THE DOORS

Morrison Hotel

1970 - Elektra Records

A CURA DI
GIACOMO BIANCO
20/03/2016
TEMPO DI LETTURA:
9

Introduzione Recensione

Dopo la pubblicazione del tanto discusso "The Soft Parade", i Doors decisero di virare nuovamente per ritornare su lidi più consoni alla loro personalità musicale. Frutto di questa loro decisione sarà il quinto album in studio, "Morrison Hotel(1970), ma prima d'addentrarci nello specifico del disco, ripercorriamo le vicende che collegano questi due episodi della loro carriera discografica.  Le sere del 21 e del 22 luglio 1969 la band si esibì all'Aquarius Theatre, sul Sunset Boulevard di Hollywood (la seconda serata finì con l'essere ricordata come una "prova privata", ovvero senza pubblico). Entrambe le esibizioni vennero registrate su nastro, ma solo le tracce "Universal Mind" e "Celebration of the Lizard" vennero incluse nel primo live album della band, Absolutely Live (1970). Un'altra canzone, "You Make Me Real" venne invece inclusa nel disco dell'83, Alive, She Cried, così come la cover di "Gloria" dei Van Morrison, registrata nell'intima serata del 22 luglio. Nella loro interezza i due concerti furono pubblicati solamente nel 2001, sotto forma di due dischi separati, intitolati rispettivamente Live at the Aquarius Theatre: The First Performance e The Second Performance. Fu sempre in quest'occasione che Morrison presentò la sua nuova poesia, Ode to L.A. While Thinking of Brian Jones, Deceased, omaggio all'amico, nonché fondatore e chitarrista dei Rolling Stones Brian Jones, morto circa venti giorni prima in circostanze dubbie (venne ritrovato esanime in fondo ad una piscina, col coroner che bollò frettolosamente il decesso come "morte accidentale", quando invece la sua fidanzata sosteneva che era ancora in vita quando i medici accorsi sul posto gli avevano prestato i primi soccorsi). L'evento dell'Aquarius, pur essendo comunque una testimonianza discografica della band, non rappresenta un evento particolarmente degno di menzione, se non per il fatto che le due date si trovavano a poca distanza dal fatidico Miami incident, risalente al marzo precedente. L'esibizione all'Aquarius era dunque il primo, vero concerto dopo la sconvolgente performance di Miami, che aveva innescato, come abbiamo visto nella precedente recensione, una reazione a catena in salsa giudiziaria incredibilmente pericolosa per la band, finita poi - per fortuna - col decadere del tutto. Evidentemente non memore di quanto accaduto nell'occasione del celeberrimo episodio della città della Florida, Morrison si trovò nuovamente nell'occhio del ciclone a causa d'ulteriori problemi con la giustizia. Quando la band era già in saletta per la registrazione della loro nuova fatica - e siamo nel novembre del '69 -, Morrison dovette imbarcarsi su di un volo di linea che l'avrebbe portato a Phoenix, Arizona. Motivo dello spostamento era un concerto dei Rolling Stones, che il frontman dei Doors non voleva assolutamente perdersi. Tuttavia, purtroppo per lui, fu ancora una volta una delle sue peggiori debolezze a tradirlo: l'alcol. Abbiamo già avuto modo di vedere come l'alcolismo fosse diventato un problema sempre più ingombrante per Jim, specie quando si trattava di relazionarsi con gli altri membri della band. Magagne di questo tipo, unite ad un progressivo disinteressamento nei confronti dell'attività dei Doors, avevano già danneggiato non poco l'economia della band. Risultato di questo nocivo processo era stata la pubblicazione del suddetto Soft Parade, un album certamente non da cestinare, ma sicuramente molto diverso dagli altri precedenti. The Soft Parade, infatti, aveva dovuto far affidamento specialmente sulla vena compositiva di Robbie Krieger, il chitarrista della band, che, in mancanza del solito, straordinario apporto qualitativo dell'istrionico singer, dovette farsi carico della gran parte degli oneri inerenti alla composizione delle canzoni di quell'album. Da qui tutte le critiche che condannavano The Soft Parade in quanto eccessivamente meno audace delle prestazioni antecedenti, troppo ammorbidito nel suono - ampolloso, se vogliamo - e certamente meno sperimentale e psichedelico di qualsiasi altro album della band. Dicevamo del problema alcol, e puntualmente Morrison cadde ancora in quella trappola. Con lui sul volo c'era Tom Baker, attore americano principalmente noto per il film d'avanguardia di Andy Wharol I, a Man (1967), nel cui cast comparivano anche la nota Nico, vera e propria musa del regista, e Valerie Solanas, attivista femminista americana che l'anno dopo si sarebbe resa protagonista nientepopodimeno che di un attentato alla vita dello stesso Warhol e di alcuni suoi collaboratori. Ritornando a Baker, della cui persona si ricordano le pesanti condizioni di dipendenza da alcol e droghe (quest'ultime cause della sua prematura scomparsa nell'82), egli era un intimo amico di Morrison e della sua fidanzata di sempre, Pamela Courson. La relazione tra i tre era tuttavia sempre stata piuttosto burrascosa, tant'è che nel 1991 venne inscenata una rappresentazione teatrale, The Lizard King, scritta da Jay Jeff Jones, che affrescava proprio il tormentato rapporto tra la Courson, Baker e Morrison. Ricollegandoci al volo per Phoenix, Morrison, trovandosi a bordo dell'aereo con un degno "compagno di merende", cominciò ad abusare degli alcolici che venivano serviti sul velivolo e ben presto la situazione degenerò. Sia Jim che Tom persero il controllo della situazione, finendo con il molestare il personale di bordo. Come riporta la biografia morrisoniana No One Here Gets Out Alive (1980, ad opera dei giornalisti Jerry Hopkins e Danny Sugerman), trattandosi di un aeroplano, i due finirono con l'essere denunciati per "aver interferito con la normale procedura di un volo intercontinentale" e per "ubriachezza molesta". Se la prima delle due accuse - cioè quella di dirottamento - fosse stata confermata, Morrison avrebbe rischiato una pesantissima condanna: dieci anni di reclusione, in quanto reato federale, oltre ad una sanzione pecuniaria di 10.000$. Ogni accusa cadde però nell'aprile del 1970, quando una hostess testimoniò a favore di Jim sostenendo d'aver scambiato lo stesso Morrison con Baker, tra i due quello che più aveva effettivamente destabilizzato il volo di quel giorno. Non erano dunque bei tempi per la band. Pubblicazione della Soft Parade a parte (che tutto sommato s'arroccò alla sesta posizione nella classifica degli album più venduti), l'esuberanza di Morrison in quel di Miami costò assai cara al resto della band, che assistette impotente all'annullamento dei 25 seguenti concerti, peraltro già ufficialmente fissati, oltre che subire una sorta di "embargo radiofonico" da parte di tutti le emittenti americane. Ai Doors non rimase allora che rinunciare alla restante parte del loro tour, finendo con racimolare delle notevoli perdite economiche. A tal proposito, John Densmore, batterista della band, dichiarò amaramente che, tra annullamenti e spese già messi a bilancio, avevano perso circa "un milione di dollari". Occorreva davvero girare pagina, in maniera secca e decisa per di più. Fu così che, per il seguente disco, Morrison in primis cercò d'assumere un nuovo look, meno impostato e più informale, e decise di cominciare a lasciarsi crescere una folta barba. Ma l'alcolismo sembrava minare considerevolmente gli sforzi del frontman, più che mai impegnato a lasciarsi alle spalle la figura del "Re lucertola". E così, tra cambi di look e variazioni di stile musicale, la band decise d'oltrepassare lo spiacevole periodo della Soft Parade, album che aveva richiesto nove lunghi mesi di sessioni in studio prima di vedere la luce, oltre che d'un ingente esborso di 86.000$ (l'album più dispendioso mai pubblicato dalla band). Il cambiamento di stile che si voleva a tutti i costi ottenere comincerà a manifestarsi pienamente proprio su Morrison Hotel, per poi culminare appieno solo sul seguente L.A. Woman. Se dunque il blues rock ritornava ad essere la parola d'ordine, la band ricominciò a pescare dal passato un repertorio di brani mai pubblicati prima, ritrovando gemme del lontano '66 o altre canzoni leggermente più recenti, scartate ad esempio dalla sessione di Waiting for the Sun. E così - in non più di un mese - la band confezionò l'album intero, costituito da ben 11 tracce che segnavano il ritorno alle vecchie sonorità psichedeliche miste al blues rock. I due lati del disco vennero denominati rispettivamente Hard Rock Cafe e Morrison Hotel - due tra i locali preferiti di Jim Morrison. Il retrò della copertina reca l'entrata dell'Hard Rock Cafe situato al 300 Est della Quinta Strada a Los Angeles. È curioso notare che il locale in questione non c'entra nulla con l'omonima catena inglese di "ristoranti tematici", nata nel 1971 a Londra ed ormai presente in tutto il mondo (fu anzi proprio questa ad ispirarsi al disco dei Doors per creare un marchio oggigiorno celebre ovunque). Pure ciò che concerne l'artwork sembra voler sottolineare e rafforzare la tesi del ritorno al passato. A parte la parentesi della "beatlesiana" copertina di The Soft Parade, la band ritorna a farsi immortalare in un contesto decisamente meno artificioso, ma non per questo meno d'impatto. La band al completo viene ora ritratta dietro la vetrina del Morrison Hotel, pensione low cost sita al 1246 di South Hope Street, Los Angeles (oggigiorno chiusa). L'istantanea fu scattata da Henry Diltz, musicista folk e fotografo americano, che, prima di procedere al servizio, chiese al commesso se era possibile fare qualche foto dentro al locale. Di tutta risposta il ragazzo disse che senza il permesso del titolare non poteva autorizzare alcunché. Ma il vero problema era che il tizio non si trovava lì in quel momento. E così, quando il commesso s'allontanò per qualche minuto salendo sull'ascensore, Diltz si precipitò al di fuori del locale, preparando al volo la sua macchina fotografica. Nel frattempo i quattro Doors non fecero altro che girarsi verso la vetrina, pronti ad essere immortalati sotto l'appariscente insegna dell'hotel. Volete entrarci anche voi?

