noteranno il graduale ma deliberato crescendo di intensità, soprattutto della voce, e la suggestiva armonia di chitare e tastiere), e in modo altrettanto canonico il ritornello si elettrifica sostanziosamente, la strofa successiva è segnata da un riff staccato a note singole, doppiato incisivamente dalla sezione ritmica, e Morgan non perde occasione di accrescere la tensione passando dall'interpretazione linearmente melodica delle prime strofe ad una più marcata, vibrante e ruvida il giusto, fino a risolvere direttamente nel ritornello. Che, com'è d'obbligo in una canzone che faccia della melodia il suo punto di forza, si mostra curato nei minimi dettagli: agli accordi lunghi di chitarra ed alla schematica figura di batteria delle prime due battute fa seguito un riff serrato in sedicesimi, ribattuti sia dai colpi di cassa sia dal cantato, prima di concludersi tornando sulla linea melodica principale. In realtà, ad evitare di rendere il brano eccessivamente prevedibile, ognuno dei tre ritornelli si raccorda al resto del brano in modo differente: il primo si ricollega direttamente alla strofa successiva; il secondo è sigillato dall'ingresso della chitarra solista, che si prende brevemente la scena, prima di un passaggio di grande carica emotiva, nel quale, su un tappeto di sole tastiere, Morgan si spinge persino all'impiego di un falsetto quanto meno insolito, per un cantante della sua personalità, ma del tutto efficace; a seguire, il terzo ed ultimo ritornello, la cui chiusura è segnata da una progressione di accordi scandita da poderosi colpi di batteria, con l'ugola di Morgan a spiegarsi in un ultimo acuto prima del più pacato finale, sancito dalle stesse parole che hanno inaugurato il brano. Parole che narrano inequivocabilmente, fra rassegnazione ed amarezza, come la separazione fra il nostro protagonista e la sua vita precedente sia ormai irreversibile: "So I guess we've reached the point of no return / Only miles of empty highway left to burn / You longed for it, you followed it / You squandered it and showed it no concern / And I guess we were destined not to last / There were far too many scars left from the past / We meant for it, intended it / But the memory was branded on our hearts / And it's over now" ("E così mi sa che siamo giunti al punto di non ritorno / Solo miglia di un'autostrada rimaste da consumare / Tu l'hai bramato, tu l'hai seguito / tu l'hai sperperato e non gli hai mostrato preoccupazione / E mi sa che non eravamo destinato a durare / C'erano troppe cicatrici lasciate dal passato / Noi lo volevamo, intendevamo farlo / Ma il ricordo era stato marchiato sul nostro cuore / Ed ora è finita"). Anche in questo caso, sarebbe spontaneo attribuire liriche simili ad un contesto sentimental-amoroso, ma è forse un pensiero scontato, e nulla ci vieta, come ascoltatori ed interpreti, di ricollocarle in un ambito più inerenti le rispettive convinzioni personali e financo il rapporto con il divino. Il senso di solitudine e di abbandono, più volte richiamato, è poi messo bene in luce nel ritornello, che tocca un tasto assolutamente caratteristico nel processo di formazione di ogni individuo, il senso di instabilità portato dalla recisione di legami stabili, sui quali si è abituati a far affidamento: "And there could've been a way / Should've been a way / To win without a fight / And avoid this state of independence" ("E poteva esserci un modo / Doveva esserci un modo / Per vincere senza uno scontro / Ed evitare questo stato di indipendenza"). Privato dei suoi punti di riferimento, che ancora sembra rimpiangere, ma dai quali è indispensabile liberarsi per maturare, il protagonista si accinge a fare i conti con la libertà che sta acquisendo o, in altre parole, con la dura pratica quotidiana del mantenimento di un equilibrio grazie alle proprie sole forze. La differenza fra individuo maturo e consapevole ed eterno adolescente. Seguiamolo ancora, dunque, lungo il suo viaggio, stavolta da solo. Resisterà?

