THRESHOLD

Clone

1998 - Giant Electric Pea

A CURA DI
VALERIO TORCHIO
12/01/2019
TEMPO DI LETTURA:
7,5

Introduzione Recensione

Extinct instinct, terzo lavoro in studio degli inglesi Threshold, era stato segnato da una genesi alquanto tormentata, specie a causa di abbandoni di membri rilevanti nella formazione. Il ritorno dell'ex cantante Damian Wilson, tuttavia, aveva permesso al gruppo di tirare il fatidico sospiro di sollievo, rinsaldando le fila e pubblicando il disco, dopo due lunghi anni di stallo, nel marzo 1997. Nonostante una certa incostanza di fondo, Extinct instinct consegue buoni successi, cementando il mercato di riferimento dei britannici e solleticando la critica di settore(la rivista tedesca Hard Rock nomina album del mese subito a ridosso della pubblicazione), che inizia a tributare riconoscimenti di rilievo, soprattutto nel Vecchio Continente, sempre ricettivo nei confronti della proposta sonora della band. Opportunamente, quindi, il sestetto d'oltremanica si imbarca in una nuova serie di date dal vivo, ironicamente intitolata Mass Extinction Tour, insieme ai prog rockers statunitensi Enchant, reduci dalla pubblicazione di Wounded l'anno prima e prossimi a dare alle stampe il seguito, Time lost, previsto per il settembre dello stesso anno. Un'attività promozionale tutto sommato limitata (in tutto, quattoridici esibizioni fra Aprile e Maggio del 1997, concentrata sulla Germania, cui toccano otto concerti, più sporadiche comparse in Svizzera, Paesi Bassi, Francia, Spagna e la nativa quanto poco appassionata Gran Bretagna), a cui, peraltro, non partecipa Mark Heaney, obbligato al rispetto di altri impegni come batterista in studio e quindi sostituito dietro alle pelli, per tutta la durata della promozione concertistica, dal motore ritmico dei londinesi Kyrbgrinder, Johanne James. Conclusa l'esperienza dal vivo, ai britannici non resta altro che tornare nella propria officina compositiva, e le idee non mancano. La prevalente, al momento di tradurre in musica l'ispirazione, è quella di donare al successore di Extinct instinct la dote di cui quest'ultimo difettava palesemente, ossia coerenza e compatezza, pur salvando la libertà di sperimentare che i britannici, nella propria storia, non si sono mai negati e che emergeva in modo chiaro dalla varietà e dall'articolazione, in qualche caso financo eccessiva, che avevano permeato i pezzi del loro terzo album. Se, però, il lavoro creativo procede in maniera spedita, è dalla mai solida formazione che arriva l'ennesimo scossone, e sa, nuovamente, di beffa: proprio il da poco rientrato Damian Wilson si chiama fuori per la seconda volta, poco prima di iniziare le registrazioni delle parti vocali per il futuro quarto disco. Un addio, quello del cantante, che non sorpende poi molto, in realtà, i restanti membri della band: Wilson, infatti, non ha mai celato un'inclinazione ad espressioni musicali più affini al cantautorato folk; la recente tornata di concerti, inoltre, di durata piuttosto breve, non lasciava certo ben sperare quanto alle possibilità che gli inglesi avessero di continuare una consistente carriera nella musica. Quando, pertanto, giunge al cantante, seppur improvvisa, una chiamata per il ruolo principale nella messa in scena teatrale del musical I Miserabili, è pressoché scontata la sua dipartita dalla rock band del Surrey. Il tutto, come detto, in un clima assolutamente amichevole: gli ex compagni comprendono le esigenze di Wilson e, seppur pressati dalle scadenze in studio, lo salutano senza rancori. Colmare nuovamente l'assenza dietro il microfono, tuttavia, diviene ora una necessità impellente. Gli imprevisti, però, Monopoli insegna, non hanno per forza segno negativo. Fra le conoscenze di Groom e soci, dopo diversi anni spesi in terra tedesca, rientra Heiko Heike, impiegato nel settore marketing dell'etichetta musicale teutonica SPV nonché batterista di un disciolto gruppo hard rock e metal con base ad Hannover, i Sargant Fury; proprio Heike suggerisce a Groom di contattare il loro ex cantante, che, seppure viva ancora ad Hannover, è un inglese purosangue, Andrew McDermott. Per i progster del Surrey è manna dal cielo: Mac, com'è usualmente soprannominato, oltre a poter vantare una più che discreta esperienza nel campo, non sempre accogliente, del professionismo musicale, si mostra volenteroso e collaborativo fin da subito, nonostante la distanza territoriale e il confronto con canzoni stese per una voce diversa, e si prende di buon grado il carico di registrare le linee vocali orfane di Wilson. La sua ugola, inoltre, sembra prestarsi a dovere alle soluzioni compositive dei britannici, dotata com'è di estensione ma, al tempo stesso, di intensità melodica, ideale per brani che non vogliono rinunciare al ritornello cantabile, che si imprime nella memoria, anche se mai banale. Ristabilita, per l'ennesima volta, la formazione ufficiale (per la cronaca, alla batteria, in studio, siede ancora Mark Heaney, come da contratto), i britannici possono così consegnare alle stampe il seguito di Extinct instinct. Per la prima volta nella loro carriera, si tratta di un disco basato su di un'unica storia, un concept album, risorsa già classica nel campo del progressive, rock prima e metal più tardi; in continuità con le loro abituali fonti di ispirazione, però, il racconto ha carattere prettamente fantascientifico, votato com'è ad indagare gli esiti di manipolazioni genetiche applicate all'essere umano, e le loro possibili, inquietanti conseguenze. Sia Jon Jeary, principale paroliere del gruppo, sia Richard West, tastierista e compositore, lavorano alla storia, finendola poi per farla convergere in un unico racconto, a cui la musica creata dalla band fa da colonna sonora, pur nell'efficacia individuale di ogni singolo pezzo. Il titolo scelto, Clone ("Clone"), è quantomai esplicativo della scelta tematica dei nostri, come pure la copertina, opera di Thomas Ewerhard, artista tedesco dal sostanzioso curriculum in ambito rock e metal, in cui campeggiano due embrioni identici, racchiusi in provette, in un prevalere di tinte rossastre, giallognole e rugginose, ben attagliate all'atmosfera del disco, che si promette tesa ed umbratile come forse mai nella carriera del sestetto britannico. Lasciamo, dunque, che l'intreccio fra musica e liriche ci introduca nello scenario di sperimentazioni inusitate e spericolate concepito dalla band, e ci permetta di toccare con mano, o meglio, di sentire con le nostre orecchie in quale modo, e per l'ennesima volta, i perseveranti progsters inglesi abbiano gettato cuore e mente oltre l'ostacolo, trovando l'ispirazione per mettersi di nuovo in gioco nel mare tempestoso ma irresistibile della musica rock.

