THE DOORS

Other Voices

1971 - Elektra Records

A CURA DI
GIACOMO BIANCO
19/08/2016
TEMPO DI LETTURA:
7

Introduzione Recensione

Quando i Doors decisero d'imbarcarsi in un tour per promuovere il loro ultimo album (L.A. Woman, 1971), non sapevano di essere ormai prossimi ad un'epocale trasformazione. Il sentore era comunque nell'aria, e gli stessi membri della band potevano assaporare il vento del cambiamento. Ma andiamo con ordine. Negli ultimi tempi, Jim Morrison si era praticamente perso nella poesia, era un'entità sempre più estranea alla band e poco gli importava di mettere una data dietro l'altra per promuovere il nuovo materiale. All'inizio di dicembre - l'8, giorno del suo compleanno - l'ormai ventisettenne Morrison aveva appena registrato un altro poema, che sarebbe poi confluito da lì a meno di dieci anni nell'LP An American Prayer (1978), nono ed ultimo album della band di Los Angeles. Terminato questo suo side project (che ormai, in verità, era quello che più animava lo stesso Jim, molto più dei suoi Doors), Morrison riuscì ancora a tenere due date con la band. L'11 dicembre si trovarono infatti a Dallas, Texas, mentre il giorno seguente furono alla Warehouse di New Orleans, Louisiana. Fu questa l'ultima apparizione di Jim su un palcoscenico. E non fu certo una bella esperienza. Già nei tempi immediatamente precedenti Morrison aveva manifestato il suo scarso (e crescente) interesse per la band. Tuttavia, a seguito del ritiro di Rothchild - il loro storico produttore -, le cose erano sensibilmente migliorate, giacché un Jim "ritrovato" (non abusava più in maniera sostanziosa di sostanze che potessero alterarlo) pareva aver recuperato la voglia di lavorare in studio. Prima di questo fatto, occorre rammentare che se Rothchild - come ricordato già nelle precedenti recensioni - era un maniaco della perfezione, Jim era diventato abbastanza incompatibile con la vita da studio. Appuntamenti mancati, orari mai rispettati, droghe e alcol l'avevano reso un musicista poco affidabile, ma soprattutto una persona con cui era diventato difficile - se non impossibile - rapportarsi. Gli unici che erano ancora in grado di dire la loro nei suoi confronti erano gli altri membri della band, i quali s'erano adoperati in qualsiasi modo per convincere Morrison a portare almeno al termine i lavori che erano stati comunque iniziati. Se l'impegno fu indubbiamente profuso da entrambi le parti (nacquero in questo periodo sia Morrison Hotel che L.A. Woman), sullo stage le cose erano completamente diverse. Jim era come un'altra persona, pareva non averne proprio più voglia. La sera del 12 dicembre 1970, quella di New Orleans, Morrison era sì sul palco come gli altri suoi tre compagni, ma era molto più svogliato di loro. E svogliato era un eufemismo. Jim covava dentro di sé un sentimento difficile da spiegare: era come se fosse una tigre in gabbia, obbligato a fare cose delle quali, ormai, era chiaro non gliene importasse più niente, nella maniera più assoluta. Quella sera, prima di collassare sul palco (l'ennesima volta), Jim aveva scagliato più volte a terra il microfono, sino a quando il palcoscenico non si era danneggiato seriamente. Una volta terminata questa azione distruttiva - sintomo forse di un pesante disagio emozionale - Morrison si sedette all'improvviso a terra, rifiutandosi di terminare il concerto. John Densmore ricorda nella sua biografia della band (Riders on the Storm, 1991) che quella sera fu un vero inferno per i quattro musicisti, i quali - Morrison escluso - decisero comunque di portare a termine l'esibizione. Dopo un breve colloquio intercorso tra lo stesso Densmore, Robbie Krieger e Ray Manzarek, i Doors terminarono il loro set senza la voce solista di Morrison. Quella sera capirono che Jim era stato portato oltre ogni limite accettabile e che non era il caso di peggiorare la situazione. Morrison voleva ritirarsi e loro dovevano concederglielo. Altre scenate del genere non avrebbero portato nulla di buono, sia per l'integrità psicofisica del frontman, sia per l'economia della band. Risolta la "grana" Doors, Morrison decise che ormai era venuto il tempo di partire, d'andare a vivere lontano da quell'America che ormai lo guardava con occhi di diffidenza. L'estate precedente, Morrison e la sua fidanzata di lungo corso Pamela Courson avevano visitato Parigi e ne erano rimasti letteralmente ammaliati. Morrison decise allora che la città francese potesse essere il loro rifugio ideale, affascinato dall'idea di potersi dedicare alla sola scrittura in quella che è unanimemente considerata la città degli artisti. Il mito della bohémienne esercitava evidentemente ancora un certo qual fascino su artisti della seconda metà del Novecento come Morrison, il quale amava immaginarsi a Parigi come uno scrittore in esilio, un rifugiato della letteratura che aveva dovuto abbandonare la "città della notte" (per metonimia, gli Stati Uniti) in favore della "città della luce", Parigi. Tali definizioni sono tra virgolette perché arrivano direttamente dalle liriche di "L.A. Woman", quinta traccia dell'omonimo album. Nel redigerle era chiaro che Jim covasse già da tempo questo sentimento, questo desiderio di fuga o evasione che fosse. Il fatto che si paragonino in tal modo due città, connotandole