THE DURUTTI COLUMN

The Return Of The Durutti Column

1980 - Factory

A CURA DI
TIZIANO ALTIERI
30/12/2020
TEMPO DI LETTURA:
10

Introduzione Recensione

"Era solo il caso di cogliere l'opportunità di essere in studio. Non mi ero neanche alzato in tempo. All'epoca stavo ancora facendo i turni notturni alla stazione di servizio. Martin [Hannett, produttore del disco e collaboratore della Factory Records] ha dovuto farmi alzare fisicamente dal letto per portarmi a registrare. Quanto credevo poco a questo progetto!". Ecco. Avete appena letto le parole di uno dei chitarristi più portentosi della storia della musica, Vini Reilly, giovane ventiseienne originario di Manchester, cresciuto senza televisione, proibizione imposta dal padre, morto quando questi aveva solo sedici anni e che, a detta dello stesso, "non lo ammirava né lo conosceva abbastanza". Abilissimo giocatore di calcio, Vini rifiuta persino la proposta d'ingaggio del Manchester City F.C. per dedicarsi al mondo della musica. Da lì a breve, infatti, incide il suo primo singolo insieme a due colleghi d'eccezione: Steven Patrick Morissey, futura voce dei The Smiths, e William Henry Duffy, futura chitarra dei The Cult. Cos'era? La miglior superband della storia?! Nient'affatto. Solo un notevole gruppo punk di quartiere dalla vita breve, chiamato Ed Banger and The Nosebleeds. Ben lontano dai Chickenfoot di Sammy Hagar e Joe Satriani e dai Mad Season di Layne Staley e Mark Lanegan. Sciolta questa band di amici e parenti, Vini è il primo tra i suoi illustri compagni a combinare qualcosa di serio, per non dire grandioso. Ufficialmente è il primo musicista a firmare per la Factory Records. Incredibile no? Beh, forse non vi dice nulla questo nome, ma scommetto che appena vi farò qualche nome di più, comprenderete immediatamente l'importanza dell'avvenimento. Vi dice nulla un certo Ian Curtis? Ebbene sì, proprio lui, il tormentato ragazzo del Lancashire, che con i suoi Joy Division è appena il secondo a firmare per l'etichetta musicale di Tony Wilson, meglio noto come Mister Manchester, personaggio che con la sua etichetta contribuisce alla promozione culturale e musicale della Manchester di fine anni '70 e inizio '80. La vita di Vini Reilly, quella precedente a questo disco di debutto con la sua band, The Duratti Column, formata dal bassista Pete Crooks e dal batterista Toby Toman, è fondamentale per capire le basi sopra cui si è costruita la carriera del chitarrista che ha scritto il disco preferito di Brian Eno (Intitolato LC (1981), secondo disco in studio dei Durutti Column), nonché la carriera del miglior chitarrista al mondo secondo le parole di John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers. Fresco di firma per la Factory Records, Reilly si accinge ad incidere per loro il suo primo disco, salvo dimenticarsi di alzarsi per tempo dal letto. A questo punto, il produttore Martin Hannett, non solo sveglia Vini, in quella calda mattinata estiva del 1979,  ma lo costringe con forza a entrare in studio per le prime registrazioni. L'acuto produttore, una volta organizzato il lavoro, riesce a prendere il meglio dal musicista, ottenendo "suoni che nessun altro poteva capire quanto fossero adatti per me", come riferisce apertamente lo stesso Reilly, che prosegue "Capì precisamente quali fossero i suoni che volevo, che volevo suonare con la chitarra elettrica, ma non con quell'orribile suono distorto". Come accadde spesso per il già citato Brian Eno, l'influenza di un produttore sull'opera discografica su cui veglia è ben più importante di quanto non si pensi. Una volta trovato il suono del disco di debutto dei Durutti Column, manca un titolo: "The Return Of The Durutti Column", nome singolare se si pensa ad un esordio, ma la verità è che questo è il nome di un'opera già esistente: il manifesto del Situazionismo Internazionale, movimento filosofico e artistico di matrice marxista, avente le sue radici nelle avanguardie artistiche d'inizio novecento come il dadaismo, il surrealismo e il costruttivismo russo. Tutte realtà molto vicine all'ideologia di Vini, noto sostenitore del Comunismo di Sinistra (non a caso, il già citato LC richiama la contrazione che il movimento extraparlamentare della sinistra italiana utilizzava come sigla). Insomma, il nome c'è, il sound pure. Politica a parte, non resta che ascoltare l'intero operato.