Roadhouse Blues

Prima traccia dell'album è "Roadhouse Blues (Il blues della locanda)", una delle canzoni più celebri della band losangelina. Non tutti però sanno che la canzone fu confinata a lato-b di "You Make Me Real", unico singolo estratto dall'LP, che non seppe far altro che terminare la sua corsa alla cinquantesima posizione della Billboard. La canzone venne registrata in due giorni, il 4 ed il 5 novembre. Se durante la prima sessione di lavoro si gettarono le basi ritmiche della composizione, il giorno successivo si operò coi lavori di cesellatura. Sotto la perenne tutela del produttore Paul A. Rothchild, la band fu spinta a puntare al massimo in termini di ricercatezza sonora e di raffinatezza del songwriting. Nonostante gli inviti del produttore ad esigere il meglio, Morrison in quei giorni versava in una grave condizione di ubriachezza, che non gli impedì tuttavia di "entrare completamente nelle vesti del cantante blues", come ricorda il tecnico del suono Bruce Botnick. Diverse registrazioni della prima giornata vennero incluse nella rimasterizzazione del disco (2006), dove si può ascoltare Jim incespicare sulle liriche, sostituendo i versetti originali con altre parole. Nel docufilm del 2010 When You're Strange, sono inclusi altri estratti di questa sessione di lavoro, nei quali Jim mastica più e più volte la frase "i soldi valgono più dell'anima". La versione ufficiale della canzone riporta invece una sezione d'improvvisazione piuttosto moderata. Il grosso del lavoro venne portato a termine il secondo giorno, quando ai quattro musicisti della band s'aggiunsero anche il chitarrista Lonnie Mack - che qui suona il basso - e l'armonicista John Sebastian. Quest'ultimo figura però nei crediti come G. Puglese e, stando alle voci di corridoio, si dice che tale scelta fu dettata dal fatto di non voler vedere associato il proprio nome alla band che pochi mesi prima si era resa protagonista del Miami incident. Sull'altro versante, il coinvolgimento di Mack non era affatto previsto, dato che il bassista di ruolo per quest'album sarebbe dovuto essere Ray Neapolitan. La sostituzione - provvisoria, va detto - fu dettata semplicemente dal fatto che Ray era rimasto coinvolto nel traffico della tentacolare metropoli californiana, impossibilitato di fatto a raggiungere in orario gli studios. Mack però si era dimostrato un "acquisto" da novanta per la band. Come ricorda Densmore nella sua biografia Riders on the Storm (1990), tutta la band era insolitamente "timida" e riverente nei suoi confronti. In una maniera del tutto inedita, anche lo stesso Morrison pareva timoroso. Del resto Lonnie Mack "era una leggenda vivente" dato che "impersonava il blues stesso - non il country blues, ma il blues delle città". Fu così che Jim s'offrì gentilmente di cantare la canzone per Mack, giusto per calarlo nel mood del brano. In una succosa intervista rilasciata da Robbie Krieger al giornalista Bob Cianci, il chitarrista dei Doors ebbe modo di raccontare che lo stesso Mack, a quei tempi, era appena uscito dal music business, rimanendo però sotto contratto con l'Elektra per qualche non meglio specificata mansione (si dice che vendesse bibbie per vivere?). Siccome era nei paraggi degli studios quando i Doors dovevano registrare quella che sarebbe diventata una delle loro hit di maggior successo, Rothchild chiese a Mack se era disposto a registrare le parti di basso per una canzone. Lonnie accettò di buona volontà e dopo quel momento decise che il suo periodo d'allontanamento dal mondo della musica poteva dirsi abbondantemente concluso. L'apporto di Lonnie Mack si limitò però alla sola traccia di basso e non, come narra una falsa leggenda, pure al lavoro di chitarra solista (il mito vuole che l'assolo fosse anche opera sua). Oltre a fattori meramente tecnico-esecutivi del solo - dove si può notare, con orecchio clinico, tutto lo stile di Krieger -, arriva in soccorso anche una frase di Morrison ("Fallo, Robbie, fallo!"), chiaramente udibile nella traccia vocale presente sul disco. In questo caso, la frase simboleggerebbe proprio il passaggio di testimone - o meglio, del riflettore - da Morrison a Krieger, dato che la sua parte da solista stava giusto per cominciare. Detto questo, passiamo all'analisi della canzone. Il brano si apre con un incisivo riff di chitarra, molto blueseggiante e capace di far scrollare fin da subito l'ascoltatore. In aiuto di una chitarra pesantemente distorta accorre subito l'intera band, con la batteria confinata nel canale sinistro, leggermente in sordina, mentre l'armonica di Puglese arricchisce di tanto in tanto l'intero tessuto sonoro. Morrison è estremamente in vena. La sua voce, calda più che mai, sembra aver recuperato lo smalto dei primissimi esordi, complice anche una base sonora forse a lui più congeniale. Il ritmo incalzante è sempre lo stesso, da cima a fondo, ma proprio questa ossessiva ripetizione rende il brano incredibilmente catchy. La musicalità evoca l'ambientazione della tipica locanda di basso rango: atmosfera cupa e densa, fumo compresso tra pavimento e soffitto che ristagna sopra i tavoli da biliardo, coi fiochi lampadari che permettono soltanto d'intravvedere il manto verde loro sottostante. Su di un palchetto di legno, discretamente incastrato in uno degli angoli del locale, troviamo la band di turno, che canta rassegnata delle peripezie d'amore che la vita