oltretutto in maniera espressiva così forte, palesa il grande dissidio interiore che l'artista di Venice Beach stava portando avanti da ormai diverso tempo. Da una parte il buio "assodato" - perché lo conosceva, in quanto ci viveva dentro ogni giorno -, dall'altra la possibilità della luce senza fine, della speranza senza fine. Se fece bene o male a trasferirsi è difficile dirlo, e non sta nemmeno a noi metterci nella condizione di dover giudicare. Quel che è certo è che, trasferendosi, Morrison partì per un esilio dal quale non fece mai più ritorno. Il 3 giugno 1971 Morrison venne infatti trovato morto in una vasca da bagno dalla Courson, con la quale condivideva un appartamento a Parigi. Denunciato il fatto a chi di dovere, il medico che esaminò il cadavere di Morrison non trovò alcun segno di violenza e quindi, per legge, non venne istruita nessun pratica per l'autopsia. Il referto medico riporta come unica causa di decesso l'insufficienza cardiaca, ma sulle vere (o presunte che siano) cause di morte libri e giornali stanno ancora oggi cercando di fare luce. Stando così le cose, quattro giorni dopo il decesso, il feretro di Morrison venne tumulato nel cimitero del Père-Lachaise di Parigi, il più grande (e celebre) camposanto cittadino. Come luogo del suo riposo venne scelto non a caso l'angolo dei poeti e, da quel momento, la sua lapide divenne meta di veri e propri pellegrinaggi di fan da tutto il mondo. Nel corso degli anni il sito è andato incontro ad un inevitabile degrado e, al posto dell'originale scritta funeraria incisa nel marmo (che pareva recasse le parole "poeta, musicista, compositore"), la famiglia Morrison - rappresentata dalla sorella Anne e dal padre George - decise anni dopo di rivolgersi ad un vecchio insegnante di greco affinché trovasse una massima che incarnasse quello che Jim era stato in vita. Fu così che venne scelto l'epitaffio Kata Ton Daimona Eaytoy. Di per sé la frase è aperta a più interpretazioni, ma alla fine dei conti quella che è più comunemente accettata è "fedele al suo spirito". L'aforisma pareva calzare alla perfezione e così venne scelto per rendere omaggio a Jim, come conferma a tal proposito il libro di Stephen David Jim Morrison: Life, Death, Legend (2005). Come reagì il resto della band? I Doors avevano perso un amico, certo, ma avevano anche perso il frontman della band, colui il quale, nel bene o nel male, aveva fatto sempre discutere dei quattro musicisti di Los Angeles. Cosa fare a questo punto? I restanti tre membri della band decisero di continuare comunque con il loro progetto, dato che avevano pure del materiale nuovo su cui lavorare. In un primo momento si mossero per delle audizioni mediante le quali si sarebbe dovuto trovare a tutti i costi il "nuovo Morrison". Questa si rivelò però un'azione impossibile e così Manzarek e Krieger decisero di spartirsi gli oneri della voce solista sulle tracce del nuovo album che stava per uscire. Nel mentre che Jim Morrison passava i suoi ultimi giorni su questa terra, i restanti tre quarti dei Doors erano già entrati in studio con l'ormai collaudato produttore Bruce Botnick per incidere e pubblicare un nuovo lavoro targato, ancora una volta, Elektra Records. Dopo circa quattro mesi dalla morte del loro ex frontman, i Doors ritornarono su un palcoscenico (era il 12 novembre '71, al Pershing Municipal Auditorium di Lincoln, Nebraska), circondati da vari altri musicisti turnisti ma senza un cantante solista. Come sul disco - intitolato peraltro "Other Voices" ed uscito il 18 ottobre -, anche dal vivo le "altre voci" erano quelle di Krieger e Manzarek, i due musicisti che avevano pensato di risolvere la questione del cantante con una soluzione "interna". In effetti i Doors erano quattro: Jim, Ray, Robbie e John. Mancato il primo, era compito degli altri tre portare avanti in maniera perlomeno dignitosa il moniker di una band divenuta ormai leggendaria. Le esibizioni furono comunque poche e a quella di Lincoln ne seguirono solamente altre due, al Carnegie Hall di New York ed al Hollywood Palladium di Los Angeles, il 23 e 26 novembre. Con l'inverno i Doors si ritirarono nuovamente in studio per quello che sarebbe stato il secondo album senza Morrison, ma questa è tutta un'altra storia. Per ora limitiamoci a sapere che Other Voices, il primo album senza Jim, fu un disco che andò incontro a pareri di critica assai scontranti. A cominciare dall'artwork - che sbatte in primissimo piano la mancanza dell'istrionico cantante - l'assenza di Morrison, come avremo modo di sperimentare, si fece sentire su numerosi altri piani. La copertina, in tonalità chiare, sfrutta il bianco-nero dei volti dei tre Doors per creare una sequenza imperfetta. Tra Densmore, quello più a sinistra, e Krieger rimane infatti troppo spazio bianco vuoto, quasi a suggerire che, in altre occasioni, quello spazio sarebbe stato occupato da qualcun altro. Inoltre, nemmeno la presenza di ben altri sette studio musicians riuscì nell'intento di supplire del tutto all'assenza di Morrison. Ma piuttosto di giudicare a priori l'opera, con la possibilità di tirare anzitempo conclusioni piuttosto fuorvianti, proviamo ora ad accostarci più da vicino alle dinamiche ed ai suoni di quest'album in qualche modo senz'altro intrigante.