Sketch For Summer

Si parte con Sketch For Summer, dall'atmosfera boschiva fatta di uccelli cinguettanti simulati dall'effettistica digitale. Presto sopraggiungono la batteria e la chitarra, con i loro accordi e colpi rarissimi che riempiono il pezzo di magnificenza. Vini Reilly si dimostra immediatamente un maestro dello strumento, specie dell'armonia e della sovraincisione. Infatti, per quanto si possa essere bravi con la sei corde, è indubbio che nella maggior parte dei casi in cui una band possegga soltanto tre membri, l'uso della sovraincisione è più che mai lecito. Nel caso dei Durutti Column, ciò occorre al gruppo per aggiungere alle già complesse partiture di chitarra dei brevi cenni di assolo. Ma non solo per questo, fin dai primi secondi della canzone notiamo che le partiture della chitarra sono due, intersecate insieme alla perfezione. Quando poi subentra quella parte che in un brano non-strumentale chiameremmo ritornello, le cose si complicano ancora. Si arriva a tre (o forse quattro) partiture intrecciate, cui va sommato il basso. Quest'ultimo può ingannare l'ascoltatore, portato a pensare che si regga tutto sulle esili spalle di Vini Reilly, che quindi suonerebbe le note basse simulando la tecnica dello Slapping. L'errore è piuttosto comune. Poiché l'amalgama strumentale è talmente ben studiata da risultare un corpo unico, difficile da slegare, soprattutto dopo un solo ascolto. The Return of the Durutti Column può essere tante cose: un disco da ascoltare di sottofondo mentre si fanno le faccende di casa, o anche un disco dove immergersi durante un lungo viaggio sui mezzi. È semplicemente il disco perfetto per rilassarsi. Qualunque siano i contesti in cui lo si ascolta, l'esordio dei paladini del Dream Pop va ascoltato con profondissima attenzione, a partire dalla primissima traccia. Tornando al brano, un'altra analisi che può essere esposta, è quella della somiglianza con la musica elettronica. Nonostante possa risultare un po' azzardata, questa similitudine prende le sue basi dall'iter compositivo di un qualsiasi brano, aspetto che esula dalla natura degli strumenti, siano essi analogici o digitali, per l'appunto. L'assenza della voce, infatti, porta l'ascoltatore a riconoscere immediatamente la ripetitività dei pattern strumentali utilizzati, stesso tipo di ripetitività rintracciabile in uno qualunque degli innumerevoli brani di musica elettronica esistenti, dai più commerciali ai più sperimentali. Nel caso dei Durutti Column, risulta estremamente intrigante che questa peculiarità sia incarnata dallo strumento analogico moderno per eccellenza: la chitarra.