Superior Machine

Dopo una coppia di brani dal passo più meditato e dall'impronta apertamente melodica, una sana sferzata rock/metal si rende indispensabile a riequilibrare l'andamento dell'album. Più che corretta, quindi, la scelta del gruppo di collocare a questo punto della scaletta Superior Machine ("Macchina Superiore") un pezzo ritmicamente vivace e dominato in tutta la sua durata dalla chitarra del suo compositore, Karl Groom. Apertura d'impatto: un muro di suono lanciato da effetti di tastiera ma costituito, in realtà, dal riffage della sei corde, sospinto verso l'ascoltatore dai quarti scanditi dalla batteria, specie dai colpi del rullante in battere. Il lavoro ritmico della chitarra e del basso si fapiù serrato all'avvio della strofa, e ad esso si unisce un canto di chitarra nervoso, curiosamente armonizzato una terza minore sotto dalla tastiera; il tutto a donare un tono cupo all'intero quadro sonoro, che permette, per contrasto, alla voce di Morgan di spingere senza remore sulle ottave più alte e di impregnarsi della giusta aggressività, coerentemente ad un testo che riflette su quanto ormai il protagonista si è lasciato alle spalle: "Lost is the love that filled our day / Lost is the trust in what you say / Lost is all the money that you took away / How is that fair, come on" ("Perduto è l'amore che colmava i nostri giorni / Perduta è la fiducia in ciò che dici / Perduto è tutto il denaro che tu hai portato via / Come può essere giusto, dai"). Breve ponte su tempo dispari ed a squarciare le cupezze della strofa è il ritornello, in cui il protagonista sembra scuotersi di dosso il peso del passato e ritrovare la speranza: "I believe if I don't avenge you / It will come to you from somewhere else / I believe if you try to trap me / You will fall in the hole yourself / My heart is a broken engine / But my blood is running clean/ With the fuel of faith and failure / I will mend this old machine ("Sono convinto che se non mi vendico io di te / Sarà una vendetta proveniente da qualche altra parte a colpirti / Sono convinto che se provi ad intrappolarmi / Sarai proprio tu a cadere nella buca / Il mio cuore è un motore guasto / Ma il mio sangue sta scorrendo puro / Alimentato dalla fede e dal fallimento / Riparerò questo vecchio macchina"). A conclusione del secondo ritornello, la chitarra e variegate rullate di batteria ci trascinano in una vivace sezione solistica imperniata su un nuovo riff su tempo dispari, nella quale rapidi fraseggi armonizzati di chitarra e tastiera lasciano spazio a rapide esecuzioni del solo Richard West. Mentre ancora si dissolve l'ultima nota, si torna a respirare in un momento di stacco, entro il quale ritroviamo lo stesso riff che ha aperto l'intero brano; a quest'ultimo si agganciano gli ultimi due ritornello, il secondo dei quali modulato in tonalità più alta, e concluso seccamente dal riff impiegato nella sezione solistica. In quest'ultima parte del brano le liriche chiarificano ulteriormente quale sia la fonte della ritrovata speranza del protagonista, dopo le delusioni affrontate nel suo percorso: "I believe in the road less travelled / I believe it will all come good / I believe as the truth unravels / All of this will be understood / I'll speak with the tongues of angels / And my life will be what I dream / With the fuel of faith and failure / I will mend this old machine" ("Io credo nella strada meno battuta / Io credo che tutto andrà bene / Io credo che, mentre la verità si svela / Si riuscirà a comprendere tutto questo / Parlerò con le lingue degli angeli / E la mia vita sarà ciò che sogno / Alimentato dalla fede e dal fallimento / Riparerò questa vecchia macchina"). La rinnovata fiducia del protagonista, la sua volontà di diventare una "macchina superiore" sta dunque nella consapevolezza della necessità di mettersi alla prova sulla strada meno battuta e nell'accettazione degli aspetti positivi e negativi che si incontrano nelle esperienze personali, fede (in sé o in qualcosa di superiore) e fallimenti, che plasmano il nostro essere anche al di là di quanto siamo disposti ad ammettere. Esperienze, queste, che possono risultare difficili da vivere e da assimilare appieno, perciò giustamente narrate attraverso un arrangiamento più aggressivo e ruvido rispetto ai momenti di tristezza e ripiegamento su di sé affrontati dal protagonista precedentemente. Probabilmente questo è il brano dalle sonorità maggiormente in linea con la tradizione musicale della band inglese e che risulterà nel complesso più familiare ai suoi ascoltatori abituali; come elemento caratterizzante, oltre a qualche scelta di arrangiamento inconsueta, spicca, tuttavia, la voce di Morgan, che, collocata in un contesto in cui può spaziare dai toni più aggressivi a quelli più melodici, riesce a dare slancio ad un brano tutto sommato più conforme ai canoni compositivi dei britannici.

