THRESHOLD
Hypothetical
2001 - InsideOut Music

VALERIO TORCHIO
17/04/2019











Introduzione Recensione
La pubblicazione di Clone, nel novembre del 1998, era giunta a ridosso del decennio di attività per i Threshold, le cui prime mosse datano appunto al 1988. Anniversario celebrato, l'anno seguente, con l'uscita di un disco autoprodotto, dal numero limitato di copie ed intitolato ironicamente Decadent, distribuito nel circuito del fan club della band, il cui contenuto spazia da remix elettronici e riletture acustiche di pezzi già noti a brani inediti, in qualche caso ripescati dagli esordi più lontani del gruppo inglese. Il decennale, d'altra parte, porta con sé gli inevitabili bilanci, e il sapore non può che essere agrodolce: ad una serie di lavori graziati da una curva ascendente in termini di approvazione critica e successo di pubblico, fa da contraltare una cronica instabilità della formazione, anche in un ruolo di cruciale importanza quale quello del cantante. Quando il sestetto britannico, dunque, si riaffaccia sul mercato, nei primi mesi del nuovo millennio, la vera notizia, almeno a prima vista, è la conferma quasi in blocco degli strumentisti presenti sul disco precedente, con la sola e prevista eccezione di Mark Heaney, giunto al termine del suo contratto coi progsters del Surrey e sostituito, di conseguenza, dal noto e rodato Johanne James, già dietro le pelli nelle tournée di Extinct instinct e dello stesso Clone. Oltre al nucleo storico costituito da Karl Groom e Nick Midson, da Jon Jeary e da Richard West, rimane dunque della partita anche la voce di Andrew McDermott, che ben aveva figurato sull'ultima uscita discografica dei nostri. Non inganni, tuttavia, l'apparente acqua cheta: le sedici esibizioni del 1999 (tredici date fra febbraio e marzo in compagnia dei più brillanti nuovi virgulti della scena, gli svedesi Pain Of Salvation, e dei veterani livornesi Eldritch, più tre concerti di spessore: Wacken, in Germania, in cui, fra l'altro, Mac è votato miglior frontman del festival; la serata presso The Oakwood Centre, locale britannico dal comprovato pedigree progressivo; e la prima edizione del ProgPower Festival, a Tilburg, Paesi Bassi) sono, nelle intenzioni del tastierista, le sue ultime in seno al gruppo, uscito esausto dall'esperienza dal vivo e attratto com'è dal desiderio di sperimentarsi in ambiti sonori diversi dal metal progressivo, oltre che in procinto di trasferirsi in Repubblica Ceca per tentare di aprirvi un proprio studio di registrazione. Esauriti, però, gli obblighi promozionali, West accetta di collaborare quantomeno alla stesura del nuovo capitolo discografico firmato Threshold: e tanto lo spirito della band appare rinnovato e voglioso di mettersi in gioco, che ne rimane irrimediabilmente contagiato, scegliendo di non abbandonare vecchi sodali e arrivi recenti. A cementare l'entusiasmo, un doveroso quanto agognato cambio di scenario anche per quanto riguardo gli affari: dopo quattro lavori ed un EP dal vivo sotto l'egida della piccola Giant Electric Pea, il sestetto inglese compie un salto di qualità, accasandosi presso la sorella maggiore, per così dire, della stessa GEP, ossia la Inside Out Music, etichetta tedesca indipendente ma senza dubbio dotata di fiuto ed intraprendenza, oltre che di mezzi comunque superiori a quelli della più ridotta società inglese, fra cui discreti agganci sul mercato nordamericano, fino a questo momento tabù quasi assoluto per Groom e soci (se non per le fantomatiche stampe di Wounded land e del successivo Psychedelicatessen operate dalla volatile etichetta staunitense Avalanche, per le quali la band inglese sostiene di non aver neppure ricevuto i dovuti compensi). La composizione del quinto disco in studio può, a questo punto, avviarsi sotto i migliori auspici, e nel segno di un recupero deliberato delle ricercatezze di carattere eminentemente progressivo rimaste un po' sottotraccia nello sviluppo di Clone, pur senza rinunciare radicalmente al gusto dell'impatto ed alla muscolatura metallica tanto ben esercitata nel corso della sua stesura, nonché nella successiva tournée. Impresa che potrebbe apparire ardua, e sempre a rischio di precipitare in due opposti forni: la stucchevolezza e la frigidità di partiture sì complesse, ma scarsamente comunicative, ed il turgore posticcio e, sotto sotto, caricaturale di un'aggressività di maniera. Certo, gli strumenti compositivi e la qualità tecnica per ovviare a simili problemi non fanno difetto ai sei inglesi, ma, come si suol dire, ne passa fra il dire e il fare, fra l'idea e la realizzazione della medesima. E dunque Hypothetical, questo il titolo del del sesto lavoro in studio di casa Threshold, quasi a rendere anche lessicalmente l'elevamento del contenuto musicale da realtà troppo terragne e semplicistiche, si rivelerà in grado di raggiungere, e magari superare, l'ambiziosa asticella che la rinnovata formazione britannica gli ha posto dinanzi?