In The Eye Of The Sun

Tocca a "In the Eye of the Sun(Nell'occhio del sole) aprire le danze di questo album "monco" dei Doors. Dei suoni sinistri, quasi spaziali ed al rovescio, introducono l'ascoltatore verso una dimensione che man mano si standardizza sempre più, fin almeno da quando entra la band al completo. L'incedere del beat è quello tipico della band, ma ciò che più stona, per così dire, è la voce di Manzarek, dal momento che, dimenticandoci per un attimo della dipartita di Morrison, ci pareva comunque ovvio che prima o poi il buon Jim sarebbe entrato con il suo inconfondibile timbro. Il basso del session musician Jack Conrad viaggia di pari passo con la chitarra di Krieger, mentre a Manzarek, oltre alle vocals, tocca redigere i parametri melodici del brano. La tastiera sfugge quasi sorniona tra una battuta e l'altra, con Densmore che promuove da dietro le pelli l'andazzo disteso della canzone. Un attimo prima del chorus la canzone pare acquisire un po' di brio, con lo stesso Manzarek-cantante che pigia sull'acceleratore quasi come il suo insigne predecessore. Ray pare comunque voler imitare Morrison, e sembra facile intuire che "In the Eye of the Sun" potesse essere una canzone adatta alla timbrica di Jim. Il testo parla verosimilmente di una specie di Eden, in cui due esseri umani - un uomo ed una donna - si amano follemente. È ovviamente un posto fantastico, magico (non esiste "nessun tempo"), ideale per coltivare il sentimento amoroso e nulla più. "Oziando e scherzando" i due passano la prima strofa quasi stuzzicandosi vicendevolmente. La situazione cambia poi con le due successive stanze, quando ad un contesto angelico subentrano progressivamente situazioni angoscianti. Dalla pace totale che regnava all'inizio, nella seconda strofa l'uomo si dice stanco ed in cerca di "un'occasione per riposare". Poiché "sempre attivo" e con nessun "tempo da sprecare", l'uomo ritorna a casa dopo un imprecisato lasso di tempo passato a lavorare duramente ad un "mulino". Nella terza strofa, infine, subentrano ulteriori elementi che lasciano pensare a tutt'altro che un Eden. L'uomo ha perso la cognizione del tempo ("Ok, ho girovagato lì attorno, non so quanti anni"), ma ben si ricorda di quando non aveva né "problemi" né "paure". Ora tutto pare solamente una lontana reminiscenza, un alone che sbiadisce pian piano nella mente del protagonista. In lui si risvegliano strani bisogni ("Voglio carne e sangue, pelle ed ossa") e tutto pare capovolgersi, perdere ogni senso compiuto ("Io ero lo spazio ed il tempo sottosopra/vivo e morto"). Poi, alla fine, l'uomo fa un'allusione sugli esseri umani ed sul mondo stesso ("Sapevo che ci sarebbero stati problemi, ma dovevo riprendermi/Così pensai al mondo e pure agli umani"): queste righe sembrano quasi farci pensare che il protagonista possa essere una sorta di dio, se non Dio stesso, il quale, come se annoiato dall'assoluta perfezione del creato, volesse dare un "tocco d'allegria" a quella immutabile armonia. Come? Creando appunto l'essere umano, la "creazione" divina più paradossale (tanto incredibile da una parte, quanto difettosa dall'altra). Riprendendo la parte musicale, i tre Doors continuano a mantenere un tiro assolutamente costante, che non prevede grandi scossoni o cambiamenti di sorta. A 1:56 Krieger si produce in un assolo che effettivamente non sconvolge i parametri che i tre hanno dettato per questa canzone. Il buon groove di basso di Conrad collega l'assolo ad un altro, dove però Robbie sfrutta l'effetto del wah-wah in maniera copiosa. I toni distesi ricordano in una certa qual maniera lavori come "Riders on the Storm" ed in mente ritorna la definizione di Rothchild - a dire il vero non molto lusinghiera - di "musica da bar". Terminata la sezione solistica, Manzarek attacca con l'ultima strofa, andando a chiudere un'opener decisamente anomala, specie se paragonata a brani come "Break on Through (To the Other Side)" oppure "Hello, I Love You", decisamente più arditi e sfacciati. Ad ogni modo, pare naturale che i toni siano cambiati dopo l'abbandono di Morrison e quindi non resta che continuare con l'ascolto di un album che, comunque, non ha esordito in maniera malvagia con questa "In the Eye of the Sun".