Requiem For A Father

Ma non è solo per questa sua caratteristica di ponte concettuale tra analogico e digitale che rende questo disco degno di nota, soffermandoci ad esempio sulle qualità tecniche dei brani, basterebbe ascoltare anche distrattamente la seconda traccia, Requiem For A Father, per esclamare "quante diamine di dita ha Vini Reilly!?". Accompagnato da un martellante e disturbante click modificato della batteria, Vini si lascia infatti andare a dei vertiginosi fraseggi che inondano il brano con la loro perfetta complessità. Effetto delay usato magistralmente e armonici naturali avvolgenti, stravolgono il frame creato dal brano precedente. A un certo punto arriva un iperbolico assolo (degno delle migliori esibizioni del G3), che ci culla in tutta la sua delicatezza. La stessa delicatezza che esprime la parte successiva al solo e al pattern ripetitivo (impreziosito dalle splendide armonizzazioni con il basso). Questa terza parte -che se fosse eseguita dalla voce chiameremmo verso- semplicemente stupisce per la sua bellezza. La grandiosità della composizione di questa parte del brano è data anche dalla sovraincisione, stavolta usata per includere uno straordinario effetto eco che subentra come uno strumento a se stante, al quale è assegnata una vera e propria partitura. Questo particolare "ospite" è presente anche nella parte successiva, quella dove il brano raggiunge i suoi massimi picchi eterei, costituita da un semplice riff con note ripetute, il tutto avvolto da quello straordinario effetto eco. Ripetuto due volte il riff, la chitarra si abbandona a una solitaria nota lunga appena distorta, essa richiama un fraseggio vicino, per complessità, a quello d'inizio brano. Il fraseggio parte da lontano, emergendo con maggiore volume man mano che quella nota, leggera quanto distorta, si dissolve. Il tutto persistentemente seguito dal martellante bip, e stavolta anche da qualche nota slappata del basso. Finita questa sezione del brano, giunge l'attesa ripetizione. Ecco che dunque i due fraseggi si legano, confermando ulteriormente la loro natura similare. Dall'uno nasce l'altro: quello che abbiamo già ascoltato a inizio brano, con qualche minuscola variazione, e persino qualche minuscola imperfezione che comunque non disturba, anzi, piuttosto riporta una luce terrena sulle mani di Reilly, illuminate fino a ora da un fare divino che spesso deumanizza. Il musicista che utilizza una tecnica fine a se stessa, infatti, può talvolta annoiare per via di un certo distacco tra ascoltatore ed esecuzione. La troppa perfezione può forse apparire inumana, mentre il lavoro di Reilly appare genuino e "sentito".

Katharine

È con l'effetto eco che sostituisce il bip martellante e si lega al pattern ricorrente che ci accingiamo ad ascoltare il terzo brano di questo disco, Katharine, il pezzo più calmo e sommesso tra quelli ascoltati finora. Gli arpeggi che aprono il piano (sempre preceduti da sottili percussioni sintetiche) si fanno più avvolgenti che mai, tanto che sembra quasi di poterci sguazzare dentro. Gli incastri dei giri eseguiti dal basso sono ben più riconoscibili rispetto alle tracce precedenti, quell'illusione che stia facendo tutta la chitarra qui sparisce del tutto, generando la vera colonna della ritmica rock, per una collaborazione eccellente tra chitarra, basso e batteria. Il basso di Crooks passa dall'assecondare le linee splendidamente melodiche alla chitarra e invogliare la stessa a dare una smossa al brano. Infatti, a circa un terzo dalla sua durata, questo si apre in un sincopato dettato dal basso, cui sopraggiunge un assolo dal sapore gilmouriano. Con la differenza che Reilly non si risparmia nelle note come il frontman dei Pink Floyd, anzi, trattandosi dell'assolo più completo ascoltato fino ad ora, giungendo da lontano con un ostinato di una sola nota che sale man mano di volume e che poi si perde in fraseggi mai banali e talvolta volutamente sbilenchi. La peculiarità di suonare alla Knopfler -ovvero senza l'ausilio del plettro- permette a Vini di poter slappare sulla sua sei corde durante l'assolo, donando allo stesso un'incisività unica. Vi si può scorgere una costruzione dei soli molto simile al Dimebag Darrel più melodico (quello di Planet Caravan, per intenderci), con un utilizzo altrettanto simile dell'effettistica di supporto. Quando subentra nuovamente la chitarra ritmica, sempre di Reilly, ci accorgiamo di star sentendo un pezzo notevolmente diverso dagli altri. Anzitutto c'è una continua e galoppante evoluzione, nessuna base ripetibile a imitazione dell'elettronica che sopraggiunge in tempi più o meno brevi. La presenza di un già analizzato solo che "ruba" al pezzo l'intero secondo terzo della sua interezza. Tutte caratteristiche che portano Katharine su un piano estremamente classico, ma non per questo meno interessante. Di fatti abbiamo persino delle incursioni tipicamente Jazz nella scelta della parte ritmica seguente il solo. Strutture Jazz che sapientemente si perdono in quelle di stile più "etereo" a cui Reilly ci ha già abituato, e dopo appena tre brani. Torna l'uso della sovraincisione, stavolta meno presente rispetto a Requiem for a Father, ma altrettanto necessario. Esso permette infatti di creare dei notevoli e piacevolissimi incastri per i quali Vini sarebbe altrimenti costretto a servirsi di un chitarrista-spalla. Va detto infatti che il musicista ci tiene a esibirsi da solo anche dal vivo, sul palco, servendosi di loop station utilizzate a dovere, con tanto di parti di chitarra già registrate. Con l'infinito set di chitarre diversamente accordate presente sul palco, sempre a disposizione del virtuoso chitarrista. E in quanto tale, Vini sa che in realtà non c'è bisogno di chissà quante note per dimostrare la propria bravura. È così che il nostro decide di chiudere il brano, con un accordo lungo di cui si sentono distintamente tutte le componenti, compreso l'effetto eco di sottofondo. Un unico, singolo accordo che chiude con semplicità cotanta magnificenza.

