THE DOORS
L.A. Woman
1971 - Elektra Records
GIACOMO BIANCO
07/05/2016
Introduzione Recensione
Dopo il grande successo di "Morrison Hotel" (1970) - che portò la band al quarto posto della classifica nazionale degli album più venduti -, i Doors pubblicarono nel medesimo anno anche il loro primo disco dal vivo, titolato emblematicamente "Absolutely Live". A dispetto del favore riscontrato dalla critica per il loro ultimo studio album, la band non riuscì a bissare il successo con il live. Il problema principale dell'insuccesso commerciale (furono vendute metà delle copie di Morrison Hotel) fu dovuto essenzialmente al fatto che, all'interno della tracklist, mancavano quasi tutte le loro hit; a peggiorare le cose, il disco era dominato da un Jim Morrison spesso incline al dialogo, alla divagazione: un Morrison che si trovava ormai in una fase piuttosto dissoluta della sua carriera artistica (e "umana"). Non è raro trovare infatti il frontman della band ad improvvisare - e anche molto - lungo il corso di quel live, registrato a più riprese durante il tour promozionale del 1970 e quindi rivelatosi per una sorta di collage. Nonostante l'insuccesso commerciale, la band continuò ad esibirsi per tutta l'estate del '70, con una serie di concerti che culminò col festival all'isola di Wight del 29 agosto. Pressappoco nei medesimi giorni di quell'evento - che li vide divedere il palco, tra gli altri, con mostri del calibro di Jimi Hendrix, The Who, Emerson, Lake & Palmer - Jim dovette pure presentarsi a Miami per il processo giudiziario a seguito del celebre Miami incident del primo marzo 1969, di cui vi avevo già ampiamente parlato nelle precedenti recensioni. Ai problemi di tipo legale s'affiancò pure il regime di apartheid che le radio americane - probabilmente costrette - adottarono nei confronti della band, tagliandola di fatto fuori dal circuito radiofonico e determinando un netto calo nelle vendite dei biglietti per i live. Come se tutto ciò non bastasse, Jerry Hopkins e Danny Sugerman rivelano - nella loro biografia No One Here Gets Out Alive (1980) - dei malumori che intercorrevano sempre più frequentemente tra i membri della band. Quando Morrison manifestò chiaramente l'intento d'abbandonare la band, Ray Manzarek s'adoperò per il bene di tutti e convinse Morrison a restare per altri sei mesi almeno. Con l'arrivo dell'autunno le acque si mantenevano piuttosto agitate, dal momento che si stava pure avvicinando la fine del contratto che i Doors avevano in essere con l'Elektra Records, la loro storica etichetta. Nei confronti di quest'ultima s'era pure levata l'ira dei quattro Doors - questa volta tutti uniti sulle medesime posizioni - per quanto riguardava la pubblicazione di 13, best-of creato ad hoc dall'Elektra per il mercato natalizio di quell'anno. Molti anni dopo, nel 1997, Robbie Krieger spiegò con poche, semplici parole come se la stavano passando a quei tempi. "Eravamo piuttosto giù. Non potevamo suonare da nessuna parte per le conseguenze [del misfatto di Miami]; Morrison Hotel non aveva fatto così bene, e la gente diceva che eravamo finiti; Jim appariva fuori forma e stava ingrassando. Il nostro produttore di lungo corso ci aveva mollati? Pensavamo di esser stati fregati, così abbiamo iniziato a ridarci al divertimento". Nonostante i molti anni trascorsi, dalle parole Krieger trasuda ancora un senso d'impotenza incredibile, un'impossibilità ad agire pressoché totale nei confronti di come si erano messe le cose per la band. Eppure, come rammenta sulle pagine di Uncut il co-fondatore dell'Elektra Jac Holzman, la band aveva ancora un nome ("Erano dei colossi [?] Quello era il tempo in cui i DJ suonavano per intero i loro album. Avrebbero voluto suonare tutti gli album dei Doors. L'interesse e il riconoscimento per la band si mantenevano vivi. Un nuovo album dei Doors sarebbe stato comunque un grande evento"). Accantonati per un attimo i malumori, placatosi l'infuocato clima del post-processo, i Doors rientrarono improvvisamente in studio nel novembre 1970. Riesumando idee risalenti all'epoca del tanto bistrattato "The Soft Parade", i Doors le modificarono non poco, depurandole da ogni contaminazione orchestrale. Tre tracce vennero così subito incise presso i Sunset Sound Records di Los Angeles. I brani, che si rifacevano al sound maggiormente diretto del precedente Morrison Hotel, si mantennero da copione sulla scia del precedente LP, che aveva suscitato nella critica di settore un rinato interesse per la band, dopo il passo falso della Soft Parade. Risalgono però a quei giorni le prime scaramucce con l'Elektra, rea d'aver pubblicato il sopracitato 13 senza il permesso da parte della band. Nella fattispecie, ad infuriarsi non poco fu - manco a dirlo - Morrison, adirato per il modo in cui l'etichetta aveva esasperato la sua immagine di frontman della band per ricavare maggiori incassi. Jim minacciò addirittura d'abbandonare la casa discografica alla fine del loro contratto - che ricordo andava esaurendosi -, ma, a causa dell'obbligo di pubblicare ancora un disco, Jim e soci riuscirono a far valere davvero poco le proprie pretese, e continuarono così con le registrazioni in studio. Come è piuttosto palese che ci fossero frizioni tra la band ed il management, dissapori andavano creandosi pure col loro storico produttore, Paul A. Rothchild. James Riordan e Jerry Prochnicky raccontano in Break On Through: The Life and Death of Jim Morrison (2006) della profonda riluttanza di Rothchild ad acconsentire alle richieste della band di registrare un particolare brano, "Love Her Madly", poiché lo reputava essere