Variery Is The Spice Of Life

"Variety Is the Spice of Life" (Cambiare è il bello della vita) è un titolo particolare, che fa sorridere se pensato in correlazione al testo del brano. Qui il protagonista è un pover'uomo alle prese con problemi legali. Un giudice l'ha infatti condannato, pare, per aver tradito in qualche maniera la propria moglie. Alle domande furenti di quest'ultima ("Lei chiede: perché l'hai fatto? Perché screanzato?"), il protagonista, con fine ilarità, risponde che, anche in amore, il bello sta proprio nel cambiare partner ("Non posso resistere a provare qualcosa di nuovo"). Condannato in "primo grado", l'uomo si auto-candida per essere in qualche modo d'aiuto nel risolvere la brutta situazione, ma subito ci ricade. Chiede infatti di potersi occupare di "tutte quelle belle ragazze, con niente da fare", come a dire che ci penserebbe lui ad occupare il loro tempo vuoto e piatto. Dal lato musicale, la rullata di Densmore anticipa un contesto decisamente più allegro della precedente canzone, forse anche per via del tack piano di Manzarek, strumento utilizzato sempre con grandi esiti. La voce è questa volta di Robbie Krieger, che pare per certi versi più matura - artisticamente parlando - di quella del suo compagno. Laddove Manzarek pare voler emulare le gesta di Morrison, Krieger sembra essere più autonomo dal punto di vista dell'identità artistica dal momento che la sua voce pare non voler far rivivere quelle sferzate tipiche del cantato morrisoniano (Manzarek aveva invece tentato di riprodurle). Nel raccontare la vicenda, Krieger pare essere quasi una voce fuori campo e, complici alcune sonorità ed alcuni stacchi, pare quasi d'assistere ad una sorta di simpatica rappresentazione teatrale della storiella. A 1:33 un ipnotico assolo di Krieger sembra farci perdere il lume della ragione, bissato presto dai flautati suoni delle tastiere di Manzarek. La sezione strumentale dura poco e così Krieger riprende a cantare nel mentre che la canzone s'appresta ad entrare nel sua parte finale. Ancora una volta degno di menzione è il lavoro di Conrad al basso, il cui suono granitico ben s'adatta a costruire pattern ritmici solidi su cui poggiare poi le armonie di chitarra e tastiera.

Ships W/Sails

Il terzo brano in scaletta è "Ships W/Sails" (Navi con vele), la traccia più lunga del disco coi suoi sette minuti e mezzo di durata. Il riff che la introduce pare incompleto e proprio per questo suo tratto risulta trainante. Le percussioni dell'ospite Francisco Aguabella impreziosiscono la composizione, dotandola di un appeal spiccatamente sudamericano o caraibico, comunque esotico. Anche la chitarra pulita di Krieger è quasi simile, per timbro e tonalità, a quelle lap steel tipiche delle musiche hawaiane. Nel momento che entra la voce di Manzarek, il battere si fa leggermente sincopato, invogliando una volta di più a muoversi. Densmore varia di tanto in tanto aumentando i tocchi sul rullante; allo stesso modo il buon Ray ci dà dentro con l'organo, che con la sua melodia "rotante" ammalia l'ascoltatore. Dal punto di vista lirico, l'impianto testuale è piuttosto esiguo, specie se rapportato alla durata della canzone, e così, all'alba del secondo minuto, notiamo che è già stato esaurito da Manzarek. Il testo è costituito da una sorta di dialogo tra il protagonista ed una presunta controparte femminile. L'uomo di turno viene interrogato dalla donna con domande inerenti sul suo futuro, anche se effettivamente la figura femminile è solo supposta. È infatti l'uomo a porci indirettamente tutte le domande della donna ("Beh, mi hai chiesto quanto ti amo"), rispondendo in maniera allusiva ad ognuna di questa ("Perché le navi con vele amano il vento?"). Scorrendo i versi viene da pensare che l'uomo stia per partire lontano, proprio con una nave. Nonostante sia destinato ad un lungo percorso intorno al mondo, non passerà momento che non penserà a lei ("E starò pensando a te"). L'intento è certamente quello di far ritorno dall'amata ("Tornerò un giorno/Ma fino ad allora non chiedermi la mia direzione"), anche se prima dell'agognato momento l'uomo dovrà percorrere inevitabilmente la sua strada. Mille difficoltà si frapporranno tra l'inizio e la fine del viaggio, ma ognuna di esse servirà a fortificarlo sin nel profondo. D'altro canto il mare è la sua vita, la sua vera ossessione: il mare è dunque croce e delizia ("Perché vagare è la mia dannazione"). Immersa com'è nell'immaginario marinaresco, la canzone allude così ai "quattro venti" che ricondurranno finalmente assieme i due amanti. Dopo il guitar work che comincia a 1:53, Manzarek infonde ancor più magia con le note scintillanti del suo piano elettrico. A questo punto ci pare di esser cullati in un'altra dimensione, resa via via più surreale ad ogni battuta della band. Ray salta da una tastiera all'altra, dal piano all'organo, esibendosi in una sessione strumentale d'alta caratura. Il nuovo bassista Ray Neapolitan è accompagnato dall'altro quattro-corde (acustico) di Willie Ruff, rinomato musicista jazz che ha collaborato con artisti come Dizzy Gillespie. Densmore gioca tra ride e charleston, con quest'ultimo usato piuttosto di rado ma con grande efficacia. L'intricato lavoro di tastiera aumenta progressivamente d'intensità, producendo un climax ascendente di grande incisività. Poi, all'improvviso, poco dopo il quarto minuto, rimangono le sole conga di Aguabella, anche se solo per qualche istante. Sotto i colpi di Densmore riprendono subito gli altri due Doors, con lo stesso Manzarek a ripetere daccapo l'intero testo. La canzone sarebbe potuta anche terminare qui, ma la band ha previsto alcune variazioni per la sua coda, come l'assolo di chitarra a 5:31. Krieger si ritaglia finalmente uno spazio decisivo e dal motivetto iniziale della sua sezione solistica può iniziare una bellissima divagazione, la quale fa spesso uso di un overdub della sei-corde. Sul finale della canzone, Densmore si applica per un tocco leggermente più concitato, sintomo che il brano si sta ormai avviando alla conclusione. E questa puntualmente arriva, non prima però d'aver concesso alla canzone d'attraversare una grandiosa outro, melodica e sognante come non mai. 