Conduct

Eccoci giunti al pezzo più stupefacente dell'intero disco, Conduct, con la sua intro intarsiata da un delicato delay, ci trasporta in un mondo lontano dal nostro, una dimensione onirica in cui non conta più nulla se non le note. Non c'è spazio per null'altro nel mondo di Reilly, e attraverso questo capolavoro ce lo spiega appieno: stavolta non c'è un drum set preimpostato ad anticipare il tutto, Reilly ed il suo produttore vogliono farci una sorpresa e per più di due minuti utilizzano solo cordofoni in partitura. Un intreccio di basso e chitarra inaudito, di una delicatezza infinita che entra sotto pelle. Vini in questo risulta in assoluto il più classico dei chitarristi. Un'affermazione quanto meno singolare, vista la modernità del suo sound. Con classico si intende il senso più stretto del termine. Se usato in ambito musicale, infatti, esso si riferisce direttamente a quei compositori -di musica classica per l'appunto- che tanto hanno contribuito per storia della musica, spesso senza emettere neanche una parola nei loro componimenti, facendo parlare esclusivamente gli strumenti. Vini Reilly è perfettamente in grado di farlo, tanto da poter essere inteso come uno degli eredi di geni musicali come Beethoven, Bach, Mozart, Schubert, Mahler e via discorrendo. Tutti artisti che parlavano attraverso la musica, esattamente come il nostro Vini. Subentra la batteria, lo fa attraverso un rullo di Ride, attendendo poi il segnale della chitarra per calciare due bei colpi sul rullante e in seguito divertirsi un po' con i tom. Si tratta del caro Toby Toman, signore e signori, batterista incredibile, già membro dei Nosebleeds (insieme a Reilly), ma anche di Nico, Primal Scream e Blue Orchids. Chiaramente un musicista di prim'ordine con grande esperienza alle spalle. Il fenomenale riff che troviamo a metà canzone non sarebbe affatto lo stesso senza gli eclettici feel percussivi di Toby, talmente buoni in questo contesto da risultare superflui subito dopo, quando le sovraincisioni regalano il più bel incastro melodico dell'intero disco, dove Reilly trova anche spazio per un breve cenno solistico: essenziale -nel senso di ridotto all'essenza- ma comunque vertiginoso. Questa parte che precede l'outro è una vera e propria culla dove lasciarsi andare, accarezzati dalle note di Reilly e dalla sua maestria. Ma non è finita qui, Vini ci riporta ai primi secondi della canzone, chiudendo in maniera circolare quest'opera d'arte. L'outro è come l'intro, insomma, ma con un paio di note in meno, segno che a volte togliere è molto meglio di aggiungere.

Beginning

Siamo giunti a uno dei brani più corti del disco, più lungo di un solo secondo rispetto alla traccia seguente (appunto la più breve dell'intero album). Beginning termina in un tempo limitatissimo, canzone talmente corta da non avere neanche spazio per gli strumenti. Ci sono solo Vini e Pete a ricordarci ancora una volta che razza di armonizzatori umani siano. Fuori i click sottili di batteria. Fuori i bip martellanti dei drum set. Fuori anche le batterie, quelle vere. Beginning è sì un inizio, ma è un inizio un po' gramo: l'origine della solitudine. Certo, c'è Pete assieme a Vini, ma l'assenza di una seppur minuscola percussione (come nelle prime tre tracce) rende il campo curiosamente isolato. La compattezza che gli strumenti avevano fino a questo momento viene meno, e si scorge solo una ben scolpita malinconia di fondo sotto la trama degli arpeggi. Una malinconia corposa e tutt'altro che invisibile, che abilmente Reilly riesce a maschere, anche se le note non mentono. C'è una sorta di sofferenza in questo brano che finora non era stata espressa, sottile all'apparenza, ma percettibile a un ascolto attento. A prescindere dal setting, la scelta di suonare praticamente da solo -il basso si limita a replicare letteralmente due note- indica il desiderio di creare una struttura melodica del tipo "Bossanova al contrario". Spieghiamoci meglio. Se del noto genere musicale sudamericano Beginning condivide i ritmi, al contrario non ne condivide la spensieratezza, risultando un canto triste, molto lontano dalla leggerezza trasmessa dalla Bossanova pura e cruda. Beginning si accosta inoltre al parente occidentale più prossimo della Bossanova: il Cool Jazz, con il quale condivide l'assenza di asprezze armoniche.