Light and Space
Un fugace passaggio di suoni sintetizzati, seguita da un alternarsi di chitarre distorte e fraseggi tastieristici, scanditi fra loro da secchi inserti di batteria, inaugura Light and Space ("Luce e Spazio"), prima traccia di Hypothetical, la cui stesura è accreditata in toto a Richard West. Quanti seguono da tempo la formazione britannica sanno bene come i brani iniziali, nella sua ottica sonora, rivestano (né, in fondo, potrebbe essere diversamente) un ruolo particolare, di presentazione, per così dire, dell'intero lavoro, e il pezzo qui considerato non fa eccezione. La conclamata volontà di recuperare i tocchi progressivi in parte tralasciati in occasione del precedente Clone si concretizza, infatti, in un riff caratterizzato da un intreccio di tempi pari e dispari, ammantato e rinterzato, inoltre, dal lavorio delle tastiere da un lato e dalla fantasia esecutiva di Johanne James dall'altro; la coloritura melodica a cui la band inglese non intende certo rinunciare è, invece, prevalentemente in carico ai vocalizzi di Mac, quasi epico (senza, però, quelle forzature espressive tipiche, semmai, di realtà metalliche più intransigenti) nell' interpretazione della strofa, ma mai caricaturale. Il tratto altisonante che si coglie nell'interpretazione del cantante è, peraltro, del tutto giustificata da uno scenario lirico che si apre a squarci di paesaggi sconfinati, in cui lo sguardo del narratore sembra voler comprendere l'interezza del creato: "As you look at your surroundings / From the mountain to the sea / You find everything I gave you / You see everything but me" ("Mentre guardi ciò che ti circonda / Dai monti ai mari / Trovi tutto ciò che ti ho donato / Vedi tutto tranne me"). La versatilità del frontman scozzese, d'altro canto, si rivela appieno nel successivo ponte, imperniato su una variante più sincopata e scandita del riff d'apertura, sul quale la sua voce riesce ad essere altrettanto secca e concisa, incidendo le pause lasciate dagli strumenti a corda fino a che, come appunto all'inizio, una frase di tastiera discendente chiuide la sezione e permette al ritornello, adagiato su un semplice quanto luminoso arpeggio pulito, di sbocciare in tutta la sua cantabiltà, degna del più raffinato airplay oriented rock: "I'll be in your thoughts / I'll be in your dreams / All the light you see / All the air you breathe" ("Sarò nei tuoi pensieri / Sarò nei tuoi sogni / Tutta la luce che vedrai / Tutta l'aria che respirerai"). Due coppie di accordi sull'organo elettrico, poi, scuotono quasi bruscamente l'ascoltatore dall'atmosfera sognante appena intessuta per riportarlo nel più movimentato contesto della seconda strofa, alla quale segue un ponte piuttosto diverso dal precedente: medesimo tappeto ritmico, ma chitarre ben più presenti, grazie ad un riff con pedale discendente che giostra con disinvoltura sul tempo dispari, mentre le liriche ci aiutano a chiarire la natura del loro protagonista: "I painted the heavens, the sun and the moon / I know what's beyond them, I know you / I know what's before you and what's gonna be / But now it's the moment you'll find me" ("Ho dipinto i cieli, il sole e la luna / Conosco cosa c'è al di là di essi, conosco te / Conosco cosa c'è davanti a te e cosa ci sarà / Ma ora è il momento in cui mi troverai"). A questo punto, tuttavia, non scocca il previsto ritornello, sostituito invece da una sezione inedita, imperniata su una serie cromatica di accordi a discendere, durante la quale Mac può sfoggiare, oltre al consueto timbro caldo, le sue ottave più elevate. La voce del cantante lascia, subito dopo, la scena a quella della chitarra solista di Karl Groom e delle tastiere di Richard West, che fraseggiano, prima l'una e poi l'altra, sullo stesso riff del secondo ponte; una seconda occasione in solitaria è riservata alla sei corde non appena subentra la struttura ritmica ed armonica del ritornello, sulla quale ricama un gradevole solo melodico che sembra, in qualche modo, rievocare la linea vocale di McDermott. Le ultime note arpeggiate cedono il passo a una riproposizione della sezione iniziale e, subito dopo, ad una terza successione di strofa, ponte e ritornello, ma l'onore della chiusura è riservato all'ascia di Groom, ancora protagonista di un solo di pregevole fattura melodica, non privo, tuttavia, di passaggi accelerati e salti di corda che ne fanno un sigillo appropriato a un brano giostrato, fin dall'avvio, sull'equilibrata convivenza fra cantabilità, durezza, e ricercatezza stilistica, in cui brilla l'ottimo lavoro del neoentrato Johanne James, impeccabile nella resa di una struttura ritmica non proprio immediata. La strofa conclusiva scioglie, inoltre, in modo inequivocabile ogni eventuale dubbio sulla natura del tema lirico, come si può cogliere attraverso le parole di West: "As your science takes you further / You'll eventually concede / You can only scratch the surface / I'm the one who's playing me" ("Mentre la tua scienza ti porta oltre / Ammetterai, alla fine, / Che puoi solo grattare la superficie / Sono io ad interpretare il mio ruolo"); e ancora, nel ponte seguente: "I am the road that won't be found / I am the sign that guides you / I am the air that's all around"("Sono la strada che non sarà trovata / Sono il segnale che ti guida / Sono l'aria che è tutt'intorno"). Più che evidente, a questo punto, che l'argomento lirico altro non sia che la percezione del divino nella realtà, tema, peraltro, tanto inedito per la band inglese quanto del tutto coerente con la fede cristiana mai celata da parte del tastierista stesso. Ulteriore dimostrazione di fiducia nei propri mezzi, quindi, la proposta di uno sfondo lirico complesso, e non certo tipicamente rock'n'roll, affrontato, inoltre, da un punto di vista piuttosto differente da quanto risultasse dai precedenti lirici dei britannici, e di Jon Jeary in primo luogo. A sancire l'ottima partenza dell'intero disco, e la caratura di una composizione che sintetizza brillantemente le intenzioni compositive dei progsters britannici.

Turn On, Tune In
Radiofonica solo nel titolo, ad essere onesti, Turn on, Tune in ("Accendi, Sintonizza"), secondo tassello di Hypothetical, è, a detta del gruppo britannico, anche l'ultima composizione preparata da Karl Groom e Jon Jeary per l'album medesimo. Come spesso nel caso dei contributi lirici del bassista, serpeggia nelle sue parole un tono polemico e sarcastico insieme, votato, stavolta, a stigmatizzare le lusinghe farlocche dell'era dei mass media. Ad introdurre il brano è una coppia di possenti e scuri riff di chitarra in levare, con le tastiere impegnate ad arricchire l'atmosfera straniante; al subentrare del cantato, tuttavia, il senso di oppressione si stempera e le sei corde si ritraggono in favore di una semplice linea di basso e delle note di sintetizzatore di West, proscenio ideale per il timbro di Mac, qui poco più che sussurrato e malinconico, che racconta con abbandono lo squallore postmoderno di un anonimo teledipendente: "When I speak to you, it's in the language of the 20th century people / The ones who are the stars of stage and screen / Everything I say has been taught to me by my favourite TV programme / The one that I watch each and every week" ("Quando ti parlo, è nel linguaggio della gente del ventesimo secolo / Quelli che sono le stelle del palco e dello schermo / Tutto ciò che ti dico mi è stato insegnato dal mio programma TV preferito / Quello che guardo ogni santa settimana"). L'irruzione del ritornello, in cui la voce del cantante inglese è contornata da ricche armonizzazioni, rappresenta un vero e proprio cambio di scenario, benché la linea vocale si presenti essenziale, sia melodicamente sia come testo, limitato infatti alla ripetizione di poche parole: "Turn on, tune in, drop out" ("Accendi, sintonizza, molla tutto"); tanto basta, però, a rendere la ripetitiva ed insensata routine di quanti si lasciano letteralmente ipnotizzare dal piccolo schermo. Dopo una seconda successione di strofa e ritornello, una fuga tastieristica di Richard West fa da ponte per una seconda sezione che ha molto del classico suono Threshold, coi suoi richiami all'analogo passaggio centrale di Into the light, sia per quanto concerne le ritmiche della linea vocale sia per il ricorso a modulazioni armoniche ascendenti. L'ugola di McDermott si destreggia bene anche nel passo più serrato, ma la vera differenza, in confronto al brano di Psychedelicatessen, è costituita dalla spinta in più fornita dall'abilità dietro le pelli di Johanne James, che innerva l'arrangiamento a suon di rullate e colpi di doppio pedale. Proprio uno dei suoi funambolismi funge da chiusura ed si aggancia ad una nuova parentesi, in cui predominano i tempi dispari e le chitarre si rifanno pesanti; vi trova spazio Richard West per una veloce incursione solistica, prima che sia Mac a ritornare in primo piano, con alcuni dei vocalizzi più acuti del pezzo. Ad un'ultima strofa segue una serie di ritornelli, variati da modulazioni e conclusi a loro volta da una ripresa della fuga solistica di West già sentita prima della variazione centrale, la cui nota finale si disperde assieme all'intera partitura. Come detto, siamo qui in piena tradizione per il sestetto britannico, non solo per gli accenni a soluzioni impiegate in altri momenti della loro ormai corposa discografia, ma anche per il tema lirico, che non poteva lasciare inerte la penna pungente del Jon Jeary paroliere; il bassista non risparmia, fra l'altro, una stoccata en passant alla forse più discussa realtà televisiva connessa alla musica: "We're living in a fantasy, but that's ok with me / You believe the whole thing too, we're all on MTV" ("Stiamo vivendo una fantasia, ma a me va bene / Anche tu credi a tutto quanto, siamo tutti su MTV"). A testimonianza, inoltre, che la personalità artistica del gruppo inglese brilla anche al di là degli interpreti, sebbene l'inserimento definitivo di un elemento della qualità di Johanne James permetta rifiniture difficilmente ottenibili in passato. Il rispetto della propria tradizione affiancato da un significativo raffinamento nei dettagli: sembra proprio che le speranze di quel nuovo inizio spesso evocato dalla band si siano qui concretizzate in musica.

