THE DOORS
Full Circle
1972 - Elektra Records
GIACOMO BIANCO
06/10/2016
Introduzione Recensione
Se pensiamo alla storia dei Doors come ad un grande percorso nello spazio e nel tempo, possiamo facilmente asserire che i quattro di Los Angeles hanno peregrinato ovunque, in ogni luogo della musica. Creatasi in pieno clima psichedelico, la band si è inizialmente costituita attorno alla sua matrice più prettamente blues rock (The Doors, 1967); in seguito ha sperimentato e sperimentato, raffinando sempre più il suo sound (Strange Days, 1967 e Waiting for the Sun, 1968), salvo poi rinnegarlo in più occasioni, arrivando ad abbracciare derive, almeno all'inizio, insospettabili (The Soft Parade, 1969). Ma siccome è bene tutto quello che finisce bene, è accaduto anche che la band sia ritornata sui propri passi, da buon figliol prodigo, perché d'altronde non ci si può vergognare delle proprie origini (Morrison Hotel, 1970), specie se quelle origini ti avevano dato (tanto) pane da mangiare. Ma è stato solo un fuoco di paglia (L.A. Woman, 1971), perché il cataclisma era già dietro l'angolo (morte di Jim Morrison, 3 luglio 1971). E così, ai Doors rimasti toccò reinventarsi, dar prova di se stessi e dimostrare al mondo che, oltre a Morrison, rimanevano pur sempre altri tre talentuosi musicisti ed autori di canzoni. Non dico spiccare nuovamente il volo, come se niente fosse successo, ma certo l'economia della band poteva ripartire. Ci fu così un primo esperimento, che risponde a nome di quell'eclettica pubblicazione chiamata Other Voices (1971), un disco che abbiamo visto ibridare diverse componenti musicali, ma pur sempre utilizzando lo stampino della band. Probabilmente mai titolo fu più azzeccato, e la scelta di tale denominazione premiò pure l'arditezza della band, che non aveva assolutamente voluto rimpiazzare il defunto Morrison con un altro pupazzo dietro al microfono. No: attinsero a quello che avevano: le altre voci diventarono così Ray Manzarek e Robbie Krieger. La scelta fu premiata e l'album, nonostante evidenti carenze rispetto a quel che fu, non fece male: raggiunse anzi il 31esimo posto della classifica statunitense. Other Voices simboleggiava, per così dire, un secondo inizio, e solitamente i critici, prima di gridare al miracolo, aspettano il secondo - se non il terzo - disco di una band. È paradossale, ma ai Doors era chiesto ora di riconfermarsi una seconda volta nella loro carriera. Probabilmente Manzarek, Krieger e Densmore erano consci di questa situazione, ma è altresì certo che sapevano che non sarebbero potuti andare avanti ancora per molto tempo. La voglia di continuare dopo la morte di Morrison c'era, perché occorreva far presente che "ehi, ci siamo anche noi tre", ma questa non era una spinta che poteva metterti benzina in corpo per altri dieci anni. Il climax era già in fase discendente: erano gli ultimi vagiti di una band gloriosa. In altre parole, i Doors si ritrovavano al punto di partenza, anche se erano di fatto giunti alla fine. È un evidente controsenso, un tratto degno di un quadro surrealista, ma è così che stavano realmente le cose. Come dicevamo prima, consapevoli di questa direzione di non-ritorno intrapresa, i Nostri pubblicarono nel 1972 un album dal titolo assai eloquente, intenso, ponderato, ma per certi versi pure rassegnato: "Full Circle", appunto "punto di partenza". Eloquente perché, in due sole parole, la dice lunga sulla consapevolezza raggiunta dai tre musicisti. Allo stesso modo è un titolo intenso, perché in un'unica espressione sublima l'intera situazione di una band chiamata al suo prossimo - ed ultimo, in verità - esame. Ma è anche ponderato, perché certamente i Nostri sapevano che era pur sempre un titolo che poteva suscitare sensazioni, che avrebbe insomma potuto far vendere. In ultima istanza, dicevo di come fosse pure rassegnato: sia chiaro, non nel vero senso della parola, ma piuttosto come un senso di rassegnazione che sfocia nell'abnegazione di colui che, per l'ennesima volta, abbassa ancora la testa, in attesa di superare anche il prossimo ostacolo. Questa dedizione si confà solamente a chi nella vita è stato chiamato più volte a mettersi la prova, e certamente i Doors possono rientrare in questa categoria: agli esordi, dovettero dimostrare che era meglio puntare su di loro piuttosto che altri (ed il panorama non era certo quello odierno, dove sarebbe difficile trovare una rock band anche col lanternino?); dovettero poi dimostrare - pressati dal produttore Paul A. Rothchild - che non erano da meno dei Beatles, anche se in questo caso fallirono più o meno miseramente. Il cadere implica il rialzarsi, e quindi dovettero pure dimostrare di saper far quello, di risorgere dalle proprie ceneri come un'araba fenice. Come se non bastasse, dovettero dar prova di validità anche nel momento più difficile della band, riuscendo a sembrare più forti di tutti e tutto, anche di un lutto. Ma siccome la vita è una sfida che non finisce mai, dietro all'angolo ad attenderli c'era l'ultima prova: la riconferma che un disco come Other Voices fosse buono non perché scritto sotto ispirazione derivante da un momento altamente coinvolgente per i membri della band, ma piuttosto perché scritto da membri che sapevano scrivere cose buone. Insomma, non una botta di fortuna, ma pura e sola bravura. Ma ora andiamo più nello specifico, e zoomiamo più da vicino sulle vicende dei Nostri. Dopo il modesto successo di Other Voices, registrato in quel "buco" di loro proprietà all'8512 di Santa Monica Boulevard, i Doors decisero che per la prossima fatica discografica si sarebbero rivolti altrove. C'è da giurare che tale decisione fu fortemente sollecitata da Manzarek, tra i tre il più desideroso di