THRESHOLD

Extinct Instinct

1997 - Giant Electric Pea

A CURA DI
VALERIO TORCHIO
24/11/2018
TEMPO DI LETTURA:
7

Introduzione Recensione

Un disco che supera le aspettative di critica e pubblico, nonché le vendite del suo predecessore; una tournée internazionale consistente (trentasette date in quasi tutta l'Europa Occidentale) e di notevole richiamo, in compagnia di gruppi dal riconosciuto talento (gli osannati Dream Theater, freschi autori dell'acclamato terzo album Awake, e i geniali ed incompresi Psychotic Waltz, impegnati, a loro volta, nella prima tranche di concerti europei in promozione della propria terza fatica discografica, Mosquito); una line-up rinsaldata con elementi di indiscutibili capacità. Cos'altro, dunque, si poteva desiderare in casa Threshold, all'indomani di Psychedelicatessen, loro seconda fatica discografica? Poco o nulla. Eppure, subito dopo la pubblicazione, nel giugno del 1995, dell'EP Livedelica, che offre ai fans un pugno di brani estratti dalla suddetta serie di esibizioni, il sestetto britannico entra imprevedibilmente in empasse, tanto che, prima di qualsiasi concreta novità, trascorrono ben due anni; troppi, per un gruppo che sembrava aver imboccato una parabola ascendente sia sotto il profilo compositivo sia per la capacità di calcare con costanza il palco. A dilapidare il patrimonio di slancio creativo e di presenza dal vivo sono, come ammesso dagli stessi membri della band, divergenze insormontabili in sede di scrittura: Glynn Morgan, cantante, ma anche capace chitarrista, la cui vena più groovy aveva donato nuovi colori alla tavolozza dei progsters britannici, preme per un ulteriore avanzamento in questa direzione, a scapito di alcune ricercatezze che il resto del gruppo non è, invece, disposto ad accantonare. Nonostante, dunque, la stesura di nuovi brani proceda ed alcuni di essi abbiano persino occasione di essere proposti ai fans in alcune date del tour, le reciproche incomprensioni non fanno che approfondirsi, e spingono Morgan e i Threshold a separare le rispettive strade. Segue il defezionario cantante anche Jay Miccicche, batterista che aveva coperto il ruolo lasciato vacante da Nick Harradence appena concluse le registrazioni di Psychedelicatessen, e il rimanente quartetto, trovandosi scoperti in due ruoli chiave a lavori ormai ampiamente iniziati, è quindi obbligato a ricercare una coppia di rimpiazzi adeguati in un tempo il più ristretto possibile, nella speranza di non arenarsi nel bel mezzo della composizione di quei brani destinati ad entrare nella scaletta del prossimo album. Impresa quasi disperata, se non fosse per un aiuto davvero inatteso: Damian Wilson, che aveva prestato la sua notevole ugola a Wounded land, disco d'esordio dei progsters inglesi, liberatosi dagli impegni contrattuali con il supergruppo Lasalle, accetta l'invito degli ex compagni e rientra nei ranghi giusto in tempo per le registrazioni, riuscendo anche a contribuire alla stesura di alcuni brani. Più prosaicamente, invece, il sellino dietro ai tamburi, per l'ennesima volta vacante (e con quattro batteristi su tre album e un EP siamo in piena zona Spinal Tap), è occupato da un musicista a contratto, Mark Heaney, di comprovata esperienza. Sopravvissuti così all'ennesima scossa tellurica nella propria formazione, Karl Groom, Jon Jeary, Richard West e Nick Midson, complici tanto la fuoriuscita di Morgan quanto il ritorno di Wilson, con la sua voce più aderente ai classici canoni progressive di pulizia ed acutezza, devono sentirsi nelle orecchie lo sparo di una nuova partenza, e rompono del tutto gli argini in termini di ricchezza e varietà compositive. Diversi, inoltre, si fanno i richiami al disco di debutto, quasi a tracciare una linea di continuità, anche tematica (ricompaiono, ad esempio, i testi di argomento ambientalistico e sociale che avevano ispirato persino il titolo di Wounded land) fra il nuovo e terzo capitolo ed il primo, nonostante i cinque anni che li separano e l'esperienza, comunque positiva, maturata nella creazione di Psychedelicatessen. Anche la ricomparsa, dopo la semplificazione attuata sul secondo album, di un logo arzigogolato e complesso, che tributa apertamente le grafiche bizzarre e particolari dei pionieri prog rock Settantiani, può esser letta come una riconferma della volontà di guardare alle fonti di ispirazione di quel primo lavoro, e da lì ripartire per mettere alla prova gli assetti rinnovati. Ultimi, ma non meno importanti dettagli: il titolo scelto, Extinct instinct, e il disegno che occupa la copertina (opera, fra l'altro, di Bill Midson, padre del chitarrista Nick, mentre i due lavori precedenti erano stati entrambe curati da Colin Lucas), una monumentale croce celtica coperta di motivi vegetali e rune scolpite, semiaffondata in un lago contaminato e parzialmente distrutta, priva di uno dei suoi bracci. Entrambi questi elementi si riferiscono, certo, ai temi cari alla band ed affrontati nelle liriche del disco, ma alludono allo stesso tempo, ed in modo neppure troppo velato, alle difficoltà sostenute dal gruppo stesso, al rischio concreto di, appunto, estinguere l'istinto artistico che li ha spinti negli anni a mettersi in gioco nel non facile mondo dell'industria musicale, in cui, alla stregua di quel monolite, è spesso arduo riemergere dopo aver subito colpi potenzialmente devastanti. Resta solo da sentire, allora, in quale modo i sei sopravvissuti del progressive siano tornati a respirare, dopo aver corso il rischio di affondare in modo irreparabile tra i flutti di un mare di difficoltà, musicali e non solo, e quanto quel loro istinto musicale sia, in effetti, ancora vivo e vitale.