The Ravages of Time
Terzo gradino della scaletta, quello destinato a The Ravages of Time ("Le Devastazioni del Tempo"): collocazione impegnativa, secondo la consuetudine rispettata fin'ora nei lavori targati Threshold. Come ben sanno i più devoti, è il luogo deputato alle suite, ove la band si mette alla prova in uno sforzo compositivo superiore per qualità e quantità. Il duo creativo formato da Karl Groom e Jon Jeary non si tira indietro neppure in quest'occasione, anzi: proprio questo, a dimostrazione di un'esplicita volontà di recupero di strutture più progressive a cui nell'ultimo lavoro in studio si era ricorsi con parsimonia, è il primo brano di Hypothetical a raggiungere la completezza, durante la fase di stesura del disco, e i due musicisti vi recuperano più di un tratto da analoghi precedenti, conferendo, però, al tutto un sapore inedito, fin dall'inizio di questi dieci minuti. L'apertura del brano, infatti, vi spingerà molto probabilmente ad accertarvi di non aver sbagliato gruppo: dopo una breve introduzione, irruenti accordi dissonanti, collegati fra loro da fraseggi serrati ed incalzati da una doppia cassa incessante, dipingono uno scenario tempestoso ed inquietante che non ha davvero rimandi nella discografia dei nostri. Aggressività che si stempera di poco solo con l'entrata in scena della voce di Mac, qui decisamente declamatoria, posata su una altro riff oscuro e possente e megafono di parole che dipingono l'incessante moto di nascita, distruzione e rinascita che la storia del pianeta Terra e delle sue civiltà ha conosciuto nel corso dei secoli: "First there is an ocean, then there is no ocean, then there is / And then we have a mountain range and then a plain and a range again / Last there is a desert, then a fertile plain, then dry again / Once there was a people, then there were none, then some more did live / Then there was a city then a pile of rocks and a town again / Then they made a weapon that destroyed the lot in a cloud of rain / Then they raised a temple to a god who died and failed them / Then they left and traveled far and then they flew back home again" ("Prima c'è un oceano, poi non c'è più, poi c'è / E poi abbiamo una catena montuosa e poi una pianura e poi ancora una catena / Infine c'è un deserto, poi una piana fertile, poi ancora arido / Un tempo c'era un popolo, poi non c''era più, poi qualcuno è vissuto ancora / Poi c'era una città, poi un mucchio di pietre e poi di nuovo un villaggio / Poi costruirono un'arma che distrusse tutto quanto in una nuvola di pioggia / Poi innalzarono un tempio ad un dio che morì e li deluse / Poi partirono e viaggiarono lontano e poi tornarono di nuovo a casa"). A questa coppia di strofe fa seguito uno stacco atmosferico, in carico alle sole tastiere, che scivola in una nuova sezione del brano: ad accogliere l'ascoltatore è un arpeggio di chitarra liquido e cupo, presto sovrastato dalla distorsione; un ennesimo riff roccioso e metallico, poi, costituisce il nerbo di un breve ponte, fino all'arrivo liberatorio in un ritornello sontuoso ed epicheggiante, pur nella sua melodia elegiaca, esaltata dalle doti vocali di McDermott, la cui ugola si staglia limpida anche nel flusso armonizzato che la accompagna nell'esposizione del testo dal tono profetico di Jon Jeary: "I can tell the world the ravages of time will seek you out / I can tell the world the savageness of mind will find you out" ("Posso dire a tutti quanti che le devastazioni del tempo vi cercheranno / Posso dire a tutti quanti che la ferocia della mente vi troverà"). La serie di strofa, ponte e ritornello si ripete per poi far posto a poche battute di suoni atmosferici e percussioni filtrate, che fanno da gancio ad un ennesimo riff, ancora una volta dalle tinte oscure e impostato su tempo dispari, reso ulteriormente oppressivo dal lavoro di Johanne James sulle pelli dal suono più profondo, in uno viluppo sonoro quasi tribale. Sono poi le tastiere di West a prendersi il centro della scena in una prima sezione solistica impostata su una figura in cinque quarti, e con un ancora nuovo accompagnamento chitarristico; l'inevitabile risposta di Karl Groom si impernia, invece, su una riproposizione della sezione precedente, sigillata però da una scarica di doppia cassa e da una serie di accordi lunghi, atti a distendere l'atmosfera in vista del rientro della strofa, ultima del brano, e del successivo ritornello, iterato in due coppie unite fra loro da un'infilata di accordi distorti ascendenti, in cui Mac si impegna in variazioni melodiche di gran gusto, che ne innalzano in misura maggiore il tocco magniloquente. Proprio la successione ascendente suddetta cosituisce l'approdo definitivo dell'intera composizione, chiusa, infine, da due accordi ribattuti all'unisono con la batteria. Brano articolato e decisamente ricco di variazioni, che si impone, però, anche ad un ascolto fugace come uno dei momenti più brillanti di tutto il disco, forte com'è di un ritornello di grande caratura melodica, ma anche di una scorrevolezza strutturale in cui si può notare tutta la maturazione esecutiva e di stesura raggiunta dal sestetto inglese; la complessa sezione centrale, ad esempio, non appesantisce in alcun modo il flusso musicale, e persino la strofa iniziale, non ripresa nel resto della composizione, svolge il proprio ruolo introduttivo senza risultare slegata o superflua, grazie all'approccio aggressivo sfoderato dalla band (a tratti prossima a certe sonorità thrash metal più evolute) che le dona risalto e significatività. Non mancano, come accennato, soluzioni che ammiccano al passato dei britannici, come certi canti armonizzati di chitarra o alcuni riff poderosi e cupi, e persino la bizzarra trovata finale (l'uso della voce filtrata di Jon Jeary, estratta da una demo del pezzo, sulla breve coda di chiusura) si ricollega ad un precedente illustre, vale a dire la classica Into the light, analoga terza traccia di Psychedelicatessen, rievocata, in certo qual modo, anche dal tema lirico di fondo, ossia l'ambiguo rapporto fra divinità creatrice e l'essere umano come animale pensante, capace di eccezionali traguardi ma anche, e soprattutto, parrebbe dire Jeary, di tragedie immani; non a caso, il bassista si permette addirittura, nella prima strofa della sezione centrale, di rileggere in negativo il celebre episodio della Genesi biblica ("In the gardens of the dead / When the disembodied entity said / Let there be body, le there be mind / Let there be man unkind / She gave reasoning to me / And now the guilt is all on me", "Nei giardini dei morti / Dove l'entità incorporea ha detto: / "Che esista il corpo, che esista la mente, / Che esista il degenere umano", / Lei mi diede la facoltà di ragionare / Ed ora la colpa è solo su di me"), dando vita ad uno fra i suoi testi più pessimistici e cupi. Nonostante, comunque, i rimandi al proprio passato musicale, l'impressione generale di fondo, tuttavia, è quella di un approccio rinnovato, che domina meglio la materia progressive sfrondando qualche prolissità e dosa con oculatezza il pugno di riff distorti e rocciosi e la carezza di un'affinata maestria nel tessere linee melodiche di grande presa, che il timbro e le ottave di un cantante di razza come Mac canalizzano sapientemente. Anche stavolta la prova suite è dunque superata con ottimi esiti, anzi si tramuta in un centro pieno sia nel contesto di Hypothetical sia dell'intera produzione di Groom e compagni, oltre a rappresentare uno dei momenti imperdibili per ogni esibizione dal vivo. E se a qualche ascoltatore fossero rimasti ulteriori dubbi sulla solidità del nuovo corso della band, non vi può essere risposta più gagliarda di un episodio tanto calibrato e trascinante al tempo stesso.