sperimentare nuove soluzioni in studio. Dovete infatti sapere che, se da una parte Robbie Krieger e John Densmore continuavano a rappresentare la componente rock della band, Manzarek si era venuto a sentire per certi versi limitato e soffocato dalla stessa identità musicale della band, identità che aveva peraltro contribuito a creare. Come ricorda Robbie Krieger sulle pagine di un recentissimo Uncut (2015), Ray in quegli anni si era stancato delle "solite cose" e le sue pressioni portarono la band a variare ancora una volta il sound. Alla fine della diatriba Krieger e Densmore dovettero cedere, ma si adoperarono pur sempre affinché l'album uscisse bene da quello sconquasso. Una volta definito il percorso da intraprendere, i Doors si rivolsero all'A&M Studio di Hollywood, dove avrebbero registrato il nuovo materiale. Là non trovarono più Bruce Botnick, storico tecnico del suono nonché produttore - dopo l'abbandono di Rothchild - degli ultimi due LP della band. Lo stesso Bruce - in occasione di un'intervista con Tim Pinnock di Uncut -, forse per non creare inutili polemiche dopo tutti quegli anni, non ha rivelato il retroscena di quella mancata collaborazione, ma ha preferito sostenere di non ricordare con precisione se gli fosse stato chiesto o meno di partecipare al nuovo disco della band. Quel che è certo - e pure lui lo percepiva - è che la band aveva voglia di lavorare con nuovi musicisti, con nuova gente dentro lo studio. E siccome Botnick non poteva serbare rancore con quei ragazzi, si mise sapientemente da parte. La scelta del sostituto ricadde così su Henry Lewy, il quale a sua volta presentò ai Doors una nutrita schiera di studio musicians, tra cui Charles Lloyd, notissimo sassofonista jazz che ha collaborato, tra gli altri, in ambito rock, con gruppi del calibro dei Beach Boys e dei The Byrds. Con queste nuove risorse umane, i Nostri si trovarono nella condizione di poter sperimentare un nuovo sound, arrivando addirittura a toccare territori mai nemmeno pensati - come il jazz fusion -, passando attraverso una miriade di sfumature stilistiche differenti, dal latinoamericano al funk. Se dunque negli studios soffiava aria di cambiamento, quel che più o meno manteneva un rapporto diretto col passato era la grandiosa copertina, che attingeva a piene mani da una simbologia inerente al ciclo della vita. Prendendo in considerazione artwork frontale e posteriore dell'LP, si viene infatti a ricreare un'unica immagine in cui abbondano i significati oscuri impersonati dai numerosi personaggi. Agli animali - viventi e non, dato che compare pure una sfinge in pieno mare - s'accostano numerose figure umane. Le due centrali, un uomo vestito in maniera bizzarra ed una donna classicheggiante, reggono due cerchi di fuoco che s'aprono su un universo. Essi paiono essere in comunicazione l'uno con l'altro, andando a creare una sorta di varco spaziotemporale, un wormhole, attraverso cui, da sinistra a destra, una schiera di uomini vi passa dentro. Se nella prima immagine (quella del retro) un adulto, camminando, pare invecchiare sempre più, dall'altra parte (sul fronte) la situazione è capovolta. Nel primo caso l'invecchiamento porta l'uomo ad essere un ammasso d'ossa e nulla più, pronto per fare il grande passo ed attraversare il misterioso varco. Nel secondo caso, dal passaggio fuoriesce invece un neonato, che pian piano cresce e si fortifica, diventando un adulto dalle sembianze morrisoniane. La metafora della vita è poi arricchita da un'ulteriore immagine, quella di un feto racchiuso in una sacca gestazionale sul retro dell'album. A parte queste figure, ne sono presenti molte altre, come i volteggianti trapezisti, le cui illustrazioni sono arricchite da stelle, quasi a raffigurare costellazioni come su un manuale scolastico. Vi sono poi i due cavalli, perfettamente simmetrici ma di cromia diversa, i quali reggono le figure "divine" recanti i cerchi infuocati. L'imponente ammasso montuoso sulla sinistra pare terminare non in una comune vetta, bensì in una costruzione simile ad uno ziqqurat. Il mare, inverosimilmente placido e plastico, à la Dalí, è irreale nel sommergere, in basso a sinistra, una spiaggia-scogliera letteralmente impossibile. Il cielo, a tinte rosate a destra, verde-giallognolo a sinistra, è costellato di nubi, ma non c'è traccia di precipitazioni: i due pseudo-arcobaleni lascerebbero infatti intendere ad una tempesta appena placatasi. In ultima istanza, c'è da notare il logo della band, sulla facciata principale, tra le nuvole. La doppia "o" di Doors è creata con l'ausilio del simbolo dell'infinito, che a sua volta riprende la forma del nastro su cui logo e titolo dell'album sono inscritti. Che la scelta sia ricaduta sull'infinito, perché infinito è ciclo della vita? Non possiamo esserne totalmente sicuri, ma quel che è certo è che siamo in presenza di un magnifico artwork, elaborato e ridondante, densissimo di significati tratti da un apparato iconografico esoterico estremamente complesso e di difficile lettura. Insomma, non fosse per il nome della band in primo piano, verrebbe certo da pensare a qualche release del periodo più fecondo del progressive rock. Come ultima cosa c'è infine da sapere che, assieme alla primissima tiratura dell'album, col disco era compreso pure uno zootropio, una sorta di giochetto cilindrico caratterizzato da un effetto ottico che dava l'illusione del movimento a figure altrimenti immobili. Se già era fantastico da fermo, pensate cosa poteva diventare tutto questo microcosmo una volta in movimento! Giunti ora a questo punto, non ci resta che iniziare la consueta analisi track-by-track per meglio constatare l'esito di questa nuova - ed ardita - scelta di Manzarek e compagni.