gli ha riservato. Morrison, da profeta maledetto qual è, canta "tieni gli occhi sulla strada, le mani sul volante/stiamo andando alla locanda/per divertirci un sacco". Come dire: prima il dovere (guidare), poi il piacere (scopare). Ma perché proprio quel posto, quella "locanda"? Perché là "sul retro hanno qualche bungalow" (intesi qui come "camere a ore") per "quelli che vogliono prendersela comoda". E poi arriva il memorabile chorus "Lasciati trasportare, bimba. Lasciati trasportare/tutta la notte". Il pianoforte di Ray Manzarek trasuda stile da ogni poro ed accompagna senza mai sbagliare un colpo. Il brano è però elettrico: Manzarek lo sa e così si limita ad un accompagnamento di pura classe. A 1:35 decolla l'assolo di Krieger, inconfondibile per la peculiare tecnica esecutiva in fingerstyle e per l'incredibile carica adrenalinica, grazie ad il pathos che qui ci riversa. Nella sezione successiva, chitarra ed armonica innestano un bellissimo botta-e-risposta, facendosi il verso l'un l'altra. Morrison ha definitivamente venduto l'anima al blues: improvvisa le liriche fino a che non esplode urlando "salva la nostra città/salva la nostra città". E poi, come se nulla fosse, riprende la strofa. Si ha l'impressione che la notte di baldorie sia ormai alle spalle, dato che Jim confessa che, svegliandosi, quella mattina si è "fatto una birra", come a coronare la bellissima e selvaggia nottata. Manzarek, nella sua biografia, sostiene però che il versetto in questione ("woke up this morning and I got myself a beer", "svegliatomi questa mattina mi son fatto una birra") sia in realtà la storpiatura di "woke up this morning and I got myself a beard" ("svegliandomi questa mattina mi sono ritrovato con la barba"), riferendosi ad un episodio che vide lo stesso Morrison dormire per tre - e dico tre - settimane a seguito di un "mezzo coma" indotto da droghe e alcol. Dormì talmente a lungo che, risvegliatosi, si trovò con la barba lunga! Verità o leggenda, il succo del discorso che Morrison vuole farci capire è, per concludere, che bisogna godersela ora che si è giovani, che si può, che si hanno i mezzi, perché, tutto sommato, "il futuro è incerto e la fine è sempre vicina". Immancabile, nella conclusione, il classico giro blues di chitarra che suggella una canzone strepitosa sotto tutti i punti di vista. 

Waiting for the Sun

"Waiting for the Sun (In attesa del sole)" è il secondo brano in scaletta, precedentemente accantonato durante la sessione di lavoro dell'omonimo album della band. L'organo Gibson G-101 - preferito da Manzarek al posto del più classico Vox Continental, come dichiarato a Contemporary Keyboard nel '77 - infonde sonorità oniriche sulle quali s'innesta una leggera chitarra - suonata con lo slide - così come un preponderante basso, affidato da questo momento da Neapolitan. L'organo, grazie alle peculiarità del modello Gibson - mi riferisco in primis alla funzionalità brilliance, che dona lucentezza alle note, e poi, in secondo luogo, alla modalità percussion, che aumenta il segnale in base alla pressione sui tasti, sostanzialmente come accade con un pianoforte - riesce a produrre un effetto di delay (ritardo) rapido ed incredibilmente evocativo, che culla dolcemente l'ascoltatore con le sue note incantate. Morrison ha già occasione di traghettarci con la sua voce fatata in una dimensione parallela, anch'essa irreale e sognante, dove, "al primo lampo del paradiso" tutti corrono "verso il mare/in piedi laggiù sulla riva della verità". Al testo meno impegnato e certamente più sbarazzino dell'opener fanno dunque eco liriche più impegnate, evocative e misteriche. Una fugace svolta elettronica, abrasiva come non mai, si deve a Manzarek, che da questo momento comincia ad utilizzare anche l'RMI Electra piano, strumento assai versatile che permette di svariare da sonorità prettamente tipiche del piano sino a suoni decisamente più sintetici. Il ritornello sopraggiunge prestissimo, ripetendo per tre volte "in attesa del sole". È un inno alla natura che rivive dopo l'inverno, metafora della vita che riprende dopo un periodo buio. E cosa c'è di meglio del sole per rischiarare le tenebre? Con la luce arriva dunque la primavera, la resurrezione ("non lo senti che la primavera è arrivata?"): "è questo il momento di vivere nel sole che si spande". La chitarra ricama melodie sia delicate sia taglienti, sia pulite sia distorte. Attorno alla metà del secondo minuto il ritmo di batteria si fa più insistente e Morrison sottolinea il dovere di tutti di "aspettare". Stacchi inaspettati impreziosiscono la terza strofa, sensibilmente diversa dalle due precedenti ("in attesa che venga anche tu/in attesa che tu ascolti la mia canzone [?] in attesa che tu mi dica dov'era lo sbaglio"). Il brano aumenta progressivamente d'intensità salvo poi acquietarsi per pochi istanti. Ma è solo un'illusione: a 2:46 Jim urla e tutta la band comincia a marcare sempre di più ogni singola nota. Dal marasma elettrizzante che deriva dalle tastiere di Manzarek riesce a farsi strada la chitarra di Krieger, autore di un solo atipico e decisamente rumoroso. Nuovamente i ritmi tornano blandi, i suoni dolci. Ma anche questa volta la sensazione permane per un attimo, dato che è già tempo del finale. Sulle note del ritornello si chiude infine la canzone, che ribadisce il messaggio della precedente traccia: i Doors, quelli veri, sono ritornati. 