un deciso passo indietro rispetto alla maturazione ed all'evoluzione stilistica della band (Rothchild sosteneva infatti che si trattasse di lounge music e nulla più, etichettandola addirittura come "musica da cocktail"). A dir la verità, voci di corridoio insistono nel sostenere che tale poco cortese aggettivo venne diretto non tanto contro la suddetta "Love Her Madly", quanto più nei confronti di "Riders on the Storm", uno dei brani più rinomati e conosciuti della band. Nell'intervista concessa al magazine BAM nel 1981, Rothchild spiegò che si trattava però solamente di un escamotage per "renderli abbastanza arrabbiati da fare qualcosa di buono". Chissà quanto potesse essere vera questa affermazione.. Con gli umori ai minimi storici, Rothchild decise infine d'abbandonare la band, non prima però d'aver constatato gli scarsi progressi che i quattro andavano facendo in sede di scrittura del nuovo materiale (divenne ancora più frustrato quando scoprì che la band aveva assoldato dei cantautori per sveltire le manovre di songwriting). A tutto ciò s'aggiungevano poi i reiterati tentativi d'invito rivolti a Morrison a mostrarsi più ligio al dovere, di presenziare, in sostanza, con maggior costanza alle prove. Il tecnico del suono Bruce Botnick, compagno di lunga data sia della band sia di Rothchild, ha recentemente rivelato (nel libro di Mick Wall Love Becomes a Funeral Pyre, 2015) di come quest'ultimo fosse oltretutto incredibilmente affranto per la scomparsa di Janis Joplin, con la quale aveva collaborato fino a pochissimo tempo prima per la realizzazione del suo secondo - ed ultimo - full-length, Pearl. E così, prima che calasse definitivamente un mesto sipario su una delle alleanze più proficue nella storia della musica, Rothchild si congedò dai Doors prima ancora che qualcosa di definitivo fosse inciso, raccomandando loro di non produrre l'album da soli, ma con l'ausilio di Botnick, del quale si fidava ciecamente. Barney Hoskins (Waiting for the Sun: A Rock 'n' Roll History of Los Angeles, 2009) racconta di come la band dovette allora abbandonare gli studios affiliati all'Elektra per poi trovarsi un "riparo di fortuna", e cioè un improvvisato studio di registrazione, molto fai-da-te, all'8512 di Santa Monica Boulevard, luogo poi noto come The Doors' Workshop ("La bottega dei Doors"). Al piano di sopra vennero installati aggeggi che trasformarono l'ambiente in una cabina di regia, mentre il pian terreno venne allestito da sala di ripresa. Non disponendo di una cabina per la voce, Morrison sfruttò la camera del bagno per registrare le tracce vocali. Come turnisti vennero invitati il bassista di Elvis Presley, Jerry Scheff, ed il chitarrista Marc Benno (che collaborerà, tra gli altri, con Eric Clapton e Stevie Ray Vaughan, oltre che intraprendere una lunga carriera solista che lo vede tutt'oggi attivo). John Densmore constatò subito la sintonia che nasceva spontanea tra lui e Scheff, apprezzando particolarmente il fatto che, grazie all'entrata in scena di un bassista, egli stesso poteva liberamente "dialogare" con Morrison; ma soprattutto un basso permetteva a Manzarek d'esimersi dalle partiture d'accompagnamento, con grande gioia del batterista della band, il cui compito risultava più complicato del solito dato che Ray era allora abituato ad andare fin troppo spedito sui suoi tasti. Sulle ali di un inaspettato entusiasmo - Morrison era al settimo cielo per la partecipazione di Scheff, bassista del suo idolo Presley - i lavori procedettero velocemente ed in sei giorni fu completato l'album. Dato il poco tempo impiegato, il lavoro che ne uscì si rivelò parecchio schietto e naturale. Non si resero necessarie modifiche strutturali, né tantomeno vennero considerati overdub (a parte qualche sovraincisione di tastiera). Il bisogno impellente delle band di produrre un album fresco, "primitivo" e senza tanti fronzoli, venne rivelato da Botnick in persona, il quale ricordò di come tutti s'adoperavano all'epoca per riprodurre la "dimensione live" nella piccolissima sala d'incisione. Ulteriori e successivi lavori sull'album sarebbero stati in seguito compiuti presso i Poppy Studios nel febbraio/marzo successivo, quand'ormai Morrison si era già trasferito a Parigi. Pur mancando inizialmente d'una buona dose d'idee, la band aveva comunque completato la registrazione in tempi da record. Il segreto di tanta celerità nei lavori si dovette in effetti imputare a diversi fattori. Primo, Morrison stesso fu spronato a far meglio del solito dal fatto che i lavori si susseguivano senza impedimenti, non come era avvenuto invece con The Soft Parade, coi suoi tempi biblici che avevano logorato tutti quanti i Doors. Secondo, questo fatto indusse lo stesso Morrison ad essere maggiormente coinvolto nella nuova dimensione "casalinga" della band, situazione che migliorò sensibilmente la sua condotta di vita (beveva di meno e si presentava sempre in orario). Terzo, mancava Rothchild. Nel bene o nel male, il produttore era sempre stato un accanito perfezionista. Ogni membro della band ricordava le esasperanti sedute di lavoro, le dozzine di incisioni che dovevano servire a far sentire Rothchild appagato dal lavoro dei suoi ragazzi. Krieger nel 1994 disse addirittura a Guitar World che quel "divertimento" di cui sopra, era dovuto essenzialmente al fatto che ora Rothchild se n'era andato: adesso erano tutti più liberi d'esprimersi, come scolari in assenza del severo maestro. Tutto questo, dunque, portò alla realizzazione definitiva di "L.A. Woman". Non siamo curiosi di vedere quali furono i frutti di tutta questa acclamata naturalezza?