Get Up And Dance
L'ottavo album marchiato Doors e targato ovviamente Elektra comincia con "Get Up and Dance" (Alzatevi e ballate), brano scritto a quattro mani da Krieger e Manzarek e scelto come uno dei singoli dell'album (sul lato-b troviamo "Treetrunk", una delle poche tracce dei Doors a non essere mai state incise su un LP). La chitarra si piazza subito al primo posto e comincia a tratteggiare un riff che altrettanto velocemente viene rafforzato dagli stacchi di basso, per l'occasione imbracciato da Chris Ethridge. Il ritmo lineare tenuto sul ride permette a Manzarek d'installare un piano decisamente allegro. Del resto, l'allegria è proprio il sentimento portante di questo brano. La band fa di tutto affinché tale composizione - come suggerisce il titolo stesso - sia il più ballabile possibile, e certo pure i cori di Venetta Fields, Clydie King e Melissa MacKay donano quel quid in più in pieno stile soul o, se vogliamo, pure gospel. Il ritornello, piazzato strategicamente già ad inizio canzone, è un manifesto dell'intento degli autori del brano ("Oh gente, alzatevi e ballate/Il nuovo giorno sta arrivando, è la fine di una scelta/Nessun motivo per preoccuparsi, nessuno motivo per nascondersi/Siamo tutti dalla stessa parte/Oh gente, alzatevi e ballate"). Se attorno a noi percepiamo questo clima festoso, merito è anche dell'impianto musicale dei Nostri. Batteria e basso, ma anche la chitarra, paiono essere relegati in secondo piano, lasciando piena preminenza alla voce di Manzarek ed alle coriste. Della vecchia psichedelia rimane ben poco, a parte alcuni versetti ("Come camminando su un raggio elettrico/È il vecchio palazzo di cristallo dei sogni") che lasciano appena appena intravvedere il retaggio della band in tal senso. La prima, rilevante parte di chitarra attacca a 1:25, in concomitanza dell'assolo. Krieger non deve compiere voli spericolati, bensì limitarsi a riempire un pugno di secondi all'interno di un brano decisamente corto e leggero, che risulterà essere la canzone più breve del platter. E così, dopo un'ultima sessione in cui Ray ripete più volte il titolo, invitando gli ascoltatori ad approfittare dei "giorni d'oro" e delle "notti di diamante" che si ritrovano, il brano è già in fase di conclusione. La canzone lascia certo un dolce sapore dietro di sé, ma è altrettanto impossibile negare quanto sia "solo" una canzonetta, scevra di messaggi profondi, ma con l'unico intento - peraltro onestamente dichiarato fin dal titolo - di far muovere e divertire la gente. Per la cronaca, il brano non seppe far meglio che raggiunger l'84esima posizione della classifica nazionale dei singoli, registrando dunque uno scarso successo.
4 Billion Souls
Si prosegue velocemente con "4 Billion Souls" (Quattro miliardi di anime), che poi sarebbe stato il numero effettivo di persone viventi all'epoca. Krieger, autore del brano, si esprime con un testo decisamente corto, tanto accademico quanto diretto. Il messaggio che vuole far passare è che "se i nostri amici" - se noi non facciamo del nostro meglio - "uno, due, tre, quattro miliardi di anime andranno a riposare", ovvero a morire. Ed allora, per trovare quella "felicità" affatto così complicata da reperire come sembra, occorre essere di più ampie vedute, dotarsi di una mentalità maggiormente elastica e flessibile ("Basta guardare oltre il proprio naso/Basta un po' più in là nel tempo"). A questo punto pare dunque chiaro l'intento dell'autore: riprendere il discorso introdotto da Morrison in "Ship of Fools" (tratto da Morrison Hotel) e farlo suo. Dal punto di vista musicale, il mood regnante pare essere in piena sintonia con la traccia precedente, dal momento che i primissimi stacchi sembrano per l'appunto evocare nuovamente un'atmosfera di gioia, quasi come se i risultati dell'auspicato cambiamento sopracitato dessero già i primi frutti. La voce di Krieger non pare dotarsi di particolare espressività, ma tanto basta per far passare il suo pensiero. Oltre a star dietro al microfono, Krieger regge una chitarra acustica suonata con particolare verve, ma la cosa che più balza all'orecchio è certamente la riesumazione da parte di Manzarek di un vecchio organetto Hammond. Il piacevole suono rotante dello strumento conferisce quel flavour vagamente retro che permette alla memoria dell'ascoltatore di tornare ai fasti del passato. Attorno al primo minuto Manzarek si produce poi in un solo decisamente bizzarro, però altrettanto bello. Le note quasi soffiate del suo organo vengono poi appaiate dalla chitarra di Krieger, anch'essa egualmente insolita nella resa sonora. La melodia si mantiene costantemente allegra e spensierata, e secondo dopo secondo si ha sempre più la sensazione d'aver a che fare coi vecchi Doors. La sezione ritmica, invece, pare continuare sul modello della traccia precedente, ovvero piuttosto nell'ombra: nemmeno l'entrata in scena di Jack Conrad permette al basso d'emergere dal mix dell'intera band. Il risultato è comunque un brano dinamico al punto giusto, poco influenzato - come dicevamo invece in sede d'apertura - da contaminazioni propriamente estranee al verbo del rock. Sicuramente un passo avanti rispetto a "Get Up and Dance", anche per via di un altro bellissimo assolo di Krieger, piazzato a conclusione della traccia.
