THE DOORS
Absolutely Live
1970 - Elektra Records
GIACOMO BIANCO
27/05/2016
Introduzione Recensione
Il "fattaccio di Miami" fu un evento che, in qualche modo, segnò in maniera profonda gli ultimi anni di vita dei Doors. L'incredibile querelle che vide coinvolto Jim Morrison - e di riflesso l'intera band - non impedì però ai quattro di Los Angeles di riuscire a metter su ancora diverse date (diffusa era la «psicosi» che ad ogni concerto della band si potessero verificare episodi «spiacevoli»), prima che la loro tournée estiva si concludesse al grandioso festival all'isola di Wight del 29 agosto 1970 (due canzoni di questo evento confluirono nel documentario di Murray Lerner Message to Love del 1995). Prima di questo momento clou della loro carriera, i Doors provenivano esclusivamente da esperienze discografiche in studio. Mai prima del '70 i Nostri avevano pensato di dare alla luce un disco dal vivo, ma ora pareva che i tempi fossero maturi per avviare un tale discorso. La band, all'apice della loro carriera, era sì passata attraverso mezzi "passi falsi" - e qui mi riferisco a the Soft Parade (1969) -, ma si era prontamente rimessa in carreggiata con Morrison Hotel (1970), consolidando notevolmente il nuovo, altissimo standard raggiunto con un altro masterpiece, L.A. Woman (1971). Fu così che allora il 20 luglio 1970, la band decise di pubblicare "Absolutely Live", sempre per conto della Elektra Records. Proprio col management di quest'ultima i Doors avrebbero iniziato, da lì a qualche mese, ad avere seri problemi di natura collaborativa, in modo particolare con Paul Rothchild, il loro produttore di lunga data. Per qualsiasi approfondimento inerente alle burrascose acque che stavano attraversando i Doors, vi rimando però alla recensione di L.A. Woman. Per ora basta sapere che siamo ancora in piena estate, e i problemi che porterà l'autunno sono ancora relativamente lontani. Quel che occorre ricordare ancora una volta è la più grande particolarità di questo primo live della band: il disco risulta infatti essere un "assemblaggio" di diverse canzoni, prese qua e là dai concerti che i Doors avevano tenuto nei primi sei mesi dell'anno. La quasi totalità degli show del tour venne registrata su nastro, andando a costituire un bacino piuttosto notevole da cui attingere in caso di bisogno. Nonostante questo, il discorso non è facile come pare a prima vista. Intervistato da Blair Jackson per il numero del 3 luglio 1981 di BAM (acronimo di Bay Area Music, defunto magazine che trattava di musica californiana), Rothchild dichiarò che per l'editing di questo Absolutely Live furono necessari, udite udite, nientepopodimeno che duemila-modifiche-duemila. Il dato è abbastanza sconcertante, se non di difficile accettazione. A questo punto pare lecito chiedersi come mai occorsero così tanti lavori di cesellatura al fine di produrre un unico, singolo disco - così come appare altrettanto credibile il fatto che la band si fosse definita decisamente più "alleggerita" quando, dopo pochi mesi, Rothchild stesso si sarebbe defilato, lasciando loro maggior libertà d'esprimere giudizi ed opinioni. Che il produttore fosse un incredibile pignolo, un vero e proprio maniaco della perfezione, non era certo una novità, tanto che il povero Jim, al solo pensiero di rievocare i ricordi delle estenuanti sessioni di lavoro della Soft Parade, si sentiva nauseato a dir poco. L'agire perfezionistico di Rothchild lo portò in questa maniera a metter le mani su ogni singola traccia, a scandagliarle una per una. A volte, addirittura, si decise di prendere la metà di una traccia e di saldarla con la restante porzione presa da tutt'altro live: questo perché Rothchild aveva in mente di costruire, passo dopo passo, "lo show definitivo" dei Doors. Ok, esagerato, ma tutto regolare in fin dei conti, non fosse che però sarebbe arrivata da lì a pochi anni una clamorosa smentita della boutade di Rothchild. La Bright Midnight Records Company, sorta dagli sforzi congiunti dell'Elektra e della Rhino (entrambi di proprietà del colosso Warner Music), pubblicò infatti a partire dal Duemila tutta una serie di live performances di quei Doors in tour tra il luglio '69 ed il giugno '70. Il risultato fu una serie incredibile di album - ben venti dischi - che riprendeva i concerti dal vivo tenutisi ad Hollywood, New York, Boston, Philadelphia, Pittsburgh e Detroit. La prova fornitaci da queste testimonianze è estremamente utile per screditare la "sparata" di Rothchild, dal momento che, basandosi sulle registrazioni ufficiali, è chiaro che non furono apportate più di cinque modifiche al massimo per confezionare Absolutely Live. Così come pare di capire che molte delle registrazioni dei vari live servirono a ben poco, dal momento che, al punto di tirare le somme, risultarono in larga parte maggiormente idonei i brani eseguiti al Felt Forum di New York nelle due date del 17 e 18 gennaio (anche se si volle tener conto di altre prestazioni valide). Prima di passare all'analisi vera e propria dell'album, è utile infine dare qualche cenno sulla tracklist, dal momento che ne esistono di differenti, ma tutte ufficiali. La prima, quella del vinile originale, sfrutta la scansione a quattro lati dei suoi due LP e non riporta la suddivisione del medley iniziale e della "Celebration of the Lizard". Al contempo, introduce però quattro nuovi brani della band (due inediti e due cover). La seconda, propria di un altro vinile, è grosso modo pari alla prima, anche se qui ogni traccia è numerata (medley e "Celebration?" compresi). La sostanziale differenza sta all'undicesima posizione, dove viene inserita la spoken-word "Petition the Lord with Prayer", che fa slittare "Dead Cats, Dead Rats" al dodicesimo scalino (non accreditata nell'originale release). Va detto che però questa è una traccia assai particolare, perché, se Morrison si limita quasi a ripetere il solo titolo, l'impianto musicale è quello di "Break On Through (To the Other Side)" (questo perché i due brani venivano solitamente appaiati durante le performance dal vivo). Infine, la terza ed ultima tracklist, caratteristica della riedizione in formato CD del 1996, scompone i suddetti "Dead Cats?" e "Break On Through?" in un ulteriore e nuovo medley. Senza incorrere in ulteriori confusioni, andiamo ora a vedere come si struttura l'album in questione. Ma man che procederemo, vi farò notare le "deviazioni" che le varie tracklist ci proporranno.
