THE DOORS
13
1970 - Elektra Records
GIACOMO BIANCO
29/06/2016
Introduzione Recensione
Verso la fine del novembre 1970, i Doors erano nel periodo più burrascoso della loro carriera. Da una parte c'erano i problemi interni alla band, tra i quali spiccavano soprattutto i malumori di un Jim Morrison sempre più propenso ad abbandonare il mondo della musica in favore di quello della poesia. Dall'altra continuavano a perpetrarsi tutti quei dissapori che erano in essere tra la band e la loro storica etichetta, l'Elektra Records. Gran parte di quest'ultime grane erano condensabili nel sempre più difficoltoso rapporto tra i quattro ragazzi ed il loro manager nonché mentore, Paul Rothchild. Costui aveva sin dall'inizio creduto nelle immense potenzialità della band, cercando sempre e comunque di supportarla in qualsiasi decisione, anche in quelle più difficili e discutibili. Ad ogni modo, qualcosa si era ora incrinato nel loro rapporto, e non doveva essere affatto qualcosa di banale. Rothchild - non lo scopriamo adesso - si era sempre dimostrato un assoluto perfezionista, cosa che, agli occhi di ragazzi istintivi e passionali come i Doors, poteva effettivamente rivelarsi come un insopportabile fardello. È innegabile che ad una band "sanguigna" come la nostra la supervisione ossessiva - e forse un tantino soffocante - di Rothchild, ad un certo punto della loro carriera, poteva rivelarsi più distruttiva che costruttiva. I Doors venivano dall'enorme successo di Morrison Hotel (febbraio 1970), ma erano al contempo reduci da interminabili sessioni di lavoro, sia per il disco appena citato, sia per il suo successore del '69, The Soft Parade (che esattamente un successo non lo era stato?). Proprio quelle sequenze d'esasperante lavoro, quelle ore e ore di ripetizione di un motivetto, di un riff qualunque, avevano quasi snaturato i Doors nella loro anima più recondita. Emersi come band autrice di un blues rock a tinte psichedeliche, la band aveva cominciato un percorso di maturazione stilistica che li aveva portati alla tanto bistrattata Soft Parade, che, invece di rivelarsi un successo, un riconoscimento per lo sforzo compiuto nel tentativo di perfezionare il loro sound, si era dimostrato invece un mezzo fiasco, sia in termine di vendite che di ricezione da parte della critica di settore. All'epoca della Soft Parade, i Doors erano una band che proponeva un singolo ("Touch Me") in cui erano accompagnati nientemeno che da un'orchestra. La cosa suona piuttosto strana per una band la cui attitudine era, almeno originariamente, tutt'altra. Resisi probabilmente conto di tutto ciò, i Doors realizzarono che Rothchild nutriva una forte ossessione per i Beatles, in quel momento il vero ed unico antagonista di qualsiasi altra band del mondo, almeno se s'intendeva approdare ai piani alti delle classifiche musicali nazionali. Rothchild d'altronde non ne aveva mai fatto mistero, e la stessa Soft Parade, a cominciare addirittura dalla posa dei quattro musicisti in copertina, doveva in tutto e per tutto riassumere l'eclettismo musicale dei Fabulous Four d'oltreoceano. Peccato che però il disco risultasse scialbo sotto alcuni punti di vista o, meglio, mancasse di quei punti di forza su cui la band aveva costruito le proprie fortune discografiche. Non era forse meglio, a questo punto, evitare di snaturare eccessivamente una band (peraltro dotatissima), invece che insistere nel voler raggiungere una chimera? Probabilmente Rothchild da quell'occhio non voleva assolutamente vederci, ma i Doors si resero invece benissimo conto della situazione. In primo luogo, perché erano i primi a risentire delle massacranti sessioni di lavoro negli studios, quando evidentemente il loro modo di lavorare era tutt'altro. Secondo, perché probabilmente erano giunti alla conclusione che, se avessero mantenuto il sound artificioso e patinato della Soft Parade, non sarebbero assolutamente approdati da nessuna parte. Gli stessi Doors si resero conto che era soprattutto necessaria una sterzata: era di vitale importanza ritornare al più presto sui propri passi, su quella strada abbandonata del blues rock, quasi rinnegata - per volere del loro manager - in favore di un processo di stravolgimento che aveva addirittura alterato i connotati alla band. Il risultato di questo sforzo era stato - come detto in precedenza - Morrison Hotel, ma la cosa interessante da notare è che, da quel momento in poi, i Doors assunsero progressivamente maggior potere decisionale all'interno del sistema che orbitava attorno a loro: Rothchild, da "mente" della band, si ritrovò sempre più accantonato, sempre più emarginato