Verdilac
Non appena passiamo alla canzone successiva, "Verdilac", ci pare d'assaporare gli echi del passato. Densmore rumoreggia sulle pelli, mentre Manzarek e Krieger paiono essere in sede d'improvvisazione. La chitarra - che pare effettata per via d'un wah-wah - è intenta a fare il verso alle note d'organo di Manzarek, che prontamente attacca, a canzone decollata, con la partitura portante del brano (dovete sapere che a Krieger fu sempre vietato l'utilizzo di pedali che alterassero il timbro del proprio strumento, questo perché Rothchild voleva un suono assolutamente naturale ed unico di chitarra). Il basso di Charles Larkey è graffiante e compresso, e questa volta sì che si fa notare. Nota dopo nota, il suo quattro-corde va a creare un pattern ritmico altamente solido e massiccio, terreno ideale per un brano che ha tutti i crismi per poter rievocare il passato più blues rock della band. Sotto il profilo interpretativo, il titolo di per sé indicherebbe un tipo di vampiro che, nonostante la penuria d'informazioni rintracciabili, pare essersi originato nell'ambito del folclore russo. Il verdilac (o wurdulac), a differenza dei suoi ben più noti "cugini", sarebbe un essere mostruoso che succhia sì anch'esso il sangue, ma solamente delle persone che ha amato (e quindi dei suoi familiari). Le prime attestazioni letterarie di questo mostro risalgono a metà Ottocento, sulle pagine de La famiglia di Wurdelak dello scrittore russo Aleksej Konstantinovi? Tolstoj. Il termine è poi ritornato in auge circa un secolo dopo, in particolar modo grazie al film del 1963 I tre volti della paura (orig. "Black Sabbath"), diretto dal maestro Mario Bava. All'interno del lungometraggio, la figura del verdilac è impersonata nientemeno che da Boris Karloff, autentica icona del cinema horror d'annata. Nonostante la vicinanza temporale tra il film e il disco dei Doors, quello che è certo è che, pure all'epoca, in molti s'andavano interrogando sul significato del titolo della canzone. Persino Buck Sanders, penna del magazine Creem, in uno dei suoi articoli si è sarcasticamente domandato "che cazzo è un Verdilac?", non trovando però una risposta. Per fortuna ci pensò Manzarek stesso, il quale più volte diede delucidazioni in sede d'intervista. Per ritornare più sul pezzo, all'interno del brano dei Doors "verdilac" pare essere utilizzato più che altro per far rima con Cadillac, o al limite simboleggiare, con un'analogia "mostruosa", l'atto d'azzannare il collo alla "bambina" di turno. Ad essere onesti, la canzone - specie nella sua parte centrale - pare realmente entrare nel regno della notte e del mistero, in particolar modo quando il protagonista prega la donna di portargli del caffè nella sua "tazza preferita", perché altrimenti non potrebbe "evocare spiriti". Ma è solo un'effimera sensazione, dal momento che si ha subito l'impressione che il brano - complice anche la notevole vena blueseggiante - sia comunque una sorta di parodia in salsa pseudo-horror. Dal lato musicale, la performance di ogni singolo musicista è considerevole, così come la baritonale voce di Manzarek. Ai tre Doors s'affiancano qui diversi altri musicisti: oltre alle suddette coriste ed al bassista, troviamo infatti Bobbye Hall alle percussioni ma soprattutto Charles Lloyd al sax. Le jazzistiche influenze di quest'ultimo sono verosimilmente dovute all'ammirazione che i Doors nutrivano a quel tempo per la musica degli inglesi Audience, alfieri dell'art/progressive rock britannico, che ebbero addirittura occasione di conoscere personalmente quando il loro singer Howard Werth - sotto pressione di Jac Holzman, amministratore delegato dell'Elektra, la quale annoverava pure gli Audience nel proprio roster - fu invitato a fare un provino per la band di Venice Beach, per rimpiazzare di fatto Morrison. Alla componente principale - quella blues rock - della prima parte di canzone, s'affiancano poi momenti (come da 1:41) veramente inusuali, a loro modo molto particolari. In questi frangenti emergono chiaramente quelle contaminazioni esterne di cui prima, che stravolgono di fatto il brano con sezioni inaspettate. Anche le percussioni infondono un tocco magico al groove della canzone, sempre ottimamente trainato dal basso e da un variegato lavoro di Densmore alla batteria. L'apice della stranezza si raggiunge nel momento in cui Lloyd subentra appunto col suo sassofono, andando a ricamare melodie sinuose e, giustamente, inquietanti. L'assolo di Lloyd porta in effetti alla deriva il brano, specie quando viene affiancato da un quasi fastidioso solo di Manzarek (ascoltare per credere). Se la sezione centrale è votata dunque alla sperimentazione, ad interromperne il corso ci pensa un intermezzo assai bizzarro, in cui Manzarek recita una spoken word atta ad invocare gli spiriti nella saletta-studio (!), il tutto con un tono alla Vincent Price. Poco dopo il brano rientra sui binari, e così s'avvia verso la fine, dove ancora una volta Manzarek si rende protagonista di un'altra citazione colta, questa volta presa dal film del 1931 Dracula ("Tu sai troppo, Van Helsing"), interpretato da Bela Lugosi e diretto da Tod Browning.