Exposed

Si parte con Exposed ("Esposto"). Una rapida scarica di batteria, rullante e pedali, ed è un giro di basso sincopato dai toni cupi, presto doppiato dalle chitarre, ad aprirci le porte di Extinct instinct. Non poteva esserci modo più esplicito di presentare l'album come nuova partenza per la band,viste le similarità con l'attacco di Consume to live, la traccia d'apertura di Wounded land, opera del medesimo trio di autori (Karl Groom, Nick Midson e Jon Jeary) ed anch'essa caratterizzata dalla preminenza del quattro corde. Altrettanto marcata la scelta della band di attivare a pieno regime la modalità progressive del loro suono, considerato l'inserirsi dell'elettronica ad operare da collante nelle ritmica e l'immediato dispiegarsi di un elaborato canto armonizzato, con tanto di breve fraseggio in tapping, cui segue un ulteriore scambio solistico tra la coppia di asce e le tastiere di Richard West. Chiusasi questa sorta di introduzione, un nuovo riff, di sapore più ritmato e pentatonico, fa da scenario alla strofa vera e propria, sulla quale può trovare spazio, infine, anche Damian Wilson. Proprio la linea vocale risalta come elemento particolare, col suo andamento strisciante e lievemente obliquo rispetto alla struttura armonica, ed alterna ombre e slanci con maestria mentre racconta l'amarezza e la delusione che animano il testo, come sempre scritto dal bassista Jon Jeary e indirizzato senza troppa retorica alla persona causa di questi sentimenti. "Sick of guessing what's behind your eyes / I ask for truth and all I get is lies / The shrinking violet in your flaccid mind / Thinks it's cool but all you do is whine / And now you stand there and demand your half / When I have given to you all you have" ("Sono stufo di indovinare cosa c'è dietro ai tuoi occhi / Chiedo la verità e tutto ciò che ottengo sono bugie / La mammoletta nella tua debole mente / Pensa di essere forte, ma tutto ciò che fai è piagnucolare / E ora stai lì e chiedi la tua metà / Quando io ti ho dato tutto ciò che hai"): toni insolitamente decisi e personali per la media lirica dei britannici, più spesso incentrata su problematiche di respiro ben diverso. E confermati anche nel ponte, caratterizzato inoltre, da una netta sferzata ritmica rispetto al passo più compassato della strofa, oltre a permettere all'ugola di Wilson di slanciarsi verso i registri più acuti: "Dont' make me laugh at that demo play / you're sick and tired of my clever word play / You find it hard doing things my way / You've done your part so tell me why do you stay" ("Non farmi ridere al suono di quella demo / Sei nauseato dal mio ingegnoso gioco di parole / Trovi difficile fare le cose a modo mio / Hai fatto la tua parte, perciò dimmi perché resti qui"). Insolito caso di ponte che non sfocia direttamente in un ritornello, ma rientra in una seconda strofa; d'altra parte, la band ci ha abituato a sorprendere con soluzioni non particolarmente ortodosse. Del tutto in linea, invece, con l'andamento del resto del brano l'approccio polemico e risentito del testo, che riserva ulteriori osservazioni non meno dure e schiette delle precedenti: "I assume your silence is a foil for rage / You can't find words, even at your age" ("Presumo che il tuo silenzio faccia risaltare la tua rabbia / Non riesci a trovare le parole, nemmeno alla tua età"), o ancora "We have the aswers but you just won't ask" ("Noi abbiamo le risposte, ma tu, semplicemente, non le chiederai").Viene spontaneo chiedersi chi possa mai essere il malcapitato destinatario di questa impietoso ritratto al negativo, ma prima di ogni domanda un secondo ponte, del tutto simile al precedente, ci trascina, dopo una veloce ripresa del riff d'apertura, ad un ritornello dalle linee cupe, vagamente sabbathiane, nel quale lunghi accordi di chitarra sono solcati dal vibrato di Wilson e da parole dal taglio drammatico e, allo stesso tempo, piuttosto criptiche, in un crescendo sottolineato dalla modulazione che contrassegna la seconda metà del ritornello stesso: "Now I pick up the entrails of another dead affair / I assume the mantle that I knew you could not wear / You never had the confidence to leave yourself exposed / To the gaze of the tiny minds it's my mission to explode" ("Ora raccolgo le viscere di un'altra relazione morta / Assumo io la responsabilità che sapevo tu non fossi in grado di prendere / Non ha mai avuto la sicurezza per lasciare te stesso esposto / Allo sguardo delle piccole menti che ho la missione di far esplodere"). Altre tessere che sembrano comporre un identikit sempre meno equivoco, quello del defezionario eccellente, le cui posizioni inconciliabili hanno portato ad una dolorosa e mal digerita separazione: ovvio, Glynn Morgan. Resta spazio, a questo punto, per un'ultima domanda retorica, oltre che per una vigorosa variazione sul piano musicale: una breve rullata chiude, infatti, il ritornello e lo collega ad una nuova sezione, marchiata da un riff stoppato e sincopato, sul quale anche la voce di Wilson, seguendone pari pari l'andamento, suona saltellante e serrata mentre colma le battute con le provocatorie parole di Jeary: "Is this more like it, can you get into the groove / Or are you paralyzed, still too scared to move? / You are naked, you are rooted to the spot / I am the walrus and it's clear that you are not" ("Così va meglio, riesci a sentirti a tuo agio / O sei paralizzato, ancora troppo spaventato per muoverti? / Sei nudo, sei inchiodato al tuo posto / Io sono il tricheco, ed è chiaro che tu non lo sei"). Ad aggiungere enigma ad enigma, il riferimento ad uno dei più controversi e commentati testi beatlesiani, I am the walrus, appunto, che forse, in questo caso, allude ironicamente al ruolo di "cattivo" che il bassista e paroliere dei Threshold si riserva per avere, in qualche modo, invitato l'ex cantante a chiarire le proprie posizioni all'interno del gruppo, così da non comprometterne gli equilibri lavorativi e personali; sappiamo come sia andata a finire. Ed anche il brano si avvia alla conclusione: una doppia scala ascendente raccorda questa sezione ad un'ultima ripresa del riff iniziale, reiterato più volte, persino in modo insistito, e punteggiato dalle note in bending della chitarra solista, fino alla conclusione vera e propria, sancita da un pomposo intervento organistico. Ancora una volta, una traccia d'esordio di tutto rispetto, magari non dotata dell'impatto metallico di Sunseeker o della riconoscibilità di Consume to live, ed appesantita probabilmente da un finale un poco prolisso, ma resa senza dubbio peculiare da un apparato lirico fra i più insoliti e personali mai presentati dai progsters inglesi. E siamo pronti a scommettere che a qualcuno, come si suol dire, fischiano le orecchie.

Somatography

In Somatography ("Somatografia") continuano le suggestioni liriche non esattamente immediate, sorta di guanto di sfida lanciato dal bassista e paroliere Jon Jeary alle nostre capacità interpretative. In cosa consisterebbe, dunque, la pratica che dà il titolo a questa seconda traccia di Extinct instinct? Si tratta di una disciplina recente (nonostante il nome grecizzante possa far pensare a chissà quale antichità), che pretenderebbe di visualizzare, tramite un apposito strumento, l'aura vitale di una persona. Siamo ai limiti di ciò che si possa considerare autentica ricerca e pseudoscienza, un crinale spesso interessante più a disinvolti imbonitori ed al loro pubblico che non a veri professionisti nelle rispettive discipline, e tanto più seduttivo quanto più fumoso e difficilmente dimostrabile. La band inglese dipinge, così, lo scenario appropriato, basandosi su un cupo arpeggio che, anziché richiamare gli obbligatori Black Sabbath, sembra piuttosto ispirato dalla loro revisitazione contemporanea a stelle e strisce, opera di gruppi come, ad esempio, Alice In Chains, richiamati anche dal riverbero delle chitarre; su di esso si staglia limpida la voce di Damian Wilson, che recita, a passo cadenzato e vibrato ampio, le liriche di Jon Jeary, più ricercate e accusatorie che mai: "As we sailed through the clouds over plains of emerald green / a million dead unseen we were justifiably proud" ("Mentre navigavamo fra le nuvole su piane verde smeraldo / Un milione di morti non visti, eravamo giustificabilmente orgogliosi"). La struttura particolare della strofa incastona una modulazione, sempre su arpeggio pulito, fra due altre frasi di uguale base armonica; l'atmosfera pacata è poi travolta da una sventagliata di chitarre serrate in sedicesimi, appena screziate di alcune dissonanze e ben sospinte dalla sezione ritmica (che si prende brevemente la scena con alcuni azzeccati inserti di Mark Heaney), prima di una nuova strofa, sostenuta anche dall'organno Hammond di West, che fa, per così dire, da ponte verso il ritornello. Qui Wilson, accompagnato, inoltre, dalla seconda voce di Jeary, sfoggia tutte le sue ottave più squillanti, quasi spinga a viva forza le parole nei nostri timpani: "When will the suffering cease and do we all deserve our peace / Destiny is but to run / Will our wealth increase when will we all be released / Future's only just begun" ("Quando questa sofferenza finirà e tutti noi ci meriteremo la pace? / Il destino è solo di fuggire / La nostra ricchezza aumenterà quando saremo tutti liberi? / Il futuro è appena iniziato"). Si scorgono senza fatica, qui, le tipiche parole di condanna dell'avidità umana che Jon Jeary ha speso a piene mani già sul debutto, e che sono riaffiorate poi anche nel precedente Psychedelicatessen. Ed il discorso prosegue sulla stessa linea anche nella strofa successiva, parallela a quella che anticipa il ritornello, e che ne introduce un secondo a propria volta. Segue un intermezzo strumentale, giocato sull'arpeggio di apertura, in cui le sei corde si rincorrono in una sorta di versione alla moviola dei duelli chitarristici tradizionali della musica rock e metal. Il ritorno del riff serrato già sentito fa da preludio ad un ultimo ritornello, che lascia poi strada ad un finale prima sincopato, poi sempre più incalzante, sul quale i fraseggi tastieristici di Richard West sembrano accelerare la fuga verso la deflagrazione finale, assieme alla doppia cassa di Mark Heaney. Un'altra composizione di sostanza, al netto di qualche rigidità fra un passaggio e l'altro, e graziata da un ritornello senza dubbio efficace, anche al di là dell'eccellente prestazione di Wilson, e nonostante si articoli su un tempo dispari. Resta una domanda: a cosa, in effetti, si riferisce davvero il titolo? Evitando di speculare troppo, e dato per evidente il carattere ecologistico delle liriche, verrebbe da pensare che la somatografia di cui qui si parla si riferisca alla visualizzazione dell'aura vitale della Terra stessa, deturpata dall'essere umano per i ben noti obiettivi di ricchezza e potere, il tutto a danno dell'ambiente circostante, in cui, peraltro, vive anch'egli: "Now I gaze with jaundiced eyes / On the fruit of our exploitation" ("Ora osservo con occhi disgustati il frutto del nostro sfruttamento"), parole inequivocabili, che contribuiscono a chiarire il senso dell'insieme. Tessuto musicale prog-metal e testi socialmente impegnati, un classico per gli inglesi, ma Karl Groom e Jon Jeary ci hanno saputo regalare anche di meglio.