dalle decisioni che davvero contavano nell'economia del gruppo. E i fatti dimostrano che i Doors fecero bene ad agire assecondando il proprio tornaconto: fidandosi delle loro idee diedero luce al seguito di Morrison Hotel, L.A. Woman (1971), album che per molti aspetti riprendeva le sonorità del precedente disco e che fece altrettanto bene in termini di vendite e di critica. C'è però da dire che, prima dell'uscita di quest'ultimo disco, nel bel mezzo della sessione di registrazione, Rothchild si era improvvisamente defilato in maniera definitiva, affidando la produzione in corso al tecnico di studio dell'Elektra Bruce Botnick. Con l'uscita di scena del manager, i ragazzi ripresero finalmente fiato. Nel 1994, sulle pagine di Guitar World, Robbie Krieger rivelò senza remore di come la band fosse ritornata a divertirsi dopo l'addio di Rothchild. Con la parola "divertimento" Krieger ci fa realmente capire quanto la band si fosse snaturata, quanto Rothchild avesse influito - tanto nel male quanto nel bene, sia chiaro - sui quattro ragazzi di Los Angeles. Probabilmente per i Doors la musica stava diventando un "lavoro", stava perdendo quel fascino, quel non-so-che d'istintivo e primordiale che la musica porta sempre con sé quando, ad esempio, un ragazzo imbraccia una chitarra e suona, facendo rumore. Ecco: il rumore è il prodotto di una rabbia interna che può finalmente uscire, permettendo al ragazzo di sfogarsi prima che sia troppo tardi. Forse Rothchild aveva tappato la valvola di sfogo dei quattro Doors, li aveva "cambiati", o forse tentava di conformarli a quelli che, secondo lui, erano i gusti della gente in termini musicali. Una volta che questa valvola poté tornare libera, non più ostruita da ostacoli d'ogni sorta, la band ricominciò una seconda vita, seppur brevissima per via della morte del frontman nel '71. Nonostante sia passato pochissimo tempo dalla fuoriuscita di Rothchild dall'entourage dei Doors alla dipartita di Morrison, in quel lasso di tempo la band regalò ancora un album, l'L.A. Woman di cui sopra, ultimo, strepitoso vagito di un colosso della musica pop/rock del Novecento. Se facciamo ora però un piccolo salto indietro, in quel novembre '70 di cui dicevo prima, troviamo ancora la band alle prese con le beghe con l'Elektra. Rothchild era ancora una presenza pervasiva ed ingombrante. Invece di calmare le acque, il manager pensò bene di intavolare un discorso coi suoi colleghi dei piani alti affinché si riuscisse ad immettere sul mercato natalizio un prodotto qualsiasi recante il logo dei Doors. La decisione, di spiccato gusto commerciale, venne presentata alla band che, di fatto, non poté far altro che accettare, in quanto non ancora in una posizione di forza per opporsi a tal volere. Come ricordano Danny Sugerman e Jerry Hopkins nella biografia No One Here Gets Out Alive (1980), venne addirittura imposto a Morrison di radersi completamente la barda, proprio per adottare un look più "pulito" - angelico, se me lo permettete - in linea con quello che rappresenta appunto il business natalizio. Tuttavia, nonostante egli avesse accettato a malincuore, alla fine venne scelta una vecchia immagine, in cui Morrison risultava davvero come un giovincello. Ma la cosa che mandò su tutte le furie lo stesso singer della band era che la sua immagine troneggiava su quella degli altri componenti della band. Ray Manzarek, John Densmore e lo stesso Krieger erano confinati nella parte bassa dell'artwork frontale dell'LP, con la gigantografia di Morrison sopra le loro teste. Questa mossa - che indispettì non poco Morrison, dato che veniva tratteggiato come l'egocentrico della band - era tanto ovvia quanto chiara, proprio come ci raccontano i due biografi. L'Elektra voleva in prima pagina il "belloccio" della situazione e così si scelse immediatamente l'iconicità di Morrison, cantante e, dunque, catalizzatore d'ogni attenzione che il pubblico rivolgeva alla band. Anche se in verità tale scelta sarebbe stata apprezzata da gran parte delle cosiddette primedonne, Jim si dimostrò parecchio offeso dal comportamento eccessivamente "lusinghiero" dell'etichetta, poiché da sempre sosteneva che la band non era affatto composta da una sola persona - lui, il frontman -, ma era un insieme di quattro musicisti distinti, ognuno con una propria personalità, ma soprattutto ognuno con un proprio ruolo, senza il quale non si sarebbe potuti arrivare a capolavori immortali della storia del rock. Volere o volare, il 30 novembre 1970 uscì "13", primo best of in assoluto della band di Los Angeles. Andiamo a vedere ora di quali canzoni si compone questa compilation.