You Make Me Real

Le festose note di un tack piano introducono il terzo brano, nonché unico singolo estratto dall'LP, "You Make Me Real (Mi fai sentire vero)". Sin dalle prime battute ci sembra di stare in un ambientazione decisamente retrò, in bilico tra un saloon del Far West oppure sul set del Benny Hill Show. Ad ogni modo, non appena entrano chitarra, basso e batteria, la canzone incomincia ad accattivarsi ulteriormente l'attenzione dell'ascoltatore. Il basso di Neapolitan è perfettamente udibile, così come lo stesso Krieger pare essersi dotato di un approccio decisamente più elettrico e rockeggiante. Menzione a parte occorre farla per Densmore. Abbiamo detto che la sua batteria, per scelta, è stata fin qui confinata nel canale sinistro dell'audio da parte dell'addetto al missaggio, risultando lievemente adombrata dagli altri strumenti. Ma Densmore ci dimostra comunque d'esser rinato. Sarà stato il periodo della Soft Parade ad averlo ammorbidito, ma certo è che il batterista esibisce qui un nuovo smalto: una nuova, scoppiettante carica. La furia con cui tambureggia nel pattern ritmico della strofa è notevole e definisce certi parametri per l'hard rock che sarà. Dal punto di vista del cantato, la prima strofa si rifà ad un cliché decisamente in voga in quegli anni, ovvero la richiesta disperata d'amore rivolta alla solita, inarrivabile donna. Morrison si trova così costretto ad implorare "davvero ti voglio/davvero/davvero ho bisogno di te bimba", rincarando pure la dose con "Dio sa che è vero/perché senza di te non sono vero/oh, che ci posso fare?". In seguito, la band attacca subito col chorus, a tratti accademico ("tu mi fai sentire vero/tu mi fai sentire/quello che provano gli amanti") ma anche rivelatore di un bisogno profondo: quello di sentirsi libero ("tu mi fai gettare via una miseria tutta errori/fammi provare l'amore/rendimi libero/oh, andiamo"). L'assolo di chitarra arriva questa volta prestissimo, ma lascia spazio altrettanto presto alla seconda strofa, nei fatti identica alla prima. Sin qua la struttura (verso, ritornello, solo, verso, ritornello, solo) è delle più schematiche, ma rende bene l'ossessione del protagonista a voler essere amato, a far breccia nel cuore dell'amata affinché possa scivolare nel suo "tenero amore". La canzone, sicuramente curata sotto l'aspetto melodico, col tack piano che innegabilmente dona una melodia superiore, il brano si caratterizza anche per un ottima sessione ritmica, incisiva per quanto riguarda la batteria e davvero arricchita da un ottimo groove di basso. Verso 2:05, terminato il secondo assolo di chitarra, Morrison incomincia ad incitare la ragazza a lasciarsi andare, prima che sulle note dell'ennesimo ritornello si chiuda la canzone.

Peace Frog

Sin dai tre accordi di chitarra ripetuti con un inconfondibile tocco funky, capiamo che le cose stanno per cambiare con questa "Peace Frog". La batteria, da sinistra, è migrata al centro, dove trova il basso di un Neapolitan estremamente ispirato. In questa maniera, il charleston scandisce un tempo estremamente ballabile su cui s'innesta un riff di basso che ti rapisce col suo contagioso dinamismo. Per la prima volta su quest'album Manzarek ritorna al suo vecchio amico: l'organo Vox Continental. A dispetto di un groove festoso e spensierato, il testo della canzone non sembra lasciar trasparire altrettanta allegria. La gran parte degli incipit dei versetti delle strofe inizia infatti col motivetto "c'è sangue sulle strade", ripetuto più e più volte da cima a fondo. In questa maniera è permesso a Morrison d'affrescare un quadro decisamente inquietante: "c'è sangue sulle strade e mi arriva alle caviglie/c'è sangue sulle strade e mi arriva al ginocchio/sangue nelle strade della città di Chicago/sangue che aumenta e che mi sta seguendo". La descrizione morrisoniana sembra quasi derivata da un'allucinazione, ma certo è che testo e musica si scornano in una battaglia all'ultimo sangue. In mezzo ai versetti delle strofe trovano anche spazio dei cori - sempre ad opera del cantante - in cui ripete "è venuta", ma non riusciamo ancora ad intuire a chi si riferisca. Il mistero pare risolversi da lì a poco, quando nel chorus Jim abbozza una descrizione, probabilmente di un'altra femme fatale ("proprio sul fare del giorno/è venuta e poi se n'è andata/col sole nei capelli"). Le conseguenze di questa "inondazione di sangue" (il sangue di chi, poi?) non può che portare con se conseguenze nefaste. L'incredibile escalation - il sangue "arriva alla coscia" - sembra culminare in una scena in cui prevalgono disperazione e dolore ("il sangue sulle strade fa scorrere un fiume di tristezza", ma anche "le donne stanno piangendo, fiumi rossi stanno gocciolando"). Verso 1:10 il brano assume connotati prevalentemente strumentali, con sonorità che denotano una qual certa voglia di sperimentare nuove soluzioni. L'ennesimo pregevole assolo di Krieger ha il compito poi di trasportare la canzone verso nuovi lidi, al cui interno Morrison si trova recitare, quasi parlando, alcuni versetti abbastanza densi di significato, ma anche molto enigmatici ("Indiani sparsi sulle carreggiate dell'alba, sanguinanti/spettri affollano il fragile guscio della mente del bambino"). Queste linee, scritte da Morrison, compariranno pari pari nella canzone "Ghost Song", edita postuma nell'album finale della band (An American Prayer, 1978). Al primo posto nella scaletta di quell'album compare il brano "Awake", composto dal trittico Ghost Song/Dawn's Highway/Newborn Awakening. Per svelare il mistero che sta dietro a questi versetti, Morrison fece riferimento ad un evento che gli era accaduto da bambino, menzionando - cosa rara - pure i suoi genitori. Queste le sue parole. "Io ed i miei, assieme a nonna e nonno, stavamo guidando nel deserto, all'alba, ed un camion pieno di lavoratori indiani aveva o sbattuto contro un'altra macchina, o semplicemente - non so cosa fosse successo - [fatto sta] che c'erano indiani sparsi ovunque sulla strada, che stavano sanguinando a morte. E così la macchina [quella di Morrison, ndr] accosta e si ferma. Quella fu la prima volta che provai paura. Dovevo avere circa quattro anni". Un episodio certamente impresso indelebilmente nella mente del cantante. Nella seguente strofa, Jim si ritrova poi a ricordare un altro episodio, decisamente più recente. Il verso "sangue nelle strade della città di New Haven" rimanda infatti all'arresto dello stesso Morrison il 9 dicembre 1967 a New Haven, Connecticut, reo d'aver incitato il pubblico accorso al concerto della sua band alla sommossa contro le autorità. In quest'ottica possiamo dunque rileggere anche il precedente passo - quello riguardante Chicago -, sottintendendo l'allusione di Jim ai tumulti avvenuti a seguito della convention democratica del '68, tenutasi nella metropoli dell'Illinois verso la fine di un anno estremamente violento per gli USA, che avevano assistito agli assassinii di Martin Luther King e del presidente Robert F. Kennedy (rispettivamente il 4 aprile ed il 6 giugno). La violenza, vera protagonista nemmeno tanto velata di questa canzone, ha così raggiunto ogni luogo, persino quelli che Morrison considerava i più sicuri (come il suo covo a Venice Beach - località californiana citata nel versetto "sangue che macchia i tetti e le palme di Venice" - e nella "fantastica L.A."). La "terribile estate" del 1968 ha lasciato segni e cicatrici ovunque, tanto che lo stesso Morrison non riesce proprio a lasciarseli dietro. Dopo la terza strofa, elementi di violenza si palesano in tutta la loro crudezza, alternandosi a volte con immagini totalmente opposte ("il sangue distorce la mente mentre le trinciano le dita/sangue che nascerà dalla nascita di una nazione/sangue che è la rosa di una misteriosa unione").