Sheltering Sky
Così come la suite precedente è una presenza fissa nel contesto compositivo dei progsters inglesi, altrettanto lo è, almeno nei tempi più recenti, la power ballad. E su Hypothetical è la quarta traccia, intitolata Sheltering Sky ("Cielo Protettivo"), a caricarsi di questo delicato ruolo, sempre sul rischioso crinale fra riuscita espressione di emozioni ed esercizio di stile, magari gradevole ma di corto respiro. Richard West, a torto o a ragione considerato, in seno alla band, compositore esperto in questo genere di brani, senza dubbio ha presente questi ostacoli, ma neppure vuole ripetersi, dopo l'ottima prova fornita su Clone con pezzi quali Changes e Sunrise on Mars (con cui questa traccia condivide, a detta dello stesso West, una remota genesi, in tempi precedenti il suo ingresso nei ranghi dei progsters del Surrey), pur mantenendo riconoscibile la propria cifra stilistica. Ecco, dunque, il classico attacco pianistico, virato però su suoni brillanti, che lascia quasi subito strada ad un arpeggio pulito, vagamente à-la Queensrÿche, disteso su una sezione ritmica minimale; Mac, in primissimo piano, è il morbido interprete di un passaggio profondamente emotivo, in cui West narra di un personaggio che vive una situazione dicotomica. "Here in the dark, I can see clearly / All that I am burns on my eyes / Nobody knows the road that's before me / Nobody sees the darkening skies" ("Qui nell'oscurità, posso vedere chiaramente / Tutto ciò che sono brucia nei miei occhi / Nessuno conosce la strada che mi si trova davanti / Nessuno vede i cieli che si rabbuiano"), parole che descrivono la consapevolezza di momenti drammatici che incombono sul narratore, nella prima strofa; "Here in the light, I'll be your angel / Under your spotlight I'm learning to fly / But one man's perception is another's deception / And dying to feeling, I'm living a lie" ("Qui nella luce, sarò il tuo angelo / Illuminato da te sto imparando a volare / Ma le impressioni di una persona sono l'inganno di un'altra / E morendo dal desiderio di sentire, sto vivendo una bugia"), una devozione tramutatasi in menzogna, nonostante gli intenti. Un breve passaggio strumentale lega fra loro le due strofe, così come un ponte di poche battute prepara l'efficace apertura melodica del ritornello. Segue un momento solistico per Karl Groom sopra un tappeto più fitto di chitarre, prima del rientro sulle note della strofa, qui rafforzata da accordi distorti e sincopati e da un McDermott opportunamente più ruvido e aspro. Al successivo ritornello, poco più esteso del precedente, tiene seguito un suggestivo arpeggio pulito, quasi sospeso nel vuoto, che rende il ritorno delle chitarre, all'unisono con la batteria, ancora più d'impatto; spazio, poi, ancora una volta per la sei corde di Groom in solitaria, seppure sempre in chiave squisitamente melodica. Proprio il crescendo del solo conduce il brano a conclusione, ciclicamente segnata dal medesimo fraseggio pianistico che l'aveva aperta. Struttura, quindi, piuttosto lineare, quella di Sheltering sky, specie in confronto con il monolite sonoro che la precede in scaletta; abbandonate le ricercatezze metriche, Richard West dà vita a quella che, con semplicità, si può definire una bella canzone, dotata della giusta dose di fascino melodico ed ideale cornice per la duttile ugola di Mac. Meno accessibile, invece, il senso delle liriche vergate dal tastierista, specialmente a prendere in considerazione proprio quelle del ritornello, ossia, almeno in teoria, il gancio più immediato con l'ascoltatore: "You can tell I'm strong like a gathering storm / But I'm lost in my thought and dead to the world / You gave sheltering sky, but I reached for the stars / I said I don't believe in who you are / But it's only words" ("Puoi dirmi che sono forte come una tempesta che incombe / Ma sono perso nei miei pensieri e completamente addormentato / Mi hai dato un cielo che protegge, ma ho raggiunto le stelle / Ho detto che non credo in chi sei / Ma sono solo parole"). Alla luce di altre ricorrenze, in questo lavoro, di liriche ispirate al rapporto con il divino, con il sovraumano, è ben probabile che sia quello il senso profondo del testo scritto da West, e che il confronto esposto sia, appunto, quello fra un essere umano e l'imperscrutabile volontà di un dio; uomo che vuole andare al di là dei limiti impostigli dal suo creatore, ancorché allo scopo di proteggerlo, giungendo anche a rinnegarne l'esistenza, ma pronto a ritornare sui suoi passi una volta cosciente della propria limitatezza e, soprattutto, dell'impossibilità di capire ciò che va oltre la comprensione esercitabile da un essere mortale, con tutti i rischi che comporta, per il fedele, un eccesso, per così dire, di razionalizzazione ("I need you to help me escape from this ocean / I need you to stop me from learning to drown", "Ho bisogno di te per sfuggire a questo oceano / Ho bisogno che tu mi impedisca di imparare ad affondare"). Messaggio di grande profondità, dunque, affidato alle note suadenti ma sincere di un brano in cui Richard West riesce ad evitare la botola del manierismo, anche se corre l'obbligo di riconoscere che la magniloquenza di un capolavoro quale la succitata Sunrise on Mars rimane comunque lontano.