Freaks

Un secco e sostenuto riff di chitarra, subito incalzato dalla batteria a briglia sciolta di Mark Heaney, apre Freaks ("Stranezze") e, con essa, l'intero album. Attacco decisamente metallico: sei corde in bella evidenza e giro di accordi ascendenti e discendenti dal sapore classico, che fanno senza dubbio sentire a casa tanto l'ascoltatore di lunga data quanto il neofita. Calmatasi la tempesta iniziale, è tempo di entrare in scena anche per la voce del nuovo acquisto Andrew McDermott, che si presenta sfoggiando le tonalità più calde del suo registro medio. Nelle liriche, come da tradizione dovute a Jon Jeary, si presenta, per così dire, un prologo dell'intera storia narrata: "Adjustment to nature's blueprint for life / Cutting the membranes, adding the throwback splice / Holding our species' future in our hands / Writing a language we don't understand" ("Una modifica al piano della natura per la vita / Tagliando le membrane, aggiungendo l'innesto dal passato / Tenendo nelle nostre mani il futuro della nostra specie / Scrivendo un linguaggio che non comprendiamo"). Un temerario intervento degli esseri umani, dunque, sul corso naturale della vita, attuato mediante conoscenze mediche spericolate; con quale scopo, si vedrà più avanti. Alle due prime strofe, infatti, sono intercalati due segmenti strumentali, che poggiano su un serrato riff in tempo dispari, tappeto per le evoluzioni solistiche di Karl Groom prima e di Richard West poi. A chiudere il tutto giunge una robusta incursione ritmica di sapore quasi sabbathiano e, subito a seguire, un arpeggio pulito, inframmezzato da scariche di accordi distorti, che funge da gancio per una nuova strofa, sorretta da un nuovo giro di chitarra cadenzato, sul quale ha spazio per distendersi l'ugola di Mac, ispessita da puntuali armonizzazioni. Si delinea intanto, scorrendo man mano il testo, il progetto da perseguire per quel che si direbbe un gruppo di scienziati dalla visione piuttosto disinibita della propria professione: la creazione di esseri umani perfezionati, per così dire, artificialmente attraverso esperimenti di laboratorio ("We can take our surgery and stick it in between / The leaves of your humanity and wipe the pages clean", "Possiamo prendere la nostra chirugia ed inserirla fra / Le pagine della vostra umanità e ricominciare da zero"). Sull'onda emotiva di queste liriche inquietanti sfociamo direttamente nel ritornello, la cui possente apertura armonica iniziale è, in qualche modo, contraddetta dagli accordi che poi lo sviluppano, conferendogli una particolare tensione espressiva, accresciuta, inoltre, dall'interpretazione quasi epica della linea vocale: "Yes, we can make a few tweaks / Yes, we will create some freaks" ("Sì, possiamo fare qualche aggiustamento / Sì, creeremo qualche stranezza"), canta McDermott, e le sue parole confermano quanto già s'intravedeva narrato nelle strofe precedenti. La seguente successione di strofa e ritornello lascia strada prima ad una sezione imperniata su una inedita sequenza di accordi, la cui melodia vocale è messa in risalto dalle armonizzazioni, poi ad una pausa ritmica, nella quale ricompare l'arpeggio che aveva anticipato la prima strofa, qui merlato da fraseggi discendenti di tastiera e solcato ancora dall'ugola di Mac e da liriche quanto mai esplicative della storia narrata ("And in the concentrated content of this flask / A future generation divorcing its own past", "E nel contenuto concentrato di questa fiala / Una generazione futura che divorzia dal proprio passato"). A rialzare la tensione, ecco una rapida escursione solistica della sei corde, segnata da un marcato impiego del pedale wah-wah; e proprio sulle ultime note di Groom si innesta un ultimo ritornello, raddoppiato in durata, che conduce, reiterando gli ultimi accordi, alla conclusione vera e propria del brano. Poco sopra i cinque minuti, per uno degli avvii più arrembanti e diretti nella storia dei britannici, non privo, tuttavia, delle consolidate finezze nell'arrangiamento, specie nelle armonie vocali, ormai definitivamente acquisite e senza dubbio ancora più valorizzate dalla voce di McDermott, più robusta e pastosa rispetto alla, pur ottima, ugola di Damian Wilson. Conferma di sostanza, quindi, per la coppia di autori formata da Karl Groom e Jon Jeary, e perfetto biglietto da visita dei toni compatti e piuttosto cupi dell'intero album.

Angels

Anche Angels ("Angeli"), seconda traccia della scaletta, si presenta brano d'impatto, fin dall'apertura affidata all'organo di Richard West e ad un riff in accordatura ribassata, monocorde e sincopato, doppiato in maniera quasi pedissequa dalla batteria, che lascia il proscenio al timbro emotivo di McDermott, impegnato, in questo caso, ad interpretare le parole di distacco fra un individuo ormai adulto, che sembra rendersi conto di qualche suo tratto peculiare, e l'alveo famigliare: "You used to call me different like there was something wrong / A vanishing of reason, a soon forgotten song / You used to call me special when I was very small / But now I'm old, I should have known, you don't call me anymore"("Mi chiamavi diverso come se ci fosse qualcosa di sbagliato / Un venir meno della ragione, una canzone presto dimenticata / Mi chiamavi speciale quando ero molto piccolo / Ma ora sono cresciuto, avrei dovuto saperlo, non mi chiami più in alcun modo"). Segue un arpeggio pulito modulante, che permette di apprezzare ancora meglio tanto il buon lavoro di batteria quanto l'abilità del cantante a mantenere piena e solida la sua voce anche nel passaggio a toni più elevati. L'esplosione corale del ritornello, a questo punto, coglie quasi di sorpresa, dato l'effetto a tratti straniante causato dalla contrapposizione fra la linea vocale solitaria di strofa e ponte e l'intrecciarsi, qui, di numerose armonizzazioni, che colmano gli spazi sonori lasciati da un secco riff con legato finale che gli dona, di nuovo, un retrogusto sabbathiano. La successiva serie di strofa, arpeggio e ritornello è seguita, invece, da un breve intermezzo strumentale in cui il primo piano è riservato ai suoni d'organo delle tastiere, che si dipanano, come a prosieguo, sulla stessa partitura del ritornello; a rimorchio si innesta una nuova serie di accordi, ancora una volta dalle tonalità cupe e rocciose e dall'andatura cadenzata, tappeto di una linea vocale scandita, quasi minacciosa, e di liriche volte ad esporre, probabilmente, la posizione ed i sentimenti di coloro dai quali il primo protagonista intende staccarsi: "Don't you hear my gentle voice I'm calling your name / Only just a whisper but you know what I'm saying / You are worth so much to me, much more than you know / All you've got to do is choose the way that you go" ("Non senti la mia dolce voce, ti sto chiamando / Soltanto un sussurro ma tu sai cosa sto dicendo / Tu vali molto per me, molto più di quanto tu sappia / Tutto ciò che devi fare è scegliere la strada da seguire"). Un'ulteriore variazione, sorta di ponte fra le due sezioni della strofa, aggiunge l'immancabile tocco prog grazie all'uso di tempi dispari, e fa poi da sottofondo per una rapida incursione solista della sei corde. La seconda occorrenza di questo inciso si aggancia ad un ennesimo riff inedito, dall'andamento discendente, sul quale hanno mano libera sia le chitarre sia le tastiere, in un passaggio solistico d'impatto, memore di armonizzazioni gemelle caratteristiche nel suono dei progsters britannici. Proprio una lunga nota tesa chiude il momento solistico, lasciando ad un'ultima coppia di ritornelli, inserita senza altri raccordi, il compito di portare il brano alla conclusione definitiva. Notevole, nel complesso, la capacità del gruppo di salvaguardare tanto la fruibilità quanto la propria inclinazione a disegnare strutture mai scontate, che il trio di autori qui all'opera (oltre a Karl Groom e Richard West, anche Nick Midson) mostra di sapere padroneggiare con sempre maggiore confidenza. Complessità, certo, ma che non dimentica mai il gancio melodico appropriato, sussurrando, così, alle orecchie sia dell'amante dei ritornelli cantabili, sia al cultore di sonorità più ricercate. Resta da chiarire chi siano gli angeli citati nel ritornello, e quali le scelte che il protagonista debba affrontare ("Angels calling at my door / I don't know what scares me more / Going where they call me to / Or staying on this world with you", "Angeli che bussano alla mia porta / Non so cosa mi spaventi di più / Andare là dove mi chiamano / O rimanere in questo mondo con te"); ma, come richiede la lettura di un vero e proprio racconto, permettiamo al concept di dipanarsi con i giusti e dovuti tempi.