Eat the Unicorn

Una composizione dal minutaggio elevato e di notevole complessità al terzo gradino della scaletta è per i Threshold un appuntamento fisso, ormai, e Eat the unicorn ("Mangia l'unicorno") incarna perfettamente la tipologia in questione, con i suoi oltre dieci minuti di durata e le sue molteplici sfaccettature espressive. Non si tratta, però, di una mera riproposizione di stilemi già sperimentati nei capitoli pregressi della loro discografia: il brano, difatti, è inaugurato da un robusto riff chitarristico vagamente sabbathiano, a cui non difetta un certo gusto ritmico, su cui sferza da subito l'ugola di Damian Wilson, affiancata dalla seconda voce di Jon Jeary. A questa primissima e breve sezione cantata segue un'incursione solistica delle tastiere di Richard West su una ritmica più cadenzata, che lascia poi di nuovo campo al riff precedente. Su cui si avvia anche il testo vero e proprio: "Give me a place to stand and I will move the world / Give me the right to speech and see my flag unfurled / The gods of war and generous whore give me life in this tinsel town / But the shit I eat and the people I meet make me want to bring this curtain down" ("Dammi un punto su cui poggiarmi e solleverò il mondo / Dammi il diritto di parola e guarda la mia bandiera spiegata / Gli dei della guerra e la generosa sgualdrina mi hanno dato la vita in questa città di latta / Ma la roba che mangio e la gente che incontro mi fa venir voglia di abbassare questo sipario"), la descrizione di un personaggio in bilico fra il desiderio di cambiare radicalmente la sua realtà e quello di distaccarsene in modo irrevocabile. Tocca ora alla chitarra di Karl Groom il primo piano ed anche il compito di chiudere questa prima sezione del brano. L'atmosfera si distende in un intermezzo di chitarra acustica, brevi fraseggi solistici e tappeti di tastiere, prima di ridare la parola alla distorsione in una nuova strofa dalla tensione quasi epica, rimarcata dai saliscendi vocali di Wilson, che raccontano misteriose ed inquietanti visioni notturne del nostro protagonista: "In the night time the shadows fall and I retire to lay down / The twisted chains and losses and gains of war / It's the right time to speak in rhyme of the fire gods that lay down / Read between all the shadows I've seen and more" ("Nella notte le ombre cadono e mi ritiro per posare / Le catene intrecciate e perdite e guadagni della guerra / È il momento giusto per parlare in rima degli dei di fuoco che riposano / Leggere attraverso le ombre che ho visto e più ancora"). Il brano cambia ancora volto, e nel giro di un attimo siamo prima scossi da un riff sincopato a note singole e poi cullati da un arpeggio pulito, fino al rientro dell'elettricità, con Wilson, assistito dalla seconda voce di Jon Jeary, impegnato a descrivere, sui registri più acuti, le sensazioni di smarrimento del narratore, in un dialogo con una figura imprecisata: "I am falling down, closer to the ground / Tell me where you're bound, I will follow now" ("Sto precipitando, più vicino a terra / Dimmi dove sei diretto, ti seguirò adesso"). Lunghi accordi di chitarra posati sul suono d'organo di Richard West collegano ad un ritornello notevole per cantabilità, in cui solide ritmiche delle sei corde fanno da appoggio per una linea vocale sorprendentemente giocata su toni medi, ma che si stampa nei timpani senza possibilità di scampo, nonostante le liriche rappresentino il terrore in cui il protagonista sprofonda, preda delle visioni: "Nightmare is coming and I hear the drumming of demons in the night / The space where my heart was is claimed by the servants of my subconscious mind / The wings that I fly on are taking me into the underworld tonight / Where I perceive all my wildest dreams, where I bring them all to life" ("L'incubo sta arrivando ed io sento il tambureggiare dei demoni nella notte / Lo spazio dov'era il mio cuore è reclamato dai servi del mio subconscio / Le ali su cui volo mi stanno portando negli inferi stanotte / Dove percepisco tutti i miei sogni più sfrenati, dove do loro vita"). Una scarica di sedicesimi tra chitarre e doppia cassa, punteggiata dalle tastiere, lascia di nuovo spazio alla strofa, cui segue un secondo ritornello. Troppo scontato? Non sia mai: la ripetitività nelle strutture non è pane per i denti dei progsters britannici, ed ecco, quindi, prima un passaggio dall'atmosfera soffusa e solare, tradotta in note da cori armonizzati in tonalità maggiore e da un solo dalla cantabilità immediata, con tanto di accenni classicheggianti; poi una spezzatura sincopata, giocata sull'alternanza fra acuti e bassi, che a sua volta si raccorda ad un articolato frangente su tempo composto e con chitarre stoppate intrecciate a fraseggi tastieristici; infine un massiccio riff dal piglio metallico, in tempo dispari, sul quale sei corde e sintetizzatori si armonizzano in fughe cromatiche ascendenti, fino a ricollegarsi, tramite la veloce ripresa delle battute finali della strofa, ad un ultimo ritornello. La conclusiva fuga in doppia cassa e chitarre serrate, coronata dalla voce distorta e filtrata di Jeary, che si contorce e deforma fino a svanire, cala definitivamente il sipario su un indubbio picco dell'intero disco. Rotto ogni indugio, il sestetto inglese si assetta in piena modalità progressiva e si lancia fra i meandri di questo caleidoscopio sonoro, in cui non manca proprio nulla dell'ecosistema musicale cui afferiscono: stratificazioni di arrangiamenti, asprezze ritmiche, momenti più rilassati e moderatamente psichedelici, spigolosi tempi dispari, linee vocali sovrapposte. Se aggiungiamo, poi, le caratteristiche liriche elaborate ed allusive di Jeary (qui validissimo, inoltre, nel ruolo di cantante complementare), abbiamo davvero il classico cacio sui maccheroni. Resta solo il dubbio su che cosa sia in effetti narrato dalle parole del bassista: qualcosa di visionario e allegorico, inizialmente spaventoso ma che tende a sciogliersi in maniera ben più positiva; questo è certo, seppur sia difficile chiarire a cosa faccia riferimento la figura dell'unicorno, protagonista fin dal titolo e alla quale la seconda voce di Jeary dà espressione, duettando con Wilson nel corso del brano. Verrebbe da pensare, senza azzardare troppo, che non sia altro che una rappresentanzione del subconscio del protagonista, che si perde e si ritrova nel corso di un caleidoscopio di immagini da incubo, provenienti, in realtà, da sé stesso, da quella zona oscura ed inconfessabile nascosta nelle profondità della nostra mente. La capacità aurea dei sei progsters inglesi si rivela tutta nel trasformare questo fardello esperienziale in una composizione suggestiva ed accattivante, che non stanca l'ascoltatore nonostante una durata, indubbiamente più che corposa, di oltre dieci minuti.