House Announcer
Assente dalla scaletta dell'LP originale, le edizioni più recenti aprono il live con una pseudo-traccia, "House Announcer", di quasi tre minuti. In questo lasso di tempo si può ascoltare il rumoreggiare della folla che cresce sempre più, fino a che il presentatore dell'evento (ecco il significato del "titolo") cominci a parlare al pubblico. Il fatto - di per sé rituale potremmo definirlo - è invece incredibilmente indicativo di quello che stavano attraversando i Doors. L'annunciatore, infatti, sollecita caldamente il pubblico a non abbandonare i propri posti a sedere, minacciando addirittura l'intervento dei servizi di sicurezza (o meglio, dei vigili del fuoco) qualora la situazione fosse degenerata: ciò avrebbe significato l'annullamento istantaneo del concerto. Ecco, signori e signori: questa era la paranoia (dilagante) nata in seguito all'episodio di Miami (in cui Jim aveva, in sostanza, tramutato la folla in una sorta di girone infernale, costituito da esseri umani privi di freni inibitori). Dopo quel concerto al Dinner Key Auditorium nulla era stato più come prima. Portare i Doors in un teatro, in un'arena, in uno stadio, in un club, significava portare la ribellione, significava raggruppare quei giovani arcistufi delle norme soffocanti che la società voleva imporre loro. Ma significava, d'altro canto, portare anche una bella somma di soldi, e quindi il gioco poteva valere la candela! Quando gli strilli si fanno più acuti, si capisce che il momento tanto atteso è arrivato. Si possono infatti ora sentire rumori "d'assestamento" da parte del piano bass di Ray Manzarek, proprio nel mentre che Robbie Krieger si sta ancora accordando.
Who Do You Love?
Ma ecco che Morrison chiede al pubblico se "tutto va bene" e l'atmosfera diventa improvvisamente elettrica. John Densmore comincia a battere sui tom producendo un ritmo tribale che introduce la prima vera canzone del live: "Who Do You Love?" (Perché ami?), cover di Bo Diddley. Se nella dimensione dello studio album eravamo ormai abituati a vari ospiti nella veste di bassisti, in questa sede Manzarek ritorna al suo Fender Rhodes piano bass, tatticamente piazzato sopra alle altre tastiere. Il groove sale nota dopo nota, nel mentre organo e chitarra incominciano a strutturare varie sequenze di botta-e-risposta. Morrison comincia ad intonare degli "yeah" che, ad esser sinceri, sembrano presentarci il frontman in uno stato, ecco, da persona non proprio sobria. Comunque sia, Jim attacca col testo demenziale della canzone che Diddley (pseudonimo di Ellas McDaniel) aveva composto quasi quindici anni prima (1956). Il personaggio che parla ci presenta la sua strampalata vita: tra "cobra come cravatta", una casa "fatta di pelle di serpente a sonagli" ed un camino di "teschi umani" ce n'è davvero per tutti i gusti, ed infatti non riusciamo a comprendere come il protagonista possa chiedere alla bella di turno di amarlo ("Dimmi, chi ami?/Adesso chi ami? [?] Io dico: chi ami adesso?"). Il bizzarro testo continua ancora ed ancora, ma prima della seconda strofa c'è da evidenziare l'esplosione di chitarra a 1:57, veramente distorta e dissacrante nella sua sonora pazzia esplosiva, tanto che, non appena Krieger cessa di suonare, si nota un vero e proprio sbalzo di potenza. Tocca così a Manzarek fraseggiare liberamente col suo organo prima che Morrison riprenda a cantare. Il flavour Rhythm and Blues della canzone originale si sente ancora benissimo, anche se qui viene in parte attaccato dalla potenza corrosiva ed "acida" della band losangelina. Declinazioni psichedeliche e svolte altamente elettriche rafforzano l'impatto primigenio della canzone, che fila liscia per tutti i suoi sei minuti di durata.
Alabama Song (Whiskey Bar)
Alla seconda posizione troviamo un medley di quattro canzoni, in cui è "Alabama Song (Whiskey Bar)" (La canzone dell'Alabama) ad esordire per prima. Il beat d'organo, inconfondibile e "cabarettistico", introduce la canzone scritta da Bertolt Brecht e musicata da Kurt Weill per la commedia Ascesa e caduta della città di Mahoganny (1930). Pronto a raddoppiare la partitura delle tastiere di Manzarek, Densmore ci cala nella parte con un drumming incentrato sul rullante, tanto marziale quanto scandito. Non più accompagnato dallo zither presente su disco (una sorda di cordofono simile al mandolino), Morrison si ritrova da solo nella ricerca del "whiskey bar" tanto agognato. La mancanza dello strumento caratteristico di questa canzone permette a Krieger d'ottenere più spazio di quanto effettivamente ne avesse su disco, con la sua chitarra intenta a intensificare l'"ubriachezza" molesta della voce di Morrison. Dopo il break attorno al primo minuto ecco che la canzone s'apre in senso melodico, e ci trasporta nella sua seconda sezione, caratterizzata da una presenza maggiore di tappeti tastieristici che rendono il tutto più vellutato ed ammagliante.