The Latent Gene

Il terzo gradino della scaletta, per chi ha imparato a conoscere il modus operandi della band inglese, è di solito dedicato ad un appuntamento particolare: quello con la suite, la composizione di afflato più ampio ed impegnativo, da sempre momento clou nell'esperienza sonora che ogni lavoro dei Threshold vuole offrire ai propri ascoltatori. Clone, a sua volta, non si sottrae alla tradizione, e con The Latent Gene ("Il gene latente") ed i suoi otto minuti di durata ci presenta uno dei passaggi maggiormente significativi di tutto l'album. Eppure, l'approccio potrebbe lasciare un poco interdetti, tanto è palese la somiglianza fra l'arpeggio iniziale di chitarra pulita e l'omologa apertura di Suite Sister Mary, cuore compositivo di Operation: Mindcrime, capolavoro di casa Queensrÿche. Casuale consonanza o richiamo voluto, giustificato dalla natura di concept album che caratterizza lo stesso Clone? Il dubbio resta, benché i rispettivi sviluppi prendano fin da subito direzioni differenti: laddove, infatti, il brano del quintetto statunitense indugia a lungo sull'atmosfera inquieta degli accordi acustici, è proprio un riff in piena distorsione a scuotere l'incedere pacato che segna l'inizio del corrispettivo pezzo dei britannici. Al subentrare della voce, tuttavia, le chitarre ritornano pulite e fanno da sfondo all'interpretazione quasi cantilenante ed abbandonata di McDermott, che racconta la ricerca, condotta in barba ad ogni deontologia professionale e con sommo dispregio per la vita delle cavie coinvolte, di un fantomatico gene inespresso, operata da un non meglio definito medico, intento a produrre ripetute fecondazioni artificiali al solo scopo di ottenere un essere umano dal DNA modificato: "Mary baby's eyes are blue / He is to be the chosen few / There's just one thing she's got to do / To conceive the latent gene / His absent father's watching him / From a gene pool where a billion swim / Where mutants form on just a whim / And conceive the latent gene" ("Gli occhi del bimbo di Mary sono blu / È destinato ad essere fra i pochi eletti / C'è solo una cosa che lei deve fare / Concepire il gene latente / Il suo padre assente lo sta guardando / Da una pozza di geni dove nuotano a miliardi / Dove si formano mutanti in base ad un semplice capriccio / E si concepisce il gene latente"). Un profluvio di armonizzazioni vocali contraddistingue l'irruzione del ritornello, le cui cadenze, unitamente al lavoro del basso e delle chitarre, lo avvicinano in modo piuttosto evidente a quello di Into the light, da Psychedelicatessen, pur distinguendosene per una melodia più nervosa e tesa, oltre, ovviamente, al testo, un dito puntato da parte di Jon Jeary verso le spericolatezze scientifiche della sua (e nostra) epoca: "My generation lost its patience / Playing with the world within / Accelerated saturation / Out of our mind on saccharine" ("La mia generazione ha perso la pazienza / Giocando con il mondo interiore / Una saturazione accelerata / Fuori di senno, sbronzi di saccarina"). Rientra la strofa, e il bizzarro esperimento genetico sembra produrre i primi risultati; non tutto, però, fila liscio come dovrebbe: "Mary baby's eyes are green / Potential powers still unseen / Morals cleansed in ethylene / And conceive the latent gene / Mary baby's eyes are black / A dinucleic heart attack / And the doctor says he's coming back / To conceive the latent gene" ("Gli occhi del bimbo di Mary sono verdi / Un potere potenziale ancora mai visto / La moralità è stata ripulita nell'etilene / E concepisce il gene latente / Gli occhi del bimbo di Mary sono neri / Un attacco cardiaco dinucleico / E il dottore dice che sta tornando / Per concepire il gene latente"). Neppure un fallimento, dunque, riesce a placare la delirante smania di dar vita ad un essere dotato di capacità superiori all'umano. Un secondo ritornello funge da cesura fra la prima parte del brano ed una seconda decisamente meno incalzante, introdotta da un solo di Karl Groom in piena modalità melodica, candidato immediatamente fra i migliori momenti sia della canzone sia dell'intero disco. Al subentrare del timbro, qui emotivo e lirico, di McDermott, si fa più chiaro il motivo di questo cambio d'atmosfera: il testo racconta, infatti, le riflessioni solitarie di colei che ha dovuto concepire questo essere geneticamente alterato, e l'incapacità di comprendere fino in fondo non solo questa operazione ai limiti dell'umano, ma le capacità straordinarie del suo prodotto: "She hears a voice inside her head when all is quiet and she's in bed / It's hard for her to understand the mindspeak of her little man / How can a baby have two mothers? Adopted long before it's born / Conceived by another and from a second torn" ("Lei sente una voce nella sua mente / Quando tutto è silenzio ed è a letto / Per lei è difficile capire la comunicazione mentale del suo piccolo uomo / Come può un bimbo avere due madri? Adottato molto prima che nascesse / Concepito da una e strappato ad un'altra"). Poderosi accordi di chitarra elettrica e di organo racchiudono questo castone melodico, e lasciano via libera ad un nuovo riff, più serrato e deciso, che accompagna la storia nel colpo di scena: la concretizzazione dell'insperato, del tanto cercato gene latente e delle sue virtù eccezionali: "An outcome unforeseen, now we see the latent gene / Faltering telepathy reaching out into his mother's mind" ("Un risultato inatteso, ora vediamo il gene latente / Un'incerta telepatia che entra in contatto con la mente di sua madre"). Il cantato ripiega, poi, in favore di una scorreria solistica di chitarra, prima, e di tastiere, poi, condotta su un riff cupo e dal passo meno incalzante, che le evoluzioni di Richard West ed uno stacco di silenzio chiudono, prima di un'ultima ripresa di strofa e di un doppio ritornello, definitivo sipario sull'intero brano. Grande prova della band tutta nel produrre atmosfera senza disperdere l'impatto, frutto della capacità delle chitarre di assemblare varietà e compattezza, oltre alla scelta di linee melodiche particolari ma che difficilmente escono dai timpani in breve tempo. Ancora una volta, poi, il contenuto lirico intriga, con i suoi riferimenti a sperimentazioni selvagge nel campo medico, che costituiscono una sorta di flashback relativo alla genesi del personaggio protagonista del racconto che funge da sfondo all'intero disco. Viene da pensare che al duo formato da Groom e Jeary sia stato forse d'ispirazione qualche articolato estratto dalla discografia dei Marillion prima maniera, con quella alternanza fra strofa più decisa e inserto dall'intensa marca emotiva e poetica, fuso poi alla comprovata matrice metallica, sempre cara ai britannici. Buon lavoro anche per Mac, capace di adattarsi ai vari frangenti del pezzo, sia quando l'interpretazione deve farsi più accorata, sia quando serve sfoderare le ottave. Centro pienissimo, dunque, ed ennesima terza traccia di qualità superiore, a ribadirne lo status di luogo del cuore, compositivamente parlando, per i progsters inglesi, nonché per i loro ascoltatori.