The Shire (part III)

Ultimo, e breve, raccordo fra la seconda sezione dell'album e la conclusiva, The Shire (part III) si differenzia, in realtà, dai due episodi omonimi precedenti, non riproponendo il tema melodico portante: il brano è affidato prevalentemente a note ed accordi in tonalità minore, scandite dalle tastiere, che si infittiscono sino all'ingresso di una essenziale linea vocale; in chiusura, un breve arpeggio chitarristico funge, per così dire, da congedo. Nella sua suggestiva semplicità, questo interludio costituisce una sorta di pausa di riflessione prima del gran finale dell'intero album, a ristoro del protagonista del concept ma anche dell'ascoltatore, entrambi in procinto di stilare un bilancio della propria esperienza, l'una esistenziale, l'altro musicale, a cui peraltro sembrano invitare le liriche stesse: "Take a little time / And start erasing all the lines ("Prenditi un po' di tempo / E inizia a cancellare tutte le linee"). Intrigherà, infine, quanti seguono la band da lungo tempo, che queste parole costituiscano il cameo vocale di un personaggio a loro sicuramente ben noto: si tratta, infatti, di Jon Jeary, ex bassista e cantante nelle primissime fasi di vita del gruppo, rimasto in ottimi rapporti con i compagni di un tempo (specie con il chitarrista Karl Groom) e contattato appositamente per prestare la sua voce a questo breve passaggio. Una variante apparentemente minima, specie nel contesto di un disco improntato ad una notevole coerenza interna, capace tuttavia di donare un motivo d'interesse in più ad una traccia d'importanza teoricamente minore nel complesso della scaletta.