Light My Fire
Come prima canzone, colui che orchestrò questo disco scelse "Light My Fire" (Accendi il mio fuoco), probabilmente una delle tracce - se non la traccia - più famosa del quartetto losangelino. Contenuta nell'LP omonimo d'esordio, il brano è una lunga suite musicale di circa sette minuti. Oltre alla versione pesantemente editata per il mercato radiofonico - e cioè privata della sezione strumentale centrale -, veniamo ora a conoscenza che esiste un'altra versione della canzone, che è in effetti quella che abbiamo sotto mano: la sua lunghezza s'attesta infatti attorno ai 6:50, quindi leggermente inferiore alla versione "ufficiale". Il brano si apre col celebre giro d'organo ad opera di Manzarek, un giro di rara bellezza, immediatamente riconoscibile sin dalle prime note e diventato immortale proprio per questa sua identificabilità. Se la chitarra non è ancora uno strumento preponderante, ci pensa l'oscura voce di Morrison a fare da contraltare alla psichedelia che sprizza a più non posso dal fatato organo. Jim presta la sua voce ad una tematica che ritorna quasi sistematicamente ogni due/tre canzoni della band: l'amore ed il sesso. Morrison, che è una persona estremamente intelligente, s'adopera per intavolare un discorso estremamente affascinante dal momento che a mettere in strettissima correlazione due mondi apparentemente contrapposti come quello dell'amore e della morte. Se pensiamo all'atto sessuale, c'è chi dirà che si tratta della manifestazione "più bassa" dell'amore. Su questo potremmo discuterne in eterno, ma tuttavia è facile convenire su un altro punto: si tratta indubbiamente anche dell'atto più istintivo, primordiale se vogliamo. Quello che i Francesi identificano con le petite mort, la "piccola morte", è addirittura l'orgasmo, l'apice massimo di piacere raggiungibile attraverso l'atto sessuale. La vita che si confondo con la morte. E a tal proposito è di rara bellezza il versetto di Morrison "il nostro amore diventerà una pira funeraria", dove, all'interno della medesima frase, troviamo parole appartenenti a sfere semantiche davvero opposte ("amore", "pira funeraria"). In questa frase così emblematica Morrison riesce a catalizzare l'essenza dell'intera canzone, di cui voglio ricordare a tal proposito il titolo. La pira funeraria di cui sopra rimanda per ovvi motivi al fuoco, a quel fuoco depuratore che tutto ripulisce. "Light My Fire", "accendi il mio fuoco" vuol assumere il significato di qualcosa come "innesca in me una scintilla", "accendi dentro di me la passione amorosa": il fuoco è allora visto come elemento indispensabile per suscitare un sentimento di per sé molto forte. Giocando sul rapporto amore/morte così come su quello costruzione/distruzione (l'amore che costruisce una relazione, ma che ha anche la potenza di "bruciarla"), Morrison e compagni tessono un discorso musicale d'estrema bellezza, altamente significativo per conoscere e capire il sound della band. Dopo l'introduzione, sede del celebre giro d'organo, il brano si dipana lungo svariate strofe, raggiungendo un culmine d'espressività all'interno del ritornello, ovvero quando Jim calca in maniera più pesante la mano sottolineando l'incredibile vicinanza d'amore e morte. Se passione diventa allora sinonimo di distruzione, dopo quest'inimmaginabile rivelazione i Doors ci sorprendono nuovamente, spezzando all'improvviso il discorso che Morrison stava portando avanti. Poco dopo il primo minuto la canzone comincia già a perdersi nelle derive allucinate ed allucinanti del Manzarek organista, quello più psichedelico e visionario. La sua partitura solistica dura diversi minuti, all'interno dei quali il musicista ha l'occasione di dimostrare tutto il suo incredibile valore. Dopo un momento in cui la batteria di Densmore s'incattivisce sensibilmente, la canzone pare attraversare una fase di calma in concomitanza dell'inizio dell'assolo di Krieger (3:21). Tuttavia è solo una calma apparente perché se da una parte è vero che la chitarra è meno ipnotizzante dell'organo, è altrettanto indiscutibile che essa conferisce quella sterzata più propriamente rock che s'aspetterebbe all'interno di un brano del genere. Il buon Robbie è così in grado di redigere una sezione solistica di tutto rispetto, pur senza strafare in alcun modo. La sua abrasiva distorsione permette allo strumento di "graffiare" l'ascoltatore, dopo che la tastiera l'aveva invece dolcemente accarezzato (pur sempre in maniera subdola?). Dopo circa cinque minuti abbondanti in cui Morrison si è ritagliato uno spazio davvero esiguo, ecco che tutto sembra ritornare all'inizio, non appena viene ripreso il motivetto iniziale (5:37). Jim ha la possibilità di ribadire il succo del concetto sopra esposto, ma due minuti scorrono velocemente e così la canzone svolazza via come un fiore nel vento, lasciandoci davanti agli occhi sensazioni indimenticabili.