Lovelorn

Echi inconfondibili del passato musicale degli inglesi permeano, fin dalle battute iniziali, Lovelorn ("Privo d'amore"): apertura epicheggiante con canti di chitarra armonizzata, passaggi di batteria ad accompagnare e tastiere a tessere la giusta grandeur. Non appena, però, l'enfasi si dirada, in scena resta solo un malinconico arpeggio, libero dalla distorsione, su un tappeto ritmico essenziale, ideale accompagnamento per la voce quasi carezzevole di McDermott, impegnato a raccontare, dal punto di vista del protagonista ed in prima persona, il dolore della solitudine a cui è costretto dalla propria natura di essere dalle capacità mentali uniche, diverse dalla norma umana, e per tal motivo precluso ad ogni rapporto con gli individui che a quella specie appartengono, come il destinatario, maschio o femmina cha sia, delle sue parole: "If I coerced you, you would follow me / I can see into your mind, can you see me? / I can look at you and move you physically / I'm not the only one, I cannot be" ("Se ti avessi costretto, mi avresti seguito / Io posso vedere nella tua mente, tu puoi vedere me? / Io posso rivolgerti uno sguardo e muoverti fisicamente / Non sono l'unico, non posso esserlo"). Un riff di chitarra possente e a tinte oscure irrompe, a questo punto, catapultando l'ascoltatore nel ritornello, caratterizzato da una melodia che, anziché slanciarsi, resta su tonalità medie, seguendo in maniera quasi parallela il succedersi degli accordi, con un effetto di ulteriore appesantimento dell'insieme, mentre il testo continua ad esprimere l'amaro sfogo dell'io narrante, impedito, com'è, ad avvicinarsi alla persona amata: "How can I touch you when I feel that you would break / How can I talk to you when noise is all you make / Am I the only one who isn't deaf and blind / I am so lovelorn it would blow your tiny mind" ("Come posso toccarti, quando sento che ti spezzeresti / Come posso parlarti, quando tutto ciò che produci è rumore? / Sono l'unico che non è sordo e cieco? / Sono così privo d'amore da far esplodere la tua piccola mente"); l'ascoltatore di lungo corso, inoltre, non faticherà a riconoscere le cadenze della linea vocale, certamente memori di altri episodi ad alto tasso metallico, come He is I am, da Psychedelicatessen, o Sanity's end da Wounded land. La strofa seguente vede, poi, il nostro protagonista alle prese con le difficoltà nel trovare un contatto fra sé e l'oggetto dei suoi sentimenti, senza che le sue speciali capacità ne influenzino le scelte: "I must control my own ability / I want your friendship offered willingly / If I could shut out all this noise it would be fine / If I reveal my secret would you be a friend of mine?" ("Devo controllare la mia abilità / Voglio che tu mi offra spontaneamente la tua amicizia / Se potessi tenere fuori tutto questo rumore, andrebbe bene / Se rivelassi il mio segreto, vorresti essermi amico?"). A ruota del secondo ritornello si apre una corposa parentesi strumentale: dapprima un nuovo riff, ancora di scuola sabbathiana, su cui si stagliano sventagliate di organo Hammond, poi una ripresa dell'armonizzazione chitarristica sentita in apertura, qui estesa con salti di intervallo che riportano alla mente analoghi passaggi presenti, ad esempio, in A tension of souls; il successivo rientro dell'arpeggio della strofa non fa, in questo caso, da tappeto al cantato, bensì ad un solo melodico e blueseggiante, che diviene, poi, più aggressivo e teso col subentrare del riff del ritornello. Sul quale, mentre si dissolvono le ultime note della sei corde, rientra anche l'ugola di McDermott, per un'ultima accoppiata di ritornelli, che conduce l'intero brano alla sua conclusione. Siamo di fronte, con questa Lovelorn, a una riproposizione delle radici più metalliche ed ossianiche della band inglese; manca, tuttavia, il guizzo melodico vincente, o, quantomeno, quel tocco arioso, conferito di frequente dagli interventi delle tastiere, che bilanci un arrangiamento complessivamente oscuro e caliginoso, poco adatto, fra l'altro, alla voce limpida del nuovo cantante, che, priva di un appiglio grazie al quale far valere i propri talenti, finisce un poco inabissata nella pesantezza dell'insieme, specie in corrispondenza del ritornello, in cui si limita a seguire quasi pedissequamente l'andamento della sequenza di accordi. Un brano che non si può che considerare come lieve battuta d'arresto, e penalizzato, oltretutto, dalla posizione in scaletta, subito successiva all'eccellente The latent gene. Segno che, per i britannici, è necessario trovare nuove vie espressive, al fine di valorizzare al meglio le risorse a loro disposizione.