Lost in Translation

Quasi a confermare le molteplici vie di interpretazione del racconto, il penultimo pezzo del disco (Lost in TranslationPerso nel passaggio) presenta, come proprio titolo, un'espressione idiomatica dalle svariate sfumature di traduzione. E non meno ricca di sfumature si dimostra la partitura musicale di questa suite che, alla scadenza dei suoi dieci minuti e venti secondi, si attesta appena dietro The man who saw through time nella corsa al brano più esteso di questo doppio album. Ad inaugurare il viaggio sonoro è la chitarra solista, su un tempo disteso e di sapore epico, ben supportato da tastiere d'atmosfera; le subentra un riff robusto, spezzato da due forti sincopi, che tuttavia s'interrompe all'attacco della strofa, condotta da un arpeggio notturno vagamente à-la Queensrÿche; anche la voce, con i suoi saliscendi, si intona alla generale sensazione di incertezza, come di chi stia vagando a sole tramontato, senza il conforto di alcuna luce. Non è da meno il testo, che ripercorre le tappe della crisi del nostro protagonista: "He lost faith on a rainy Monday / When the storm gathered at the door / It would take him a month of Sundays / To get back what he had before / Knocked down, knocked out / Not sure what life's about / All his hopes are reduced to nothing / All his future insecure ("Ha perso la fiducia un piovoso Lunedì / Quando la tempesta si ammassava alla porta / Gli sarebbe servito un mese di domeniche / Per riavere ciò che aveva prima / Abbattuto, messo al tappeto / Incerto su quale senso abbia la vita / Tutte le sue speranze sono state ridotte a nulla / Tutto il suo futuro è insicuro"). Un nuovo, roccioso riff di chitarra serve da ponte verso il ritornello, dove sono arrangiamenti di tastiera quasi liturgici a sostenere l'apertura melodico-armonica; ancora una volta, il protagonista si interroga su come tutto possa essere andato in rovina in tal modo: "He cried up to the heavens / This wasn't my design/There must have been an error / There must have been some grave mistake / And struggling every second / Was pointless and sublime / Wherein he found his character / Wherein he found he couldn't break" ("Ha gridato al cielo / «Questo non era il mio progetto / Dev'esserci stato un errore / Dev'esserci stato qualche grave sbaglio» / E il lottare ogni secondo / È stato inutile e sublime, / E inciò ha trovato  il suo carattere / E in ciò ha scoperto che non poteva sfuggire"). L'atmosfera del brano si rifà cupa grazie ad un ruvido stoppato di chitarra, cui segue la riproposizione del riff d'apertura. A questo punto s'innesta, e coglie di sorpresa, la prima sostanziale variazione del brano: un articolato fraseggio di basso su un tempo dispari, incorniciato da pennellate di organo Hammond e dalle sincopi scolpite dai colpi di rullante, introduce una lunga parentesi solistica, nella quale si alternano sezioni in tonalità minore, più elegiache e riservate alla sei corde di Groom, ad altre, in chiave maggiore, palcoscenico delle evoluzioni in bianco e nero di West e dall'atmosfera distesa. Una voluta alternanza di colori musicali volta a riprodurre gli umori incerti del protagonista, chiamato a decidere come uscire dal suo scacco esistenziale. Non per nulla, e in modo quasi brusco, chiusa la parentesi solistica, il ritmo rallenta improvvisamente, la chitarra si scioglie in sonorità aeree, le tastiere adottano suoni squisitamente retrò, caratterizzando questo momento riflessivo con partiture di sentore pinkfloydiano. Niente di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire: molto spesso, nella loro produzione precedente, gli inglesi hanno fatto ricorso alla lezione dei padri nobili del rock progressivo made in UK; ma sarebbe un giudizio sbrigativo e superficiale, in quanto si può ben cogliere, in questo passaggio, come, se è indubbio il ricorso al pennello ed alla tela dei maestri di Birmingham, i colori impiegati siano senza dubbio quelli dei nostri progsters del Surrey. In primo luogo la voce di Morgan, che sa adattarsi ai toni soffusi del frangente restando però piena e solida; in secondo luogo, la sventagliata distorta ed epicheggiante che inframmezza le due strofe di questa canzone nella canzone, se così si può chiamare, modulandone la melodia, si configura come una tipica soluzione compositiva di casa Threshold. Una traccia, dunque, di quel nuovo inizio di cui il gruppo ha parlato spesso, in riferimento a questo album: gli ingredienti delle loro consuete ricette musicali ci sono tutti, ma sono reinterpretati in modo creativo e sempre più originale, distaccandosi dal puro e semplice tributo ai giganti del passato per assumere il ruolo di spezia particolare in un ricettario personale e dotato di un'identità ben definita. E che la band sia consapevole di questo è conferma anche l'aver collocato, in questa precisa sezione del brano, le parole dotate di maggior valore dell'intero testo, ed anche di una valenza che va al di là della vicenda narrata, attagliandosi altrettanto bene alla storia personale di chiunque, ed addirittura della loro amata madrepatria: "Lost in translation from shire to town to nation / Fulfilling the ancient as time rewards the patient / Now it's time for you to forget your distant glory / Now it's time for you to fulfil another story / And it's not about the place you go, it's what you're learning / And it's all about the way you grow along the journey" ("Perso nel passaggio da contea a paese a nazione / Rispettando il passato anche se il tempo ricompensa chi è paziente / Ora è tempo per te di dimenticare la tua gloria passata / Ora è tempo per te di realizzare un'altra storia / E non importa il posto in cui vai, è ciò che stai imparando /  E tutto ciò che importa è il modo in cui cresci nel corso del viaggio"). L'unica decisione che al nostro protagonista (e noi con lui) resta da prendere, è come iniziare il viaggio della sua definitiva maturazione, e non è certo semplice, come ci ricordano le liriche dell'ultimo ponte: "The road to the left looks dark and daunting / The road to the right is an endless hill / The road in the middle still scares him a little / But he doesn't have a choice of standing still" ("La strada sulla sinistra appare scura e spaventosa / La strada sulla destra è una salita senza fine / La strada al centro continua a mettergli un po' di paura / Ma non ha la possibilità di restare fermo"). Un ultimo ritornello si prolunga per supportare un'ennesima fuga solistica della chitarra e per descrivere il nostro protagonista ormai pronto al viaggio, "ridimensionato, ricostruito, con una corona lucida, pieno d'amore", prima che il brano si chiuda sul poderoso riff iniziale. La circolarità, spesso incontrata nel corso dell'album,caratterizza dunque anche questo secondo tour de force musicale, a dimostrazione che ricercatezza e fruibilità della proposta possono anche andare a braccetto, artisticamente parlando, senza produrre forzature o artificiosità. Un tratto che, inoltre, si sposa idealmente con la svolta positiva e propositiva che assume la vicenda narrata, avviata alla risoluzione dell'empasse esistenziale vissuta dal protagonista, ormai disposto a rimettersi in moto e in gioco, conscio del passato e di quanto le esperienze, difficili o favorevoli, hanno saputo insegnargli. E se, come recita il titolo del brano, qualcosa è andato "perso nel passaggio", speranze, obiettivi, sicurezze, giunge sempre il momento di trasformare la caduta in una risalita, la disperazione in pungolo, la disillusione in base di partenza. Nuovamente pronti a riveder le stelle.