The Changeling
A "The Changeling" (Il bambino scambiato alla nascita) spetta l'onore di aprire le danze di quest'album. Il brano, scritto da Morrison nel '68, venne inteso dalla band come quello da elevare allo status di singolo, di hit apripista per sfondare nei mercati discografici. Purtroppo per loro Holzman non era del medesimo avviso, e così la band si vide stravolgere i propri piani, obbligata a puntare sulla suddetta "Love Her Madly". Musicalmente parlando, l'incipit della canzone si discosta dall'opener del precedente disco ("Roadhouse Blues"), ricollegandosi in maniera abbastanza palese ad un'altra traccia di Morrison Hotel, ovvero "Peace Frog". Di quest'ultima traccia ne avevamo parlato come un brano parecchio innovativo per i gusti della band, dato che presentava i Doors sotto una luce decisamente inedita, complice il sound spiccatamente funky. La "strisciata" sull'Hammond in sede d'apertura, il martellante riff di basso, il timido fraseggio di chitarra - quasi "frenato" - sono ingredienti che portano subito l'ascoltatore ad immedesimarsi bene nel contesto divertente e divertito della canzone. L'organo vellutato di Manzarek prende subito le redini per quanto concerne la melodia, ma, se da un lato possiamo felicemente constatare un mood allegro, stessa cosa non si può dire del testo. Il vocione quasi "ingrassato" di Morrison si presta infatti alla figurata di un disperato, che ha vissuto un po' ovunque nella città ("Vivo in periferia/Vivo in centro/Vivo dappertutto"). Le sue alterne fortune ("Ho avuto denaro e poi non ne ho avuto più") non l'hanno mai minacciato seriamente, anche se questa volta la sorte pare essersi accanita maggiormente ("Non sono mai stato così giù/da non poter lasciare la città"). Il ritornello pare esserci d'aiuto per conoscere un po' meglio la figura del protagonista. Costui venne infatti "scambiato alla nascita" ed adesso non gli rimane che porsi inquietanti interrogativi sulla sua vita odierna e, soprattutto, sulla vita che avrebbe potuto fare con la sua vera famiglia, prima che il grossolano errore cambiasse irrimediabilmente il suo destino. Il crescendo del chorus porta, a 1:44, alla prima sezione solistica dell'album, con Krieger che graffia con la sua sei-corde coadiuvato dal tappeto sonoro di Manzarek e dal groove di basso di Scheff. Densmore è perennemente inchiodato su ritmi up-tempo decisamente accattivanti, che non escludono la possibilità d'agitarsi e di ballare. Terminata la sezione centrale, dove gli influssi blueseggianti ritornano a galla in maniera vistosa, ci si appresta ad immergerci nella strofa conclusiva, dove occorre soffermarsi su un versetto in particolare: "sì, sto lasciando la città/su un treno a mezzanotte". Queste parole tradiscono infatti quell'impellente bisogno avvertito ormai da diverso tempo dallo stesso Morrison, esigenza - o meglio, urgenza - che s'avvererà da lì a poco col trasferimento a Parigi. Grazie a quest'ultima considerazione, la canzone svela un'inedita voglia d'evasione da quella L.A. tanto decantata - ed altrettanto amata/odiata - dal frontman della band. Come tutti gli amori, però, anche questa vicenda pare esser destinata ad una fine; Morrison lo sa ed allora dedica alla città che l'ha allevato un ultimo, malinconico canto d'addio, anche se, per indole, sa che non ne soffrirà più di tanto perché una nuova città - una nuova "amante" - è pronta ad accoglierlo. Da notare, prima della chiusura, un secondo assolo di chitarra, parecchio distorto, sotto cui si pone il drumming a dir poco stordente di Densmore, incentrato sull'uso ripetuto del rullante.
Love Her Madly
"Love Her Madly" (Amala pazzamente) si piazza immediatamente alla seconda posizione. Il singolo, uscito dalla penna di Krieger, si rivelò esser un buon successo in termini di vendite, arroccandosi alla posizione numero undici della Billboard Hot 100, dove vi rimase per undici settimane consecutive. Ancora una volta, però, il singolo dei Doors fallì ad entrare nella corrispondente classifica britannica. Come b-side venne scelta "(You Need Meat) Don't Go No Further", uno dei tre lati-b a non apparire in nessun album (gli altri erano "Who Scared You?" per "Wishful Sinful" e "Tree Trunk" per "Get Up and Dance"). La chitarra in levare esordisce dettando il tempo per un altro brano movimentato. Nella tessitura della melodia, Krieger viene subito affiancato dal tack piano di Manzarek, che scandisce, rafforza ogni singola battuta ritmica. Ispirata ad una vicenda di vita vissuta dello stesso Krieger, il brano trarrebbe spunto da una litigata con la moglie Lynn, vicissitudine di cui sappiamo null'altro. Quel che è certo è che la canzone fu tra le prime tre ad essere registrata per la sessione di L.A. Woman. Tutto il testo pare essere un invito a non amare la propria compagna/fidanzata/moglie, perché tanto, prima o poi, ne avremo soltanto da pentirci. L'amore è tanto bello da non desiderare niente d'altro, specie quando le cose vanno bene; allo stesso modo, sa rivelarsi per un "invenzione" perversa e parecchio dolorosa, sensazione che si acuisce nel momento in cui qualcosa comincia a non girare più per il verso giusto. E così "non amarla follemente/non averne bisogno terribilmente/non amare i suoi modi" altrimenti te ne pentirai. Eppure, ogniqualvolta che si materializza un invito - non fare questo, non fare quello -, ecco che puntualmente si svela una debolezza, proprio perché, di lei, si ama questo, si ama quello? L'amore è una brutta bestia, e resisterci spesso si rivela impossibile. Sul piano stilistico, certi fraseggi di chitarra che fanno eco alla voce rimandano piuttosto marcatamente a determinate soluzioni tipiche del blues, mentre il piano Vox Continental amplifica lo spessore dell'accompagnamento. È proprio Manzarek, attraverso le note flautate del suo nuovo strumento, a regalarci un intermezzo solistico di tutto rispetto. Se le liriche ci invitano dunque a "non amarla pazzamente", non ci resta che cantare "una canzone solitaria", dal momento che il nostro "amore se n'è andato". Non mancano riferimenti più o meno velati, a tratti onirici ("Quindi canta una canzone solitaria/Di un profondo sogno malinconico/Sette cavalli sembrano essere sulla linea di partenza"), ma in linea di massima il realismo - quello più nudo e crudo - si mantiene come la direttrice su cui si muove l'intera composizione, cesellata infine da un solo di chitarra discreto e poco invasivo per la scarsa saturazione che accompagna ogni singola nota che fuoriesce dalla chitarra di Krieger.