Hardwood Floor
La quarta traccia, "Hardwood Floor" (Pavimento in parquet), è un'allegoria della situazione della band al momento. Partiamo dunque dal testo. Il brano riprende le vicende di una coppietta, in cerca di soldi ("Vai a dire a tuo papà che ci serve della grana") per coronare il loro sogno ("Stiamo per andarci a sposare in Messico"), a cui non serve altro che un "pavimento in parquet" su cui vivere, o meglio di un tetto sotto cui abitare ("Abbiamo l'amore, non abbiamo bisogno d'altro/Tutto ciò che ci serve per vivere è un pavimento in parquet"). Altre parole corrono in aiuto per comprendere meglio il parallelismo Doors/coppia d'innamorati: "ok, avevo un sacco di soldi circa un anno fa/li ho spesi tutti per un concerto di rock and roll" sta probabilmente a spiegare come le fortune di una band, seppur quotata, possano cambiare da un momento all'altro. In questo contesto s'inserisce la chitarra di Krieger, suonata in clean e con un gusto vagamente bluebeat. Il piano verticale di Manzarek scandisce ogni singola battuta, mentre l'armonica di Krieger adorna la composizione con magnifici fraseggi. Il brano, connotato da un up-tempo divertente e ballabile, s'arricchisce poi con l'organo di Manzarek, al quale spettano pure le incombenze di cantante. Ritornano ancora una volta le coriste, le quali, complice pure l'armonica, conferiscono al brano un tocco country e revivalista, "da balera" insomma. Nella seconda strofa, quella del "concerto rock and roll", Krieger si produce in un ottima partitura d'armonica, che ricalca in tutto e per tutto la linea vocale di Ray. Il basso tocca questa volta a Leland Sklar, barbuto musicista statunitense noto per la sua incredibile prolificità come studio musician (più di 2.000 album!) che l'ha portato a collaborare, nell'arco della sua multi-cinquantennale carriera, con artisti di livello come Phil Collins, Jackson Browne, Era e Toto. Sklar si rende partecipe del brioso groove della canzone, la quale cambia sensibilmente direzione verso 1:50, all'inizio della terza strofa. Manzarek estrae dal cilindro una tra le più abrasive tastiere mai sentite in un album dei Doors, giusto per acuire il pathos del momento in cui il ragazzotto va dal padre di lei per chiedere dei soldi ("Ok, sono andato a vedere tuo padre ma sicuro s'è preso male/M'ha detto 'dovresti esser là fuori a combattere la guerra'/Gli ho chiesto un po' di soldi, lui ha detto 'per cosa'/Gli ho detto che tutto quello che ci serve è un pavimento in parquet"). Con il ritorno dell'ultimo chorus sparisce poi la tastiera e ritornano gli allegri cori dell'inizio, ed il brano ha l'occasione di chiudere nello stesso modo in cui era cominciato, non prima di uno sfuggente, ma pregevole, assolo d'armonica.
Good Rockin'
Alla quinta posizione si piazza l'unica cover dell'album, "Good Rockin'" (Rockeggiare bene). La traccia, scritta nel 1947 da Ray Brown col titolo "Good Rocking Tonight", in pieno stile jump blues, è considerata anticipatoria di alcuni tratti del rock and roll e del rhythm and blues che sarebbero esplosi da lì a poco. La canzone ottenne fin da subito un buon successo, che sarebbe poi addirittura letteralmente dilagato quando a riprenderla fu lo stesso Elvis Presley con l'omonimo singolo del '54, che peraltro gli valse il disco d'oro. Un altro artista a riprendere tale canzone fu Ricky Nelson, in compagnia del quale si esibirono gli stessi Doors nel 1967, all'interno del programma di successo Malibu U, condotto dallo stesso Nelson e trasmesso dalla ABC. Sotto un vociare piuttosto sommesso, il basso di Conrad comincia ad improvvisare in solitaria, prontamente raggiunto dalla chitarra di Krieger. Densmore inizia a contare il tempo e poi la band attacca al completo. L'onore spetta a Manzarek, che col piano dà il via ad una struttura che per certi versi ricorda da vicino la bellissima "Roadhouse Blues" di Morrison Hotel. La chitarra si fa notare per un grado di saturazione particolarmente graffiante, sebbene sia comunque relegata all'accompagnamento. Manzarek comincia a cantare i versi di una canzone in pieno clima rock and roll ("Bene, ho sentito le notizie/c'è una buona notte per fare rock") e scivola via con i classici cliché del caso: la ragazza di turno, l'ardore amoroso del protagonista, la renitenza della ragazza a concedersi e così via. Le scale blues del basso di Conrad scandiscono ogni battuta del brano, così come i più classici degli stacchi vengono puntualmente riproposti da Densmore. Altrettanto canonico è il solo di Krieger (1:44), il quale esordisce facendo urlare la sua sei-corde. Fin qui possiamo dire che il brano è quanto di più vicino al vecchio sound della band, dal momento che le influenze blues rock si fanno prepotentemente notare. Per com'è cantata da Manzarek, il brano non può che rimandare pure al caratteristico modo di cantare di Elvis, tutto gorgheggi, passione e, perché no, sensualità "spicciola". Similmente al lavoro solistico di Krieger, pure Manzarek dona grande espressività al suo momento da primadonna, andando a segno con un'ottima sezione di pianoforte, arricchita da alcune strisciate davvero niente male. Dopo questo segmento assistiamo ad un calo di tensione, con il tono che si smorza sempre più. Qui (3:07), Conrad e Krieger hanno l'occasione di replicare un buon duetto coi loro strumenti, col solo Manzarek a tenere le briglia della melodia e del cantato fino all'arrivo del finale.