Swallowed

Un finale a tinte più lievi ci offre Swallowed (Inghiottito), traccia conclusiva di questo doppio album ed ultimo capitolo del racconto che ne ha costituito l'ossatura tematica. È infatti un dolce arpeggio pianistico ad inaugurare il pezzo e ad avere il ruolo di accompagnarne le linee vocali nelle prime due strofe, fino all'ingresso dell'intera band in corrispondenza del ritornello. Particolare il paragone su cui è impostato il testo delle strofe, che raffronta l'irrorazione di sostanzechimiche sulle messi di un campo con la diffusione di notizie attraverso i telegiornali: "They're spraying the crops on the farm today/ You can watch the haze on the breeze / They say that it helps keep the bugs away / Not sure what it says about me" ("Oggi stanno irrorando i raccolti alla fattoria / Puoi vedere la nebbiolina nella brezza / Dicono che aiuti a tener lontani gli insetti / Non sono sicuro cosa dica di me") canta Morgan nella prima strofa; poi ancora, nella successiva: "They're spreading the word on the news today / You can watch the haze on the screen / Should we do what they do or do what they say/ Cause a river runs in between" ("Oggi stanno spargendo la voce al telegiornale/Puoi vedere la nebbiolina sullo schermo / Dovremmo fare quello che fanno oppure fare quello che dicono? / Perché ci passa un fiume fra l'una e l'altra cosa"). Si coglie che, fuor di metafora, entrambe le operazioni siano presentate come potenzialmente tossicheper l'essere umano, l'una a livello fisico, l'altra a livello morale.Da qui la diffidenza del protagonista, espressa dal ritornello: "And it can all be swallowed / They say it'll do you good / It can all be swallowed / But I don't really know if I should" ("E può essere tutto inghiottito / Dicono che ti farà bene / Può essere tutto inghiottito / Ma non so proprio se dovrei"). Le esperienze negative vissute in precedenza, dunque, hanno reso maturo il protagonista, che diffida dalle soluzioni facili, siano esse funzionali a scacciare i parassiti dai raccolti o i dubbi dai nostri pensieri. Dopo il secondo ritornello, ed assolvendo appieno alla funzione di chiusura del concept e di consuntivo, per così dire, dell'intera trama del disco, nel brano è inserita un'ulteriore coppia di strofe orchestrata sulla stessa melodia che aveva innervato la sezione centrale di Stars and satellites; opportunamente, il rimando si mantiene anche a livello lirico, quasi a rispondere agli interrogativi posti allora: "Well you answered the call on the telephone / And you followed the map they sent / And they took every one of your dollar bills / Like the lies that came and went / And they told you to stop reaching for the top / So you tumbled and fell to earth / No escape from the hands of those invisible bands/ No return to what you're worth" ("Bene, hai risposto alla chiamata al telefono / Ed hai seguito la mappa che ti hanno fornito / E ti hanno ogni singola tua banconota / Come le menzogne che sono andate e venute / E ti hanno detto di smettere di puntare al massimo / Perciò sei inciampato e caduto a terra / Non puoi fuggire dalle mani di quei legami invisibili / Non puoi ritornare al tuo valore"). L'unica sicurezza che è rimasta al protagonista, alla fine di tutto il suo percorso, è che, dopo aver imparato ad accettare tutte le asperità e le difficoltà che la vita ci manda incontro, resta da affrontare la più certa e più sconvolgente: "And the end my friend's an impossible bend / That nobody know show to steer / Well you can get incensed or you can get revenge / But you've got to get out of here" ("E la fine, amico mio, è una curva impossibile / In cui nessuno sa come guidare / Beh, puoi essere incensato oppure avere vendetta / Ma devi uscire di qui"). Un lungo solo melodico, che sembra nuovamente omaggiare il magistero di David Gilmour, ci conduce alla chiusura, affidata poi a poche ed appropriate parole, scandite dalla voce di Morgan: "They're closing the door on the farm today" ("Oggistanno chiudendo la porta alla fattoria"). Sipario definitivo per il racconto e forse, allo stesso tempo, epitaffio per il suo protagonista.