Been Down So Long
Un Morrison con la schiuma alla bocca dà il la alla successiva traccia, "Been Down So Long" (Sono stato a terra così a lungo), che sino dalle prime partiture dimostra un beat decisamente catchy, compulsivamente esasperato dall'incedere del basso di Scheff, così pronunciato anche grazie all'andamento "compassato" ed estremamente quadrato di Densmore. Citata nel libro di Robert Christgau Rock albums of the '70s: a critical guide (1981) come uno dei brani che fece vendere di più questo L.A. Woman, "Been Down So Long" riprende quei motivi tanto cari a Morrison, quali l'amore (anche fisico, carnale), la depressione e la paura, l'alienazione da parte della castrante società moderna, la libertà d'espressione a 360° gradi. Queste sono tutte tematiche che hanno attraversato le epoche moderne incarnandosi dapprima nei grandi poeti del XIX secolo, fino ai più giovani «poeti ribelli» degli anni Sessanta del Novecento (ottimo, a mio parere, il titolo del libro di Wallace Fowlie, Rimbaud and Jim Morrison: The Rebel as Poet, 1994, dove si paragona, appunto, il frontman dei Doors al caposcuola della lirica decadente e simbolista francese). Il titolo della canzone rimanda al romanzo di Richard Fariña Been Down So Long It Looks Like Up to Me (1966), titolo a sua volta mutuato da un verso della canzone blues di Furry Lewis del '28 "I Will Turn Your Money Green". Se Fariña intitolava la sua opera Così giù che mi sembra di star su, Morrison gli fa eco, enfatizza anzi il verso, facendolo diventare "sono stato a terra così dannatamente a lungo/che sembra l'abbia fatto apposta/Sono stato così tanto a terra/che mi sembra di stare su". L'autoironia morrisoniana tocca qui i suoi apici, come fanno giustamente notare James Riordan e Jerry Prochnicky nella biografia di cui sopra. Se però non fosse proprio tutta colpa sua, perché nessuno accorre a salvarlo ("Beh, perché non venite gente/non venite a liberarmi?")? Gli inviti al "secondino" sono molteplici, e man mano sempre più concitati ("Io dissi, guardia, guardia, guardia/non romperesti la tua serratura e la chiave?"), ma poi tutto prende una piega diversa - molto più diretta e peccaminosa - con l'esortazione alla donna di turno a mettersi "sulle ginocchia" per dare il suo "amore". Musicalmente, avevamo detto che il brano si caratterizzava fin da subito per un'innata capacità a stuzzicare l'orecchio dell'ascoltatore, che si trova coinvolto - oltre alle liriche di perdizione - in mezzo ad un più che inedito trio di chitarre. Oltre alla solista di Krieger, che fa largo uso dello slide, si presenta qui pure il ritmico Marc Benno, ma è soprattutto Manzarek ad abbandonare le sue care tastiere per imbracciare - per la primissima volta nella carriera della band - una chitarra. Il flavour blueseggiante, respirabile ad ogni nota, è così ingigantito dall'utilizzo sfrenato di molteplici chitarre, ognuna intenta a tracciare venature di puro sentimento musicale in grado di controbilanciare la voce del singer. Sull'altro versante, le pulsazioni della sezione ritmica non abbandonano mai la canzone, scandendola da cima a fondo con precisione svizzera. Si può infine dire che la voce di Morrison - "quarta chitarra" - permette alla band d'immergere l'ascoltatore in quel vecchio sound caratteristico degli esordi, che ritorna qui in tutta la sua prepotenza sonora.
Cars Hiss By My Window
Grevi note di chitarra aprono la quarta traccia, "Cars Hiss By My Window" (Macchine rumoreggiano alla mia finestra), riprendendo le coordinate appena segnate dalla precedente traccia. Krieger sfrutta le tonalità più scure del suo strumento, prontamente bissato da Benno, al fine di calarci subito nel contesto della canzone, quasi a non voler interrompere bruscamente il discorso di "Been Down So Long". Il "nuovo menestrello" Morrison è altrettanto pronto a perseguire i toni dimessi e rassegnati che fino a poco fa ci avevano accompagnato nel primo vero episodio blues dell'album. In occasione della prima strofa, Jim tratteggia un quadro della situazione ("Le macchine rumoreggiano alla mia finestra/come le onde giù alla spiaggia/Ho questa ragazza con me/ma è fuori portata"). La circostanza non è migliorata rispetto a prima, poiché continua a materializzarsi la figura di una donna che non si concede, una donna che non vuole rendere felice il protagonista. Sebbene gran parte del lavoro sembri cosa fatta - Jim era infatti riuscito a portarsela a casa -, lei pare ora stare in disparte, distaccata e poco convinta sul da farsi ("Non riesco a sentire la mia bimba/anche se l'ho chiamata, l'ho chiamata"). Poco dopo la canzone sterza bruscamente verso una direzione insospettabile: se prima l'augurio era quello di concludere qualcosa buono, ecco che ora la ragazza assume le sembianze di un pericolo ("Una fredda ragazza ti ucciderà/in una stanza oscura"). Sotto il profilo musicale tutta la canzone sembra mantenersi costante, adottando soluzioni decisamente audaci - dall'assenza di Manzarek ai colpi "spazzolati" di Densmore, neanche tanto velatamente jazzistici. Uno squillo ci annuncia infine l'assolo (3:30), ma ci occorrono alcuni secondi per capire che non si tratta della chitarra, bensì della "bocca" di Morrison, che ben si produce nell'imitare quello che oggi definiremmo un auto-wah o un talk box. Anche questo è un dettaglio estremamente particolare dell'estro creativo della band.