The Mosquito
Passando al lato-b di questo Full Circle troviamo subito l'altro singolo dell'album, "The Mosquito" (La zanzara). Canzone che gli stessi fan della band o amano o odiano senza mezzi termini, "The Mosquito", scritta da Krieger, si dota d'un apparato testuale veramente esiguo. Tutto il nerbo del discorso ruota attorno alla figura del chitarrista, intento a mangiare un "burrito", quando viene però infastidito da un mosquito, una zanzara. La canzone comincia direttamente con le vocals di Krieger, piuttosto parlate e discorsive. La batteria di Densmore mantiene un ritmo tranquillo e lineare, mentre Sklar sale e scende per la tastiera del suo basso. Proprio in questa circostanza ritorna a galla tutto il background chitarristico di Krieger, che ricordiamo in gioventù esser stato fortemente ispirato dal flamenco e dalla musica ispanica. Dopo nemmeno trenta secondi il ritmo s'interrompe ed allora la tastiera di Manzarek attacca con un beat tipicamente caraibico, caratterizzato da suoni melliflui ed ovattati. Scopriamo tutto ciò essere solamente un fugace intermezzo, poiché da lì a poco Krieger riprende a cantare, pregando la zanzara di lasciarlo stare una volta per tutte. Se la chitarra acustica ricorda atmosfere tipiche della musica latinoamericana - alla "Guantanamera" per intenderci -, la sezione che inizia a 1:11 è decisamente più sperimentale - psichedelica se vogliamo - pur senza però raggiungere le vette toccate in passato. Il virtuoso Sklar volteggia a tempo con l'organetto di Ray, ma poi quest'ultimo s'avvicina all'Hammond per dare il La ad una sezione solistica davvero interessante. L'ottima sferzata di Krieger (2:28) ci comunica che è il suo turno per l'assolo. Scordate per un attimo le influenze ispano-americane, il buon Robbie si prodiga in un ottimo solo, più veloce e spericolato della norma, costruito attorno a figure esecutive vorticanti e davvero mirabili. Avvicinandosi al finale, possiamo certamente dire che su cinque minuti abbondanti di canzone ben quattro sono occupati da una sezione strumentale, tratto davvero caratteristico dei primissimi Doors. All'interno di questa ogni musicista dà il meglio di sé, e pure Densmore si fa notare sia per l'alternanza di bacchette e spazzole, sia per l'irruenza di alcuni stacchi (4:18). Arrivati a questo punto non c'è più spazio per alcun cantato, e così il brano va esaurendosi a seguito della lunga struttura strumentale centrale.
The Piano Bird
L'allegra chitarra di Krieger ha il compito d'aprire la settima canzone in scaletta, "The Piano Bird" (L'uccello del pianoforte). Fin da subito le ovattate note di tastiera di Manzarek ricreano un'atmosfera brillante ma anche offuscata, come se ci ritrovassimo all'interno di un sogno. Alle percussioni, accanto a Bobbye Hall, s'aggiunge pure Chico Batera; al basso subentra Larkey e Conrad scala alla chitarra ritmica. Proprio quest'ultimo - che ricordiamo essere comunque esterno alla band - si è calato nei panni dell'autore, dal momento che ha scritto la canzone assieme a Densmore. Altro fatto importante da citare è che il batterista dei Doors, mai prima d'allora, aveva scritto un brano per la sua band. Sin dai primissimi istanti, la canzone si rivela come una composizione melodica e piacevole all'ascolto, ma testimonia anche l'intento della band di peregrinare in territori fino ad adesso sconosciuti. Il ritmo sincopato di batteria, arricchito dal lavoro dei percussionisti, possiede un certo qual fascino jazzistico, mentre pure il basso fraseggia prepotentemente. L'ambiente musicale rimanda per certi versi alla cocktail music - così come l'aveva definita Rothchild - di "Riders on the Storm", dal momento che manca completamente la vena più irruenta della band, letteralmente soffocata dalla voglia di sperimentazione e di ricerca musicale-stilistica. Ancora una volta troviamo alla voce Manzarek, ma ciò è giustificato in parte anche dal testo della canzone. I primi versetti recitano infatti "Un uccellino canta da sopra il mio piano/Un'allodola amorosa che canta sommessa/Più suono, più lei canta/Vive qua sopra sugli alberi verdi". Il musicista allora decide di suonare ancora una volta di più, giusto per giocare con l'uccellino ("Cantandomi delle melodie/e io in cambio suono per lei/Le ho suonato una canzone col mio piano"). Nonostante la buona musicalità il testo parrebbe abbastanza naif, ma rimane comunque un sentore positivo. Anche Lloyd ritorna dopo l'esibizione sassofonistica su "Verdilac", ma questa volta con una dolce partitura di flauto. I suoi orpelli musicali sono piuttosto in sottofondo ma arricchiscono comunque la composizione di quel tocco jazzato di cui prima. Le chitarre di Krieger e Conrad sono invece abbastanza assorbite dal wall of sound generale, limitandosi così all'accompagnamento. Dopo il secondo chorus si entra nella classica struttura centrale, al cui interno Manzarek esordisce con un assolo tastieristico di pregevole fattura (1:55). Dopo alcuni frangenti arriva anche Lloyd col suo flauto (2:52) e pareggia subito Manzarek nel solo. In sottofondo, non si può non notare un ottimo lavoro di chitarra, che descrive strutture arzigogolate e complesse, cambiando sovente di tonalità. Terminata la parte strumentale ritorna una breve strofa e così pure un ritornello, ma è Densmore infine a salire sugli scudi, con degli ottimi stacchi laddove la band smette improvvisamente di suonar. In questa maniera si conclude un brano certo mediocre, ma comunque votato alla ricerca di nuovi orizzonti stilistico-compositivi.