Oceanbound
Ancora Richard West è indicato come solo compositore per Oceanbound ("Circondato dall'Oceano"), quinta tappa nel viaggio sonoro di Hypothetical e prima traccia a cui il tastierista abbia messo mano in vista della stesura del disco, addirittura durante la tournée promozionale di Clone. Non si tratta, però, di un altro brano di natura riflessiva ed elegiaca, come nel caso della precedente Sheltering sky: saggiamente il sestetto britannico inserisce, subito a rimorchio della ballad di rito, una composizione dal passo più robusto e sostenuto, ideale riavvio dei motori e sana scossa all'inerzia del disco. Il liquido arpeggio in avvio, tuttavia, farebbe supporre diversamente, ma l'ingresso all'unisono della distorsione e dell'organo elettrico innalza subito la tensione. Si stacca sulle quattro corde di Jeary in solitaria, e su questa progressione di accordi ascendenti è strutturata la strofa, affrontata a pieni polmoni da un Mac stentoreo, impegnato a tradurre in musica le parole di Richard West, anche in questo caso allusive e metaforiche, che raccontano le fatiche e le frustrazioni di chi affronta un percorso dai tratti senza dubbio spirituali, ancorché concreti in apparenza: "Every time I try to climb a mountain, / All I find are steeper ones ahead / Every time I walk along the highway, / All you do is push me to the edge" ("Ogni volta in cui provo a scalare una montagna / Tutto ciò che trovo sono altre più ripide più avanti / Tutte le volte in cui cammino lungo una grande strada, / Tutto ciò che fai è spingermi fino al limite"). Appare, poi, nuovamente il riff d'apertura, stavolta nel ruolo di ponte verso il ritornello; quest'ultimo mette in mostra ancora una volta la capacità di West e compagni di tracciare melodie potenti e cantabili al contempo, meglio se ammantate di un tocco epico, alla maniera delle classiche realtà prog rock di due decenni prima, conferito, qui, da lunghi accordi di chitarra elettrica e dalla patina magniloquente tesa dalle tastiere, che permettono alla voce di McDermott di prendersi la ribalta mentre si slancia verso le punte più elevate del suo ventaglio sonoro e scandisce una metrica di sicuro impatto, grazie all'alternanza ritmica fra momenti serrati ed altri più distesi; a corredare un arrangiamento potente ma solare, parole che suonano intrise di speranza e fiducia nel superamento delle difficoltà: "Let the sky become an ocean / Pull me in above my head / Won't deny my one devotion / Lose or win, 'cause I'm not scared" ("Lascia che il cielo diventi un oceano / E mi attragga sopra la mia testa / Non respingerò la mia sola devozione / Sia che vinca sia che perda, perché non ho paura"). Quasi senza soluzione di continuità ci si ritrova nella seconda strofa, differenziata dalla precedente per la presenza di un ulteriore riff di chitarra a note singole che ne rimpolpa l'arrangiamento, in maniera non dissimile da quanto proposto da West in Light and space; compiuta, poi, la sequela di ponte e ritornello, l'atmosfera si fa sognante e sospesa, le chitarre elettriche lasciano posto al tocco pulito, lievemente alterato solamente dall'effettistica, e la coppia ritmica sostiene con discrezione l'ugola di Mac, che si rende più morbida e avvolgente per narrare nella maniera più consona un momento di introspezione: "I know the truth of my conscience / And I know the lies of my sign / I know how it feels to be wanting / And I know the fullness of time" ("Io conosco la verità della mia coscienza / E conosco le bugie del mio segno / E conosco cosa vuol dire provare desiderio / E conosco la pienezza del tempo"). Il suono ritorna corposo col rientro delle due asce, che accompagnano gli slanci del cantato in una più incisiva seconda parte di strofa; ancora un passaggio arpeggiato scivola, poi, in una rocciosa sezione solistica, prima cadenzata e più ritmata in seguito, con un finale armonizzato che non mancherà di suonare familiare ai fans della prima ora. Un'ultima serie di strofa, ponte e ritornello apre la strada al il finale, in cui la voce di Mac e la sei corde di Groom si rincorrono fino a sfumare sul rientro dell'arpeggio iniziale, in perfetta circolarità. Altro brano solido e dotato di un ritornello a presa rapida, che sembra cucito addosso ad una potente resa dal vivo, scandito e melodico come si presenta, ma che, al tempo stesso, non trascura il gusto per una dosata varietà strutturale che è marchio di fabbrica dei progsters inglesi, abili ad impiegarla come contrappeso dell'impatto sganciato dai riff chitarristici più spessi. Permane, inoltre, l'impronta lirica a sfondo riflessivo e sostanzialmente religioso che ha caratterizzato altre composizioni firmate da Richard West nel corso della scaletta, seppur qui trattate in modo forse meno palese, e qui rivolte ad esaltare, a quel che si può intuire, la perseveranza di chi crede anche messo di fronte alle durezze dell'esistenza umana, esterne o interne ad esso che possano essere. La risoluzione speranzosa di queste tensioni, tuttavia, sta proprio nell'ariosità corale di un ritornello che colpisce per le sue tinte brillanti, opponendosi a strofe più meditabonde: la migliore metafora per rappresentare la luce che spazza via il buio, e dimostrazione che si può essere ben comprensibili anche senza allusioni troppo esplicite. La musica, d'altronde, specie se di qualità, sa parlare benissimo da sé.