Forever

Dopo una portata luculliana come la suite appena conclusasi, l'economia del disco richiede a gran voce una pausa, nella quale l'ascoltatore possa ritemprare le sinapsi affaticate e distendere i timpani, in vista del prossimo tour de force sonoro. Ed infatti Forever ("Per sempre"), scritta per intero da Richard West, si presenta con il più classico biglietto da visita delle ballate, un semplice e malinconico canto di pianoforte in chiave minore, intrecciata all'altrettanto immancabile chitarra acustica. A completare un'apertura quanto mai canonica, l'interpretazione di Damian Wilson che, da imponente ed acuta, si fa qui poco più che sussurro languido e vibrato, adatto ad un avvio dai toni decisamente ovattati. Anche le liriche non si discostano molto dal repertorio usuale di questa tipologia compositiva, il dissidio sentimentale o amoroso fra due anime che si cercano senza più, però, ritrovarsi: "I woke to find you by my side / You gave your heart to keep it alive" ("Io mi sono svegliato per trovarti al mio fianco / Tu hai dato il tuo cuore per mantenere vivo il tutto"). Una serie di accordi in crescendo sfocia poi naturalmente nel ritornello, ancora una volta alquanto tradizionale, tanto nell'ingresso della chitarra elettrica quanto nel rivelare, nelle parole del testo, che la situazione mostrata dalla strofa altro non era che un sogno: "Just another dream / Nothing ever seems to look the same anymore / And you're not coming home because it's / Just another dream / And I could stay alone forever" ("Solo un altro sogno / Niente sembra essere più lo stesso / E tu non stai tornando a casa perché è / Solo un altro sogno ed io potrei rimanere solo per sempre"). Una separazione è, dunque, il tema portante del brano, come si evince chiaramente, nella quale, tuttavia, non si è ancora del tutto spenta una speranza di ricomposizione, a cui la seconda strofa (variata da brevi inserti di chitarra elettrica), infatti, sembra alludere: "You play your game like nobody loses / You know the way so why don't you use it / I need you beside me but you keep on hiding" ("Fai il tuo gioco come se nessuno ci perda / Conosci il modo, quindi perché non lo adoperi? / Ho bisogno di te al mio fianco ma tu continui a nasconderti"). Secondo ritornello, come da copione, breve variazione e ancora un ritornello chiudono definitivamente il brano. Senza dubbio non fra i pezzi di spicco della scaletta, questa ballata segna un piccolo passo indietro, compositivamente parlando, anche rispetto a quanto Richard West aveva mostrato su Psychedelicatessen con la più bucolica e soffusa Under the sun. Nulla di sgradevole, sia ben chiaro; ma è inevitabile notare che, non fosse per la voce sempre all'altezza di Wilson, il timbro caratteristico della band, misto di personalità melodica ed imprevedibilità compositiva, qui non emerge con la chiarezza che ha dimostrato in altri momenti.

Virtual Isolation

Da un episodio non propriamente imperdibile ad un convincente singolo nel giro di pochi solchi di vinile, o di plastica. Possibile? Verrebbe da pensare che, consapevole di aver inserito in scaletta una traccia sulla quale, forse, permaneva qualche dubbio, il sestetto inglese abbia voluto, per così dire, rimettere dritta la barra della qualità che li contraddistingue. Ecco dunque un brano come Virtual isolation ("Isolamento virtuale"), roccioso, cangiante ed orecchiabile in giusta proporzione ma, soprattutto, dotato di uno di quei ritornelli che ci si ritrova a cantare a memoria dopo due ascolti due: tutte qualità ben presenti nella cassetta degli attrezzi compositivi dei progsters britannici. Un arpeggio pulito, che sfrutta tutte le tensioni dell'accordo minore, inaugura il brano, quasi un'introduzione, seguita dall'elettricità che si affaccia assieme ad un crescendo di batteria. Un primo riff di chitarra secco, fra i più ruvidi sentiti fin qui, doppiato dal tambureggiare delle percussioni, apre la via ad un secondo più arioso e melodico, screziato dalle tastiere; pochi ulteriori accordi sincopati, infine, introducono la strofa, che si sviluppa sullo stesso arpeggio iniziale. Ancora una volta il cantato sceglie un attacco dai toni pacati, per deflagrare successivamente, sullo sviluppo della strofa medesima, mentre dà voce alle parole di Jon Jeary, che ritrova il suo ruolo di paroliere: "We look for a place of constant perfection / Where action and outcome have exclusive protection / Like in a dream of the waking mind / Life with a freedom that is so hard to find" ("Siamo alla ricerca di un luogo dalla costante perfezione / In cui azione e risultato abbiano una protezione completa / Come in un sogno della mente che si desta / Una vita con una libertà che è davvero difficile trovare"). Una variazione armonica incatena la strofa ad un ritornello che, grazie alla sovrapposizione di innumerevoli linee vocali (ben sessantaquattro, a detta della band), esplode letteralmente nei timpani dell'ascoltatore e contribuisce a chiarire il messaggio delle liriche: "Virtuality - electrons running 'round my brain / Virtuality - cybersex without the pain / Virtuality - life can never be the same / Virtuality - rock' n' roll without the pain" ("Realtà virtuale - elettroni che corrono attorno al mio cervello / Realtà virtuale - sesso virtuale senza dolore / Realtà virtuale - la vita non potrà mai più essere la stessa / Realtà virtuale - rock 'n' roll senza fama"). La ripetizione che caratterizza il testo, voluta e martellante, non lascia alcun dubbio sull'argomento: gli insidiosi piaceri di un mondo fittiziamente perfetto, che finisce per contaminare una realtà sempre più pervasa dalla presenza invadente dell'intelligenza artificiale. Una visione apertamente negativa di questa influenza, confermata da qualche espressione inequivocabile nella seconda strofa ("I am wired to the electronic drain", "Sono connesso alla fogna elettronica"). Dopo il successivo ritornello, si inserisce una terza strofa, imperniata non sull'arpeggio di apertura ma sul secondo riff più melodico, già sentito nella sequenza iniziale, stavolta arricchito anche dalla voce di Wilson, che sciorina quali situazioni possa vivere chi si rifugia nella realtà parallela creata dal pc: "CD rom drive me far away / Hard discoveries in hyperspace" ("I CD rom mi trascinano lontano / Scoperte bollenti nell'iperspazio"). Spazio, quindi, ad una breve sezione solistica dal chiaro valore mimetico, in cui le scariche di chitarra e tastiera, lungi dall'essere meri orpelli, rispecchiano il sovraccarico di informazioni nella mente di chi si avventura nello spazio virtuale. Ancora la variazione armonica che aveva chiuso le strofe precedenti, infine, agevola il rientro sull'ultimo ritornello, che svanisce lentamente insieme al brano ed alla parola "virtuality", che ne ha costituito il perno narrativo. Talmente centrale, a livello tematico, da dover ricoprire il ruolo, in un primo momento, di titolo, salvo essere bruciata dalla di poco precedente pubblicazione di Test for echo, sedicesimo album dei maestri indiscussi in campo prog-rock, i canadesi Rush, in cui è presente un brano intitolato proprio con quella parola. Che dire, le grandi menti pensano in modo analogo, recita un noto motto anglosassone; d'altro canto, secondo quanto suggerisce, invece, un proverbio di casa nostra, Jon Jeary, evidentemente, non se la sente di scherzare con i numi tutelari della scena progressive, e rivede così le proprie scelte liriche, cogliendo, peraltro, un aspetto che, nel testo, è ben espresso dalla frase che cantata sulla variazione melodica di raccordo: "I cannot dream no more, my mind is a blank" ("Non posso più sognare, la mia mente è un foglio bianco"), a ricordare che le seduzioni del mondo virtuale non sono così gratuite come appaiono. Meritato plauso, dunque, alla coppia compositiva formata da Groom e Jeary, che sfodera un pezzo ficcante ed orecchiabile senza perdere in intensità; non avranno voluto mettersi in gara con i padrini Rush, ma ne hanno saputo apprendere e reinterpretare con abilità la lezione di accessibilità, raffinatezza e profondità lirica.