L.A. Woman
La title-track (Donna di Los Angeles) si piazza a conclusione del lato-a di questo LP. Il titolo della canzone vuole essere uno spaccato di quella città tanto declamata dai nostri Doors. Come ricordò Manzarek al portale ArtistDirect.com, quando lui ed i suoi compagni si mossero per le prime registrazione del loro futuro album, non avevano in mente una precisa linea da seguire, quantomeno per le tematiche ed il songwriting. Dopo il primo "pacchetto" di tre canzoni incise, tuttavia, si resero conto che le loro composizioni "parlavano di Los Angeles. Erano incentrate su uomini, donne, ragazzi, ragazze, amore, perdita, amori perduti, amori ritrovati in Los Angeles". A questo punto risultava piuttosto chiara la necessità di dedicare un'ode alla stessa metropoli californiana. Rumori stridenti aprono la traccia, seguiti poco dopo da accordi di chitarra acustica quasi stonati. Col suo Fender Rhodes piano, Manzarek saltella su due tasti, facendo salire vertiginosamente il feeling del brano. Da lì a poco la tastiera viene bissata dal basso di Scheff, che non fa che aumentare la sensazione di cui sopra. Il ride è tintinnante; le due chitarre - di Krieger e Benno - tratteggiano, in maniera sorniona, un riff memorabile. Il rullante entra in gioco, ed il brano ottiene tutt'altro tiro. Chiudendo gli occhi pare di stare su di una highway americana, che costeggia l'enorme centro abitato di Los Angeles. Per la relativa intensità sonora, pare di stare ancora all'alba, alle prime luci del giorno, quando ancora tutti dormono. Noi, a bordo della nostra vettura, sentiamo solo la fresca brezza mattutina accarezzarci il viso, passarci nei capelli, per poi farci sentire il gusto della libertà. Morrison - nel brano che è considerato il suo saluto a quella città alienante - dà il via al cantato riprendendo la nostra suggestione di prima ("Sono stato in città sarà un'ora fa/Ho dato un'occhiata in giro/Ho guardato da che parte tirava il vento"), ma la sua attenzione si sposta subito su delle signorine che bazzicano in quel di Hollywood. Riguardo a questa prima strofa, c'è da dire che si è dibattuto molto sui versi scritti da Morrison. Alcuni dicono che il versetto giusto sia "Did a little downer 'bout an hour ago" ("Mi sono fatto un calmante [o meglio, una dose] circa un'ora fa"; alcuni invece propendono per un'altra interpretazione, ovvero quella che vi ho riportato prima. Quest'ultima tesi sarebbe avvalorata dall'originale testo della canzone, scritto da Morrison in persona, ritrovato e venduto all'asta nel 2009 per la cifra di 13,000£. La biografia di Stephen Davis (Life, Death, Legend, 2004) conferma ulteriormente questa tesi, pur non rinnegando l'eventualità che, almeno in origine, fosse però "downer" a comparire sulle liriche ufficiali (Morrison scelse però saggiamente di rimuoverlo onde evitare altri inutili, seccanti brusii giudiziari). Un altro importante passo di questa "L.A. Woman" è il reiterato paragone tra la "città della luce" e la "città della notte". Morrison, come abbiamo già detto in precedenza, era ormai stufo della realtà californiana: il suo occhio mirava verso Parigi. Proprio nella capitale francese si era già trasferita la sua "eterna compagna", Pamela Courson. Se l'amore suggerisce a Jim di andare in Francia senza tanti indugi, sembra facile ritrovare nell'immagine della "città della luce" la stessa Parigi. Al contrario, "la città della notte" risulta allora essere proprio Los Angeles, rabbuiata perché l'amore rischiarante dei due è fuggito altrove, oltreoceano. Infine, occorre ricordare un altro assist proveniente dal mondo, mai dimenticato da parte di Morrison, della letteratura: The City of Night era infatti il titolo di un romanzo di John Rechy, edito nel 1963. Riguardo tutt'altra questione affiorano invece strange figure, come quella di Linda Ashcroft. Chi sia costei è presto spiegato. Se badiamo alle iniziale del suo nome - L e A - noteremo subito l'assonanza con l'acronimo della megalopoli californiana. Pare che - ma son solo voci di corridoio - la donna in questione avesse avuto, ai tempi, una liaison con Morrison stesso. La donna scrisse addirittura un libro sulla vicenda, Wild Child: Life with Jim Morrison (1999), il cui contenuto venne però smentito dagli addetti al settore, i quali sostenevano infatti di non aver alcuna memoria riguardo alla Ashcroft (John Prochnicky, sulle pagine del «Daily Telegraph» londinese, rivelò che il cognome della donna non gli diceva assolutamente niente). Ricollegandoci all'impianto musicale di cui prima, occorre notare che un primo assolo di chitarra giunge già a 1:31, per mano di Krieger, enfatizzato dal tack piano di Manzarek. L'aspetto amoroso - ancora una volta un amore sfortunato - è poi fortemente ribadito nel ritornello, dove Morrison affresca un ritratto della "donna di Los Angeles", che passeggia attraverso le "periferie", immersa nei suoi "pensieri malinconici". Un secondo assolo, questa volta ad opera di Manzarek (2:39), ci trasporta nella sezione centrale della canzone, dove assistiamo ad un cambio ritmico in prossimità della seguente strofa. Proprio qui, la canzone comincia ad indagare la città da un altro punto di vista, quello dell'highway citata in sede d'apertura. Man mano che il protagonista si avvicina alla città, sembra poter osservare da più vicino la variopinta vita notturna ("circolando per le tue vie/vago per i vicoli notturni/Poliziotti nelle macchine, i topless-bar"). Ma, ancora una volta, l'attenzione ricade esclusivamente sulla donna protagonista di quest'ode, mai vista "così sola" e disperata. Anche l'ordito narrativo pare farsi all'improvviso più triste e malinconico, specie quando Jim recita i versi "Motel, denaro, assassinio, follia/Cambiamo l'umore da gioia a tristezza". L'ultimo dei due versetti, specialmente, vuol ricordare da vicino l'efferato omicidio perpetrato ai danni di Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski. In quell'incredibile - e recente - fatto di cronaca nera, oltre alla Tate, vennero uccise altre tre persone per mano di una folle setta di criminali che si faceva chiamare The Manson Family, "la famiglia di Manson", dal nome del cantautore-criminale Charles, mandante di uno degli omicidi più brutali della storia americana. Nel docu-film dell'85 The Doors: Dance on Fire, diretto dallo stesso Manzarek, nel momento dedicato a "L.A. Woman", quando Jim pronuncia "Motel, denaro, assassinio, follia" si possono vedere passare le immagini delle prime pagine dei rotocalchi del tempo, che sbattevano in bella vista l'incredibile vicenda dell'assassinio della Tate. Ritornando sui nostri passi, notiamo che il brano ha assunto tutt'altro gusto. La batteria ha rallentato notevolmente, il basso e la chitarra si rispondono l'un l'altro prima che Morrison ritorni dietro al microfono. Quando lo fa è per declamare la rinascita di tale Mr. Mojo, soprannome dello stesso Jim ("Mr. Mojo risin'", "il Signor Mojo si alza" è infatti l'anagramma di Jim Morrison). La strofa è una delle più enigmatiche finora trovate all'interno di questo L.A. Woman, e trasuda giustamente tutta la psichedelia del disco d'esordio. Quando Jim ripete solo più "s'alza, s'alza" - al cui interno alcuni intravedono un richiamo all'atto sessuale dell'erezione - il brano comincia a prendere sempre più velocità, con Densmore che aumenta consistentemente il beat. A 6:04 un altro assolo di chitarra ci trasferisce verso la sezione conclusiva della canzone, dove effettivamente ci pare davvero d'ascoltare Jim dire la parola "downer". Dopo la ripresa della prima strofa, il brano si conclude con un ultimo chorus, non prima di un'altra partitura solistica di Krieger, che svanisce, come tutto il brano, all'infinito, permettendoci di sperderci nell'assoluta genialità del quartetto losangelino.