Blue Sunday

Morrison aumenta di tono, pare arrabbiarsi, ma la sensazione dura poco, dato che la canzone è ormai in dirittura d'arrivo, chiudendosi poco prima dei tre minuti e sfumando nella successiva traccia, "Blue Sunday (Una triste domenica)". Ritornano le oniriche sonorità del Gibson G-101, così come il basso continua ad avere una notevole importanza all'interno della struttura delle canzoni. Le note soffiate e soffici come velluto dell'organo introducono questa ballata, in cui Densmore si limita a spazzolare le superfici dei suoi tamburi, senza infierire come prima. Krieger arpeggia disegnando archi d'argento nel cielo di quella "domenica triste". Eppure, come vedremo, questa malinconia non durerà ancora a lungo, giacché il protagonista della canzone troverà qualcuno a consolarlo (il riferimento è ovviamente alla baby di turno). Ecco che una giornata storta improvvisamente si raddrizza ("il mio vero amore l'ho trovato in una triste domenica"): mai disperare oltre il dovuto, potremmo non accorgerci dei segnali che il destino ci sta lanciando. Preso dalla disperazione, il protagonista per poco non notava che lei era lì, che lo guardava con desiderio ("mi ha guardato e mi ha detto/che ero l'unico/il solo al mondo"). Finalmente anche il ragazzo può dire d'aver trovato la sua ("adesso ho trovato la mia ragazza"). Non resta che celebrare e consumare il loro amore ("la mia ragazza mi aspetta per attimi di tenerezza"), ribadendo che la ragazza è sua e solo sua. Il cantato è disteso, poiché segue un supporto musicale del tutto rilassato e per nulla arrembante. Blue Sunday è forse il brano che, stilisticamente parlando, più si avvicina alla morbidezza della Soft Parade. È giusto però notare che un album costituito da 8/10 di Blue Sunday può risultare inevitabilmente noioso; d'altro canto, in mezzo a tanta irruenza, un solo Blue Sunday non può invece che far bene! E così, in mezzo a tocchi glissati di chitarra e "la-la-la-la" fiabeschi, il brano concede ancora pochi istanti all'ascoltatore, prima di spegnersi lentamente poco dopo il secondo minuto.

Ship of Fools

A conclusione di questo lato-a chiamato Hard Rock Cafe troviamo "Ship of Fools (Nave di matti)". Un sincopato riff di basso è acuito dai tocchi sul ride di Densmore, prima che il cantato subentri accompagnato dai gorgheggi del Vox Continental di Manzarek. La psichedelia ritorna a prendere il posto che le spetta, accantonando definitivamente la ridondanza mielosa del precedente brano. Nella sua prima porzione, la canzone è suddivisa sommariamente in due stanze, caratterizzate ognuno da una diversa strofa cantata, collegate da un breve intermezzo strumentale (0:53), dove si acquietano i toni. Nella seconda trance, il brano assiste al ripetersi delle due medesime strofe, ma al posto del cambio trova spazio l'assolo di Krieger, blueseggiante il giusto e particolarmente ispirato. Il succo del brano non risiede però nella musica, bensì nel testo. Ship of Fools è infatti una delle primissime canzoni a sfondo ecologico, ed il suo messaggio s'imprime bene nella mente dell'ascoltatore grazie a due versetti estremamente rappresentativi di quello che Morrison intende comunicare ("gente che cammina sulla luna/lo smog vi raggiungerà abbastanza in fretta"). L'inquinamento ambientale che, come allora, affligge il nostro mondo è un tema certamente importante, sempre d'estrema attualità. Morrison lo sapeva e, per mezzo di un'immagine a mio modo di vedere estremamente sagace, intende mettere tutti quanti in guardia da questo pericolo. Non serve coprirsi gli occhi dopo uno sbaglio, non serve a niente ignorare il problema. La preoccupazione è più che mai concreta e l'andare sulla luna non serve proprio a nulla, dato che anche là, prima o poi, si presenteranno i medesimi problemi che affliggono il nostro vituperato pianeta. Incuranti della realtà, i potenti cercano di deviare le attenzioni della pubblica opinione con operazioni grandiose (lo sbarco sulla luna, appunto), invece di sensibilizzare la stessa su quello che accade da molto, molto più vicino ("la razza umana stava estinguendosi/nessuno lasciato ad urlare e strillare/gente che cammina sulla luna/lo smog vi raggiungerà abbastanza in fretta"). E quindi, a sublimare tale ragionamento, a Jim non resta che paragonare l'intera umanità ad una "nave di matti", similitudine che rende meglio nella nostra lingua con la locuzione "gabbia di matti". Come dargli torto?