Change

Un malinconico scintillio di chitarre acustiche su uno schema armonico discendente costituisce l'apertura di Change ("Cambiamento"), prima traccia ad esclusivo appannaggio di Richard West, sia per la musica sia per il testo. Il titolare delle tastiere si era già distinto come compositore in occasione del precedente Extinct instinct, mettendosi in gioco tanto in cooperazione con il resto della band quanto in solitaria; in questo caso, si presenta nella veste di scrittore di brani dall'ampio afflato melodico e dalla spiccata cantabilità, anche se la qualifica di power ballad è forse limitante. Certo, l'attacco affidato agli accordi puliti e ad un Mac che ricorre ad un timbro significativamente caldo e sensibile, si può collocare di certo proprio entro quei confini stilistici; anche l'ingresso della distorsione, in corrispondenza del ponte (che pure si distingue per un'azzeccata modulazione, di sicuro impatto), avviene nel pieno rispetto delle regole non scritte del genere. Meno tradizionale, per certi aspetti, il versante lirico, il cui fulcro sono il senso di disillusione e disorientamento del protagonista ("All my life, I've been holding on to nothing / All my hopes were castles in the sand / I've read words with no comprehension / I've had dreams I don't understand", "Per tutta la vita, non ho avuto nulla a cui aggrapparmi / Tutti i miei sogni erano castelli di sabbia / Ho letto parole senza comprenderle / Ho avuto sogni che non capisco") ed il desiderio di trovare una luce in questo buio sconfortante (Here I am, Falling down / All I want is a comforting hand", "Eccomi, mentre precipito / Tutto ciò che voglio è una mano che mi rassicuri"). Trascinante e arioso, invece, irrompe il ritornello, nella cui ricca melodia, assimilabile, per certi versi, ai migliori momenti AOR, McDermott riesce ad impiegare al meglio i propri rotondi toni medio-alti, accompagnato da una accurata armonizzazione corale, che ne enfatizza appieno l'ottima prestazione; le liriche, per parte loro, assecondano l'atmosfera positiva dell'arrangiamento, narrando la volontà del protagonista di mettersi in gioco per la persona che rappresenta la sua ancora di salvezza ("Keep the fire lit / I'm making that change for you", "Mantieni il fuoco acceso / Sto facendo quel cambiamento per te"). La seconda strofa si distingue per l'aggiunta ritmica distorta, ma conserva lo stesso sviluppo dalla precedente, sfociando così in un secondo ritornello, al termine del quale Karl Groom si può produrre in un breve solo su una sequenza dal tono più drammatico, conclusa da una scala ascendente armonizzata che, allo stesso tempo, si aggancia all'ultima parte del brano. Che spicca, inoltre, come la sezione più inedita ed innnovativa, caratterizzata com'è da una sovrapposizione in crescendo di linee vocali, prima soltanto dell'ultimo verso, poi dell'intero ritornello, concludendosi però ad effetto, con la voce del solo Mac che si staglia sul silenzio, subito seguita da un richiamo dell'arpeggio d'apertura. Tradizione e innovazione, dunque, in questa ballata, che, se riprende alcuni luoghi comuni compositivi già ben noti, rappresenta un notevolissimo passo avanti, volgendo lo sguardo a quanto prodotto dagli inglesi finora, rispetto ad un precedente come la ben meno riuscita e più prevedibile Forever da Extinct instinct; Change risulta molto meglio curata nello sviluppo, ed arricchita in special modo dalla sezione corale in coda, che la prolunga con grazia ed allarga armonicamente, anziché appesantirla, stemperando, al contempo, ogni sensazione di scontatezza. Il ricercato tessuto armonico d'insieme, inoltre, si rivela terreno di conquista per l'ugola melodica e pastosa di Mac, a proprio agio tanto nell'accarezzare, durante le strofe, quanto nello spingere a pieni polmoni. Di autentico progresso, quindi, possiamo parlare, e lo si può rintracciare nell'evoluzione, come compositore, che Richard West concretizza album dopo album, incarnando, così, il significato peculiare dell'idea musicale, quella di progressive, appunto, a cui il gruppo britannico è solitamente associato.

Life's Too Good

Dalla carezza melodica all'aggressione elettrica il passo è breve, anzi brevissimo: un solo gradino nella scaletta. Life's too good ("La vita è troppo bella"), infatti, non a caso firmata dai due chitarristi Groom e Midson, oltre a Jon Jeary, è lanciata, dopo un'inquietante introduzione tastieristica, da un terremotante assalto di sei corde e batteria in doppia cassa, coalizzate a sospingere a tutta forza un riff che ricorda una versione steroidizzata dell'apertura di un classico hard rock a firma Whitesnake, Slip of the tongue. La tempesta, tuttavia, si placa in breve e le distorsioni si dissolvono a favore di una strofa liquida e riflessiva, in cui sono arpeggi deformati dall'effettistica a dominare la scena, assieme all'ugola di Andrew McDermott, che scandisce con tono uniforme e quasi distaccato le parole del protagonista, traduzione del sospetto e della sfiducia maturate verso quanti lo circondano solo perché interessati alle qualità soprannaturali della sua mente: "I can see what you think of me / I can know what you want from me / I cast a glance and you understand / I think aloud and there's money in my hand" ("Riesco a vedere cosa pensate di me / Riesco a sapere cosa volete da me / Getto uno sguardo e voi capite / Penso ad alta voce e c'è denaro nella mia mano"). Le chitarre riemergono robuste con il ritornello, imperniato prima su di un riff oscuro e sincopato, dal taglio decisamente moderno, e poi su un'altra sequenza di accordi discendente, giostrata su un cambio di tempo decisamente cadenzato; una combinazione che ricorda certi esiti del thrash metal più evoluto e meno violento, certo non estraneo al bagaglio musicale degli inglesi. Particolare anche la linea melodica, dall'andamento oscillante e resa ancora più inquieta da intrecci ai limiti della dissonanza, fino a che Mac può liberare la propria potenza vocale, in corrispondenza della seconda sezione del ritornello stesso, cantando tutta l'amarezza ed il rimpianto del nostro protagonista: "Why have I been given the design? / Why must I feel guilty all the time? / All your garbage clogging up my mind / And the new world moves away" ("Perché mi è stato rivelato il disegno? / Perché devo sentimi perennemente in colpa? / Tutta la vostra spazzatura che mi intasa la testa / Ed il mondo nuovo si allontana"). Ancora una strofa ed un ritornello, per poi entrare in un breve passaggio più progressivo, segnato da punteggiature di tastiera e da un possente staccato di chitarre monocordi, in unisono con la batteria; il rientro del riff d'apertura spazza via la quiete, prima di un momento di più ampio respiro, caratterizzate da lunghi accordi in tonalità maggiore delle sei corde, inframmezzati da legati di gusto quasi sabbathiano e da brevi inserti solistici, e sovrastati dalla voce di McDermott. A questa variazione si ricollega direttamente un'ultima strofa, in cui il protagonista della storia si rende conto di come non gli sia possibile operare un autentico cambiamento nel modo di vivere degli esseri umani, nonostante le sue capacità superiori, senza limitarne bruscamente la libertà d'azione ("I can make all this fighting cease / Yeah, I can bring your world to peace / But I would have to hold your mind this way / All your independence gone away", "Posso far cessare tutta questa lotta / , posso condurre il vostro mondo alla pace / Ma dovrei bloccare la vostra mente in questa maniera / Tutta la vostra indipendenza sarebbe scomparsa"); il ritornello che segue si estende sino al concludersi definitivo del brano, lasciato ad un'ultima, secca frase della sola voce del cantante. Decisa sterzata in chiave metallica, dunque, per il sesto capitolo di Clone, e con esiti senza dubbio superiori se confrontati con la precedente e non altrettanto riuscita Lovelorn: la struttura variegata del brano bilancia con sapienza strofe quasi sospese, il cui retrogusto psichedelico resta piuttosto inusuale per il gruppo inglese, e scariche di nervosa distorsione, inserendovi poi un gusto ritmico che sembra memore di soluzioni care a certe avanguardie metalliche d'oltreoceano. Il tutto permeato da quell'atmosfera plumbea che riemerge di frequente fra le pieghe dell'intero disco, e che ben si sposa ad un quadro lirico votato a inscenare lo stallo del protagonista della storia, costretto a vivere in una realtà, quella umana, che gli appare gretta ed autodistruttiva, ma, allo stesso tempo, impossibilitato ad agire per mutarla, se non privando gli esseri umani del loro bene più prezioso: la libertà di scelta, anche quand'essa sia diretta al danno proprio, o del prossimo. Dietro alla superficie fantascientifica, il messaggio e, quindi, ben più profondo, e Jon Jeary parrebbe qui ispirarsi alla doppia lettura caratteristica di svariati scrittori di science fiction del ventesimo secolo, da Isaac Asimov a Ray Bradbury, i cui racconti, spogliati del contesto futuribile o bizzarro, rivelano questioni profondamente e disperatamente umane. E vale la pena di rimarcare, a proposito, la versatilità dell'incaricato all'esposizione di queste liriche, il nuovo entrato McDermott, abile, qui, a disimpegnarsi fra momenti più serrati e dissonanti, strofe liquide e immancabili squarci di melodia con efficacia e duttilità. Ottima prova per tutta la band, oltre che una doverosa iniezione di energia e tensione prettamente metallica, dopo il più disteso ed orecchiabile episodio precedente. Resta da capire, al termine del brano, quale possa essere la prossima mossa del nostro protagonista e la sorte delle sue qualità straordinarie: la risposta, comunque, non ci terrà troppo in attesa.