Jazz

E se nella traccia precedente il Jazz appare solo come sostrato, in Jazz si palesa come presa di posizione. A partire dal titolo, chiaramente. Tutte quelle asprezze evitate nel brano precedente si fanno assai presenti in questa cortissima traccia, la più corta dell'intero disco, come già accennato. Ben più allegra della precedente, Jazz presenta nuovamente dei pattern di batteria, stavolta acustica, come quella ascoltata in Conduct, ma molto più trattenuta. È comunque abbastanza corposa da reggere insieme alle sempre poche ma perfette note del basso la parte centrale del pezzo, quella relativa all'assolo. Lasciato da parte il notevole ed eclettico riff percussivo dell'intro, Reilly staglia un originalissimo solo pregno di note all'interno di un paesaggio sonoro spoglio ma accogliente, caratterizzato come già detto dalla sola presenza di basso e batteria. Questi non osano battere un sol colpo di più, vigili in un'atmosfera chirurgicamente asettica tipica del Post-Punk (torneremo in seguito su questa terminologia musicale, a mio parere usata impropriamente per riferirsi ai Durutti Column). Tornando al buon Reilly, il suo slancio solistico dimostra ancora una volta l'originalità del suo musicare. In un disco caratterizzato dalle utilissime sovraincisioni, egli esegue un assolo senza registrare una chitarra ritmica di sottofondo, avvalendosi esclusivamente dell'aiuto dei propri compagni per creare una base sopra la quale suonare. Il tutto perfettamente incastonato nell'ottica dell'essenzialità che pervade sottilmente in tutto il disco. Davvero un tocco di classe.

Sketch for Winter

Rieccoci con il secondo "Sketch" del disco. Rispetto all'opening track, con la quale questa traccia condivide parte del proprio nome, Sketch for Winter rappresenta una sorta di reprise, termine usato in ambito musicale per intendere la reiterazione dell'idea musicale di apertura di un componimento, usato maggiormente nella sua forma italiana "ripresa" se si intende un componimento classico. Essendo però in questo caso la "versione invernale" di un incipit "estivo", il pezzo non può che essere differente rispetto al suo predecessore. Se quindi solitamente i brani reprise rappresentano una versione alternativa del brano cui fanno riferimento, in questo caso non c'è alcuna volontà da parte di Reilly di legare i due brani, anche solo concettualmente. Resta solamente un titolo molto simile, che troveremo anche nel disco successivo, con un brano intitolato Sketch for Dawn, ma totalmente diverso nella sua costruzione, messo in apertura come nel caso di Sketch for Summer. Tornando a Sketch for Winter, si tratta di una canzone che è figlia della piega che ha preso il disco da un certo punto in poi, precisamente dalla traccia che anticipa il lato B del vinile, Conduct, traccia fondamentale per capire il mood di questo grande e importante disco e l'intera poetica di una band come Durutti Column. Da Conduct in avanti il disco ha perso la sua connotazione pseudo-elettronica, varcando terreni molto più intimisti. La batteria -qualora presente- si è fatta acustica, abbandonando i suoi bip martellanti e i suoi click ossessivi. Gli arpeggi, pur sempre originalissimi, presentano uno stampo molto più classico. L'amalgama basso-chitarra è molto meno sottile, forse perché ora l'orecchio è più abituato a rintracciare l'uno piuttosto che l'altro. Sketch for Winter si colloca perfettamente in questo cambio di rotta: priva di colpi di batteria e sottilmente malinconica come Beginning, corposa e percussiva nei suoi arpeggi come certi passaggi di Conduct (con cui condivide anche l'uso del pedale per il delay). Uno dei gioielli più brillanti del disco, nonostante la breve durata.