Land Ho!

Passando al lato-b, il vero e proprio Morrison Hotel, incontriamo, alla settima posizione, "Land Ho! (Terra in vista!)". Sulla scia dell'inquietante Peace Frog, anche questa traccia si rifà in qualche maniera alle vicende biografiche di Morrison. Molti termini presenti nel testo - oltre alla stessa locuzione tipicamente marinaresca del titolo - rimandano all'ambiente nautico, conosciuto molto bene da Jim: infatti, forse non tutti sanno che suo padre, George Stephen Morrison, era un contrammiraglio - oltre che pilota d'aereo - della Marina Americana. Celebre è una foto del '64 che ritrae padre e figlio assieme a bordo della USS Bon Homme Richard CV-31, mitica portaerei statunitense che servì in molte missioni di guerra tra secondo conflitto mondiale, Guerra di Corea e del Vietnam. Ritornando al brano, notiamo che esso si apre con un riff di chitarra piuttosto dinamico e potente nella saturazione del suono. Dopo alcuni frangenti Densmore attacca sul rullante con un ritmo tipo marcetta, mentre la scelta di Manzarek in quanto a tastiere permane sul Vox Continental. L'organo traccia melodie ondeggianti come i flutti del mare ed allo stesso modo Morrison attacca a cantare con uno strano tono, che puntualmente ricorda i canti marinareschi. Il testo assume ben presto i connotati di una fiaba, poiché il protagonista - un bambino - viene invitato a sedersi sulle gambe del proprio nonno, pronto a raccontargli qualcosa. Il nonno era un vecchio marinaio, o meglio un "baleniere", per la precisione. E così, prendendo il nipotino "sulle ginocchia", comincia a confidargli di come la vita "da pensionato" non faccia proprio per lui ("figliolo, sto diventando matto/a viver sulla terraferma/sarò meglio che mi trovi dei compagni/e che me ne vada su lidi sconosciuti"). Al termine della prima strofa non troviamo un ritornello, ma semplicemente uno stacco musicale, in cui prevale l'organo. Poco dopo riprende Morrison con il suo timbro monotono, raccontando di come quel vecchio stesse simpatico al nipote, intento a tratteggiarne un rapido ritratto in una manciata di versetti. La descrizione non è di per sé fondamentale ai fini della ricostruzione del personaggio dell'ex marinaio. Quel che però colpisce è la sua grandissima forza di volontà. Dove molti avrebbero rinunciato ad ogni sogno, ad ogni desiderio di ritornare indietro, il vecchio invece persevera e tiene duro, pur conscio che gli anni son passati anche per lui (camminando e fumando in riva al mare, ricorda i bei vecchi tempi, canticchiando "canzoni di discutibili sorelle/canzoni d'amore e canzoni di morte/e canzoni di libertà"). La questione anagrafica non lo getta però nello sconforto, anzi: sembra più che mai deciso a rimettersi in gioco ed a sfidare nuovamente le onde. Un breve crescendo introduce in seguito un brevissimo assolo di chitarra (1:39), che cambia i connotati alla canzone. I ritmi si fanno meno agitati, così come pure Morrison cambia leggermente cadenza al cantato. A conclusione della strofa che racconta dell'effettivo "ritorno sulle scene" del vecchio marinaio, che culmina con Jim che sbraita "terra in vista!", riprende l'allegro motivetto iniziale, il quale permette di chiudere il brano con un ultimissima strofa, dal gusto decisamente ironico. Nella coda finale, trova spazio ancora una volta Krieger (2:57), che può cesellare un altro solo decisamente convincente. All'interno del box set della band, pubblicato nel 1997, si può trovare un breve estratto di Manzarek che racconta di come sia il bambino che il vecchio siano due personificazioni della persona di Jim Morrison. Bambino perché impulsivo, irruento, forse capriccioso, ma anche creativo, energico ed instancabile; ma è pure il vecchio marinaio, davvero impossibilitato a vivere una vita comune poiché "ha bisogno di [vivere] avventure e pericoli in alto mare". 

The Spy

All'ottavo posto della tracklist troviamo "The Spy (La spia)", la quale si apre con un arpeggio di chitarra in clean e dei gravi suoni di pianoforte. Il basso entra sornione e, assieme al ritmo di batteria, ricorda molto l'andamento di un brano jazz. Di questa canzone i Doors ne incisero pure un'altra versione, in cui i caratteri jazzistici risultano ancora più marcati, confluita nel box set di cui prima. Manzarek riprende il tack piano che ben s'addice alla tonalità ombrosa del brano, che rievoca le atmosfere dense e fumose di un club dei sobborghi. La canzone in questione, così come la seguente, sono incentrate sulla figura della fidanzata di Jim, la Courson. Morrison si presenta come "la spia/nella casa dell'amore", un agente segreto che tutto conosce della sua Pamela, anche i sentimenti più reconditi ("conosco il sogno che stai facendo/conosco la parola che vuoi sentire/conosco la tua paura più profonda"). La donna è per lui un libro aperto, insomma ("so tutto/tutto quello che fai/ovunque tu vai/tutti quelli che conosci"). Morrison sembra quasi voler intimidire la sua ragazza, sembra quasi minacciarla. Le liriche lasciano così un senso d'amaro in bocca, nonostante l'impianto musicale non sia certo dei più inquietanti, anzi. Ormai immersi in pieno mood jazz, andiamo avanti nota dopo nota e troviamo Jim che ripete ossessivamente che conosce tutte le paure della ragazza. Il filo trainante della canzone è ovviamente la voce e tutti gli altri strumenti, pur eseguendo partiture raffinate e pregevoli, si limitano ad accompagnare o, al massimo, abbellire alcuni passaggi. Una canzone dei Doors musicata in tale maniera non l'avevamo mai davvero ascoltata, ma la band dimostra comunque di saperci fare anche con queste sonorità. 