Goodbye Mother Earth

Come consumati prestigiatori, i britannici riservano in chiusura di spettacolo i numeri migliori. Fuor di metafora, il trittico conclusivo di Clone, quasi una suite a sé stante in tre momenti, rappresenta un deciso innalzamento d'asticella per le ambizioni artistiche dell'album, a partire da questa settima traccia, dal titolo Goodbye Mother Earth ("Addio, Madre Terra"), firmata da Richard West sia per la musica sia per il testo. L'attacco affidato ad un arpeggio pulito su tempo dispari, chiarisce fin da subito che il gruppo intende giocarsi le carte più progressive del proprio mazzo compositivo. Una spolverata di organo, una breve rullata ed ecco entrare in scena anche la distorsione, sempre sul medesimo schema ritmico, ed ancora una volta impregnata di quel sentore cupo ed ombroso che serpeggia per tutta l'opera, finché una pentatonica discendente pone fine a questa sorta di introduzione e, allo stesso tempo, avvia la strofa, strutturata secondo un'evidente bipartizione: una prima metà caratterizzata da un arpeggio di chitarra pulita e dalla voce isolata di Mac ed una seconda, invece, in cui predomina l'elettricità e le linee vocali si intrecciano e rafforzano a vicenda. Un nuovo giro di chitarra costituisce, poi, il rapido passaggio al ritornello, basato sul riff distorto già sentito nell'introduzione ed innestato sul passaggio precedente con sorprendente maestria, tanto da cogliere alla sprovvista l'ascoltatore più distratto. Non è solo la partitura squisitamente musicale, peraltro, a richiedere un surplus di attenzione: il contesto lirico del brano, infatti, tratteggia un momento determinante nello sviluppo della narrazione. Il protagonista è ormai consapevole della spregiudicatezza degli esseri umani nei confronti propri e del mondo in cui vivono ("You're tired of waiting for natural selection / So men are creating genetic perfection / The perfect example of holding the keys / For beautiful people with perfect disease", "Siete stanchi di attendere la selezione naturale / Perciò gli uomini stanno creando la perfezione genetica / L'esempio perfetto del possedere le chiavi / Per la gente per bene con una malattia perfetta"), ed allo stesso tempo vede che la loro superbia li sta conducendo al disastro ("Your tower of Babel / Is falling from the sky", "La vostra torre di Babele / Sta crollando giù dal cielo"), pertanto opta per una decisione drastica: abbandonare il pianeta al suo destino e lanciarsi nello spazio aperto, dando il proprio addio alla terra che l'ha visto nascere: "Turning my soul from the world and fly - It's time to say goodbye" ("Voltando la mia anima via dal mondo e volare - È tempo di dire addio"). A seguire, una seconda successione di strofa e ritornello, la cui irruenza si infrange in un placido intermezzo di chitarre liquide e di soffusi tocchi tastieristici, legate fra loro da azzeccati fraseggi bassistici, a tessere lo scenario ideale per le tonalità più delicate dell'ugola di McDermott, che canta malinconico il saluto del protagonista all'amato pianeta madre, su una melodia ricca di modulazioni: "Goodbye, Mother Earth, you're no longer free / Can't you see your situation, don't you know your destiny?" ("Addio, Madre Terra, non sei più libera / Non riesci a vedere la tua situazione, non conosci il tuo destino?"). E proprio quando sembra di aver raggiunto l'apice del climax melodico, la band inglese innesta la marcia più sfidante e spericolata: un inserto in tempo dispari, composto da serrati fraseggi cromatici ascendenti e discendenti di chitarra, basso e tastiera all'unisono, spezzati da pause brevissime e sospinti da uno spigoloso lavoro di batteria, in un crescendo incalzante. Una soluzione inedita e sorprendente, che occhieggia, senza dubbio, analoghi passaggi di alta scuola progressive anni Settanta, cari a mostri sacri della scena britannica, Yes su tutti. Non contenti, i nostri epigoni di quella gloriosa tradizione sciorinano un'ulteriore variazione, con un giro di basso meditabondo in cinque quarti su cui si posa il medesimo arpeggio sentito in apertura; segue una seconda serie di quartine cromatiche, troncate, ancora una volta inaspettatamente, dal rientro della sola linea vocale del ponte, subito accompagnata dal resto degli strumenti per la definitiva risoluzione negli ultimi due ritornelli, al cui sviluppo si affianca, prima in sordina, poi prendendosi la scena, la sei corde di Groom, per un breve ma efficace castone solistico in tapping, che conduce il brano alla conclusione, orchestrata, in perfetta circolarità, sul medesimo arpeggio con cui s'era aperto. Nell'arduo equilibrio fra compattezza e ricercatezza, si tratta probabilmente del miglior compromesso che i progsters del Surrey potessero raggiungere: nessuna sezione risulta superflua, agganci a sorpresa si affiancano a passaggi più tradizionali, incursioni in meandri di complessità notevole risolvono senza asprezze nel flusso coerente dell'insieme e non manca, come da tradizione del gruppo inglese, il giusto spazio per melodie che si possono mandare a memoria e sanno rivolgersi anche a chi cerca, in una canzone, punte di accessibile cantabilità. Ancora da lodare il lavoro compositivo di Richard West, che si supera nel cucire assieme i diversi momenti della partitura, salvaguardando la ricerca di imprevedibilità senza, tuttavia, eccedere in astrusità spesso fini a se stesse e, alla prova dei fatti, prive di autentico afflato artistico; il tutto, poi, bilanciando con accortezza l'impatto metallico e la presenza di sonorità più orecchiabili, senza dimenticare, peraltro, l'apporto decisivo della voce di Andrew McDermott, sempre in grado di valorizzare, col suo timbro robusto e pieno ma mai aspro, il fondamentale contenuto melodico. Più che di primo passo del gran finale, a conti fatti, si può ben parlare di balzo in avanti, per una composizione che vanta un tasso qualitativo realmente notevole anche rispetto alla media, sempre elevata, delle produzioni a marchio Threshold.