The Whispering

Secondo contributo in solitaria ad opera di Richard West, The whispering ("Il sussurro") si presenta ben diversa dalla malinconica e pianistica Forever. Dopo un laconico arpeggio iniziale, le dà avvio, infatti, un riff convulso e stoppato, alleggerito solo dai suoni delle tastiere e reso ancor più dinamico da un bel lavoro di spostamento degli accenti sulla batteria; il tutto si scioglie, poi, su una progressione di tre lunghi accordi in crescendo, chiusa da due colpi di tom. A questa sezione iniziale, che funge quasi da introduzione al brano vero e proprio, segue una strofa arpeggiata che posa su una sequenza ritmica dalle forti sincopi, ove si ricava spazio la linea vocale di Wilson, opportunamente orientata su toni meno imperiosi e più pacati. Altrettanto intonato il tema lirico, una storia di abbandono ed indecisione esistenziale, in cui giocano un ruolo ben poco commendevole influenze estranee alla volontà dei protagonisti coinvolti: "Close your eyes and tell me what you find / Don't you hear the voices in your mind / Where have all your lovers gone, the friends you thought you counted on / Passed away like shadows lost with time" ("Chiudi gli occhi e dimmi cosa trovi / Dove sono andati tutti i tuoi amanti, gli amici su cui pensavi di poter contare / Scomparsi come ombre perse nel tempo"). Ancora più personale la seconda strofa, come si comprende chiaramente: "I gave you all your life to make a choice / From time to time I know you heard my voice / It wasn't just for information, I desired your conversation / All you did was drown me out with noise" ("Ti ho dato tutta la vita per prendere una decisione / Di tanto in tanto so che senti la mia voce / Non era solo per tua informazione, io desideravo conversare con te / Tutto ciò che hai fatto è stato annegarmi nel rumore"). A questa seconda strofa si aggancia, in maniera quasi inattesa, il primo ritornello, che, a differenza delle strofe, si limita a una breve frase ("When I say go, you wouldn't go", "Quando dico 'vai', non vuoi andare"), scandita a pieni polmoni dalla voce di Wilson; a far da tappeto musicale, lo stessa sequenza musicale d'apertura. Una prima variante della struttura compositiva si offre qui alle nostre orecchie, una specie di passaggio dall'atmosfera sospesa, dove le tastiere sintetizzate hanno campo libero, accompagnate dal basso, e in cui, ancora una volta, spetta al cantato il compito di sferzare di energia l'arrangiamento. È proprio una prodigiosa progressione vocale a fare da gancio verso la successiva sezione del brano, una strofa sorretta da un riff serrato e metallico che sfocia in una nuova progressione di accordi ascendente. Più squillante, qui, rispetto alla precedente, la linea melodica interpretata da Wilson, ed altrettanto più ficcante si fa il comparto lirico, nel domandare con insistenza all'interlocutore se le sue scelte siano motivate da convinzioni personali o, piuttosto, dalla negativa influenza di non meglio precisate figure esterne: "Are you swimming through a myriad of spiritual decisions / Are they whispering sweet nothing while they drown you with derision / Out of sight but in your mind they're calling out they're pulling you away / Deep inside you know what's right but slowly you're believing what they say" ("Stai nuotando fra una miriade di decisioni spirituali? / Stanno sussurrandoti una dolce parolina mentre ti annegano nella derisione? / Lontani dagli occhi ma nella tua mente stanno chiamando, ti stanno trascinando via / Dentro di te tu sai cos'è giusto ma lentamente stai credendo a ciò che dicono"). Di nuovo una serie di acuti ci trascina al secondo ritornello, la cui principale differenza sta nell' insolito ricorso a cori gridati, più comuni, piuttosto, in altre forme di musica rock rispetto al contesto progressive che la band inglese frequenta comunemente. Una seconda successione di strofa e ritornello lascia spazio ad un'ulteriore sezione del brano, che l'ascoltatore smaliziato non faticherà a riconoscere come il classico tributo dei britannici ai maestri Pink Floyd, sia nel passo cadenzatissimo, sia nell'atmosfera rarefatta e sospesa, a tacer del solo di Karl Groom, che rievoca senza remore, tanto nel tocco quanto nel suono, la chitarra di David Gilmour. A sua volta, Damian Wilson sceglie tonalità più soffuse per il cantato, che si adagia mellifluo su un tappeto di arpeggi rarefatti mentre enuncia gli ammonimenti della voce narrante: "When every lake is parched and dry, when all pollution kills the sky / When every soul has gone its way and every heart is old and grey / Maybe then you'll understand somewhere on your wounded land / You heard my voice but chose to turn away" ("Quando ogni lago riarso e asciutto, quando tutto l'inquinamento uccide il cielo / Quando ogni anima ha fatto a modo proprio ed ogni cuore è vecchio e grigio / Forse allora capirai che da qualche parte sulla tua terra ferita / Hai sentito la mia voce ma hai scelto di voltarti dall'altra parte"). Parole che, oltre al rimando esplicito al titolo del disco d'esordio dei nostri progsters, insinuano un interessante dubbio in terpretativo, in quanto potrebbe, certo, suonare come rimproveri del tutto umani, ma potrebbero senza grosse difficoltà essere attribuite anche ad una voce divina, che, visto lo sfacelo procurato dall'umanità intera al pianeta in cui vive, la rampogna, seppur con rassegnazione, mostrandole gli errori ormai compiuti e ricordandole di essere stata avvisata, ma di non aver voluto capire, o nemmeno sentire. Tocca, poi, nuovamente al riff serrato di cui sopra immettere l'ascoltatore in un lungo e chiassoso finale, su cui si sovrappongono i cori gridati, i fraseggi solistici della chitarra di Groom e, in secondo piano, la voce di Wilson, che ripete la frase del ritornello, fino a che un crescendo di accordi, doppiato a note singole anche dalla sei corde, non cala definitivamente il sipario. Composizione senza dubbio ricca di spunti, ed anche di qualche scelta arrangiativa controversa, come gli inconsueti cori urlati, ma senza dubbio stimolante e più prossima al suono progressive a stelle e strisce, specie nelle partiture di chitarra, che non britannico, non fosse per il consueto, ed in ogni caso ben riuscito, inserto di gusto pinkfloydiano, che bilancia la durezza delle strofe e dei ritornelli precedenti. E un contributo sorprendente da parte di Richard West, abile qui a smarcarsi dall'etichetta, facilotta, per la verità, di scrittore di ballate per cimentarsi con un brano di ampio respiro (sette minuti e cinquanta, superato solo dalle due suites) e dall'atmosfera variegata e tesa al punto giusto, utile a riequilibrare il tasso di cerebralità dopo il più accessibile singolo che lo precede in scaletta.