Back Door Man
E così, nella disperata rincorsa al whiskey bar laggiù nell'Alabama, Morrison e compagni lasciano ben presto strada alla seconda traccia del mix musicale proposto: "Back Door Man" (Uomo della porta di servizio). Un urlo ferale apre questa canzone dal titolo ambiguo, che si può rendere meglio in italiano come "colui che è solito avere relazioni con donne già sposate" (da qui l'utilizzo della porta sul retro per entrare nelle case delle amanti). L'andazzo del brano è quadrato anche se intenso, e ci sembrano già lontani i tempi della selvaggia opener. Gran parte della responsabilità musicale grava ancora sulle spalle di Manzarek, con Krieger che si limita ad accentare note qua e là. Ritmicamente parlando, Densmore accentua il tiro della canzone con qualche rullata sui tom o sul rullante, che amplifica notevolmente la botta di un brano - come già detto in precedenza - altrimenti estremamente lineare. Il protagonista della canzone, vero donnaiolo, continua per tutto il testo a vantarsi delle sue tresche amorose, sogghignando agli uomini che escono di casa, nel mentre le loro compagne lasciano accostata l'uscio sul retro. La voce sensuale e quasi "soffiata" di Morrison acuisce il senso di furtività con cui l'uomo s'aggira per i vicoli notturni, avvicinandosi sempre più alla tana della sua amante. Come a sottolineare l'entrata in casa, la violazione della "proprietà" di un altro uomo (in tutti i sensi possibili...), Krieger sgancia a 1:50 un assolo-bomba, bluesy da morire e quindi estremamente dotato di spessore emotivo.
Love Hides
È davvero un peccato quando, dopo neanche due minuti e mezzo, la canzone termina, collegandosi però immediatamente con la successiva "Love Hides" (L'amore si nasconde), vero primo inedito su questo album. Sin dall'incipit Morrison ci svela che "l'amore si nasconde/in strani posti/l'amore si nasconde/in visi familiari", ma anche che "arriva/quando meno ce l'aspettiamo". E come dargli torto? In una sorta di revisione del latino audentes fortuna iuvat ("il destino favorisce chi osa"), "l'amore arriva/a chi lo cerca". Il trend musicale è il medesimo della precedente canzone, tant'è che è davvero difficile porre un confine certo tra le due tracce. Il piano bass si sposta in prima linea, pulsa incontrollato nelle nostre tempie fino a scavare in profondità ed a scuoterci sin dal profondo. Questa volta è Manzarek col suo piano elettrico a ricoprire fugaci partiture solistiche, mentre Krieger rimane rintanato nei suoi licks quasi impercettibili.
Five to One
Quanto a Densmore, non c'è da farvi notare nulla di particolare, se non una rullata che dà l'avvio alla prossima canzone, spezzando il ritmo precedente. "Five to One" (Cinque a uno) indica il rapporto tra gli hippies e i benpensanti che Morrison supponeva esistesse all'epoca in cui la canzone venne scritta. Il più che scandito ritmo - al limite del tango argentino - battezza la traccia che a suo tempo concludeva Waiting for the Sun, ora riproposta dal vivo dinnanzi ai medesimi nemici dell'ordine "castrante" americano. Distorsioni elettriche sempre più crescenti sfociano a 1:10 in un primo assolo di chitarra, innervato di una carica deflagrante degna di nota. Rimarcando il concetto che "i vecchi vengon vecchi e i giovani diventano più forti", Morrison pare quasi sicuro d'avere la vittoria in tasca. È però consapevole che "i giorni delle sale da ballo sono finiti", e per questo mette in guardia la sua bella interlocutrice. Se "la notte si sta avvicinando" occorre farsi trovare pronti. In un altro tipo di lettura, appaiono però evidenti certi richiami sessuali che non possono essere ignorati: dal titolo, che in slang americano indica - nella sua forma completa, five to one ratio - l'atto della masturbazione maschile, alle numerose allusioni che, coerentemente, evocano la figura della donna come prostituta da bassifondi ("scambia le tue ore con una manciata di centesimi"). I continui inviti a farlo ("fallo bimba, nei nostri giorni migliori") non possono che avvalorare questa tesi, ma, come spesso accade nel caso dei Doors, nulla è scontato: forse è la pura verità, forse è solo colpa della nostra pruriginosa e maliziosa immaginazione? Quel che è certo è che la canzone si mantiene a bassa quota nella sua sezione centrale, per poi detonare nuovamente in prossimità del secondo solo di Krieger (2:48), capace addirittura di subissare la voce sempre più sguaiata di Morrison, disperato nel chiedere ancora ed ancora un'occasione alla donna ("Stiamo assieme ancora una volta").
Build Me a Woman
Conclusosi il medley, non prima di un'ultima sfuriata finale in cui Morrison esprime tutta la sua vena da genuino bluesman, veniamo trasportati sul lato-b del primo vinile, in cui si piazza "Build Me a Woman" (Costruiscimi una donna), altro inedito del platter. Ad un Morrison compiaciuto - che esclama "molto bene, molto bene" al pubblico che applaude la band - risponde prontamente il riff blueseggiante di Krieger, cui fa presto seguito il raddoppio del piano bass. Densmore s'inserisce in una maniera tanto gradevole quanto piacevolmente di soppiatto, mentre Manzarek comincia a tessere l'ordito sonoro grazie al suo organo. Il brano ha un non-so-che di felice, di spensierato, che permea la canzone di uno stuzzicante flavour in chiave assolutamente blues. E proprio il blues ritorna prepotentemente nel pre-chorus, quando Morrison non ce la fa più e dice ha, nelle sue vene, il "poontang blues". Ancora una volta è facile immaginare che il rimando sia inevitabilmente diretto alla sfera sessuale, ed è infatti giusto supporlo. "Poontang" è un termine mutuato dalla lingua ilocana - terzo idioma più parlato nell'arcipelago filippino - e deriva dal termine putang ("puttana", "scopare"). Di conseguenza può assumere due significati precisi: quello indicante i genitali femminili, oppure riferirsi semplicemente al rapporto sessuale vero e proprio. Sebbene calzi a pennello qualsiasi definizione si voglia prendere, personalmente sarei propenso a meglio accettare la seconda, che andrebbe così a definire un più che mai azzeccato "blues della scopata". Letteralmente capovolto dalla foga sessuale ("La testa in basso/fino alla punta dei miei stivali da cowboy, tutto bene"), il protagonista è talmente infoiato che comincia a supplicare che qualcuno costruisca per lui una donna, che, badate bene, dev'essere alta almeno tre metri (!), e non dev'essere assolutamente né brutta, né piccola. Ha bisogno di tanta donna? Tra strofa e ritornello non c'è stacco, non assistiamo ad alcun scossone né cambiamento, ma tanto ci basta per continuare a sorridere per una delle canzoni più spassose che la band abbia mai composto. Quando il ritmo si fa in levare, Manzarek comincia a calcare i suoi tasti in modo da partorire un solo che ben s'addice al contesto da bordello ormai pienamente sdoganato. A 2:09 è la guizzante chitarra di Krieger ad ottenere, forse, ancora dei migliori risultati, confezionando un brano assolutamente degno di nota, che pare strano che la band non l'abbia mai voluto inserire in alcun album della propria stratosferica discografia.