Collette

Se si parla di percussività chitarristica non si può non citare Collette, altro preziosissimo gioiello del ritorno dei Durutti Column, un disco talmente gonfio di gioielli da sembrare più che altro una corona reale. La solitudine preannunciata con Beginning si compie in tutto il suo splendore. Gli arpeggi così perfettamente articolati inglobano il basso per creare un unico strumento dalla notevole estensione. Non sappiamo in effetti se la traccia sia eseguita a quattro mani, come spesso accaduto in quelle precedenti, ma la precisione con cui le note basse si incastrano con quelle più alte lascia supporre che ci siano solo un paio di mani dietro. Ecco che ritorna la difficoltà nella rintracciabilità presente all'inizio del disco. Anche questo una sorta di reprise del modo di fare presentato nel lato A dell'album. Ciò che è sicuro, è che mai finora all'interno del disco si era lasciato così tanto spazio alle note basse. Queste riempiono l'aria dell'atmosfera eterea che si respira all'interno della traccia, quasi soffocando gli accordi sottostanti che, stoici, irrompono nuovamente sulla scena, coadiuvati talvolta da degli azzeccatissimi slide. L'amalgama che ne fuoriesce possiede un fare pressoché orchestrale, considerata la densità del volume di spazio sonoro occupato, quella che si ottiene appunto combinando gli elementi di un'intera orchestra (in questo caso in miniatura). Si tratta di uno strumento solo a rendere tutto ciò possibile? O magari sono due, trattandosi semplicemente di basso e chitarra? Chi può dirlo! Nel dubbio, l'ultima parola, la lasciamo a voi lettori.

D

Siamo sciaguratamente giunti all'ultima traccia. Usiamo quest'aggettivo perché, sinceramente, nessun uomo sano di mente vorrebbe che questo disco finisca. Il suo produttore (il già citato Martin Hannett) questo lo sapeva bene, e infatti fa incidere un flexy-disc contenente altre due tracce: First Aspect of the Same Thing e Second Aspect of the Same Thing. Un flexy-disc è per l'appunto un disco, molto più sottile di un vinile, notevolmente fragile ed estremamente flessibile; persino pieghevole e arrotolabile, che veniva spesso allegato in omaggio all'interno delle riviste specializzate, mentre in questo caso viene venduto direttamente insieme alle prime mille copie pubblicate del disco. Da questa spiegazione apparentemente aneddotica, sorgono due altri importanti aggettivi: notevolmente fragile, estremamente flessibile. A cosa potranno riferirsi oltre che al flexy-disc? Ma al disco vero e proprio, naturalmente. All'intera "colonna" sonora di Return of Durutti Column. Un disco notevolmente fragile nella sua delicatezza e al contempo estremamente flessibile, sia a livello di struttura che di influenze. Persino nella scelta degli strumenti da utilizzare. Due caratteristiche che vengono ribadite in quest'ultima traccia ufficiale (lasciando quindi da parte le due presenti nel flexy-disc). Il brano D rappresenta un po' il seguito di Collette, almeno a livello di atmosfere. Stavolta è un po' più chiaro che gli strumenti siano due. Ad avvalorare tale ipotesi, ci sono i colpi in sequenza rapida di una sostenuta mononota eseguita in chiave di basso, impossibile da eseguire all'unisono su uno strumento solo. C'è anche un terzo insospettabile strumento: il riverbero. Come per l'effetto eco di Requiem for a Father, esso imprime al brano un'aura fortemente eterea. Un altro aggettivo, in questo caso utilizzato spesso all'interno di questa nostra analisi traccia per traccia di uno dei dischi cardine per il genere Dream Pop.