It Slipped My Mind
Con la sua chitarra Krieger pare voglia far rientrare la band entro i soliti ranghi con "It Slipped My Mind" (L'ho dimenticato), penultima canzone dell'album. Robbie, autore del brano, ritorna pure dietro al microfono, ed attacca a cantare - con poca flemma, a dire il vero - un testo non particolarmente robusto, che gioca ogni sua carta sulla ripetitiva nenia "ho qualcosa per la testa/ma l'ho dimenticato", e così, infatti, "tu sai che l'ho appena dimenticato/Appena dimenticato/Così difficile da ritrovare/L'ho appena dimenticato". L'ascoltatore comincia allora a chiedersi quale sia l'oggetto della dimenticanza, ma l'autore non lo aiuta più di tanto, in quanto asserisce d'aver lasciato il suo corpo "da qualche parte nel futuro" poiché "è così facile smarrire il corso del tempo". Se il nonsense impera in ogni dove, è facile intuire che la composizione vuole - ma non riesce - ad imitare i testi più metafisici del passato medio-recente della band, finendo così solo per farne il verso, in maniera anche puerile, se vogliamo. Peccato, perché strumentalmente il brano non è affatto male: per carità, niente di che, ma risulta comunque valido per l'accompagnamento sia di tastiera che della sezione ritmica (al basso è ritornato Sklar). Considerata dai fan come il nadir dell'album, la canzone comincia a risollevarsi da 1:37, quando Krieger, finora autore di una sezione canora abbastanza insipida, si mette all'opera con un pregevole lavoro sulla sei-corde. La struttura blues del brano affiora completamente, e così il chitarrista può lasciarsi andare in uno assolo veramente ottimo, forse sprecato per la canzone. La sezione solistica dura comunque non più di una manciata di secondi e così la canzone comincia ad involarsi dritta dritta verso la conclusione, affidata alla traccia più lunga del disco.
The Perking King and The New York Queen
Il bizzarro titolo "The Peking King and the New York Queen" (Il re di Pechino e la regina di New York) è posto a conclusione dell'LP. La traccia, interamente scritta da Manzarek, richiama Conrad al basso e decide d'avvalersi pure dei servigi dei due percussionisti. Il tack piano di Ray comincia a stridere nelle nostre orecchie con una melodia divertente e saltellante, ma poi è il rotondissimo suono del basso ad irrompere in maniera piuttosto evidente, descrivendo una partitura davvero interessante nei suoi glissati. Krieger ritorna a sfruttare un wah-wah decisamente ondeggiante, che permette alla sua chitarra di fare il verso alle vocals di Manzarek. Il piglio pare essere quello giusto, dato anche il ritmo andante della canzone. Purtroppo, ancora una volta, il testo non è niente di esorbitante, però almeno si distingue per la simpatica storiella che Ray mette in musica. Alla stregua di una fiaba di Esopo, Manzarek ci racconta una storia che ha sentito altrove ("Sai, ho sentito una storia, mi dirai tu se merita") che racconta di due innamorati: il Sole e la Luna. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, i due corpi celesti erano soliti rincorrersi come uccellini in amore attraverso cieli della Terra. Tuttavia, non potendo toccarsi, non potendo baciarsi, i due non riuscivano a coronare il loro sogno d'amore. Fu così che "venne loro un'idea, elaborarono un piano": "sarebbero scesi sulla terra come una donna ed un uomo/per prendere sembianze umane per realizzare il loro sogno". Chi scegliere, dunque? Tra i tanti scelsero "le persone più belle che avessero mai visto", che sarebbero appunto il re di Pechino e la regina di New York. Peccato che scelsero due persone che abitavano esattamente agli antipodi del mondo (e qua si rilegge la vicenda personale di Manzarek, originario di Chicago, sposatosi con Dorothy Fujikawa, giapponese). "L'esatto opposto negli occhi, l'esatto opposto nella mente/Cose del genere sono importanti di questi tempi tribolati" è il preludio ad una sezione davvero simpatica, che mette in risalto le differenti mentalità di persone che provengono da realtà culturali davvero distanti. Ed allora via con la sfilza: "Noi leggiamo un libro dalla destra alla sinistra/Tu leggi un libro dalla sinistra alla destra!/Noi vediamo un coniglio sulla luna/Quando tu guardi la luna, c'è un uomo sulla luna/Il pesce crudo è molto saporito, grazie/Mangiare pesce crudo è disgustoso / Buddha è l'unica via / Gesù è la via più divertente /Comunismo! / Democrazia! / L'Oriente è rosso / Meglio morto che rosso!": insomma "Pechino è a Est, New York ad Ovest" ed "ognuno dice di essere il migliore". Ma in effetti non importa come si legge un libro, da che direzione si comincia la lettura: per il re di Pechino l'unica cosa importante è trovare il modo d'incontrare la sua bella. Decide così di mettersi in viaggio, ed altrettanto fa la regina di New York. Nonostante le migliaia e migliaia di chilometri che li separano, i due si ritrovano nella "terra dei sogni", dove possono finalmente stringersi l'uno all'altra. E nella "terra dei sogni" siamo tutti invitati, perché è là che i due condivideranno il loro sogno con tutti i presenti, celebrando finalmente il loro matrimonio. Ritornando all'aspetto musicale, le melodie di questa canzone ricordano anche qualcosa d'italiano, nella fattispecie il beat di "Singapore" dei Nuovi Angeli, oppure le composizioni degli Oliver Onions. Il mood parecchio allegro rende piacevolissimo il brano, comunque distante dal sound originale dei Doors. Vista l'estensione dell'apparato testuale, il cantato ricopre grande importanza all'interno della composizione. La sezione ritmica di Densmore e Conrad rimane così abbastanza in secondo piano, mentre la chitarra riesce a ritagliarsi qualche spazio in più, soprattutto per via dei suoi arrangiamenti alla melodia trainante di voce e tack piano. Prima della sezione in cui si rimarcano le diversità culturali ritornano pure le coriste, le quali accrescono l'armonia della traccia cantata. A 2:20 voci caratterizzate impersonano l'ideale discorso tra un cinese ed un americano; a 3:21 s'assiste ad un altro intramezzo più rallentato, dove Conrad ha la possibilità d'emergere col suo basso. A parte le due sezioni illustrate poco fa, la canzone non possiede grandi variazioni sul piano stilistico. Tuttavia, nonostante i suoi 6:27 il brano non annoia mai, specie se ascoltato col testo a portata di mano, e conclude degnamente questo LP.