Tightrope Ride

Se la traccia precedente era piena d'influenze afro-cubane, tutt'altra musica viene proposta con "Tightrope Ride" (Viaggio sul filo del rasoio), il primo singolo estratto dall'album. La chitarra, sporcata da una metallica saturazione, esordisce sin dall'inizio, gettando brio all'interno di un album fin qui abbastanza disteso. Anche il drumming è andante e ben s'addice alle liriche del brano. Con Manzarek ancora una volta dietro al microfono, il nuovo singer si trova a recitare un testo in cui molti hanno rivisto la vita di Jim Morrison. Sin dalle prime battute ("Sei in viaggio sul filo del rasoio/Nessuno dalla tua parte/Bene, sei da solo/Devi trovarti una nuova casa") viene infatti descritta la vita borderline del protagonista, che effettivamente potrebbe essere il ribelle Jim. La vita dell'uomo è costantemente portata al limite dagli eventi; la sua condotta lo fa marciare a cento all'ora in ogni istante. In questa situazione è facile sbagliare ("Fai attenzione a non cadere/Attenzione a non scivolare"), per cui occorre sempre mostrare massima attenzione ("Sarebbe meglio che trovassi un equilibrio"). Manzarek dice poi d'esser sicuro che ora il protagonista è libero di volare: che sia un'allusione al fatto che ora, con Jim morto, il suo spirito possa essere finalmente libero ("Ma se tu puoi sentirlo, tu puoi volare la prossima volta/Puoi volare la prossima volta/O anche già adesso, forse")? Una stanza è poi particolarmente rivelativa. All'interno di questa sezione il narratore-Manzarek ricorda momenti in cui erano gli altri a ricordare a Jim - sempre se di lui si tratta - qual era il suo nome, la sua identità, talmente era strafatto di sostanze alteranti ("Pensavi che eravamo tutti assieme?/Pensavi che eravamo tutti la stessa cosa?/Pensavi che potevamo aiutarti a ricordare il tuo nome/Ricordare il dolore/Qual è il nome del gioco?"). E così, "dal fango al sole", la vita del protagonista è sempre una corsa contro il tempo, una vita al massimo, una vita "sul filo del rasoio". Sotto l'aspetto strutturale, il brano si costruisce seguendo canoni abbastanza regolari, così come la musica si fa meno elaborata e decisamente più immediata (ricordo che si tratta di un singolo, quindi, come primo punto, doveva risultare certamente accattivante). La verve ritmica impressa da tutti gli strumenti è di fatto contagiante, e anche questo brano, seppur in maniera diversa dal suo predecessore, invita sicuramente a ballare. La dimensione della locanda, del pub pieno di fumo, ritorna prepotentemente e ci lascia immaginare la band intenta ad eseguire tale canzone all'interno di una bettola poco illuminata. Il riffing è piuttosto ripetitivo, con la chitarra ad eseguire una manciata d'accordi mentre l'organo ha invece il compito d'arrangiare le melodie. Conrad, ancora una volta bassista di turno, è leggermente più sottotono rispetto all'arditezza dei lavori precedenti, ma comunque porta a termine un lavoro decisamente più che onesto. Manzarek pare averci preso gusto col microfono: dalla prima traccia in cui pareva voler emulare Jim, è migliorato di brano in brano, quasi come se la lezione del Krieger-cantante gli avesse giovato in maniera vitale per quanto riguarda l'identità vocale. La canzone è piantata su pochi giri e, tranne nella parte centrale, non ci sono molte variazioni o assoli di sorta. Paradossalmente, "Tightrope Ride", pur essendo un singolo, non pare esser sul piano delle tracce precedenti, mancando indubbiamente di qualcosa. Quel qualcosa potrebbe essere un giro, un assolo azzeccato, quel quid indefinito che fa scoccare la scintilla tra il brano e l'ascoltatore. Non è certamente male, ma la canzone risulta alla lunga povera ed in effetti nemmeno la scalata della classifica nazionale si dimostrò lusinghiera per la band. Questa volta il singolo dei Doors non riuscì infatti a far meglio della 71esima posizione della Billboard Hot 100, decretando di fatto una mezza disfatta per la band, soprattutto in termini di vendite. Girando lato del vinile, la musica cambia nuovamente e con sé porta due novità: il ritorno di Krieger alla voce e l'entrata in scena del terzo bassista, Jerry Scheff. Se Neapolitan aveva prestato il suo apporto per gran parte di Morrison Hotel, Scheff aveva contribuito a riempire col basso ogni traccia di L.A. Woman, risultando un ottimo bassista (non a caso aveva fatto parte della band di Elvis Presley). 