Lake of Despond

Lake of despond ("Lago dell'infelicità"): titolo formato da tre parole, sostantivo preposizione sostantivo, l'ultima delle quali di gusto arcaico e desueto. È solo la prima delle similarità, volute, fra la settima traccia di Extinct instinct ed un'altra, che fa bella mostra di sé sull'esordio dei progsters britannici. Chi ne ha seguito le orme musicali fin da allora si sarà già fatto un'idea: ma non anticipiamo troppo, e proviamo a decifrare gli altri indizi messi sul piatto. Un soffio desolato di vento apre le danze, mentre gli strumenti entrano all'unisono su un tempo largo e cadenzatissimo; le chitarre si dividono i ruoli, l'una con lunghi accordi distorti, l'altra con un canto che sfrutta intervalli semitonali per acuire la tensione, mentre le tastiere cuciono l'insieme. Un solo evocativo apre poi la strada alla strofa, la cui linea vocale non punta sull'acutezza ma su più adeguati toni medi, comunque limpidi e potenti com'è nello stile, ormai ben noto, di Damian Wilson. E, altrettanto appropriatamente, il testo, anche in questo caso dovuto alla penna di Jon Jeary, si presenta come una complessa e cupa riflessione di una mente in scacco, posta di fronte ad una realtà che fatica a comprendere appieno: "I get flashes of reality quickly consumed / In the fog of existence and the thoughts I exhumed / Are lost to the grasping fingers of understanding / A dancing light on the edge of my sight / That teases me through the futility of life / And torments my slumbering mind into action" ("Ricevo lampi di realtà rapidamente consumati / Nella nebbia dell'esistenza, e i pensieri che disseppellisco / Sono perduti per le dita protese della comprensione / Una luce danzante al limite della mia vista / Che mi attira attraverso la futilità della vita / E tormenta la mia mente sonnolenta perché agisca"). Senza ulteriori ganci, eccoci proiettati nel primo ritornello, costituito da ampi accordi di chitarra che le frasi pentatoniche del basso scandiscono ad ogni battuta; ora la voce di Wilson può librarsi sulle ottave più elevate, a contrasto l'atmosfera con l'atmosfera plumbea del brano, mentre illustra le dolorose perplessità nei pensieri del narratore: "This is not a lethal wait, but it can be a kind of deception / Vanity is a heavy weight fuelled by a constant rejection" ("Questa non è un'attesa letale, ma può essere una sorta di inganno / La vanità è un grave peso alimentato da un costante rifiuto"). Una nuova strofa anticipa quindi un secondo ritornello, che lascia strada, a sua volta, ad una nuova sezione del brano, segnata da un riff minore armonico sigillato da una scala ascendente armonizzata fra chitarra e tastiera, in cui il contesto lirico si fa, se possibile, ancora più criptico: "They say the music is the window of the soul / Look through the frosted pane at the melody of my heart / I am the dreamer, yes I am the only one / I have been victim of obsession from the start" ("Dicono che la musica sia la finestra dell'anima / Guarda attraverso il vetro congelato la melodia del mio cuore / Io sono il sognatore, , sono l'unico / Sono stato vittima dell'ossessione fin dall'inizio"), con tanto di semicitazione dall'immortale Imagine di John Lennon. Il passaggio seguente, imperniato su un riff cadenzato quasi pachidermico, alleggerito solo dal lavoro delle tastiere e da classiche rullate in chiusura di battuta, si immette direttamente in un'apertura sonora solo apparente, la cui progressione di accordi, in realtà, si intreccia a cercare intervalli dissonanti ed una linea vocale spiazzante che, seguendo la medesima progressione, ne rimarca l'andamento, fino a risolversi in un'ultima strofa, nella quale le liriche lasciano filtrare uno spiraglio di positività, specie nei versi conclusivi: "Nihilistic nighmare on which I've embarked / My soul is exposed to the truth that is stark / And no one can help me solving this rare conundrum / But the world goes on spinning, the sun comes again / Washes fear from my memory, clears doubt from my brain / The awesome eye sweeps past into the distance" ("L'incubo nichilistico in cui mi sono imbarcato / La mia anima è esposta alla verità che è severa / E nessuno mi può aiutare a risolvere questo raro dilemma / Ma il mondo continua a ruotare, il sole ritorna / Lava le paure dalla mia memoria, cancella il dubbio dal mio cervello / L'occhio meraviglioso fugge via in lontananza"). La conclusione è affidata ad una ripetizione ad libitum del ritornello, accompagnato, appena prima della dissolvenza, da pochi bending della chitarra di Karl Groom. Considerata la natura riflessiva e amara delle liriche, la scelta di un corredo musicale pesante nell'andamento non può che risultare azzeccata, ma quanta differenza rispetto all'antecedente richiamato anche dal titolo, vale a dire Days of dearth, che su Wounded land occupava il secondo gradino della scaletta: in quel caso, la durezza dell'arrangiamento complessivo si bilanciava grazie all'apporto delle tastiere di West, che ricorreva a suoni organistici per donare al pezzo, specie nel finale, toni sacraleggianti; qui, invece, l'atmosfera plumbea, accresciuta, inoltre, dal ribassamento dell'accordatura, non si stempera quasi per nulla, e una certa ridondanza del ritornello, in particolare negli insistiti fraseggi pentatonici del basso, non contribuisce a irrorare quel tocco di varietà che la band inglese sa estrarre dal cilindro nei momenti migliori. Senza risultare, dunque, particolarmente mal riuscito, Lake of despond non si può, però, elencare fra gli episodi migliori dell'album, né dell'intera produzione del sestetto inglese.

Clear

Clear ("Chiaro") è la prima composizione a presentare un contributo da parte di Damian Wilson, che qui divide i crediti con Karl Groom e Richard West. A detta del gruppo stesso, è una delle rarissime occasioni in cui un brano targato Threshold sia nato da una sorta di jam session, di improvvisazione di gruppo, con solo pochi ritocchi successivi. Non a caso vi predomina un'ispirazione acustica e cantautorale che, seppur non estranea al perimetro della band, ha sempre rivestito un ruolo quasi esornativo nei loro precedenti lavori, riservata com'era a brevi camei conclusivi, oltre ad essere stata per lo più caratterizzata dall'approccio più folkeggiante del bassista Jon Jeary. In questo occasione, invece, fin dall'apertura, in cui si intessono scarni fili melodici fra le chitarre di Groom e Midson, si percepisce un'atmosfera ben più dolente, benché non meno intima, e l'interpretazione del cantato vi riveste un ruolo decisivo, grazie ai tocchi chiaroscurali che l'ugola di Wilson sa sfoggiare. L'arrangiamento, d'altra parte, s'intona perfettamente ad un testo di natura profonda e riflessiva, a sua volta piuttosto insolito per la media del gruppo inglese, e dalla ritmica più fluente e libera, che ricolma gli spazi lasciati liberi dall'essenzialità delle partiture sonore: "As a child I recall I had once believed / I would die before I reached seventeen / Seventeen I remember I faced the truth / When I understood your prophecy was confused / When all is done there is little that can guide everyone along / The faltered line you mumbled on the day you left us behind" ("Mi viene in mente che da ragazzo, una volta, credevo / Che sarei morto prima di avere diciassette anni / A diciasette anni ricordo che ho affrontato la verità / Quando ho compreso che la tua profezia era confusa / Quando tutto è compiuto, c'è poco che possa guidare chicchessia / Lungo quel verso incerto che hai mormorato nel giorno in cui ci hai lasciato"). Ben evidente che si stia parlando di una dolorosa dipartita, sofferta dal narratore (lo stesso Wilson?) nel momento in cui ha perduto una persona cara, probabilmente un familiare, ancorché non sia chiaro di chi si parli. Le ultime parole della strofa coincidono con uno slancio vocale che risolve direttamente nel ritornello, enfatizzato dagli interventi organistici di Richard West e da un piglio drammatico, ancor più sottolineato dalle liriche: "Nothing is clear though you promised me you'd be here, you promised me / Nothing is clear though you promised me, you promised me that you'd be here / Nothing is clear though you promised me you'd be here, you promised me / Though nothing was clear" ("Nulla è chiaro, nonostante tu mi avessi promesso che ci saresti stato, mi avessi promesso / Nulla è chiaro, nonostante tu mi avessi promesso, mi avessi promesso che ci saresti stato / Nulla è chiaro, nonostante tu mi avessi promesso che ci saresti stato, mi avessi promesso / Nonostante nulla sia chiaro"). Alla sofferenza per la separazione, si aggiunge il drammatico senso di smarrimento del narratore, la perdita di un punto di riferimento esistenziale ed emotivo, a cui non pare esserci rimedio di sorta. Un interludio di chitarra acustica fa da raccordo con una seconda strofa, del tutto analoga alla precedente, e ad un secondo ritornello, di poco più esteso del primo e scenario di alcuni notevoli vocalizzi da parte di Damian Wilson, tanto per estensione quanto per puntualità esecutiva, a tratti persino incongrui per un brano dal taglio così minimale. Proprio sullo sfumare del cantato si chiude l'intero brano, e senza l'ombra di una chitarra elettrica. Sicuramente una soluzione compositiva inconsueta per una band inserita, di norma, nel filone del cosiddetto prog-metal, ma, d'altra parte, i britannici si sono sempre rivelati aperti a percorrere sentieri musicali anche tangenziali o, almeno a prima vista, estranei ai loro presunti confini di scena o genere. E, in questo caso, è valsa la pena di rischiare, dato che l'esito è vibrante ed intenso, pur senza ricorrere al consolidato armamentario di riff distorti, intarsi tastieristici o svariati cambi di tempo; l'esilità dell'insieme, piuttosto, finisce per rendere ancora più tangibile l'emotività sincera che ne costituisce l'ispirazione di partenza.