L'America
L'arida chitarra di Krieger apre la seguente "L'America", traccia originariamente composta per comparire, come parte della colonna sonora ufficiale, nel film Zabriskie Point (1970), del maestro Michelangelo Antonioni (che si dice abbia visitato la band durante le registrazioni dell'album). La calda saturazione della sei-corde, esaltata da singoli tocchi (preferiti questa volta agli accordi), lascia ben presto spazio ad un simil-arpeggio pulito, gonfiato con un effetto di delay. L'organetto Gibson G-101 è maligno nella sua inquietante tonalità; il basso di Scheff riprende invece il medesimo giro di chitarra. La marcia sul rullante amplifica il senso d'arsura degli altri strumenti. Ci sembra quasi di svenire per il grande caldo che inaridisce tutta la vallata attorno a noi. Sensazioni lisergiche sono prontamente confermate sin dai primissimi versetti, dove il protagonista si mette in viaggio verso "L'America" per "scambiare pillole con una pinta d'oro". L'esoterismo camuffato rimanda ai più oscuri ed impenetrabili lavori dell'esordio omonimo, e ben s'intona col procedere del brano. L'ossessiva ripetizione del titolo (ben sei volte!) sembra acuire sia la sensazione sia di disorientamento fisico, nelle pianure alcaline della California, sia di smarrimento emotivo. Il caldo è insopportabile ed ogni battuta ci rende impossibile ragionare sul da farsi. Per fortuna, a metà canzone, il brano cambia sensibilmente di tono, tramutandosi in una traccia blueseggiante che però non dimenticherà mai del tutto gli influssi psichedelici (basta vedere l'assolo d'organo a 2:30). Sebbene la traccia non venne alla fine inclusa nella colonna sonora del film, poco importò di fatto ai Doors, dal momento che il film si rivelò un fiasco ai botteghini USA, stroncato piuttosto duramente pure dalla critica cinematografica (alterne fortune riscontrò invece in Italia). Quel che è certo è che anche un brano come "L'America" mantiene alto il livello d'interesse dell'ascoltatore, letteralmente sballottolato a destra e a manca fino a questo momento, tra amori non corrisposti, scene di degrado cittadino e morbosi riferimenti all'amore ed al sesso, fino a ritrovarsi, appunto, abbandonato e disperso alla luce del cocente sole californiano.
Hyacinth House
Di tutt'altra pasta sonora è costituita "Hyacinth House", (La casa dei giacinti). Considerata da Densmore come la canzone di Jim che più sprigiona un senso d'enorme solitudine, il brano è una ballad magnificamente aperta dalla chitarra pulita di Krieger. I ritmi sono distesi e non hanno nulla a che vedere con quanto incontrato sino a questo momento. Lo stesso Krieger, in occasione della stampa del box set della band (1997), ha spiegato la genesi di questa canzone. Scritta presso casa sua, il titolo si deve alla varietà di fiori - i giacinti, appunto - che crescevano al di fuori del soggiorno dell'abitazione. Morrison, cui è accreditata la canzone in collaborazione con Manzarek, è probabile che si rifaccia però a Giacinto, mitologico personaggio greco ucciso per sbaglio dal dio Apollo durante una gara di lancio del disco. Racconta la leggenda che la divinità, impietosita per la bellezza del giovane fanciullo, si rifiutò di lasciarlo andare nell'Ade anche se morto, preferendo farlo diventare un bellissimo fiore profumato. Questa lettura interpretativa - che tiene in conto dell'influsso mitologico classico - ci informa però anche di un collegamento con un'altra canzone dei Doors. Siccome Giacinto si è rivelato protagonista di una tristissima vicenda (la morte in età giovanile), è inevitabile leggere gli ultimissimi versetti ("E lo ripeto, ho bisogno di un nuovo amico/La fine") come un potente rimando evocativo alla traccia conclusiva di The Doors, "The End". Se in quella tragica canzone Jim ricordava all'ascoltatore che "questa è la fine, una bella amica/questa è la fine, la mia unica amica, la fine", ora Morrison rincara la dose, svelando i bui pensieri che s'annidano nella sua mente. Se il tema della morte/suicidio è ormai qualcosa di tangibile (e purtroppo nemmeno tanto lontano nel futuro), Morrison tradisce anche un senso d'estrema insoddisfazione per la sua situazione attuale ("Ho bisogno di un nuovo amico che non mi scocci/Ho bisogno di un nuovo amico che non mi crei problemi/Ho bisogno di qualcuno che non abbia bisogno di me"). Oltre a farvi notare l'ultima, folgorante antitesi - davvero efficace ed espressiva - è facile intuire che anche questa volta l'"amico" che Morrison cerca sia probabilmente una figura femminile, che sappia amarlo senza soffocarlo (anche Krieger conferma anche questa versione). Stilisticamente parlando, in quanto ballata, i Doors si presentano sotto nuove vesti - decisamente piuttosto insolite - che confermano la versatilità di questa band a muoversi in ogni contesto musicale. E così l'Hammond di Manzarek si rivela essere lo strumento più adatto per questo mood, specie grazie al suo suono rotondo e morbido. La sezione ritmica risulta maggiormente in ombra, a favore della controparte melodica. La voce di Morrison si trova saldamente posizionata su tonalità decisamente basse, leggermente venate di desolazione. Canzone ben arrangiata e strutturata, "Hyacinth House" brilla però per le liriche, che, come abbiamo avuto occasione di vedere, possono essere considerate alla stregua di un testamento, o meglio, di una dichiarazione d'intenzioni dello stesso Morrison.