Down On The Farm

 "Down on the Farm" (Giù alla fattoria), con i suoi suoni marcati da effetti di delay e riverbero, comincia a ricreare uno scenario suggestivo ed a tratti onirico. La dolce voce di Krieger subentra senza sconvolgere l'atmosfera incantata, acuita oltretutto dal dolce arpeggio di chitarra pulita. Densmore ramazza sui tamburi senza alcuna foga, con fare quasi jazzistico. Il contesto si prepara ad aprire la strada ad un testo quasi profetico. Come suggerisce il medesimo titolo, la band - sulle orme di Jim - propone uno stridente paragone tra la vita in città e quella in campagna. Se la prima è "davvero una cattiva abitudine", quella bucolica assume ognuno dei connotati tanto cari a chi aveva fatto proprio il mito dell'evasione. La campagna è l'alter ego della città: da un lato il caos spersonalizzante ed alienante, dall'altro il caos "perfetto" della natura. Pur parlando sempre di caos, da una parte esso è un elemento distruttivo, alla lunga logorante (come logorato è l'"arcobaleno lacerato" che i personaggi del brano devono percorrere per arrivare "giù alla fattoria"); dall'altra, invece, è elemento ristoratore dell'animo. A parte i rimandi a cui tale vicenda può riportare (tra i tanti, mi viene in mente il Gauguin pittore in fuga dalla metropoli parigina in favore delle ben più quiete isole della Polinesia francese), la canzone vuol essere un messaggio di pace, oltre che un suggerimento d'accogliere. Indubbiamente in tono col messaggio morrisoniano, tutto il testo - quasi "biblico" nella sua solennità ed austerità - si configura come il disperato tentativo della band di riportare in auge tratti di quella controcultura di fine anni Sessanta che andava leggermente sbiadendo nelle loro canzoni. Appurato che l'annuncio è assai importante per il bene di tutti, concentriamoci ora sul lato musicale. Le dolci melodie di cui prima restano assolutamente invariate, con la voce che aggiunge un certo flavour moderatamente country, adatto ad un contesto così agreste. Ad aumentare la sensazione di questo ambiente primigenio, incontaminato da ogni male, s'aggiunge lo scacciapensieri, da sempre associato alla dimensione contadina, l'armonica a bocca dello stesso Krieger, il gujro (strumento che produce un suono simile ad una grattugia) e la marimba del guest Emil Richards. La buona sezione strumentale è davvero allegra e spensierata e traduce benissimo in musica il messaggio della canzone. Poi, all'improvviso, a metà brano i toni s'acquietano nuovamente e si riparte con la stessa dolcezza originale, e così sino alla fine. 