Life Flow

Il suono di una sveglia e un muro di chitarre cadenzate e compatte: questa l'accoglienza in Life flow ("Flusso della vita"), nona traccia e quinto prodotto della collaborazione fra Karl Groom e Jon Jeary, oltre ad essere una delle poche canzoni suonate dal vivo prima dell'inizio delle registrazioni di Extinct instinct, con il titolo The river, successivamente mutato, e l'ex voce Glynn Morgan ancora dietro al microfono. Non può passare inosservata la pesantezza quasi doomeggiante del riff principale, dovuta anche ad un'accordatura ribassata e assecondata, in un primo momento, anche dalla batteria, che si fa poi più spedita in corrispondenza dell'ingresso del cantato. Damian Wilson è, in questo caso, messo alla prova fin dall'inizio, dovendo balzare metaforicamente al di sopra del massiccio chitarristico con una linea vocale decisamente acuta, il cui testo ha un'inclinazione più riflessiva, per così dire, rispetto alle tematiche usuali del gruppo: "Don't look down upon the atmosphere / Wings of Stealth are broken dreams / Don't look back upon your learned years / You seem blind to what you've seen" ("Non guardare giù verso l'atmosfera / Le ali degli Stealth sono sogni spezzati / Non guardare indietro ai tuoi anni acculturati / Sembri cieco verso tutto ciò che hai visto"). Se il tema del rimpianto per il passato non è certo una novità nel panorama lirico del rock, meno scontato è trattarlo con questo piglio assolutamente concreto e contemporaneo. Dopo una veloce modulazione, che funge da ponte, spetta al ritornello distendere musicalmente il brano, arieggiandolo anche grazie al contributo delle tastiere di Richard West, fondamentali nell'ampliare lo spettro sonoro, mentre la voce si inerpica ancora su picchi elevati, lasciando al testo il ruolo di elevare ai massimi sistemi la riflessione iniziata nella strofa, con accenti che echeggiano antichi saperi filosofici, basi della nostra civiltà: "Time is a river and life flows away / Into the valley of dreams you've made / Soon I'll be surfing that cold astral plane / Where the dreams and the nightmares are one and the same" ("Il tempo è un fiume e la vita scorre via / Nella valle di sogni che hai fatto / Presto navigherò quel freddo piano astrale / Dove i sogni e gli incubi sono una cosa sola"). Ancora una sequenza di strofa e ritornello, e Karl Groom si riserva un breve spazio solistico, in cui riemerge la sua passione per la scala minore armonica; segue una parentesi strumentale, retta da un riff discendente piuttosto cupo, ed una fuga tastieristica di Richard West su un nuovo riff, in tempo dispari, che sfocia in un ultimo ritornello. A chiudere il brano sono prima alcuni fraseggi di Groom, marcati dall'uso del pedale wah-wah, e poi una serie di brillanti rullate ad opera di Mark Heaney, intervallate a pesanti chitarre sincopate. Composizione stilisticamente scorrevole, la cui struttura riporta alla memoria quella di uno dei brani di maggior impatto su Wounded land, cioè Mother Earth, con cui condivide anche una certa aura plumbea, che si stempera in corrispondenza di un ritornello catartico. Life flow si caratterizza, però, per una più decisa venatura progressive, in virtù del ruolo più marcato delle tastiere e dell'intricatezza di alcune soluzione ritmiche; senza dubbio fra gli episodi meglio riusciti dell'intero album, si differenzia, poi, per un testo meno verboso e più essenziale, a dimostrazione di come non sia necessario eccedere in parole per ottenere efficacia comunicativa. Specie se, in poche frasi, si riesce a condensare verità universali e a convogliare, in qualche modo, l'afflato di un'intera tradizione di pensiero.

Part of the Chaos

Tracciare la genesi di questa seconda suite significa risalire ai tempi dell'intervallo fra l'esordio e il secondo album degli inglesi. Part of the chaos ("Parte del caos"), infatti, conosce i suoi primi abbozzi durante la creazione di Psychedelicatessen, nel quale avrebbe dovuto rientrare, con il primo batterista, Tony Grinham, ancora in organico. Il lavoro di rifinitura prosegue dopo l'arrivo di Nick Harradence e poi di Jay Miccicche dietro le pelli, tanto che una versione in fieri compare, cantata da Glynn Morgan, come traccia bonus sull'edizione giapponese dell'EP dal vivo Livedelica. Fino alla definitiva registrazione, che possiamo ascoltare, dunque, su Extinct instinct, intrepretata dalla voce di Damian Wilson e con il contributo di Mark Heaney alla batteria. Sarà valsa la pena, viene da chiedersi, di insistere in una simile fatica a livello compositivo, dopo aver ruotato due cantanti e quattro batteristi? La risposta della band si annuncia con l'attacco in levare di un arpeggio sospeso dal tono, non a caso, spaziale, come lo sguardo di un osservatore che scruta le immensità celesti, perso in chissà quali domande esistenziali, mentre tocca a Wilson il ruolo di catalizzatore sonoro. Due lunghi accordi distorti fanno da collegamento, quindi, alla prima vera e propria strofa, nella quale, almeno inizialmente, la voce del cantante lascia spazio a quella della chitarra solista, impegnata in una breve evoluzione su scala minore armonica, la stessa su cui si impernia la struttura della strofa medesima e che segnava, ennesimo parallelismo col disco d'esordio, la penultima traccia di quel lavoro, la possente Siege of Baghdad. Dopo una doppia sequenza di strofe arpeggiate ed elettriche, il ritmo cadenzato e ieratico di questa prima sezione si fa più concitato per poi, quasi bruscamente, sfociare in un riff dal taglio classico, persino à-la Maiden nell'armonizzazione delle chitarre, ben sostenuto dalla sezione ritmica, che funge da base di una nuova strofa e tradisce ancor più la natura di riflessione universale sulla condizione umana che ne caratterizza il testo: "Like rocks in the waters of the stream of our existence / We cling to the mortality and awareness of ourselves / What place would we be swept to / If we had the strength to let go / And let the waters take us to wherever they may flow" ("Come pietre nelle acque della corrente delle nostre esistenze / Ci aggrappiamo alla mortalità e alla coscienza di noi stessi / In quale posto saremmo trascinati / Se avessimo la forza di lasciar andare / E lasciare che le acque ci portino in qualunque luogo possano scorrere"). Una serie di accordi discendente ricollega, a questo punto, al primo ritornello, ogni verso del quale si divide in una prima metà corale, che si ripete identica, ed in una seconda cantata dal solo Wilson: "Just part of the chaos, spinning around me / Just part of the chaos, part of the synergy of life / Just part of the chaos, rising above me / Just part of the chaos" ("Solo parte del caos, che ruota intorno a me / Solo parte del caos, parte della sinergia della vita / Solo parte del caos, che si innalza sopra di me / Solo parte del caos"). Tocca a Mark Heaney il ruolo di gancio verso la strofa successiva, distinta dalla precedente per una seconda parte in cui una sequenza di accordi in crescendo assume toni quasi operistici, rimarcati, inoltre, da un passaggio del testo che appare, qui più che mai, strettamente legato alla musica: "The symphony continues though it has no shape or form / We'll never change its course forever just breath against the storm" ("La sinfonia continua, benché non abbia nessuna forma / Noi non cambiaremo mai il suo corso perenne, respiriamo soltanto contro la tempesta"). Un secondo ritornello è seguito a ruota da uno squarcio strumentale, proscenio delle scorribande solistiche di Richard West, prima, poi di fughe gemelle di tastiera e chitarra, orchestrate su ondeggianti saliscendi cromatici. Un muro sonoro issato dalle sei corde lascia strada ad un'ultima accoppiata di strofa e ritornello (in cui spicca, come variante, l'inserimento di una scala diminuita ascendente), che segna l'avviarsi del brano verso la sua conclusione, fra mareggiate di cori che si rincorrono fino ai pochi, rocciosi accordi finali e, per la seconda occasione in questo disco, oltre il traguardo dei dieci minuti di durata, a testimonianza di una deliberata scelta della band nel voler suonare nel modo più progressivo ed articolato possibile, pur senza rinunciare alla componente metallica schietta, essenziale nel bilanciamento della ricetta sonora che li contraddistingue. Complemento altrettanto irrinunciabile alla musica, anche in questo caso prodotto della collaborazione fra Karl Groom, Nick Midson e Jon Jeary, le liriche del bassista, votate stavolta a scandagliare il complesso rapporto fra l'essere umano e il contesto naturale in cui vive e nel quale, benché sia una componente marginale e trascurabile, ricopre un ruolo dominante, quasi spropositato rispetto alle proprie effettive forze. Ottima conclusione, dunque, per un album in cui il sestetto inglese ricerca un nuovo equilibrio fra la potenza brillante del metallo e la complessità concettuale e compositiva della musica progressive, entrambe patrimonio, peraltro, della loro terra d'origine. Aspettate, però, a liberare il piatto dal vinile, o il lettore dal compact disc. Trenta secondi, e vi imbatterete in una traccia nascosta, intitolata Segue ("Prosecuzione"), ulteriore omaggio della band alla propria tradizione discografica. Si tratta, infatti, di una breve coda, incentrata su pochi accordi arpeggiati da Jon Jeary, qui alla chitarra acustica, a cui si sovrappongono voci indistinte, come di passanti o avventori di un qualche locale (fra di esse, quella del cantante statunitense Terry Brock, noto per la sua militanza negli scozzesi Strangeways, e anche quella del notoriamente schivo chitarrista Nick Midson). Una gradevole chiusa, in tutto e per tutto analoga a quanto già sentito su Wounded land e Psychedelicatessen, salvo per la sua natura soltanto strumentale, che congeda l'ascoltatore su sfumature più rilassate dopo l'imperioso sviluppo metallico di Part of the chaos.