Long Way Home
La sesta tappa di Hypothetical si colloca indubbiamente fra i brani più diretti e trascinanti dell'intero disco. Long Way Home ("Lunga Strada per Casa"), frutto di un'inedita collaborazione fra Richard West e Nick Midson, si sviluppa attorno a due elementi che ne costituiscono le colonne portanti, e sono, non a caso, un malinconico giro di accordi pianistici e un sostenuto e corposo riff di chitarra (recuperato, a quanto sostenuto da Midson, in una pila di sue vecchie demo), che si susseguono a partire proprio dall'introduzione, affidata appunto alle sapienti mani di West con la sola compagnia di poche note in acustico. L'irrompere della distorsione, a chiudere l'introduzione e a dar l'avvio alla strofa, scuote l'inerzia iniziale, con l'aiuto di un Mac più cupo e ruvido del solito. Si infrange il passo più serrato della strofa in corrispondenza del ponte, più irregolare nella ritmica, fino all'apertura corale del ritornello, in cui curatissime armonizzazioni esaltano l'ugola vellutata di McDermott, sempre a proprio agio nel governare le melodie guida, e stemperano, nel contempo, le forti sincopi degli accordi di chitarra e batteria, mentre le tastiere riprendono gli accordi d'apertura. Meno diretto, invece, il quadro lirico, che si apre, piuttosto, a differenti interpretazioni, pur essendo evidente che il messaggio di fondo riguarda il rapporto ambivalente fra due persone (concrete o meno, non è dato dire): "I go my own way, down I fall again / I see the sunrise, only taste the rain / What you remind me I already know / Unless I follow every road with you, / I'll take the long way home" ("Vado per la mia strada, cado giù di nuovo / Vedo l'alba, gusto solo la pioggia / Ciò che mi ricordi, lo conosco già / Fino a che non seguo ogni strada con te, / Prenderò la lunga strada per casa"). Strofa, ponte e ritornello si ripropongono nella medesima successione prima di un nuovo passaggio, segnato da un arrangiamento più arioso, che fa da sfondo ad un conciso e ficcante intervento solistico di Karl Groom e a pochi tocchi pianistici di Richard West, in un potente crescendo scandito anche da colpi della doppia cassa. La tensione si smorza improvvisamente per lasciar spazio ai soli piano e voce, che propongono un primo ritornello (da notare, qui, come McDermott risulti assolutamente efficace anche senza le consuete armonizzazioni, col suo timbro solido appena alterato da un lieve filtro) cui segue un secondo marcato dal rientro della distorsione. Una serie di accordi in crescendo chiude, per così dire, il brano e lascia al basso di Jon Jeary il compito di fungere da cerniera con una coda soltanto strumentale, strutturata sul riff della strofa, in cui trovano spazio in chiave solistica tanto Groom quanto West, fino al ritorno del crescendo d'impatto, doppia cassa inclusa, e al finale vero e proprio, con classicissima rullata a discendere. L'inserimento di un brano dal passo più deciso e rock risulta quanto mai opportuno a questo punto della scaletta, dopo una lunga suite e due episodi più cadenzati come Sheltering sky e la successiva Oceanbound. Long way home svolge ottimamente il ruolo di catalizzatore, pur non rinunciando del tutto alle ricercatezze in sede di arrangiamento, e non si fatica ad immaginarne la potenziale carica al momento di una riproposizione dal vivo, sulle assi di palchi che restano tappa imprescindibile per quanti vivano e respirino musica, rock in particolare. E ulteriore elemento di connessione con il pubblico constituisce l'ampia interpretabilità delle liriche, tanto adattabili alle relazioni umane quanto al rapporto con il soprannaturale, o addirittura il divino, come farrebbero presumere alcuni passaggi lirici (ad esempio le parole dell'ultimo ponte "And I know that I believe you, / But I just can't keep the faith", "E so che ti credo, / Ma non riesco a mantenere la fede", con la parola faith che oscilla ambiguamente tra "fiducia" e "fede"). Con pregnanza tutta britannica, dunque, la band del Surrey evita di suonare troppo algida o intellettuale, riequilibrando il generale quadro a tinte progressive con pennellate più esplicite e rock, sia sotto il profilo musicale sia in ambito lirico: un'accortezza che ne dimostra, inoltre, la completa indipendenza creativa, nonostante i persistenti tentativi, almeno da parte di certa critica facile, di incasellarli nella scena prog. Rigidità che mal si addicono agli artisti autentici, pur nel piccolo dell'ambito musicale cosiddetto 'popolare'.

Keep My Head
Sgombriamo immediatamente il tavolo da possibili equivoci, a partire dal primo: Keep my Head ("Mantenermi Lucido"), penultima traccia di questo quinto lavoro a nome Threshold, rientra in pieno nella definizione di ballata pop, figlia delle suggestioni musicali che Richard West aveva inteso seguire al di fuori della band madre; quanto al secondo: ci vuole davvero un cattivo paio di timpani per non accorgersi della qualità intrinseca del brano in questione, in virtù di una melodia portante semplice ed irresistibile allo stesso tempo, che, senza esagerazioni, persino l'ascoltatore più casuale potrebbe ritrovarsi a fischiettare sotto la proverbiale doccia. A ben vedere, il vero ordigno da disinnescare, per il sestetto inglese, sarebbe il modo in cui assimilare al proprio suono una canzone con caratteristiche simili senza, però, rischiare di snaturarla, o di trasformarla in una caricatura. Fortunatamente, nei ranghi dei progsters d'Albione rientra l'artificiere giusto per questa missione: e così, subito dopo una dolce introduzione tastieristica, Andrew McDermott impugna i ferri del mestiere e domina la scena col suo timbro, rassicurante e morbido, affiancato solamente da una sommessa chitarra acustica. Niente partiture articolate, in questo caso, e strofa che risolve diretta nel ritornello, con Mac pronto a fare ricorso al registro più alto per slanciarne appieno le indubbie potenzialità melodiche. Sul vibrato del cantante e sulla riproposizione della frase discendente di tastiera sentita in apertura s'inserisce la sei corde di Karl Groom: anche il chitarrista opta, giustamente, per un solo votato all'orecchiabilità, e bisogna dargli atto di un ottimo lavoro di cesello, tale per cui non v'è realmente singola nota fuori posto nel suo intervento. A conclusione del quale resta spazio per un secondo ritornello, rinforzato da azzeccati contrappunti vocali, e per una soffusa chiosa di voce e tastiera. Insolita, probabilmente, la sensazione di scorrevolezza e semplicità che una composizione del genere suscita nell'ascoltatore abituale di un gruppo ascritto (a torto o ragione) al novero del cosiddetto progressive metal, e che, alla luce di quanto appena sentito, appare ancora di più un'etichetta priva di autentica consistenza critica, specie per una realtà spesso pronta all'esperimento quale quella del sestetto inglese. Ciò che conta e resta, in realtà, è la qualità artistica, ed anche questo breve cameo melodico ne contiene in abbondanza, ispirato e curatissimo nei dettagli com'è. Menzione finale, ma doverosa, per il testo, una sintetica ma poetica riflessione sulla necessità di essere presenti a se stessi anche nei momenti più difficili, di qualunque genere essi siano: "I'm doing the best that I can / Everything is going to plan / If only I can keep my head, my head tonight"("Sto facendo il meglio che posso / Tutto andrà secondo i piani / Se solo riesco a mantenermi lucido, lucido stanotte"); un'attitudine ottimistica e positiva che il ritornello ribadisce ancor di più, in contrapposizione agli atteggiamenti irrazionali di molti: "If only I can keep my head when everyone is losing it / If only I can trust my heart when doubting minds are everywhere / If I can keep my eyes in focus everything will turn out fine / If only I can keep my head" ("Se solo riesco a mantenermi lucido quando tutti stanno perdendo la testa / Se solo riesco a fidarmi del mio cuore quando ci sono dappertutto menti dubbiose / Se riesco a tenere i miei occhi sull'obiettivo, tutto andrà a finire bene / Se solo riesco a mantenermi lucido"). Mantenersi lucidi, quindi: specie quando si è un gruppo tradizionalmente considerato progressive e si decide, in barba a virtuosismi strumentali, strutture arzigogolate e ricercatezze arrangiative che ne dovrebbero costituire l'interesse principale, di pubblicare una riuscitissima ballata pop. Mantenersi lucidi, e tutto andrà a finire bene: cosa meglio di esserne la prova vivente?