I'm Horny, I'm Stoned

L'accordo martellante di Manzarek viene prontamente accompagnato dalla melodia sul tack piano, che solitamente ritorna quando l'atmosfera si fa incandescente, come incandescente è il titolo del seguente brano: "I'm Horny, I'm Stoned" (Sono arrapato, sono strafatto). La batteria s'inserisce sul ritmo incalzante di Manzarek, mentre la chitarra comincia a tratteggiare linee musicali leggermente dissonanti e sgraziate. Ritorna la musica da pub, ritornano le vicende di vita vissuta. Anche se non propriamente blues nella musica, "I'm Horny, I'm Stoned" lo è certamente nel testo. Il protagonista - cui Krieger presta la voce - ne ha viste di cotte di crude. Le liriche sono infatti una specie di resoconto di quali avventure ha fatto ("Ok, sono stato fottuto, spazzato via, Mi son bruciato/Non sai che la vita non è così facile quando sei da solo"). Ovviamente l'umore non può essere dei migliori ("Ok, sono stanco, sono nervoso, sono annoiato, sono strafatto", "Sono solo, sono brutto, sono arrapato, sono freddo"). Nonostante tutto non occorre disperarsi perché pure il dottore ha detto che non si tratta di un "caso senza speranza". Ed allora via ancora con la stessa vita di prima, "lasciando casa" verso l'avventura. La voce di Krieger ha un qualcosa di beatlesiana memoria, e anche l'impianto musicale ricorda in una certa maniera quello dei Fab Four (tastiere a parte, ovviamente). Se dunque il tiro del brano è sostenuto e decisamente allegro, anche i tre musicisti paiono divertirsi a suonarlo. Nonostante tutto la canzone è piuttosto corta e così, prima dei quattro minuti si conclude già, passando per una coda dove viene lasciato spazio ad ulteriori soluzioni.

Wandering Musician

Un tintinnante piano scandisce le prime battute di "Wandering Musician" (Musicista errante). Manzarek accoppia un altro pianoforte a quello iniziale, andando a ricamare una lunga intro davvero apprezzabile per melodia ed intensità. Per i primi due minuti la canzone è di fatto un monologo di Manzarek: suona e canta praticamente da solo, accompagnato solamente dalla leggera batteria di Densmore. La chitarra di Krieger ed il basso di Scheff son solo di contorno, mentre Ray è libero di recitare la sua parte lirica - con grande intensità, occorre dire - che parla questa volta di un tizio che gira per il mondo, da solo, in cerca di avventure. Così come il protagonista della terza traccia, anche questo è "obbligato" a girovagare qua e là, perché è il suo animo che glielo chiede. Ed allora è inutile che gli venga chiesto di fare qualcos'altro, di fermarsi e smetterla con quella vita ("Per favore non dirmi cosa fare/Perché anche se lo volessi/non potrei buttar via la mia vita"). Anche se non è ricco, anche se non ha un tetto sotto cui dormire, a lui va bene così, ed anzi rincara la dose ("Te lo sto dicendo, non c'è nulla che tu possa fare per cambiare la mia strada"). Ancora da ricordare, infine, la bella metafora che il protagonista fa della sua stessa vita: tutta la sua esistenza "è soltanto una canzone di un musicista errante", versetto che dona un inconfondibile tocco romantico ad un titolo di per sé già evocativo e vagamente decadente. Verso il terzo minuto, quando Krieger comincia a metterci un po' di carattere in più con la sua chitarra, le cose paiono cambiare leggermente, ma in seguito i toni si riappacificano nuovamente, in favore del solito elegante piano di Manzarek. È questa però anche l'occasione per Krieger di cimentarsi in un assolo con la chitarra acustica, soluzione unica all'interno del platter. In concomitanza con la seconda parte della canzone subentrano diverse percussioni, cui s'affianca anche un tamburello. Sul finire c'è ancora tempo per la ripresa dell'ultima stanza del testo, ma la variazione dura davvero poco dato che sono ormai passati i sei minuti abbondanti della durata del brano.

Hang On To Your Life

Passata la quiete del precedente brano, siamo oramai giunti all'ultima posizione della tracklist di questo Other Voices, "Hang On to Your Life" (Tieniti stretta la tua vita). I tamburi simili a timbales di Densmore e le conga di Francisco Aguabella ritornano in auge, ed immancabilmente ritorna anche quella sensazione latinoamericana che già ci aveva contagiato con "Ships w/ Sails". Il basso del nuovo musicista Wolfgang Melz, seppur ovattato, orna la canzone con melodie glissate che sfumano tra i voli dell'organetto e della chitarra. Manzarek e Krieger paiono farsi il verso a turno, in una sorta di botta-e-risposta che ben presto s'uniforma al fine di creare un unico, potente riffing. La voce è nuovamente quella di Manzarek, mentre il testo è in linea con le composizioni più ermetiche del periodo morrisoniano. I riferimenti a misteriosi "uccelli" passano in secondo piano quando la voce recita "non essere spaventato di toccare la luce/non scappare dall'amore in questa notte senza stelle", tra i versetti più enigmatici dell'album. Nel ritornello, dove è ripreso il titolo, si palesa l'augurio di tenersi stretta la propria vita, in quanto dono estremamente prezioso, oltre che unico. Dal lato testuale, riguardandosi un po' nella vita quotidiana, si capisce che le cose possono cambiare in meglio, forse per sempre ("Tieniti stretta la tua vita, sta cominciando adesso/Aspetta il paradiso, stiamo arrivando ora"). Dopo il primo chorus, a 1:56 la canzone sterza sensibilmente, mutando d'aspetto e dimenticandosi quasi della matrice rock della band. Le suggestioni caraibiche aumentano sempre più, e anche la "traballante" voce di Manzarek sembra voler imitare la calda brezza di quelle terre lontane, verso cui ora si può spiccare finalmente il volo ("Apri le tue ali ed assaggia il cielo"). Il lavoro di basso di Melz è eccellente, in quanto l'artista si applica in un groove non convenzionale e decisamente raffinato. La canzone sembra così terminare a 3:55, ma una rullata assolutamente insolita ci trasporta nella parte conclusiva della canzone, decisamente antitetica rispetto alla prima sezione. La musica è completamente cambiata, una ventata di pazzia psichedelica sembra esser ritornata per contagiare anche questo Other Voices. I musicisti alzano il ritmo, le distorsioni si fanno abrasive, gli effetti sonori sempre più persistenti ed ubriacanti, quasi come se fossimo stati prima ammaliati, poi drogati a nostra insaputa. Non c'è spazio per alcuna voce, ora è soltanto delirio musicale: il pathos aumenta nota dopo nota. Melz corre in su e già su scale abbastanza veloci; Manzarek e Krieger impazziscono sui loro strumenti e ricreano melodie malate; Densmore e Aguabella battono quasi "automaticamente", senza ragionare ma anzi permettendo all'impeto di guidarli. Negli ultimissimi istanti ricompaiono poi dei cori che ripetono il titolo, ma ormai la musica è solo un baccano elettrizzante, che alla fine si placa con una lunga scia rumorosa che chiude in maniera spiazzante un disco fino a questo momento abbastanza prevedibile.