Conclusioni

Si dirà subito: al giorno d'oggi, abituati come siamo ad una fruizione desultoria e superficiale, ottantadue minuti di progressive rock/metal, farciti degli immancabili tempi dispari, duelli di chitarra e tastiera e arrangiamenti sontuosi ed elaborati, scoraggerebbero probabilmente anche l'ascoltatore più assiduo e devoto non solo della band, ma in generale di questo filone musicale. Oggi come oggi risulta sempre più complesso (se non difficile) partire all'avventura appoggiando delicatamente un disco in qualsivoglia supporto, lasciandolo scorrere senza forzature o costrizioni, cercando di captare ogni singola sfumatura del sentiero sapientemente e meticolosamente dipinto dinnanzi ai nostri occhi. Che le nostre orecchie siano ormai abituate, sin troppo, all'immediato senza più sorprese, al lampante, al facilmente assimilabile ad ogni costo? Non siamo certo noi a dover giudicare, ci mancherebbe; ognuno è libero di interpretare la musica come meglio crede, avvicinandosi a questo o quel genere, complicato ed intricato che possa eventualmente essere. Lasciatemi però dire una cosa, esprimere un concetto al quale voglio dar sincera importanza: un platter del genere, con annessi e connessi, rappresenta senza ombra di dubbio il coraggio di una band che mai demorde e mai vuol piegarsi, ha voluto, a determinate dinamiche. Se di certo non si può compiere un ragionamento che risulti troppo oggettivo, circa la fruibilità o meno dell'odierno discorso musicale, è altresì giusto affermare quanto, in effetti, il "semplice" (ma non per forza cattivo!) sia prediletto da ormai buona parte degli ascoltatori. Un'ora e venti di musica progressive va decisamente contro questo concetto, lanciandoci in qualche modo una sfida, se vogliamo. E la sfida di questo doppio album è insita effettivamente nella sua natura. Sgombratevi dalla testa l'idea di metterlo nel portaoggetti del cruscotto e di dargli un'ascoltatina distratta strada facendo, infilandolo nel lettore (o, peggio, nella porta USB) mentre pagate il casello. Scordate di poterlo adoperare come sottofondo per una qualsiasi, distratta azione stiate eventualmente compiendo nel mentre. Evitate di poterlo considerare un semplice accompagnamento, un background dall'importanza limitata... ad un qualcosa da poter relegare al "sottofondo" puro ed immediato, adatto a far atmosfera. Nulla di tutto questo può accadere, avendo fra le mani un disco del genere. Legends of the Shires reclama la vostra attenzione; pretende un ascolto meditato, ripetuto, approfondito, sia per orientarsi nel racconto che unifica le liriche, sia per accorgersi dello sforzo compositivo messo in atto per ottenere scorrevolezza ed omogeneità lungo l'intero svolgimento dei brani. E bisogna ammettereche, alla fine, dedicandogli il tempo e la cura necessarie, il disco sa ricompensare generosamente: la stesura quasi esclusivamente appannaggio dei due scrittori principali del gruppo, vale a dire Groom e West (con la sola eccezione di un brano ad opera del bassista Steve Anderson), ha portato in dote un senso di compattezza e di fluidità palpabili man mano che si procede nella scaletta, dovuta ad un equilibrio fra i vari ingredienti in gioco (asperità chitarristiche ed aperture melodiche, ritornelli cantabili e complicatezze ritmiche, squarci solistici elaborati e linee vocali accattivanti) ricercato con attenzione e dosato con l'esperienza di musicisti sì navigati, ma che hanno voluto tentare di raggiungere un livello superiore di sintesi delle proprie influenze e del proprio bagaglio creativo personale. Certo, resta da vedere quale possa essere il prossimo passo: in particolare aver accolto d nuovo in formazione Glynn Morgan, artista abituato a pesare sotto il profilo compositivo, aggiunge una variabile tutta da scoprire alle mosse future della band; e qui e là si avverte chiaramente come sciogliere un po' più le briglie alle sue doti vocali, tanto in estensione che in potenza, possa rappresentare una salutare scossa, utile a stemperare, dove necessario, la ricercatezza degli arrangiamenti. Per ora, però, prendiamoci il nostro tempo, mettiamoci comodi, scaldiamoci la doverosa tazza di tè e gustiamoci questo viaggio musicale e lirico nel cuore dell'Inghilterra, e di ognuno di noi.

1) The Shire (part 1)
2) Small dark lines
3) The man who saw through time
4) Trust the process
5) Stars and satellites
6) On the edge
7) The Shire, part 2
8) Snowblind
9) Subliminal Freeways
10) State of independence
11) Superior Machine
12) The Shire (part III)
13) Lost in Translation
14) Swallowed
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