Conclusioni
"Full Circle" venne rilasciato il 15 agosto 1972 e non seppe far meglio che arrivare alla posizione 68 della Billboard. La critica di settore ha sempre rimarcato come l'album fosse assolutamente meno concentrato su un'unica idea musicale, o meglio meno di quanto lo fosse stato prima Other Voices. Per quanto riguarda la tensione sperimentale, abbiamo tuttavia visto nell'introduzione come questa decisione fosse nata in seno alla band, ma allo stesso tempo non possiamo negare che la critica sia ragionevolmente veritiera oltre che puntuale. A volte si ha infatti l'impressione che su questo Full Circle si divaghi un po' troppo, ma occorre pur sempre tenere ben presente il bisogno dei tre Doors di distaccarsi in qualche maniera da tutta la produzione precedente. Ecco allora che l'album - seppur passibile di critica sotto diversi aspetti - si configura come il tentativo di conferire una nuova identità stilistica alla band, creare una nuova dimensione per le esigenze dei suoi musicisti, e questo fatto, secondo il parere di chi scrive, non è assolutamente contestabile: potrà piacere o meno, certo, ma nei fatti si tratta di un bisogno troppo essenziale, vitale direi, per poter essere biasimato. Full Circle ha rappresentato infatti l'ultima tendenza di una band che, arrivata quasi al capolinea, ha deciso di sovvertire ogni pronostico, quasi abbandonare quanto fatto fino ad ora, per poi dedicarsi anima e corpo alla sperimentazione più pura. In questa maniera non si è deciso però d'applicarsi comunque nel mondo del rock, bensì si sono rivolti gli sguardi verso settori e generi (quasi) mai testati in precedenza. Maggiormente severa nel parere è stata la rivista Uncut, che ha velocemente bollato l'album come scarso a causa del tentativo dei Doors di reinventarsi come "una band da bar, con testi poco convincenti sul 'giusto modo di rockeggiare' [?] [insomma:] l'entusiasmo con cui si vuol far battere le mani pare un tentativo disperato". A far storcere invece il naso ai fan della band ci hanno pensato i reiterati inserimenti di sezioni coristiche. Le voci femminili non sono infatti passate inosservate agli ammiratori più fedeli: le critiche in tal senso sono piovute per l'eccessivo snaturamento stilistico della band, come a dire "ci sta la deriva jazz, ma la corista pseudo-gospel proprio no", convinti del resto che Jim non avrebbe mai accettato una cosa del genere. Allo stesso modo è interessante prendere in esame la considerazione che i Doors stessi hanno mantenuto nei confronti di Full Circle ed Other Voices. In una parola: poca, pochissima. Sino al 2006 non esistevano infatti copie ufficiali in formato compact-disc. Il merito della pubblicazione su CD di questi due album spettò infatti alla Timeless Records, etichetta olandese specializzata in musica jazz. Prima di questa loro pubblicazione, Other Voices e Full Circle esistevano solamente sotto forma di dischi in vinile. Altre edizioni - come quella della Howling Wolf Records del 2010 - avevano fatto confluire i due album in un unico prodotto da immettere sul mercato, con l'inclusione del singolo "Treetrunk" e di alcune versioni editate di "Mosquito" e "Piano Bird". "Treetrunk" ha poi conosciuto poi la sua prima ed ufficiale pubblicazione solamente nel 2013, all'interno della versione giapponese del box-set dei singoli dei Doors. Nonostante il management della band abbia per anni smentito d'essere in possesso delle tracce originali di Full Circle ed Other Voices, nel 2011 i due LP sono stati resi finalmente disponibili per il mercato digitale, con un comunicato dello stesso entourage che sosteneva come fossero state utilizzate unicamente le tracce originali nel procedimento di digitalizzazione. Insomma, dopo molti anni di vera e propria damnatio memoriæ, Other Voices e Full Circle vennero riabilitati in tutto e per tutto: l'opera era ormai completa e le Porte potevano chiudersi per sempre.
2) 4 Billion Souls
3) Verdilac
4) Hardwood Floor
5) Good Rockin'
6) The Mosquito
7) The Piano Bird
8) It Slipped My Mind
9) The Perking King and The New York Queen