Voyager II

Voyager II ("Viaggiatore II"), seconda stazione del trittico finale, e penultima tappa della scaletta di Clone, si (e ci) proietta, fin dal titolo, nello spazio aperto già evocato dal brano precedente. Chiaro, infatt, appare il riferimento alle due sonde spaziali omonime, le Voyager I e II, appunto, lanciate nel 1977 allo scopo di esplorare i pianeti esterni del Sistema Solare e destinate ad un viaggio verso zone inesplorate della nostra galassia, persino al di là della portata gravitazionale del nostro astro guida. Ed anche il protagonista del racconto che fa da sfondo all'album si trova, a questo punto, a viaggiare fra le immensità stellate: il vortice tastieristico che, agganciandosi al finale del precedente, inaugura il brano assieme a poderosi accordi distorti dal tono quasi epico, sembra imitare la fiammeggiante partenza di un razzo al di là della volta celeste; allo stesso modo, il freddo e laconico arpeggio che segue pare perdersi lentamente nella vastità del buio extraterrestre, come lo sguardo di chi l'osserva. Le parole di Jon Jeary, cantate con delicata malinconia da Mac, permettono poi di comprendere con sicurezza quale sia la meta cui tanto anela il protagonista: "A ruby eye of beguiling light / Winking at Orion's might / She lures the galilean mind / A new beginning for mankind" ("Un occhio rosso di luce seducente / Che ammicca alla potenza di Orione / Attira la mente galileiana / Un nuovo inizio per l'umanità"). Un nuova possibilità per l'umanità che ha sancito la sua stessa fine, una luce rossa nello dintorni astrali della Terra: Marte. La descrizione dell'arrivo e delle speranze dei sopravvissuti ("We travelled months in weightless grace / Traversing voids of time and space / To build what cause our death on Earth / But here I start my kind's rebirth", "Abbiamo viaggiato mesi in una grazia senza peso / Attraversando vuoti di tempo e spazio / Per costruire ciò che ha causato la nostra morte sulla Terra / Ma qui inizio la rinascita della mia stirpe") occupa la seconda parte della strofa, distinta dalla precedente da una modulazione armonica e dalla presenza di un piccolo coro a supporto dell'ugola di McDermott, comprese inedite voci femminili, dovute, peraltro, a Tina Riley, moglie di Karl Groom, e a Farrah West, consorte del tastierista. Un calibrato crescendo che deflagra letteralmente nel ritornello, in cui McDermott, accompagnato dal roboante rientro della distorsione, sfodera la piena potenza delle sue corde vocali, dando corpo, col suo timbro rotondo ed un vibrato teso al limite, alle emozioni dei viaggiatori spaziali al momento dell'addio, definitivo e straziante, al pianeta madre abbandonato: "Come in, little Earth / You cannot hear me now / And I'm never coming back again / Hello, little Earth / You cannot reach me now / And I'm never coming down again" ("Avvicinati, piccola Terra / Non puoi sentirmi, ora / Ed io non tornerò mai più / Ciao, piccola Terra / Non puoi raggiungermi, ora / Ed io non scenderò mai più"). Una seconda strofa fa baluginare un'ipotesi fra le più amate dalla fantascienza contemporanea, l'origine dell'essere umano proprio su Marte, tramutando così l'abbandono della Terra ormai devastata in un effettivo ritorno all'autentico pianeta madre ("We realised what we'd guessed before / This was our real home after all", "Abbiamo compreso ciò che avevamo intuito prima / Questa era la nostra vera casa, dopo tutto"). A seguito del successivo ritornello si inserisce una doverosa variazione, sotto la forma di un nuovo riff di chitarra, particolarmente oscuro e pesante, sigillato da un fraseggio ascendente altrettanto ricco di tensione; partitura che funge da appoggio ad una melodia vocale a sua volta obliqua, nonostante picchi di acutezza, ben sorretti, in ogni caso, da Mac. Giusto accompagnamento per le riflessioni del nostro protagonista, che si domanda le ragioni e le speranze del suo viaggio ("Don't know what I'm hoping to find / Looking for my peace of mind", "Non so cosa stia sperando di trovare / Cercando la mia pace interiore"). Torna poi la sequenza di accordi della strofa, ma come sfondo di un riflessivo solo tastieristico, che accelera gradatamente nel finale per lanciare l'ingresso della sei corde, essa pure in solitaria, con un breve canto armonizzato prima e fraseggi più frenetici poi, compreso un veloce numero in doppio tapping, ormai divenuto classico nelle esecuzioni di Karl Groom. Ancora un ritornello, e a ripresentarsi è la sezione d'apertura, tastiere vorticose comprese, a sancire l'apparente conclusione del brano. Apparente, sì: solo pochi secondi, sovrastati da messaggi vocali provenienti da chissà quali anfratti cosmici, e la band si lancia in una possente e cadenzata coda pressoché solo strumentale, animata da vocalizzi corali e da inserti sacraleggianti di suoni organistici, che sembrano davvero inerpicarsi e spiraleggiare nel vuoto sconfinato del cosmo. Si rasenta sul serio la perfezione, con i nove minuti di questa Voyager II: esplosiva tensione espressiva e tocchi meditativi dosati sapientemente, oltre al gusto per la variazione compositiva che contraddistingue da sempre il gruppo inglese, si alternano con efficacia, coinvolgendo l'ascoltatore nell'onda emotiva degli esuli terrestri nello spazio aperto. I singoli contributi, con menzione di merito per l'interpretazione vibrante ed energica di McDermott, si sublimano in un insieme superiore, e inediti esperimenti, come la sezione corale che domina il finale, aggiungono spessore e ricercatezza senza, per fortuna, pregiudicare la capacità dell'insieme di emozionare. Probabilmente il vertice qualitativo dell'intero disco, ed uno fra i migliori risultati artistici nella carriera tutta dei progsters britannici. Ulteriore impennata, perciò, per il già ragguardevole livello del trittico finale di Clone, ed altra riprova della maturazione che il gruppo, ed in particolare i compositori al suo interno, in questo caso la consolidata coppia formata da Karl Groom e Jon Jeary, concretizza con costanza disco dopo disco.