Conclusioni

Riallacciandoci all'affermazione appena fatta, chiariamo una volta per tutte la questione: "genere musicale dei Durutti Column". Come accennato durante l'analisi della traccia chiamata Jazz, ho parlato di Post-Punk, genere con cui spesso Reilly e compagni sono identificati. È giunto quindi il momento di mettere i due generi a confronto, facendo luce sulla vera natura musicale dei brani di quest'esordio mozzafiato, prima che la recensione si concluda definitivamente. Secondo quella che la mia personale opinione, The Return of the Durutti Column non ha nulla a che spartire con il genere nato sotto gli influssi dei Joy Division, dei This Heat e dei Pere Ubu. L'unica cosa che accomuna queste band al disco che abbiamo appena analizzato è certamente il periodo storico (e la casa di produzione, nel caso dei Joy Division). Per il resto, non c'è assolutamente nulla che leghi il sound di Reilly con quello di Curtis, David Thomas e via discorrendo con altri grandi nomi di quella rivoluzione sonora che va "oltre" il Punk. La rivoluzione di Vini è molto più personale e specifica. Con questo disco, infatti, siamo più dalle parti dei Cocteau Twins, dei Field Mice, dei Galaxie 500, dei Dif Juz e dei Jesus and Mary Chain, piuttosto che dalle parti di altre band coeve. Insomma ci collochiamo a livello sonoro in quel versante psichedelico che avrebbe generato lo Shoegaze sul finire degli anni '80 e gli inizio dei '90, con band come i My Bloody Valentine, gli Slowdive, i Lush, gli Ultra Vivid Scene e tantissimi altri. Insomma -e ci tengo a ribadirlo- lontano anni luce dalle radici Post-Punk, a meno che non si consideri tale genere come la matrice del Dream Pop e dello Shoegaze, cosa che in effetti è. Ma da qui a considerare i Durutti Column dei post-punkers ci passano quasi dieci anni di vivida realtà musicale. È infatti conclamato che durante il periodo d'uscita di questo disco (gennaio 1980) non ci sia ancora una terminologia adatta per il sound proposto da Reilly, di conseguenza la critica musicale va a scavare nell'humus discografico in cui è sorto, appunto quello della già citata Factory Records di Tony Wilson. Essendo la Factory un'etichetta discografica Post-Punk, i Durutti Column non possono essere nient'altro se non dei post-punkers! Le cose però sono molto meno semplici di così, e la questione sarà compresa -per l'appunto- soltanto una decina d'anni più tardi, quando sul panorama musicale cominceranno ad affacciarsi tutte quelle band che abbiamo poc'anzi citato. Tutta questa spiegazione dell'equivoco: "Durutti Column-Post Punk" è quanto mai d'obbligo se ci cerca di analizzare i loro componimenti. Spero di aver chiarito l'annosa questione una volta per tutte: i Durutti Column sono il Dream Pop prima del Dream Pop. Il Dream Pop ante litteram. Il Proto Dream Pop. Qualunque sia la definizione che preferiate, essa risponderà sempre alla domanda: "quanto erano importanti i Durutti Column?". Una domanda a cui voi lettori adesso potete rispondere: "Moltissimo!". Non c'è dunque molto altro da aggiungere. L'obiettivo di questo articolo era proprio questo: prendere a due mani il fenomeno Durutti Column, toglierlo dal circuito underground cui per troppo tempo è rimasto invischiato e gettarlo in pasto a qualche fortunato lettore, affinché Vini Reilly possa continuare ad accrescere la cerchia dei propri seguaci, per molto tempo ingiustamente troppo stretta. Pensate un po': un ragazzo di Manchester, promessa del calcio, che la mattina prima di andare a registrare il suo primo disco non riesce neppure a svegliarsi. Un ragazzo in realtà pieno di dedizione che molti anni più tardi -ormai quasi sessantenne- continuerà a incidere, anche quando un ictus minore gli porterà via parte della fantastica manualità acquisita negli anni. Un mesto avvenimento risalente a dieci anni fa che gli lese i nervi della mano sinistra. L'incubo di ogni chitarrista. Nonostante tutto, lui continua a suonare, forse ignaro dell'impulso rivoluzionario che ha generato. Quell'impulso di cui, noi amanti della musica, gli saremo eternamente grati. 

1) Sketch For Summer
2) Requiem For A Father
3) Katharine
4) Conduct
5) Beginning
6) Jazz
7) Sketch for Winter
8) Collette
9) D