Narcissus
Ad un altro monolite sonoro, della durata di oltre undici minuti, è affidato il compito di concludere l'intero disco. Composizione lunga, lunga lavorazione, come attestato da Karl Groom, ideatore della musica con Jon Jeary; tanto che Narcissus ("Narciso"), questo il titolo della traccia in questione, per giungere alla sua forma definitiva ha bisogno della classica folgorazione sulla via di Damasco, che Groom riceve non cadendo giù da cavallo, novello Paolo di Tarso, ma riascoltando una versione demo del brano sullo stereo della sua automobile, mentre rientra a casa. Difficoltà che il collega bassista non trova, invece, nella ricerca di un testo appropriato, in quanto riesce ad adattare alcune liriche a cui ha messo mano indipendentemente dal lavoro di Groom, e che risalgono, in qualche punto, persino al periodo precedente il primo contratto discografico del gruppo. Lo stesso titolo, peraltro, era stato proposto da Jeary come nome per la band stessa, prima della scelta definitiva, e poi scartato per motivi forse comprensibili ma non esattamente razionali (Groom ed il resto della formazione di allora ritenevano che alludere ad un fiore non suonasse sufficientemente azzeccato per un gruppo metal!). Il paroliere di casa Threshold lo reimpiega, quindi, in occasione della stesura di questo tour de force in musica, che rappresenta anche l'ultima tappa di tutto Hypothetical. Tocca ad un riff cadenzato e disteso, di sapore epico, far da ingresso, assieme a un veloce scorcio solistico; elementi che scompaiono in apertura della strofa, che spariglia le carte presentandosi incardinata su decise sincopi della sezione ritmica e su chitarre pulite e riflessive, con McDermott che si muove soffuso fra gli spazi lasciati liberi dalla saturazione elettrica mentre descrive ciò che dà il titolo al brano, il narciso, appunto. Non di botanica si tratta, però: il bersaglio delle liriche è, piuttosto, l'incarnazione per così dire psicologica dell'omonimo personaggio del mito classico, perdutamente innamoratosi della propria immagine, tanto da perdere, a causa di essa, persino la vita. Oltre a dar nome, quindi, al bel fiore che cresce sovente sulle rive di specchi d'acqua, Narciso indica, appunto, l'atteggiamento di chi, per l'esclusiva e quasi patologica attenzione a sé stesso, finisce per isolarsi dal mondo esterno e per sacrificare al proprio insaziabile egoismo rapporti umani e sociali, perso com'è nei meandri di una personalità immatura ed instabile. Il richiamo mitologico, d'altra parte, deve aver ispirato anche l'approccio prettamente musicale: il brano si apre, infatti, col piglio epicheggiante di lunghi accordi chitarristici sorretti e rinvigoriti da tastiere roboanti e dal passo scandito ma implacabile delle pelli di Johanne James, su cui campeggia un riconoscibilissimo intarsio solistico di Groom. Registro che cambia con l'ingresso in strofa, dalla chiara struttura bipartita: una prima metà retta su arpeggi puliti in tonalità minore e dalla voce di Mac docile, quasi malinconica, accompagnata dalle decise sincopi della sezione ritmica; una seconda scossa da poderose chitarre cadenzate, che chiamano l'ugola del cantante ad estendersi mentre basso e batteria recuperano linearità. Unifica il tutto l'argomento delle liriche, che descrivono impietosamente gli atteggiamenti a cui rimanda il titolo stesso della canzone: "Caught in the headlamp glare of your own blinding vanity / Mesmerized by the stare of your shallow personality / Gorging the junk food of flattery, you drag your fat ego around / Everyone floored by the battering you give to whoever's around" ("Bloccato dal fascio di luve proiettato dalla tua stessa accecante vanità / Ipnotizzato dallo sguardo della tua personalità superficiale / Mentre ingurgiti il cibo spazzatura dell'adulazione, trascini in giro il tuo grasso ego / Tutti sono abbattuti dall'assalto che porti a chiunque sia attorno"). La seconda strofa, ancora introdotta da un breve canto di chitarra, si distingue per una presenza più marcata del lavoro tastieristico di West, pur mantenendo la suddivisione già vista, fino all'ingresso nel ritornello, in cui riappaiono i toni epici e distesi dell'apertura e le corpose armonizzazioni sulla linea vocale di Mac, che costituiscono una delle caratteristiche rilevanti dell'intero disco. Le parole di Jeary coronano le sferzanti osservazioni delle strofe precedenti, con tocco persino tragico: "Oh Narcissus, you petulant child / Admiring yourself in the curve of my eyes / Oh Narcissus, you angel beguiled / Unsated by self you do nothing but die" ("Oh Narciso, bambino petulante / che ammiri te stesso nella curva dei miei occhi / Oh Narciso, angelo ingannato / Affamato di te non fai altro che morire"). Una nuova serie di strofa e ritornello, questo secondo di maggiore lunghezza, lasciano poi strada ad un momento riservato al piano ed ai sintetizzatori di Richard West, che accompagnano in solitaria la voce di McDermott, qui pesantemente filtrata, in un lungo intermezzo d'atmosfera, in cui le liriche si ergono a protagoniste. Abbandonata, infatti, la metafora floreale, Jon Jeary sembra, piuttosto, voler mostrare la vera natura del narciso, la sua psiche egoistica e predatoria, la sua moralità deviata: si spiega così il ricorso ad immagini ferine aggressive, che ben poco lasciano all'immaginazione ("You call yourself a friend, you call yourself a friend / And when I turn my back, your fangs will feel my neck", "Ti consideri un amico, ti consideri un amico / E appena mi volto, le tue zanne assaggeranno la mia nuca"), o apertamente denigratorie ("What is your domain but a barn where your runts roll in the reek", "Cos'è il tuo regno se non una baracca dove i tuoi randagi si rotolano nel lerciume"; o ancora "I want nothing of your snarling mongrel strain, your smarmy doggerel lies", "Non voglio nulla della tua ringhiosa razza bastarda, le tue viscide bugie da quattro soldi"). In coda a questa parentesi dall'arrangiamento pressoché inedito, uno stringato fraseggio di chitarra funge da raccordo verso un'abbondante sezione solistica, in cui le tastiere e la sei corde incrociano le lame su una spigolosa ritmica in cinque quarti, come a caratterizzare ulteriormente una sezione centrale dalle tinte progressive quanto mai esplicite. Tocca, infine, ad una scala ascendente dal timbro dissonante fare da cerniera con un'ultima strofa ed il seguente ritornello, dopo il quale, su una sequenza di accordi modulata, l'ennesima incursione della chitarra (comprensiva dell'immancabile fraseggio in doppio tapping tanto caro a Karl Groom) sospinge il brano al suo definitivo sipario. Sontuoso, dunque, il congedo proposto in questo caso dai britannici, ed analogo, a prima vista, alla scelta, su Extinct instinct, dell'articolata Part of the chaos come ultimo (o quasi) tassello; una serie di elementi del tutto particolari segna, però, una differenza non da poco rispetto al precedente citato, a partire dalla sezione centrale, che sembra ispirata, piuttosto, alla parentesi corale posta al centro di Devoted, traccia finale di Psychedelicatessen, per continuare col ricorso a soluzioni meno schiettamente metalliche in sede di arrangiamento, quali la ritmica sincopata della prima parte delle strofe, o le armonizzazioni stratificate della linea vocale, sempre tesa, peraltro alla ricerca di spunti melodici accattivanti e, allo stesso tempo, mai scontati. Se, dunque, la suite è formato assolutamente consolidato e tradizionale nell'economia compositiva della band, questa composizione rivela, però, il giusto desiderio di uscire dalla propria zona di tranquillità, aggiungendo, seppur con moderazione, pennellate sperimentali che ricalibrano l'insieme in maniera sottile ma del tutto percettibile. E cosa meglio che chiudere con un omaggio alla propria storia musicale, in un album che vuole presentarsi come una vera e propria ripartenza per il gruppo inglese?