When the Music's Over
La restante parte del b-side da occupare spetta tutta a "When the Music's Over" (Quando la musica finisce), monolitica traccia finale del loro secondo album, Strange Days. A scapito dei suoi già abbondanti quasi undici minuti, il brano viene ora esteso di altri cinque, andando ad oltrepassare di poco i sedici minuti. L'organo piazzato astutamente in sede d'apertura leva ogni traccia del blues di cui prima, distorcendo tutto l'ambiente con le sue venature psichedeliche ed "acide". Il ritmo sale, scandito dai battiti di mani del pubblico, fino a che Densmore rulla, Morrison sbraita e Krieger sferza con pesantissime distorsioni. L'aria attorno al palco è cosparsa di forze primordiali come fulmini e saette; l'aria si blocca in gola e ci sembra quasi d'annaspare. Per fortuna, dopo un minuto d'assoluto crescendo, i toni si distendono, permettendoci di riprendere fiato e ritornare a galla. Morrison allora ci immette prontamente nel succo del discorso, paragonando la musica alla vita stessa: quando non ci sono più note da suonare, quando non c'è più musica da ascoltare, tutto svanisce. Quando non c'è più musica, è come se terminasse addirittura la vita. Dicevo, tempo addietro, come la musica fosse così vitale per Morrison che, quand'essa finì d'esercitare su di lui il suo inconfondibile fascino, cessò anche in lui la voglia di vivere. Essendo questa canzone un punto fisso dei loro live sin dai primissimi tempi - anche se il brano dovette aspettare qualche album per esser pubblicato ufficialmente -, Morrison andava dicendo cose che, bene o male, erano sentimenti e nulla più. Quando Morrison esegue la versione che stiamo ascoltando (siamo nel gennaio 1970), i pensieri si sono tramutati in ossessioni, in demoni interiori che non gli lasciavano oramai più scampo. Ecco perché "When the Music's Over" assume ora tutt'un'altra valenza e carica emotiva: se già prima era metafora musicale del mito e della vita di Morrison stesso, ora diventa addirittura intimo testamento, un'occasione per sfogare le angosce più recondite, afflizioni che un essere umano non può più semplicemente sopportare. Ma se prima eravamo al massimo nel 1965-66, ora siamo molto più vicini alla data della sua dipartita (3 luglio 1971), e non possiamo che farci così attraversare da un gelido brivido lungo tutta la nostra schiena. Ritornando alla canzone - con l'invito di Morrison a spegnere "la luce" - tutta la band al completo ci ricorda che la musica è la nostra "amica speciale". Grida "disperate" di fanciulle tra la folla anticipano di poco l'assolo di chitarra (3:08), pesantemente saturato dalla distorsione a dir poco esagerata. I volteggi acrobatici di Krieger arricchiscono il brano di certe sensazioni indescrivibili, così com'è un boccone difficile da deglutire quando Morrison sostiene di non esser ancora pronto per raggiungere i suoi compagni ad una non meglio precisata "festa". Se la festa è metafora per indicare l'aldilà, Jim afferma chiaramente che il suo tempo, nell'aldiquà, non è ancora terminato. Ma se questa era la convinzione di quand'aveva scritto la canzone, siamo sicuri che ora l'autore rimanga della stessa idea? Non si forse già insinuato in lui il desiderio - peraltro liberatorio - di farla finita e raggiungere gli altri "ad una festa di amici"? All'alba dei sei minuti, dopo un accesa evoluzione di Manzarek sul suo strumento, la band s'acquieta, lasciando la sola sezione ritmica a tenere il tempo. Non appena Morrison recita il versetto "il grido della farfalla", sentiamo librarsi in aria, quasi come per magia, un ronzante suono vibrato d'organo, che può benissimo ricordare il volo dell'insetto. Attorno al minuto 6:30, la canzone assume connotati leggermente diversi da quelli con cui s'era presentata. Densmore è ora libero di sperimentare soluzioni ritmiche audaci - piatti stoppati, tocchi controtempo, sfuriate sui tamburi e via dicendo - che incastonano qua e là gemme preziose all'interno di un contesto, va detto, già assai opulento. Il sinuoso piano bass - troppo rotondo ed ovattato per essere un vero quattro-corde - è come un minaccioso tuono che si ode in lontananza: è sì distante, ma non possiamo nemmeno ignorarlo del tutto. Lo spazio-tempo pare si stia dilatando all'inverosimile, fintantoché finiamo per perdere ogni sorta d'orientamento. Ad un certo punto son solo le dita di Manzarek a cadere sui tasti dell'organo, ogni altro membro della band pare essersi "disattivato". Le pulsazioni di Ray - pulsazioni vitali - indicano tuttavia che il cuore batte ancora, e quindi è lecito aspettarci un ritorno di fiamma di notevole dimensioni. Morrison comincia allora a dialogare col pubblico, zittendolo prima brutalmente ("state zitti!!") - e ricevendo in cambio solo applausi -, poi sempre più dolcemente, con un soffio sussurrato degno della più amorevole madre. Ecco che però, poco dopo, comincia a riprendere i fan sostenendo che quello non è il giusto comportamento che si deve tenere ad "un concerto rock and roll". Il pubblico lo osanna con un urlo incredibile. Da manifesto, poi, il seguente versetto-slogan "noi vogliamo il mondo e noi lo vogliamo/adesso/adesso?