Sunrise on Mars

Nessuna soluzione di continuità, anche in questo caso, fra Voyager II e l'ultimo tassello, tanto della trilogia finale quanto di tutto il lavoro, ossia questa Sunrise on Mars ("Alba su Marte"), che porta a nove il totale delle tracce su disco. E dal predominio del pianoforte, fin dalle primissime note, ben si comprende a chi appartengono i crediti di quest'ultima tappa nel viaggio sonoro di Clone: si tratta, è chiaro, di Richard West. Sono, infatti, suggestioni dei Queen più orecchiabili degli anni Settanta ad ispirare l'estro del tastierista, coadiuvato, a livello esecutivo, da un Mac che riesce ad estendere lo spettro sonoro verso l'alto senza perdere in gradevolezza, mentre le modulazioni armoniche degli accordi scolpiscono una linea melodica accessibile ma non scontata o monotona. Dal punto di vista lirico, il protagonista, apparentemente sfinito, forse a causa di un approdo a dir poco problematico sulla superficie del pianeta rosso, è soccorso da un medico e dai suoi compagni di viaggio ("Doctor found me just in time / Can't recall how long I've been lying there / He said my body, mind and soul had lost their true alignment ", "Il medico mi ha trovato appena in tempo / Non riesco a ricordare quanto a lungo io sia rimasto steso lì / Dice che il mio corpo, la mia mente e la mia anima hanno perduto il loro vero allineamento") mentre cerca di comprendere le proprie effettive condizioni fisiche ("It's hard to tell you where it hurts but / Won't you make it go away, so far away", "È difficile dire dove sia il dolore male ma / Non vuoi togliermelo, via, lontano?"). La domanda chiude la strofa e la aggancia al ritornello, che si presenta come risposta alla medesima: "Smile, pretend you're on a trip / Searching for yourself, connecting with your soul / Close your eyes, your energy is gone / We can be your strenght, we have got control / We haven't got much time 'til sunrise on Mars" ("Sorridi, fingi di essere in viaggio / In cerca di te stesso, collegandoti alla tua anima / Chiudi gli occhi, la tua energia se n'è andata / Noi possiamo essere la tua forza, abbiamo preso il controllo / Non ci resta molto tempo prima dell'alba su Marte"). Parrebbe, dunque, che le capacità eccezionali del protagonista siano scomparse, e questo comporti un'assunzione di responsabilità da parte del resto dei sopravvissuti, pronti ad aiutarlo e non più a dipendere da esse, nella sfida che la nuova realtà impone loro. Parole colme di speranza, quelle dei terrestri, opportunamente accoppiate alla tonalità maggiore, distesa e brillante, del ritornello, e rafforzate, anche qui, da efficaci inserti corali, in cui ricompare la voce di Tina Riley. La modulazione su tono minore del finale prepara il rientro della strofa, cui fa seguito un secondo ritornello, distinto dal precedente per la presenza di lunghi accordi di chitarra elettrica, che vi conferiscono ancor maggiore energia. Immancabile una variazione di struttura, a questo punto, che prende la forma di un melodico assolo della sei corde di Karl Groom, sul quale aleggia quell'aura pinkfloydiana che gli sappiamo ben cara, condotto sulla sequenza di accordi conclusivi del ritornello medesimo; alle evoluzioni chitarristiche si sovrappone, poi, la voce di Mac, in un crescendo maestoso, fino al sipario finale, su cui le ultime parole del cantante, "Never thought I'd make it home" ("Non avrei mai pensato di tornare a casa"), sullo sfumare degli altri strumenti, riportano alla suggestione citata nella precedente Voyager II, di Marte quale vera terra madre del genere umano. Altro elemento di novità, quindi, una conclusione affidata non più ad un breve cameo acustico di chitarra e voce, come nei tre lavori fin qui realizzati dagli inglesi, ma un sontuoso brano di rock pianistico dalla consistente pasta armonica e melodica, cantabile al primo colpo senza cadere nel banale o nel ritrito, e che si prende l'ulteriore merito di controbilanciare, praticamente da solo, l'atmosfera generalmente cupa di tutto l'album. Altra bella prova, sotto il profilo compositivo, per Richard West, che trova ancora una volta il braccio ideale alle sue intuizioni nell'ugola di McDermott, sempre misurata ed al servizio del brano, ma comunque in grado di distinguersi per duttilità ed equilibrio. Difficile, insomma, auspicare congedo migliore, tanto per il trittico finale quanto per l'intero lavoro.

Conclusioni

Sgombriamo subito il tavolo da possibili equivoci: Clone non è l'esatta realizzazione degli abbozzi di cambiamento che si intravedevano già in Extinct instinct; o meglio, rielabora e raffina in parte certi elementi che, tuttavia, non possono essere considerati una peculiarità di quel disco, ma di tutta la prima carriera dei Threshold, e vi aggiunge, e non è poco, dei suoni finalmente maturi e adeguati a materiale tanto impegnativo (oltre alla registrazione presso gli ormai consueti Thi Ice Studios, infatti, interviene qui una masterizzazione "nobile", attuata negli arcinoti Abbey Road Studios di Londra). Come accennato, l'intento, non certo nascosto, degli inglesi è la composizione di un'opera che mantenga le caratteristiche, squisitamente progressive, di imprevedibilità, magniloquenza e ricercatezza, ma, allo stesso tempo, eviti di impantanarsi in certe lungaggini o ridondanze che avevano, a tratti, annacquato il risultato finale del loro terzo lavoro in studio. Ecco la ragione di un'evidente limatura dei singoli minutaggi (nessuna traccia sfora i dieci minuti di durata, con le sole The latent gene e Voyager II ad avvicinarcisi moderatamente; più della metà, anzi, si attesta attorno ai cinque) ed anche di una voluta compattezza delle composizioni, in luogo della dispersività dei brani lunghi e medio-lunghi dell'album precedente. Un obiettivo che la band britannica raggiunge attraverso due strade. Una passa per il rispolvero e, soprattutto, il rinnovo di diverse soluzioni messe in gioco nelle esperienze creative passate: la matrice metal più diretta, che si esprime nella spigliatezza heavy rock di Freaks, quella più ossianica di memoria sabbathiana, evidente in tracce come Lovelorn ed in svariati passaggi chitarristici, e persino il riffing più serrato ed aggressivo che riemerge nell'attacco di Life's too good; l'altra, diretta all'inserimento puntuale e graduato di elementi di sostanziale novità, che, per rimanere in tema rispetto all'argomento di fondo dell'album, costituiscono una modifica di precisione chirurgica al DNA del suono dei britannici, mai apparentemente stravolto, ma innervato, comunque, di notevoli mutamenti, ed in meglio: il ricorso quasi sistematico ai cori, come nel finale di Changes, e persino ad una sezione corale in Voyager II, oppure alle voci femminili, o ancora l'esplicito riferimento alle acrobazie del progressive d'annata nel cuore di Goodbye Mother Earth rappresentano una chiara volontà di innovare senza disperdere la matrice sonora ormai acquisita, e che non intende rinunciare alla componente melodica, atta a far presa sui timpani di tutti gli ascoltatori, avvezzi o meno avvezzi alle raffinatezze che essi siano. A tal proposito, si può ammettere che, nella non certo fortunata sequela di cambi dietro al microfono, la sorte abbia, una volta tanto, sorriso a Groom e soci nel permettere loro l'incontro con un cantante del calibro di Andrew McDermott: l'ex voce dei Sargant Fury ha, infatti, le doti ideali per inserirsi nel contesto musicale dei progsters britannici, ossia un'estensione sufficientemente fornita di ottave alte ma anche un timbro pieno e solido, capace di sostenere le partiture più pesanti e di ingentilirsi nei momenti più soffusi e melodici. Corre l'obbligo, inoltre, di riconoscere a Mac elasticità e spirito di adattamento, considerando la necessità di lavorare ad un album che non è stato concepito in base alle sue caratteristiche vocali (aporia, questa, che risulta in alcuni momenti meno riusciti dell'album, come la spenta linea vocale nel ritornello di Lovelorn), bensì a quelle del defezionario Damian Wilson, a riprova del jolly pescato, in questa occasione, dal gruppo britannico. Detto questo, non si possono evocare dee bendate o altre ipotetiche entità benevole, se non si hanno i talenti per scrivere grande musica, e la squadra di compositori in seno alla band, specialmente Karl Groom, Jon Jeary e Richard West, ne ha messi in mostra di ragguardevoli, evolvendosi senza snaturarsi: l'essenza della parola "progresso", dopotutto, non è forse questa?

1) Freaks
2) Angels
3) The Latent Gene
4) Lovelorn
5) Change
6) Life's Too Good
7) Goodbye Mother Earth
8) Voyager II
9) Sunrise on Mars
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