Mansion

L'edizione giapponese di Extinct instinct (inspiegabilmente priva, fra l'altro, della suddetta traccia nascosta, Segue) presenta, in qualità di brano extra, una canzone scritta per intero, musica e parole, da Damian Wilson ed intitolata Mansion ("Palazzo"). Appare in tutta chiarezza, in questo caso, l'ispirazione del cantante inglese, che rimonta al tradizionale sostrato di musica popolare acustica (si potrebbe dire cantautorato folk) saldamente radicato nel contesto artistico delle isole britanniche, ma apprezzato anche tra le fila della scena progressive Settantiana come fonte di partiture insieme riconoscibili e variegate. La semplice trama di arpeggi ed accordi che forma l'ossatura del pezzo si rivela ottimale palcoscenico per l'ugola di Wilson, che pennella una melodia bucolica e solare, sensibile e sfumata nelle strofe, più squillante nei ritornelli, oltre che, ma non servirebbe neppure aggiungerlo, davvero impeccabile nell'interpretazione, tra vibrati consistenti e passaggi più delicati. Intrigante, infine, anche il comparto lirico, in cui Wilson racconta di un palazzo su una collina e del padrone di casa, pronto, sì, ad accogliere ospiti nelle sue serate solitarie, ma allo stesso tempo specchio di una vita ferma alle apparenze: "So you open wide all your doors at night / And let the people through / And you tell them of an eventful life / And every word is right / But very rarely true" ("Così tu apri tutte le porte, a sera / E lasci entrare la gente / E racconti di una vita piena di eventi / E ogni parola è corretta / Ma molto di rado è vera"). La metafora si chiarisce con la seconda strofa, in cui il palazzo si trasferisce nella mente di ciascuno di noi: "In our minds there are mansions / Just like yours, that mean so much to you / And we are seeing the answers / But like you, they will never be fulfilled" ("Nei nostri pensieri ci sono palazzi / Proprio come il tuo, che significa così tanto per te / E noi stiamo vedendo le risposte / Ma proprio come te, non saranno mai soddisfatte"). Come se il palazzo non fosse altro, in realtà, che quelle convinzioni che riteniamo in qualche maniera irrinunciabili, ma al contempo ci isolano dal nostro prossimo, facendo apparire la vita che conduciamo come fosse cristallizzata in una serie di vacue pose prive, però, di autentico senso. Un quadretto agrodolce, che accosta liriche riflessive ad un accompagnamento musicale leggero e, a primo acchito, spensierato. E bel contributo, seppur confinato alla sezione extra, di Damian Wilson, a donare ulteriore varietà al già ricco menù dell'album.

Conclusioni

Se fosse un animale, Extinct instinct sarebbe con tutta probabilità una crisalide. Fotografia, infatti, di una band uscita faticosamente, e ammaccata non poco, da un periodo ricco di notevoli turbolenze interne all'organico, mostra una volontà di cambiamento e di ripartenza, ma non ancora ben rifinita e, in qualche momento, confusa. Da un lato, il desiderio di richiamare esplicitamente le atmosfere del disco d'esordio, Wounded land, rimane per lo più tale: la terza fatica discografica dei nostri non ha, e non può obiettivamente avere, la freschezza, a tratti irruente a tratti ingenua, di quel primo passo, per quanto il rientro in formazione di Damian Wilson possa aver senz'altro favorito un simile accostamento; dall'altro, il bisogno di esorcizzare in musica le frustrazioni umane e professionali del triennio intercorso fra la pubblicazione di Psychedelicatessen, l'uscita di Glynn Morgan e Jay Miccicche e la ricomposizione dei ranghi in vista del nuovo album spinge la band a gettare il cuore oltre l'ostacolo (anzi, gli ostacoli) sfidando sé stessa nella creazione di canzoni dalla chiara impronta progressiva, con ampi spazi solistici, minutaggi corposi, intricatezze assortite, quasi a voler ribadire la propria vitalità artistica, messa a rischio dai continui stravolgimenti in ruoli chiave del gruppo. L'esito, tuttavia, resta per così dire a metà del guado: non sempre l'ispirazione scorre fluida, e non manca, qui e là, qualche ridondanza strutturale; l'atmosfera generale, piuttosto cupa e tesa, è lontana dalle tinte variegate che caratterizzavano Wounded land, e la scelta di insistere su durate notevoli, posta a confronto con l'asciutta ed efficace compattezza metallica di Psychedelicatessen, sembra talvolta un azzardo. Detto questo, il gruppo ha qualità, e le sa impiegare: proprio i brani più estesi e complessi emergono come i migliori del lotto, ben bilanciati fra sezioni ruvide e sognanti, forniti di linee melodiche cantabili ma non scontate e, pregio non da poco nell'ambito musicale in cui si muovono i sei inglesi, capaci di ricorrere con misurata sapienza alla propria abilità strumentistica, non appesantendo le partiture con sforamenti virtuosistici spesso non funzionali alla scorrevolezza ed al valore espressivo del pezzo. Come a significare che, se l'innocenza dei debuttanti è perduta, matura, però, una consapevolezza compositiva più solida ed affinata da anni di collaborazione reciproca e di gavetta sul palco, almeno per lo zoccolo duro ed originario della band britannica, vale a dire Karl Groom, Nick Midson Jon Jeary e Richard West, che in questo album, inoltre, si ritaglia uno spazio creativo ancor più ampio che nel recente passato. Un disco, in definitiva, in cui si agitano anime in contrasto fra loro, quella che vuole ritrovare un passato ormai compiuto e quella che si slancia verso un nuovo assetto artistico; ambizione, questa, che, a ben vedere, è l'autentico significato dell'aggettivo progressive, con cui si suole etichettare la musica degli inglesi. Menzione doverosa, infine, per i suoni dell'album, forgiati come sempre presso i Thin Ice Studios da Groom e West, finalmente lontani dalle reminescenze tardo Ottantiane che avevano spesso limitato le loro uscite precedenti e, anzi, decisi nelle distorsioni e sempre più curati, soprattutto per quanto concerne le parti vocali, ambito in cui il confronto con un professionista del calibro di Wilson (che, ricorda lo stesso tastierista, registra decine e decine di prove, a colpo d'orecchio tutte ottime, alla ricerca della resa perfetta) aggiunge esperienza al loro bagaglio. Il sestetto britannico, in definitiva, fa del proprio meglio per buttarsi alle spalle il tempo perduto e le traversie che ha portato con sé, con un lavoro ambizioso ed incompromissorio; per dirla con un celebre titolo televisivo, forse non raddoppia, ma certo non lascia. E se è vero che si trova a metà del guado, lo sguardo è rivolto più verso la sponda da raggiungere, che a quella ormai lasciata, e l'acqua non è più alla gola. Progresso e rischio come facce della stessa medaglia: e i Threshold le conoscono entrambe.

1) Exposed
2) Somatography
3) Eat the Unicorn
4) Forever
5) Virtual Isolation
6) The Whispering
7) Lake of Despond
8) Clear
9) Life Flow
10) Part of the Chaos
11) Mansion
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