/adesso!". Ad urlare "adesso" è però il pubblico, fatto sintomatico ed indicativo di quanta presa avesse Jim sulla folla. Una tremenda rullata che cresce ci porta poi alla deflagrazione definitiva (10:00), nella quale - nel caso ci fosse rimasto un barlume di speranza dalla sezione di prima, quella di solo piano bass - finiremo inevitabilmente per perdere ogni ragione e logica umana. Gli strumenti stridono all'unisono; Krieger ronza con la sei-corde; Manzarek ci delizia con le acide partiture dell'organo elettrico, tra le migliori del suo repertorio. Rumori sinistri e fastidiosi pervadono le nostre orecchie: è il caos più totale. Gli ultimi vagiti di questo immenso delirio (11:13) sono come salti disperati tra una zolla e l'altra di un mondo che sta letteralmente collassando sotto i nostri piedi. I virtuosismi di Manzarek (11:53) sono davvero le ultimissime testimonianze dello scioccante micro-mondo creato dalla band all'interno della sezione centrale di questa canzone, che ritorna ad auto-bilanciarsi in prossimità della sua coda, quand'ormai quello che c'era da dire era già stato tutto quanto detto.
Close to You
Le simpatiche note di "Close to You" (Vicino a te) aprono una canzone che sembra voler sorpassare nettamente il momento di sperimentazione della precedente traccia, riallacciando un discorso col blues di prima. Il brano, scritto da Willie Dixon ed eseguito per la prima volta da Muddy Waters, è una composizione abbastanza standard, così come lo stesso apparato testuale, che non brilla certo per innovazione. Tutto ruota attorno al fatto che il protagonista vuole stare vicino alla sua donna ("Vicino a te, bimba, come il bianco sul nero/Vicino a te, bimba, come il più freddo dei ghiacci/Vicino a te, bimba, come gemelli siamesi/Vicino a te, bimba, perché mi sento bene/E io voglio starti/vicino, bimba"). A 1:12 Krieger si produce in un classico assolo di grande matrice blues, il quale s'interrompe giusto per lasciare strada alla vena di Morrison. A 2:06 tocca poi al piano elettrico di Manzarek, mentre Densmore si diverte a dar un po' di brio alla canzone. Quando toccherebbe nuovamente a Jim, ecco che notiamo dei cori, ad opera di Manzarek, che per la prima volta fanno la comparsa in un disco dei Doors (seppur dal vivo). Il finale è un continuo ripetersi del titolo, almeno fino a quando Jim attacca ad improvvisare sul testo, prima che la più classica delle soluzioni concluda la canzone.
Universal Mind
Un accordo pulito di chitarra e la voce calma e distesa di Morrison incominciano da soli la decima traccia, "Universal Mind" (Mente universale). L'ispirazione principale qui pare essere la droga, e non il sesso. Questa "mente universale" è probabilmente uno stato d'animo, una situazione interiore di cui è possibile far esperienza quando si hanno i giusti "mezzi". In determinate condizioni, si sarà poi in grado di accettare tutto, di amare tutti, poiché ogni cosa acquisirà un significato prima nascosto. Morrison dice: "stavo girando le chiavi, stavo liberando la gente", probabilmente come a dire che stava facendo sì che quante più persone possibili potessero godere di questa sensazione d'inarrivabile benessere psicofisico. Come in un trip, il ritmo della canzone è parecchio disteso, dilatato, a tratti rallentato. La voce profonda e leggermente venata di malinconia di Morrison ci permette d'addentrarci meglio nel mood da viaggio di questa "Universal Mind", così come l'organo ci culla dolcemente a destra e a manca. Tutto assume una connotazione onirica e pure la chitarra di Krieger sembra volerci ammagliare come per dire "relax, che a voi ci pensano i Doors". Noi seguiamo il consiglio, ma dopo il primo ritornello Densmore incomincia a dettare un ritmo più cadenzato ed irregolare, che instilla in noi uno strano senso d'agitazione. Poi, a 2:14, un danzereccio beat sincopato comincia a convogliare organo, chitarra e batteria in un ballo allucinato all'insegna del delirio musicale. Neppure l'ultimo chorus ci permette di tornare a rilassarci, sintomo che, forse, qualcosa nel nostro "viaggio" è andato male: che sia allora un bad trip? Essendo arrivati all'undicesima posizione, a questo punto la scaletta può seguire due diverse direzioni.