Life Flow
Ad accrescere il valore intrinseco dell'edizione limitata di Hypothetical, il gruppo inglese aggiunge alla scaletta ufficiale una traccia ulteriore. Non si tratta, in questo caso, di un vero e proprio inedito, bensì di una rilettura in chiave acustica di un brano originariamente incluso in Extinct instinct, loro terza fatica in studio, quasi a omaggiare l'antica abitudine, interrotasi con la pubblicazione di Clone, di chiudere i propri dischi con una breve escursione in territori scevri da qualsivoglia distorsione. La scelta di proporre in questa chiave un pezzo come Life Flow ("Flusso della Vita") potrebbe, almeno a prima vista, lasciare sorpresi, considerando che si annovera fra le composizioni più marcatamente pesanti e metalliche dell'intero Extinct instinct (ed il primo a stupirsi dell'idea è, in effetti, proprio lo stesso Karl Groom). L'operazione di revisione portata avanti da Richard West, tuttavia, non punta semplicemente a spogliare la partitura originale della patina elettrica; si presenta, anzi, come una reinterpretazione profonda dell'arrangiamento nel suo insieme, che ne valorizza la melodia portante, molto più percettibile nell'essenziale esecuzione acustica, e trasporta il brano in tutt'altra dimensione, grazie anche ad alcuni tocchi pianistici dello stesso West che sembrano occhieggiare ad orecchiabili soluzioni dal taglio decisamente pop. Ottimo, infine, McDermott nel dare corpo alla linea vocale, spingendo a pieni polmoni dove necessario e accarezzando nei momenti più intimistici, con quella versatilità che sa donare sfumature inedite alla tavolozza compositiva del sestetto britannico. Pur non costituendo, dunque, nulla più che un episodio esornativo, questa versione alternativa di Life flow rivela bene la capacità di Groom e soci di rivedere sotto luce differente i propri sforzo creativi, con esiti, peraltro, assolutamente efficaci pur nella quasi assoluta diversità.

Conclusioni
Come ricordato più volte, l'attitudine della band britannica nei confronti di Hypothetical è quella del nuovo esordio, del nuovo semaforo verde. Si dirà: ma non doveva esserlo già il disco precedente? Giusto per restare nell'immaginario del mondo delle corse, il loro quarto album, Clone, sembra più rivestire il ruolo di necessario pit-stop, la pausa indispensabile per rifornire i serbatoi, tarare gli strumenti e ributtarsi in pista a cilindri spiegati. In questa quinta prova in studio, invece, i sei inglesi testano l'efficacia dell'assetto ritrovato a seguito dell'esperienza compositiva e concertistica che il predecessore aveva concesso loro, più il propellente garantito da una formazione che parrebbe esser finalmente giunta a stabilità con l'inserimento ufficiale di Johanne James dietro le pelli, la conferma di Andrew McDermott nel ruolo di cantante ed il rinnovato entusiasmo manifestato da un Richard West che aveva, anche se per breve tempo, meditato seriamente di mollare il colpo e dedicarsi a ben altri spartiti. Proprio il quasi dimissionario tastierista assume un ruolo di rilievo nella composizione dell'intero disco, mettendo la propria firma solitaria su quattro brani della scaletta definitiva (seppur con il contributo, non accreditato ma più volte ribadito dallo stesso West, di Groom e Midson in Oceanbound) e contribuendo a mettere ancor più in risalto quei tocchi progressivi che la pesantezza sonora di Clone aveva inevitabilmente lasciato in minore evidenza. Emerge qui, in sostanza, un equilibrio più ricercato fra la componente più pesante e metallica degli esordi e l'acquisito gusto per un suono omogeneo e variegato insieme, che evita con attenzione le secche dell'autoreferenzialità o della complessità fine a se stessa in favore di melodie fruibili a primo acchito ma in cui l'ascoltatore più attento può ritrovare cesellature notevoli, oltre ad un'accessibilità che si fa via via sempre più efficace senza scendere a compromessi al ribasso sotto il profilo della qualità. Tutto questo, poi, non comporta un taglio netto con la tradizione della band, percepibile in diversi elementi all'interno di vari brani della scaletta (dall'approccio solistico di Karl Groom, che pure si mostra più incisivo e meno dispersivo, alle partiture vocali ed alle liriche curate da Jon Jeary fino alle immancabili suites di dieci e più minuti) ma mai invadente o, peggio, foriera di quella sensazione di scontatezza, di "già sentito" che certo farebbe a pugni con l'identità progressive del sestetto inglese. Un amalgama compatto e non monolitico, dotato di varietà tale da non annoiare l'ascoltatore ma bilanciata in modo da schivare la trappola della pretenziosità o delle complessità al limite del comprensibile, frutto di una band finalmente coesa e senza dubbio padrona dei propri mezzi espressivi e della propria traiettoria artistica, a tal punto da concedersi un azzardo quale una ballata come Keep my head, che, da qualunque lato la si voglia guardare, o piuttosto ascoltare, resta un bell'esempio di pop melodico dal vellutato retrogusto AOR, niente di più e niente di meno, ma allo stesso tempo non risulta né un episodio minore, né una stonatura nel complesso del disco. Talento, questo, che la formazione britannica condivide con pesi massimi della storia del rock meno scontato, e loro numi tutelati indiscussi, quali Genesis o Rush, e che può permettersi di sciorinare in virtù di qualità compositive ed esecutive ormai mature e pronte a offrire il proprio meglio, confezionate, poi, con una produzione solida e definita, grazie anche all'esperienza accumulata da Groom e West nei Thin Ice Studios (e nonostante un suono di batteria parecchio processato, dovuto alla necessità, per esigenze di tempo, di registrare con uno strumento di riserva, qualitativamente inferiore rispetto alla prima scelta di Johanne James). Un approccio, in sintesi, che bilancia concretezza e ricercatezza, terra e cielo, cercando di porvisi in equidistante equiibrio, proprio come simboleggiata dalla suggestiva copertina, anche stavolta dovuta alla mano dell'artista tedesco Thomas Ewerhard, in cui i palazzi ed i gratttacieli di una città non meglio identificabile, posta su un enorme masso fluttuante, si stagliano contro un cielo che minaccia tempesta, sopra una riva marina dall'aspetto selvaggio ed incontaminato, mentre l'orizzonte schiarisce in un affascinate contrasto di tinte pastello. Traduzione perfetta dell'attitudine dei sei progsters che, lasciatisi alle spalle i momenti di maggiore incertezza, si innalzano per scoprire quali novità riservi questa volta celeste, pur senza perdere di vista la terra da cui sono partiti. Certo è che il loro volo, sulle ali di un ottimo lavoro come questo Hypothetical, inizia davvero sotto i migliori auspici.

2) Turn On, Tune In
3) The Ravages of Time
4) Sheltering Sky
5) Oceanbound
6) Long Way Home
7) Keep My Head
8) Narcissus
9) Life Flow