Queen of the Highway

"Queen of the Highway (Regina della strada)", nona traccia, non deve intendersi con nessuna accezione negativa in merito alla figura della donna. Come dicevamo prima, il motivo d'ispirazione rimane Pamela e così pare proprio lei a configurarsi come la regina ("lei era la principessa/la regina della strada"). Il testo è in bilico tra il fantasy e l'allucinato. Un misterioso "cartello stradale" dice "portateci da Madre". Chi o cosa è "Madre"? E chi il "mostro" citato poco dopo, vestito di "nera pelle"? Con queste domande nella mente l'ascoltatore procede, pur non trovando molte risposte. Le successive strofe sembrano anzi incasinare il tutto. Certo è che il mostro/uomo e la principessa/donna riescono infine a mettersi assieme, a calmare i propri istinti l'un con l'altro. Che l'uomo sia Jim e la donna Pamela? Potrebbe essere, dato che Jim, col suo comportamento sovente eccessivo, sarebbe potuto passare per un "mostro" agli occhi dell'opinione pubblica; mentre a Pamela, descritta sempre dal cantante come una donna più che speciale, starebbero bene le vesti della principessa. Musicalmente parlando, dopo gli stacchi di batteria iniziale, Morrison attacca il cantato sulle tremolanti note del piano elettrico Wurlitzer di Manzarek. L'effetto è piuttosto dilatato e stordente e fa sì che la musica risuoni nelle nostre tempie come se fossimo in preda ai fumi dell'alcol (e non solo). La parola d'ordine sembra essere ritornata "psichedelia" e la band allora sfoggia un brano per molti aspetti vicino ai primi due loro dischi. La chitarra si mantiene pulita ed adombrata dal piano, almeno fino a quando, a 1:07, non comincia un solo leggermente velato di blues. A 1:24, uno stacco di sola batteria apre una nuova sezione, ritmicamente e musicalmente diversa, dove i due strumenti solisti della band si divertono - e divertono noi - suonando l'un sopra all'altro. Quando Morrison riprende la strofa il brano ritorna infine sugli originali binari. Il versetto che riporta "ora si sono sposati, lei è una brava ragazza" sembrano alludere ad un episodio riportato pure dalla biografia No One Here Gets Out Alive. Durante le registrazioni del nostro disco, Morrison e fidanzata ebbero una discussione in merito ad un futilissima motivazione. Jim accusava la donna d'essersi scolata una bottiglia di liquore, la sua bottiglia di liquore. Se l'aveva bevuta lei, ora non poteva bersela lui. Ma non occorre spaventarsi, amici: la loro relazione era sempre stata piuttosto burrascosa, anche se i due finivano poi per far pace ed andare d'accordo (fino al prossimo battibecco?). Ricorda la vicenda pure Bruce Botnick, il tecnico del suono degli Electra Studios, che una sera, sul finire della giornata lavorativa, si trovò davanti Jim e Pamela completamenti fuori di testa e piangenti. Lì per lì penso che i due stessero inscenando una messinscena per prendersi gioco di lui, ma poi capì che stavano litigando sul serio. Pamela "stava piangendo, completamente fuori controllo, dicendo [a Jim] che non avrebbe dovuto più bere ed era per quel motivo che l'aveva bevuta lei". Botnick si tenne lontano dal confronto e nel mentre riordinava la stanza di registrazione. Ad un certo punto fa notare ai due che è piuttosto tardi. Jim, placatosi all'improvviso, s'accorge dell'ora e abbraccia la sua donna. Con la mano nella mano, i due uscirono dalla stanza, non prima che Jim si fosse girato indietro per vedere Bruce: "lui [Jim, ndr] dava poi sempre un'occhiata divertente, per vedere la tua reazione". Forse Morrison si era reso conto che quello che per lui e Pamela era normale, per gli altri non lo era affatto! Prima di concludere, mi sembra giusto menzionare ancora un particolare versetto - quello conclusivo - che recita "[?] spero/che possa durare un altro po'". Leggendo tra le righe, è plausibile che qui sia lo stesso Jim ad augurarsi che il suo rapporto con Pamela, tormentato o meno, possa comunque continuare. La forza dell'amore, evidentemente, vince su ogni cosa.

Indian Summer

Con la penultima traccia, "Indian Summer (Estate indiana)", si congeda Ray Neapolitan per lasciar sì che Manzarek abbracci - almeno per una volta - il suo Fender Rhodes piano bass, una sorta di strumento a tastiera ridotta che emula varie tonalità paragonabili a quelle del basso elettrico. Il perché di questo cambio di formazione è ben spiegato. Indian Summer è l'unico brano - assieme a Waiting for the Sun - a non appartenere alla sessione di scrittura di Morrison Hotel. Infatti il brano risale addirittura all'estate del '66, quando i Doors stavano registrando l'LP d'esordio. Scartata dalla tracklist definitiva, la canzone finì per essere utilizzata soltanto quattro anni dopo, per l'album in analisi. Un dissonante arpeggio di chitarra apre il brano con una plettrata eterea, sulla cui musicalità s'installa subito il piano bass di Manzarek, che sembra attaccare con una ninna-nanna. Densmore rulla in lontananza, Krieger si scioglie maggiormente, seppur con fraseggi appena appena accennati. Il mood è completamente disteso, non esiste alcun tipo d'ostacoli. Complice un deciso effetto di riverbero sulla voce, Morrison è l'incarnazione della tranquillità. Con voce flautata ci dona versi al miele, indirizzati probabilmente all'amata. Se i due brani precedenti rappresentavano lo stravolgimento relazionale dovuto alla litigata, ora i toni si rilassano: è tornato il tempo degli abbracci e l'amore ritorna a primeggiare sugli altri sentimenti. Il testo, assai corto, assume la forma di una dolcissima poesia, in cui prevale soprattutto il desiderio d'amare la compagna e d'augurarle il meglio ("ti amo al massimo/più di tutto il resto [?] che abbia trovato d'estate/nell'estate indiana"). Permangono versetti di più difficile decifrazione, ma certo è che il messaggio è ben chiaro. L'approccio decisamente soft d'inizio canzone si mantiene costante per tutto il brano. A 1:23 - quando Jim ha già finito di recitare l'intero testo - Krieger prende il volo dispiegando le ali della sua chitarra, e mentre vola regala tocchi della sei-corde assai efficaci e densi di feeling. Densmore si fa portatore di un beat lineare, mentre Manzarek sembra più impegnato a tracciare la melodia con il piano bass che col Vox (invertendo, in sostanza, strumento ritmico e strumento melodico). Il resto del brano vede poi Morrison che ripete diverse volte il titolo della canzone, prima che un'intro reprise riporti i toni ai minimi storici, ricalcando perfettamente l'esordio della canzone. 