Petition the Lord with Prayer
Come dicevamo già in precedenza, la versione originale su vinile passa subito ad un adattamento dimezzato di "Break On Through (To the Other Side)", mentre le altre due inseriscono "Petition the Lord with Prayer", la sezione spoken-word del brano "The Soft Parade". Rumori stridenti, futuristici, irrompono nell'aria prima che Morrison indossi le vesta del predicatore (è pazzesco come quanto gli assomigli!). Il suo tono arrabbiato, che fuoriesce da una bocca deformata e schiumante per l'occasione, è il giusto mezzo per esternare il rancore che ha dentro. Tutta l'invettiva - che ricordiamo concludersi entro il minuto - è rivolta verso un vecchio compagno di studio al seminario. Costui era convinto che si poteva "supplicare Dio con le preghiere", e lo ripeteva all'infinito. Morrison non era dello stesso avviso, ed ogni volta ribatteva che ciò non era possibile: Dio è insensibile alle nostre preghiere (anche forse perché Dio non esiste, e quindi si prega il nulla). Sebbene si tratti di un brano esclusivamente parlato, il pubblico fischia, è contento, applaude con gioia, parodiando quasi quegli invasati che son soliti prender parte a quei ridicoli meeting orchestrati da predicatori-star. Morrison è compiaciuto e la cosa lo porta ad immedesimarsi ancora una volta di più, ricordandoci le sue eccellenti doti d'attore. Sotto gli scroscianti applausi Densmore incomincia a tenere un tempo da bossa nova, con Manzarek che fa comparire un timido organetto qua e là.
Dead Rats, Dead Cats
Intuiamo già che il beat può preludere ad una sola canzone, ma invece Morrison ci spiazza quando attacca a cantare "Dead Rats, Dead Cats" (Ratti morti, gatti morti), quasi un auto-rivisitazione del loro altro brano ben più famoso ("Break On Through"). Il testo è assurdo ("Gatto morto nel cappello/che succhia il sangue di un uomo giovane") e man mano che avanza il tempo assume connotati sempre più inquietanti ("Pensa d'essere un aristocratico/Pensa di poter uccidere e massacrare/Pensa di poter sparare a mia figlia"). Nel frattempo la band si mantiene a volo radente, quasi autolimitandosi come per riservare il meglio a dopo.
Break On Through (To The Other Side)
Ed infatti, dopo nemmeno due minuti, incomincia la vera "Break On Through (To The Other Side)" (Fatti strada verso l'altro lato), una delle primissime hit della band di Los Angeles. Brano decisamente più rock di quelli precedenti, la canzone è una dei pochi successi che i Nostri hanno deciso d'inserire nella scaletta. L'eredità blues ha lasciato ora spazio ad influssi più prettamente psichedelici, dove l'organo primeggia su tutti gli altri strumenti. A dire il vero pure Krieger si ritaglia uno spazio rilevante, anche se per ripetere ossessivamente il medesimo riff per quasi tutta la durata del brano. Canzone di protesta (il messaggio che Morrison ci lancia è quello d'abbattere le barriere che la società c'impone, per giungere infine all'"altro lato"), "Break On Through" colpisce nell'intento di rapire l'ascoltatore con la sua intrinseca voglia di ribellione. La lunghezza del brano è raddoppiata rispetto all'originale, permettendo alla band d'allungare la sezione centrale, dov'è possibile notare dei giochi coristici tra Morrison e gli altri componenti della band. Allo stesso modo trova maggior spazio pure Krieger, cui viene concesso un assolo sul finire della canzone, che si chiude sotto i colpi sempre più furiosi di Densmore.
Celebration of the Lizard
Conclusasi questa sezione - che aveva causato tanti patemi per le tracklist -, si apre finalmente la sezione finale di quest'album, rappresentata dalla lunga "Celebration of the Lizard" (Celebrazione della lucertola). Scritta interamente da Morrison, originariamente concepita come poesia messa in musica, la suite si compone di diversi capitoli che, a seconda dell'edizione discografica, furono scanditi o meno nelle rispettive tracklist. Tutta la band non ha mai fatto mistero di come avesse voluto che la Celebrazione costituisse un intero lato di un loro studio album, ma, ancora una volta, Rothchild s'era opposto fermamente a questa decisione, convincendo loro dell'impossibilità "tecnica" della cosa. Le parti recitate, lo scarso apporto musicale, oltre ovviamente alla notevole lunghezza, avrebbero potuto significare un notevole calo di tensione per il fan medio che ascoltava un album dei Doors, e quindi, come si apprende dal docufilm When You're Strange (2009) di Tom DiCillo, si preferì includere la sola sezione "Not to Touch the Earth" (Che non si tocchi la Terra) all'interno di Waiting for the Sun. Rumori si sonagli e tamburelli aprono a dei lamenti che ben presto lasciano spazio alla voce altamente recitativa di Morrison. I Leoni nella strada sono il preambolo all'opera morrisoniana e, come tutto il resto dell'opera, son difficilmente decifrabili, talmente sono intrisi di valori profondamente personali per Jim (verrebbe quasi da pensare che fosse il solo Morrison a capirne il reale significato?). Procedendo con una descrizione tanto originale quanto stravagante, Morrison alla fine avvisa che "la cerimonia sta per iniziare". "Sveglia!" è il titolo del secondo momento del poema, ma anche l'urlo brutale con cui il frontman esorta il pubblico a ridestarsi dal torpore esistenziale, lo stesso che affligge lui medesimo. La