Crawling King Snake
"Crawling King Snake" (Re serpente che striscia) è una cover di un brano in stile delta blues databile agli anni Venti, come riferisce Gerard Herzhaft nella sua Encyclopedia of the Blues (1992). Resa celebre da Big Joe Williams nel 1941 in salsa country, fu ripresa da John Lee Hooker alla fine di quel decennio, facendola diventare un singolo d'enorme successo commerciale che si piazzò alla posizione sei della Billboard R&B del 1949. Nota la questione dei rettili e del fascino che esercitavano sull'animo di Morrison, è facile capire perché sia stata scelta proprio questa traccia. Solitamente eseguita live da parte della band in molte occasioni, "Crawling King Snake" s'apre con un riff ad opera di Marc Benno, presto raggiunto dalla solista di Krieger. L'insolito pattern di batteria è simile ad una marcia, invigorito dalla linea di basso che segue quella delle sei-corde. È proprio Jim in persona a parlare. Abbandonate per un istante le spoglie del Re Lucertola, ecco che l'istrionico frontman cambia pelle, fa letteralmente la muta, per dar vita al nuovo Re Serpente ("Sì, sono io lo strisciante re serpente/e comando la mia tana"). I serpenti strisciano ovunque, e qui è una giovane ragazza a trovarne uno in giardino. Ma non ha rinvenuto una semplice biscia, ha trovato addirittura il Re Serpente, che striscerà fino alla fine dei suoi giorni ("L'erba è molto alta/Striscerò finché morirò"). Strisciando, insinuandosi furtivamente ovunque, il Re Serpente può arrivare in ogni luogo desiderato, intromettendosi ovunque. In altre parole, questa è una metafora per dire che Jim, se lo vuole, ottiene davvero ciò che vuole. Sempre. Ed allora è inutile che la donzella di turno opponga resistenza, tanto, prima o poi, cadrà nelle sue spire. È altresì inutile continuare con la commedia del corteggiamento: "vai là fuori sulle mani e sulle ginocchia, bambina/strisciami tutta intorno [?] strisceremo ancora". La canzone è un lento blues d'autore, dotato di una musica non invasiva che lascia il giusto risalto al testo. Quando però se ne presenta il caso, Krieger imbraccia con maggior convinzione la sua chitarra e disegna assoli robusti e vigorosi (1:47). Lo stampo ritmico è piuttosto monocorde e non prevede alcuno sbalzo all'interno della composizione. Col medesimo tiro la canzone s'avvia così verso la fine, con Jim che ricorda, ancora una volta, che lui è il solo ed unico Re Serpente. Prima della conclusione c'è però ancora da notare il bellissimo assolo di Manzarek al piano elettrico Wurlitzer, strumento che riproduce la classica timbrica del pianoforte mista però ad una piacevole saturazione elettrica.
The WASP (Texas Radio and the Big Beat)
Alla penultima posizione troviamo "The WASP (Texas Radio and the Big Beat)". Wasp è un acronimo inglese che sta per white anglo-saxon protestant, che indica un bianco d'origine inglese e di religione protestante. Sul sottotitolo, Radio Texas ed il Big Beat, ci accorre in aiuto Manzarek, il quale tempo fa spiegò ad Uncut che tale Big Beat era il soprannome di una radio che trasmetteva da Del Rio, piccolo paese nel cuore della California. I suoi ripetitori erano così potenti da permetterne l'ascolto fin quasi dall'altro capo dell'America. Sia Manzarek - a Chicago - che Morrison - in Florida - erano cresciuti ascoltando questa radio. Ritornando a "The WASP", la canzone è una delle più difficili da interpretare sul piano lirico, essendo uno degli esempi della miglior arte poetica del genio di Morrison. La parola "Texas" sarebbe, in realtà, simbolo di un'entità governativa strapotente (come uno Stato, appunto), mentre la "radio" impersona tutti i mass media messi assieme, asserviti al volere dei più potenti. Musicalmente parlando, la canzone assomiglia in maniera spiccata alla terza traccia, "Been Down So Long", specie per quanto concerne la ritmica. L'Hammond si rende autore, con la chitarra, di una bizzarra canzone, che suona "strana" da cima a fondo. Sono però le liriche a colpire di più. Fulgido esempio di quel che Morrison sapeva fare con la penna e, soprattutto, con l'immaginazione, il testo è un contenitore delle metafore più disparate, così intricate da poterle facilmente dissipare le une dalle altre, ma così freddamente predisposte al fine di costituire un continuum logico profondamente calcolato. In questa circostanza tutto appare però anomalo e stravagante. Morrison non sembra più sbraitare le solite suppliche nell'ottica di portarsi una donna a letto: ora sembra addirittura recitare un copione, prendendo parte ad un'opera teatrale che trascende i confini stessi del mondo musicale: la canzone che diventa teatro. La musica, dal canto suo, è accompagnamento puro, è un accento sulle parole più significative, uno strumento d'amplificazione per la sensibilità dell'ascoltatore. Proprio quest'ultimo si trova pressappoco sgomento, sicuramente incredulo e stordito. "Ma sono sempre i Doors?" si starà domandando. La risposta è piuttosto ovvia mi pare, e non fa che avvalorare la tesi che sostiene l'incommensurabile grandezza del genio morrisoniano, sia esso personificato dal Jim-cantante che dal Jim-poeta. Il Jim-cantante è certamente riconosciuto oggigiorno come uno dei maggiori cantanti rock di sempre, mentre il Jim-poeta continua a rimanere un esclusivissimo lusso per pochi intenditori. Anche se la lirica morrisoniana non verrà probabilmente mai sdoganata del tutto - data l'eccessiva difficoltà della sua interpretazione -, quel che è certo è che ormai qualcosa si sta smuovendo pure nell'altro senso: sono maturi i tempi per riconoscere la grandezza dell'opera del Morrison-poeta e "The WASP" può esserne un grandissimo manifesto.
Riders on the Storm
Ultima traccia dell'album è quella "Riders on the Storm" (Cavalieri sulla tempesta) che già avevamo nominato nell'introduzione. Vero e proprio evergreen della band losangelina, la canzone si apre con il memorabile ed inconfondibile scrosciare della pioggia, che confeziona un ambiente acustico incredibile. Il basso di Scheff comincia sornione ad insinuarsi nella nostra mente, bucando a fondo il nostro inconscio come un tarlo che scava nel legno. L'assolo di piano piazzato ad inizio canzone è un'ottima trovata, perché ci traghetta fin da subito nel pieno della tempesta. Rumori di tuono ed una pioggia che non accenna a diminuire fanno da contorno alla voce di Morrison, che ripete il titolo nel mentre che Krieger sfoggia una chitarra tremolante e suggestiva. Il nudo realismo di Morrison esplode in concomitanza di versetti parecchio crudi e diretti, in cui si sottolinea la brutalità con cui veniamo gettati in questo mondo di squali ("In questa casa nasciamo/In questo mondo siamo gettati/Come un cane senz'osso"). La canzone procede quasi sommessa, e su di questa questione Rothchild non aveva poi tutti i torti, dato che vedrei bene il brano per un cocktail in terrazza, non fosse per il testo e per i rumori di pioggia! I toni distesi, dilatati dall'eco di cori eterei, conferiscono al brano quel flavour onirico e distaccato tipico di certi quadri surrealisti del Novecento. La chitarra effettata (1:42) vibra come un calabrone impazzito sotto la pioggia, intento a trovarsi un riparo asciutto. Il pattern ritmico rimane costante da cima a fondo, e sulla sua semplicità Krieger e Manzarek costruiscono rinomate strutture armoniche, ricorrendo a soluzioni tanto raffinate quanto efficaci. Se prima era Krieger ad effettuare l'assolo, dopo neanche un minuto tocca già al Fender Rhodes di Manzarek, che crea, con la complicità degli altri musicisti, una sezione centrale strumentale d'icastica bellezza. Dopo quasi due minuti d'assolo, Manzarek si ricollega alla scala già ascoltata nell'intro (4:24) al fine di riannodare il discorso intrapreso da Morrison col testo. Se la seconda strofa lasciava trasparire oscuri presagi di morte ("C'è un killer sulla strada [?] Se date un passaggio a quest'uomo/la dolce famiglia morirà/Killer sulla strada"), la terza ritorna su temi già affrontati dalla band in diverse altre occasioni. Quello che Morrison augura alla ragazza è di amare realmente il proprio uomo. Quasi come un narratore onnisciente, al di fuori della trama della canzone, Jim si fa assoluto profeta ("Prendilo per mano/Fagli capire/che il mondo dipende su di te/La nostra vita non finirà mai/Devi amare il tuo uomo"). E con un ultimo, finale colpo di coda si trova ancora il tempo di ripetere per le ultime volte il ritornello, non prima d'esser passati per timidi "baluginii" chitarristici, offuscati dall'umidità che sale e silenziati dai tuoni in lontananza.