Maggie M'Gill

Con "Maggie M'Gill" si chiude l'album e con essa si ritorna ad una delle primissime canzoni registrate per questo disco. Al basso ritorna infatti Lonnie Mack, dato che la canzone venne registrata nei medesimi giorni di "Roadhouse Blues". Ed in effetti ritorna pure tutto il feeling dell'opener, instradando di nuovo la band su territori decisamente blueseggianti. La chitarra esordisce cantando la sua malinconica melodia, basso e batteria pulsano come il sangue nelle vene. Lo strumento di Krieger viene poi sdoppiato in entrambi i canali audio per ottenere un convincente effetto di botta-e-risposta altrimenti irraggiungibile per un solo chitarrista. Il brano, col tempo in battere, viene assorbito dall'ascoltatore in maniera quasi forzata, data l'ossessività del suo incedere. Quando però la strofa cambia ritmo - che va in levare - l'ascoltatore si trova nuovamente spiazzato, a causa di una mossa del tutto inattesa. Le liriche raccontano delle vicende della "signorina Maggie M'Gill" che "viveva su una collina/suo padre s'ubriacò/e la lasciò a decidere da sola". Senza che nulla più la trattenesse, Maggie "venne giù/a Tangie Town". Il perché è presto spiegato: "la gente là/ama spassarsela per davvero". Questa la ricetta di Morrison per quando si è davvero sconsolati: "allora, se sei triste/e sei giù/esci e/comprati un bel paio di scarpe nuove/e poi vai giù/a Tangie Town". Tangie Town, moderno paese dei balocchi, è la città dei vizi e dei capricci, là dove qualsiasi desiderio - anche il più peccaminoso - potrà essere soddisfatto. A metà canzone si apre un break in cui Manzarek pare ritagliarsi spazio per un assolo sul suo Hammond C-3, decisamente accattivante per quel non-so-che di vintage percepibile ad ogni pressione dei suoi tasti. Dopo alcuni secondi di silenzio, un ronzante accordo di chitarra apre la seconda sezione della canzone, dove Morrison comincia a parlare di un "figlio illegittimo/di un divo del Rock and Roll [?] mamma trovò papà nel retro di/una macchina da Rock and Roll", alludendo forse alla signorina Maggie M'Gill caduta innamorata nei confronti della rockstar di turno, incontrata proprio laggiù, a Tangie Town: loro figlio è dunque frutto di una notte d'amore sui sedili posteriori di un'auto. In ultima istanza prende il microfono il narratore stesso della vicenda, ovvero Jim, personificato qui da "un vecchio bluesman". Egli non crede sia il caso di stupirsi per questi racconti pruriginosi, perché in fondo è di questo che si è sempre cantato. E siccome questo bluesman è in attività da un mucchio di tempo ("ho cantato il blues/da quando è cominciato il mondo"), non gli rimane che incitare incondizionatamente la signorina M'Gill, perché più lei ci dà dentro ("Maggie, Maggie M'Gill/lasciati andare, Maggie M'Gill"), più il blues del vecchio avrà di che parlare.


Conclusioni

Confezionato fisicamente con un artwork a tratti basic ma comunque piacevolissimo alla vista - un soggetto quasi realista, potremmo dire -, Morrison Hotel è sicuramente un album di tutto rispetto, curato sotto ogni aspetto (musicale, lirico, artistico-visivo). Rothchild è riuscito nuovamente a spingere la band su terreni più conformi, adoperandosi per l'uscita di un disco fresco - seppur non innovativo - e tecnicamente sopraffino. Dal design della confezione (ad opera di Gary Burden) all'ultima nota suonata di Maggie M'Gill ogni cosa è al suo posto e c'è poco da biasimare. Dal punto di vista musicale, sono pochissimi i brani che s'assestano sotto la media, collocati più che altro nella sezione centrale dell'LP, quella leggermente più smorta. L'apporto di diversi turnisti fa sì che la band s'avvalga di tocchi e concezioni artistiche diverse, cui s'aggiunge una prova maiuscola di Manzarek. Se nella Soft Parade era stato Krieger a scrivere in solitaria gran parte delle canzoni, qui si ritrova nuovamente sovrastato dalla vena compositiva di Morrison, che ha messo lo zampino in tutte le composizioni. Delle undici, cinque sono poi state scritte in collaborazione con Krieger, mentre la prima e l'ultima sono frutto degli sforzi congiunti della band al completo. Tra i guest musician mi sento in dovere di menzionare particolarmente Ray Neapolitan, autore di una prova al basso davvero superba. È incredibile come una band come i Doors, che detengono erroneamente la nomea di "band senza il basso", si siano sempre avvalsi d'eccellenti studio musician per il quattro-corde, autori di partiture per nulla scontate ma anzi sempre molto catchy. Ma passiamo ora all'aspetto critico-economico. Abbiamo visto di come Morrison Hotel non si sia avvalso di una hit apripista degna di questo nome, con l'unico singolo impantanatosi nelle zone della Billboard che contano ben poco. L'album, tuttavia, fece registrare un eccellente numero di vendite, tanto da portarlo sino alla posizione numero 4 della classifica nazionale. Il periodo buio della Soft Parade e del Miami incident sembravano definitivamente tramontati e questo cambiamento era testimoniato pure da un inedito successo nella terra d'Albione. In Inghilterra, infatti, Morrison Hotel diverrà l'album più venduto della band. Se il disco aveva fatto presa sui fan, Morrison Hotel si garantì anche l'appoggio della critica. Le riviste di settore si lanciarono allora in commenti euforici, a partire da quello di Dave Marsh di Creem: "il più impressionante rock and roll che abbia mai sentito. Quando sono in forma, sono semplicemente imbattibili. Devo dire che è il miglior disco che abbia mai sentito da molto, molto tempo". Rock Magazine lo cita come uno degli album "più cazzuti" fino ad oggigiorno; Circus si spinge oltre ed azzarda l'ipotesi del miglior album della band "un buon, pesante, maligno rock? ed una delle migliori uscite di questo decennio". Un po' meno lusinghiero fu Slant che, pur riconoscendo punti a favore rispetto a The Soft Parade, critica non poco l'accostamento di nuovo e vecchio materiale, problematica che crea, a detta loro, una "discordanza di tono", un problema d'uniformità, dunque. Per tirare le somme, bisogna dire che con questo Morrison Hotel i Doors sono ritornati prepotentemente in corsa, mettendo a segno un incredibile punto. Album possente sotto ogni aspetto, Morrison Hotel saprà certamente far breccia nel cuore dell'ascoltatore per la sua raffinatezza musicale, così come per la precisione esecutiva dei suoi musicisti, resisi autori di magnifici brani (alcuni dei quali indimenticabili), arrangiati oltretutto ancora più superbamente. Le porte si sono spalancate una seconda volta, amici..

1) Roadhouse Blues
2) Waiting for the Sun
3) You Make Me Real
4) Peace Frog
5) Blue Sunday
6) Ship of Fools
7) Land Ho!
8) The Spy
9) Queen of the Highway
10) Indian Summer
11) Maggie M'Gill
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