descrizione di una giovane donna, rossa di capelli, che comincia ad invecchiare a vista fino a diventare decrepita, coi capelli bianchi, è accompagnata dai rumori quasi ambientali della band, che si trovano qui ad orchestrare la colonna sonora del dramma morrisoniano. Tra sbalzi di pathos incredibili e visioni spaventose, la recita entra nel terzo passo denominato Un piccolo gioco. L'organo pulsa alla stregua di un elettrocardiogramma ed il singolo tocco diventa così palpito vitale. Il "gioco" non è altro che un esercizio per "diventare pazzi", da intendersi in un'accezione buona del termine. Morrison ci spiega come fare: "Chiudi un attimo gli occhi/Dimentica il tuo nome/Dimentica la gente/E noi tireremo su/un campanile diverso". L'enigma di questi versetti lirici è spiazzante quasi quanto certa pittura metafisica. Continuando a seguire le istruzioni riusciremo infine a "liberarci dall'autocontrollo", per farci strada verso lidi sconosciuti della psiche. Delle scivolate sulla tastiera dell'organo, accompagnate da un tambureggiante ritmo tribale, ci accompagnano alla stanza degli Abitanti della collina. Siamo ormai nei reconditi meandri della nostra mente ("Molto indietro nel nostro cervello/Indietro dove non c'è alcun dolore") e siamo rapiti da una visione quasi pànica della natura ("E la pioggia cade dolcemente sulla città/e sopra le teste di tutti noi"), ma non dobbiamo dimenticarci che ora nulla è reale, dal momento che siamo in un "labirinto di flussi" di pensiero (cioè nella nostra mente). Tutt'attorno ci stanno "dolci colline" cui fanno contrasto i loro "inquieti abitanti". Le figure dei "rettili", da sempre adorati da Morrison per effetto delle fascinazioni della cultura pellerossa amata sin da bambino, abbondano in un contesto dove neppure mancano "fossili, caverne, alture con aria fresca". Dopo una descrizione piuttosto alterata di una realtà che si sta distorcendo sempre più, si arriva all'episodio già citato in precedenza, Che non si tocchi la Terra. Per il titolo della sezione, Morrison pare essersi ispirato al libro Il ramo d'oro di James Frazer (1968), il cui sessantesimo capitolo si chiama appunto come la canzone dei Doors. Sinistre strutture di piano bass - che ricordano oscuri arpeggi - stendono una campitura su cui s'installa la chitarra di Krieger, la quale si produce in tocchi quasi dissonanti. Se il libro era rivolto in particolar modo contro i tabù della società odierna - prendendo di mira specialmente i benpensanti e la Chiesa -, ora la canzone si rivela come un incitamento a correre, a fuggire via da un posto in cui non v'è più niente da fare ("Che non si tocchi la Terra/Che non si veda il Sole/Niente da fare/tranne che correre, correre, correre/Corriamo/Corriamo"). Da 1:33 una sensazione di soffocamento pare far presa sull'ascoltatore, con la sgraziata chitarra pronta a doppiare la tragica ed oscura descrizione che s'appresta a fare il cantante: si va da un presidente assassinato (Kennedy?), ad un esoterico rituale sulla sommità di una collina, fino ad arrivare alla finale presentazione che Morrison fa di se stesso: "Io sono il Re lucertola/Io posso far qualsiasi cosa". Una breve sezione solistica, prima di chitarra poi d'organo, si fa spazio verso il terzo minuto, ma è solo un fugace espediente prima che Morrison ripeta più volte "sole, sole, sole/brucia, brucia, brucia". In seguito, con un completo rovesciamento, il sole svanisce ed arriva la luna ("Luna, luna, luna/Io ti prenderò/presto, presto, presto"). Tra tutte le stanze del poema-suite finora incontrate, "Not to Touch the Earth" è sicuramente quella più musicata, in cui anche gli altri membri della band possono ritagliarsi abbondante spazio (pure Densmore, che chiude il brano con un crescendo che rasenta quasi il blast-beat dei tempi più moderni). Coi Nomi del regno ci avviamo verso la conclusione, passando per intramezzo ancora una volta permeato da un mesto organo che ricorda da vicino quello utilizzato in chiesa. Jim ci racconta di come stia accorrendo gente da ogni parte (dai fiumi, dalle strade, da Carson, da Springfield e Phoenix), ma non ci è ben chiaro le cause di questo spostamento di massa. Ma dal movimento si passa ben presto al silenzio ed all'ombra, con tutto quanto che svanisce nell'oscurità. I sonagli ritornano, infine, per introdurre il pubblico - le cui persone, da fan scalmanati di un concerto rock, si sono tramutate in un audience teatrale - all'ultimo passo di questa Celebrazione. Il titolo dell'ultima stanza è Il palazzo dell'esilio, dimora del protagonista negli ultimi tempi ("Per sette anni io ho dimorato/nel dissoluto palazzo dell'esilio"). Qua, l'uomo ha potuto intrattenersi con le ragazze che l'abitavano, praticando "bizzarri giochi", ma ora avverte che occorre ritirarsi, ognuno nelle proprie "tende" o nei propri "sogni". Il motivo è presto spiegato: "domani entreremo nella mia città natia/e io voglio esser pronto". Si chiude così, tra mille applausi ed attestazioni di stima verso un genio incondizionato, tutta la "Celebration of the Lizard", che, in quasi quattordici minuti totali, ha saputo rapire ogni astante e condurlo nel surreale mondo dell'estro morrisoniano. Jim stesso è compiaciuto ed allora ringrazia sentitamente un pubblico che, tra l'altro, urla sempre più a gran voce il nome della band.