Conclusioni

Prima di tirare le somme, occorre innanzitutto fare qualche considerazione in merito ai due nuovi cantanti. Dicevamo all'inizio di come Krieger possedesse un'identità canora più marcata rispetto a quella di Manzarek. Brano dopo brano abbiamo però notato che questo discorso non era propriamente valido, in quanto, come se fosse un ideale percorso formativo, il buon Ray migliorava di canzone in canzone. Occorre comunque ricordare che sia Krieger che Densmore avevano già ricoperto il ruolo di coristi nella band, come in occasione del disco Waiting for the Sun. Krieger, oltretutto, aveva cantato anche il chorus di "Runnin' Wild" sulla Soft Parade, e dunque possiamo sicuramente dire che avesse una certa qual padronanza col microfono. A ben vedere, c'è da dire che nemmeno Ray Manzarek s'improvvisa cantante in quattro e quattr'otto, anche se le sue prime esperienze canore non risalgono a molto tempo prima (il debutto al microfono era avvenuto in concomitanza del disco precedente, L.A. Woman, dove Ray aveva cantato "(You Need Meat) Don't Go No Further", cover di Willie Dixon inserita come b-side del singolo "Love Her Madly" e come bonus track dell'edizione del quarantesimo anniversario dell'LP). Anche se con meno esperienza alle spalle rispetto a Krieger, Manzarek è riuscito comunque a tener in piedi il ruolo di cantante all'interno di un intero album, seppur con l'aiuto del più esperto compagno. Voce a parte, musicalmente parlando, anche in questo Other Voices la caratura dei membri della band si è fatta inevitabilmente sentire: del resto, è questo ciò che succede a dei talentuosi musicisti. Quello che è risultato piuttosto straniante è il suono complessivo dell'album. A parte la mancanza di un vero singolo apripista (abbiam detto di come "Tightrope Ride" non avesse centrato nel segno), il disco pare essere carente sotto l'aspetto della matrice più prettamente rock. Sino a quel momento ogni disco dei Doors era infatti risultato in qualche maniera comunque contaminato dal blues. Certo: a volte era la psichedelia a prevalere, altre volte le tensioni più commerciali, ma certo è che l'aspetto blueseggiante non era mai venuto meno. Ora, con questo disco, le cose cambiano a dir poco, con la band che si trova ad eseguire brani sì validi, ma che forse hanno più a spartire con la cocktail music di Rothchild di cui sopra che con le lisergiche derive sperimentali dei masterpiece del passato. Nemmeno la scelta di elevare "Ships w/ Sails" - a mio modo di vedere il miglior brano dell'album - a secondo singolo si è rivelata fruttuosa, poiché fallì del tutto d'entrare tra i primi cento posti. Ma del resto c'era da aspettarselo: la canzone, per quanto bella, coi suoi sette minuti, affatto editata per il mercato radiofonico, non poteva sicuramente risolversi in una scommessa vincente. E così, con una critica di settore piuttosto divisa sui pareri da attribuire al disco, Other Voices sfilò piuttosto nell'anonimato. C'è infine da dire che l'assenza di Morrison non poteva essere un semplice dettaglio per un disco che, comunque, pareva valido su più lati, anche se indubbiamente manchevole del carisma del compianto frontman

1) In The Eye Of The Sun
2) Variery Is The Spice Of Life
3) Ships W/Sails
4) Tightrope Ride
5) Down On The Farm
6) I'm Horny, I'm Stoned
7) Wandering Musician
8) Hang On To Your Life
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