Conclusioni
Una volta registrato il disco, i Doors s'esibirono nuovamente dal vivo a distanza di alcuni mesi (non calcavano un palcoscenico dal festival sull'Isola di Wight). L'11 dicembre 1970 la band diede spettacolo al State Fair Music Hall di Dallas, dove presentò alcuni dei nuovissimi brani, commettendo tuttavia qualche errore sui pezzi più vecchi. Morrison apparve in buona forma, decisamente galvanizzato dalla registrazione acustica di una delle sue raccolte di poesie presso i Village Recorders di West Los Angeles. Pur non passando alla storia come uno show memorabile, il concerto di Dallas servì perlomeno a confermare che i Doors erano ancora una band che, detto in termini spiccioli, tirava ancora un sacco di gente. Il giorno dopo si trovarono al Warehouse di New Orleans per quella che sarebbe stata l'ultima apparizione della band con Jim al microfono. A quella serata Morrison arrivò in uno stato pietoso, che condannò non poco l'esito finale del concerto. A metà di "Light my Fire", infatti, Jim cominciò a biascicare ed a scordarsi le parole. Essendo ancora vagamente lucido, Jim cercò di ripiegare su altri espedienti col pubblico, come il dialogo o vari altri scherzetti. L'effetto desiderato di risollevare le sorti di una canzone ormai compromessa non fu raggiunto. Nemmeno Densmore - che incitò a più riprese Morrison - sortì un qualche effetto, anzi: poco dopo le cose peggiorarono ulteriormente. Jim cominciò ad agitare l'asta del microfono ai quattro venti, per poi cominciare a sfasciarla contro il parquet del palcoscenico. Dopo aver divelto il pavimento, Jim indietreggiò sino al rialzo della batteria per poi svenire a terra, privo di sensi. Dopo quell'episodio la band intera decise d'annullare ogni concerto futuro, bloccando in una fase di stallo la tournée. La scusa ufficiale fu che si ritiravano momentaneamente per poter ultimare i lavori al nuovo L.A. Woman, che sarebbe poi uscito da lì a quattro mesi. Dell'ultimissimo concerto di Jim Morrison coi Doors non è rimasto purtroppo nulla, anche se, un tempo, tale George Friedman, manager che lavorava al Warehouse, disse d'esser in possesso di una rozzissima registrazione su bobina di quella fatidica serata del 12 dicembre 1970, rinvenuta per puro caso durante un trasloco e custodita gelosamente all'interno di una cassetta di sicurezza. Nonostante lo stesso Friedman abbia più volte confermato la loro esistenza, non esistono tutt'oggi pubblicazioni che rechino il materiale registrato quella sera. Qualche mese dopo, il 19 aprile 1971, usciva ufficialmente in tutti i negozi di dischi "L.A. Woman", ultimo disco dei Doors con Morrison vivo. Il disco si rivelò un buon successo, arrivando sino alla nona posizione della Billboard 200, dove vi rimase per trentasei settimane. In Inghilterra il successo fu invece più modesto (29ª posizione per quattro settimane). L'artwork, ad opera del fotografo Wendell Amick, fu piuttosto essenziale, così come essenziale sembrava essere ritornato il sound della band. Jac Holzman si rese conto dell'eventualità che L.A. Woman potesse essere l'ultimo disco della band e per questo motivo volle che le facce dei quattro Doors venissero impresse chiaramente sulla copertina, tutte uguali, tutte sullo stesso piano (è l'unica copertina in cui compare un Jim con la barba). Anticipato dai singoli "Love Her Madly" (11° nella Billboard Hot 100) e "Riders on the Storm" (14°), l'album ricevette sostanzialmente buone critiche. Se Robert Meltzer del Rolling Stone colse al volo il senso di divertimento e di voglia di lavorare assieme della band, Richie Unterberger di AllMusic riconobbe un'irregolarità nell'andamento tematico all'interno dell'album, pur ammettendone un altissimo livello qualitativo medio. Il critico di musica rock J.D. Cook usò parole al miele per giudicare un disco di tale caratura: L.A. Woman riesce nel difficilissimo intento di riuscire ad ottenere un mix ideale di vecchie e nuove sonorità. Se da un lato vuole ritornare al passato, dall'altro non rinuncia nemmeno all'esplorazione di terre vergini mai fino ad allora toccate. Sal Cinquemani, per Slant Magazine, è sia d'accordo con il collega del Rolling Stone che con Unterberger: per entrambi i giornalisti, infatti, L.A. Woman è un lavoro "allarmante", "scioccante". Ma quello che però risultò maggiormente scioccante fu, ahinoi, la scomparsa di Jim Morrison, che venne a mancare pochi mesi dopo, il 3 luglio del 1971, a soli ventisette anni. Calava così, infine, il sipario su uno dei più geniali artisti rock di sempre. Ai Doors, alle Porte, non rimaneva che chiudere i battenti..
2) Love Her Madly
3) Been Down So Long
4) Cars Hiss By My Window
5) L.A. Woman
6) L'America
7) Hyacinth House
8) Crawling King Snake
9) The WASP (Texas Radio and the Big Beat)
10) Riders on the Storm