Soul Kitchen
Giunti ormai al termine del live, i Doors si accomiatano con "Soul Kitchen" (Cucina dell'anima), brano estratto dal loro LP d'esordio. Passati i momenti d'enfasi che la precedente suite aveva provocato, Manzarek attacca con l'inconfondibile intro della canzone, che prontamente chiama alle armi Krieger, che sfoggia subito la sua vena blues. Il Jim protagonista della canzone è un po' rassegnato, giacché deve abbandonare il bar in cui stava bevendo ("Ok, l'orologio dice che è ora di chiudere ora/Penso che sia meglio andare adesso"). Peccato, perché al protagonista piace molto girovagare la sera, senza meta, per i locali della città. Ora però è davvero tardi, e tra auto che sfrecciano e luci al neon che illuminano il viale, c'è difficoltà a reperire qualcosa di ancora aperto. Ma ecco che c'è "ancora un posto dove andare/ancora un posto dove andare". Come Densmore rivelò nella propria biografia Riders on the Storm (1991), il titolo si riferisce nella fattispecie ad un ristorante tanto amato da Jim, di proprietà di una certa Olivia. In questo posto Jim riusciva così tanto a star bene che etichettò il locale come "cucina dell'anima", un posto dove saziare sì l'appetito - grazie agli ottimi piatti di mare -, ma anche lo spirito, magari dopo una brutta giornata. Nel ritornello l'organo di Manzarek si fa più penetrante e spazza via ogni possibile nostra resistenza. Penetratoci nelle tempie, non c'è più modo d'evitare il tremendo contagio che questa canzone, col suo inconfondibile beat, ci regala. E così, tra una sigaretta e l'altra, Jim chiede disperatamente d'"imparare a dimenticare", dato che solo questo posto possiede questo magico potere lenitivo che cura ogni malessere dell'anima. La punta del climax si raggiunge quando Krieger imbranca la sua sei-corde (2:38), sfoderando una prestazione maiuscola durante l'esecuzione dell'assolo. L'intro reprise è l'occasione per riprendere nuovamente l'ottimo giro portante della canzone, condendolo di tanto in tanto con qualche improvvisazione. I cori supportano Morrison, la cui voce ora si è fatta estremamente graffiante, quasi corrosiva in prossimità delle urla più sguaiate. A 4:29 tocca poi al buon Ray sfrecciare sul proprio strumento al fine di strutturare l'ennesima, ottima partitura solistica di quest'album. Come possiamo vedere, anche "Soul Kitchen" si dilunga ben oltre i suoi normali limiti, ma ciò non toglie che sia una degna conclusione a questo valido disco dal vivo, arrivato ormai al suo termine. L'intera band ringrazia il pubblico, il quale prontamente ricambia con un caloroso applauso. Si sente qualche strillo di ragazza in lontananza, ma ora è davvero troppo tardi - parafrasando il passo dell'ultima traccia - ed è giunto il momento di far calare il sipario.
Conclusioni
Prima di tirare le somme va detto che Absolutely Live fu un mezzo fiasco per i Doors. L'album vendette solo 225.000 copie - meno della metà di quelle di Morrison Hotel - e nemmeno la critica si mostrò entusiasta nei confronti del nuovo prodotto di casa Elektra. Personalmente, l'unica obiezione che mi sento di muovere all'ideatore di questo album è che, fondamentalmente, mancano i grandi classici della band. Non v'è infatti traccia alcuna di evergreen come "Light my Fire" o "Strange Days", senza nemmeno andare a scomodare gli ultimi lavori che da lì a poco sarebbero apparsi su Morrison Hotel. I malumori sembrano orientarsi tutti in questo senso, accusando la band d'aver preferito tracce semi-sconosciute rispetto ai grandi classici. Ciò che però, secondo me, non è stato abbastanza lodato è la buona prova di tutti i componenti della band. Krieger si è dimostrato ancora una volta di essere un chitarrista fin troppo bravo, se pensiamo a quanto è stato snobbato come figura di secondo (o terzo) livello negli ingranaggi della band. Su Manzarek è inutile esprimersi, tanto è spaventoso nel dividersi tra le maree di tastiere che lo circondano. Pure Densmore ha rivelato un lato di sé - quello più distruttivo e furioso - che, a volte, sugli album in studio, era rimasto fin troppo in ombra. Morrison, infine, ha reso sopra le aspettative, non sfociando in eccessive improvvisazioni com'era solito fare. Ricordiamoci però che, a prescindere dalla battuta di Rothchild, queste rimangono comunque le migliori performance di ogni singolo brano di quella tournée. Su quindici tracce complessive, sette appartengono alla doppia esibizione al Felt Forum di NYC (17-18 gennaio 1970); tre al doppio live tenutosi all'Aquarius Theatre (21-22 giugno 1969, sempre nella Grande Mela); due a quella dello Spectrum di Philadelphia (1 maggio 1970); altrettante sono state estratte dallo spettacolo alla Cobo Arena di Detroit (8 maggio 1970); una, infine, dallo show alla Pittsburgh Civic Arena (2 maggio 1970). Il loro manager aveva insomma riunito la crème de la crème di quanto i Doors avevano eseguito live nell'ultimo anno. Se Absolutely Live può essere accusato per il motivo sopracitato - che, per carità, è una carenza non da poco -, non cestiniamolo comunque subito: un conto è accusare, un conto condannare, e un'ascoltata gliela potete comunque concedere. Sono sicuro che vi mostrerà una band che, a prescindere da problemi di scaletta, non aveva all'epoca alcun rivale che potesse rivaleggiare contro la carica eversiva dei suoi quattro musicisti. Un ensemble, dobbiamo ricordarlo, divenuto in seguito iconografico di un certo tipo di ribellione, "controcultura" se vogliamo. Importante sottolinearlo, i The Doors hanno volutamente composto la colonna sonora di una generazione; una generazione di poeti e sognatori, di personaggi singolari, una generazione le cui eco sono perfettamente distinguibili ancora oggi, e nitidamente. Difetti o critiche a parte, quella che ci ritroviamo fra le mani è pur sempre una testimonianza sonora di uno dei più grandi gruppi al mondo. Un gruppo che ha frantumato le regole allora imperanti riscrivendone altre, daccapo. Un gruppo guidato dall'istrionismo di un frontman divenuto iconografico, emblema, antonomasia vivente del concetto di "ribellione". Se dunque voleste, non ci sarebbe affatto nulla di male, nel procurarvi una copia di questo live. Un conto è giudicare oggettivamente ciò che si sente, un altro è il calare la materia nel suo contesto: capirla, studiarla, identificarla, carpire tanti aspetti che i nostri sensi "fisici" non possono, per ovvie ragioni, raggiungere immediatamente. Tutto sta nello spalancare le porte della percezione, appunto. Troviamo quindi il coraggio e varchiamo, ancora una volta, la fatidica soglia.
2) Who Do You Love?
3) Alabama Song (Whiskey Bar)
4) Back Door Man
5) Love Hides
6) Five to One
7) Build Me a Woman
8) When the Music's Over
9) Close to You
10) Universal Mind
11) Petition the Lord with Prayer
12) Dead Rats, Dead Cats
13) Break On Through (To The Other Side)
14) Celebration of the Lizard
15) Soul Kitchen