People Are Strange
"People Are Strange" (La gente è strana) proviene dal loro secondo album, Strange Days, il disco più rappresentato all'interno di questa raccolta (ben quattro tracce su tredici). Il titolo della canzone è fortemente rappresentativo di quello che il disco d'origine voleva trasmettere. Il bizzarro "circo umano" che stava sulla copertina della seconda fatica dei Doors rappresentava infatti il lato più surreale della vita umana, il nonsense che s'insinua nella quotidianità: gli acrobati, giocolieri e nani che comparivano sull'artwork sono dimostrazione di come incredibile possa essere la vita anche nella sua apparente e sistematica monotonia. L'attività circense simboleggiata dai vari personaggi rimandano però anche a quel particolare tipo di musica, quanto mai teatrale, che è la vaudeville. L'influenza che essa esercita sulla band è notevole ed infatti i quattro musicisti confezionano un brano davvero particolare, che poco o nulla ha a che fare col rock propriamente inteso. Gli arpeggi di chitarra posti ad inizio canzone sono sì dissonanti, ma benissimo fanno se accoppiati alla voce di Morrison, che comincia a tratteggiare la summa del brano: "la gente è strana/quando sei uno straniero". Da queste poche parole emerge quindi il tema dell'emarginazione sociale. Non a caso i circensi che stanno in copertina possono essere simbolo per eccellenza di questa emarginazione, forse perché girovaghi per natura o comunque provenienti da strati sociali decisamente umili. C'è poi anche da dire che il circense non rispetta assolutamente i canoni della "normalità" comunemente intesa. Egli è un personaggio bizzarro, che per vivere fa qualcosa di altrettanto inusuale, che di norma difficilmente è definibile lavoro in senso stretto. Presentandoti in questa maniera (che poi è la grana di moltissimi musicisti?) la gente ti tratta sempre con diffidenza, da forestiero. Nessuno riesce a spingersi oltre un certo quantitativo di fiducia: regnerà sempre e comunque un sospetto, un qualche timore di chissà quale sorta. "Quando sei strano/nessuno si ricorda del tuo nome": l'emarginazione assume quasi una funzione spersonalizzante. Perdi la tua identità, sei una goccia nel mare. Sei un'artista di strada, uno come tanti altri. Non possiedi più un nome: sei diventato "il giocoliere", l'"energumeno", "il contorsionista"? Dopo che Morrison ha avuto l'occasione di trattare questo argomento, il brano entra nel vivo quando Manzarek, tra un vagito e l'altro della sei-corde, riesce a tessere una bellissima melodia con il suo piano elettrico. Il culmine si raggiunge però in prossimità dell'assolo di Ray, eseguito col tack piano, una sorta di strumento, timbricamente ibrido, a metà tra pianoforte e clavicembalo. Prima dell'assolo di Manzarek (1:31), vagamente reminiscente di sonorità mediterranee, anche Krieger aveva avuto occasione di ritagliarsi spazio all'interno di un brano tanto espressivo e pregno di significato, quanto esiguo in termini di lunghezza (poco più di due minuti). Eppure, in così poco tempo, le liriche riescono ad individuare un'importante problematica dei nostri tempi - quella dell'esclusione del diverso - oltre che a lasciarsi andare a situazioni decisamente più frivole (mi riferisco in particolare alla seconda strofa, in cui ritroviamo il protagonista della canzone in qualche modo "alterato" da certe sostanze non meglio specificate, in preda a visioni inquietanti che riflettono comunque quella sensazione d'eccentricità che sottende all'intera canzone).
Back Door Man
Si prosegue con un altro classico della formazione californiana: "Back Door Man" (L'uomo della porta di servizio). L'aneddoto che si cela dietro a questo titolo è davvero simpatico. Il protagonista, che veste appunto i panni del suddetto tizio, è uno spregiudicato donnaiolo, perennemente alla ricerca di qualche nuova pollastrella. Il riferimento alla porta sul retro è assolutamente voluto, giacché è quella l'entrata privilegiata del nostro protagonista, per un solo, semplice motivo: quando l'uomo di casa esce per andare via, lasciando la moglie da sola, il nostro dongiovanni arriva di soppiatto e furtivamente entra dal retro: avrà così tutto il tempo possibile per intrallazzarsi con l'amante senza esser notato. Come ricorda Densmore in una delle sue dichiarazioni, "Back Door Man" è una canzone "profondamente sessuale" che ha come unico motivo quello d'incitare "tutti a muoversi". L'introduzione della canzone è questa volta affidata alla chitarra di Krieger, il che permette alla matrice blues della band di rivelarsi maggiormente. Il drumming di Densmore sollecita la partitura di piano bass ad incalzare sempre più, seguendo le orme della chitarra. Il Manzarek solista subentra solo in un secondo momento, andando col suo Hammond ad armonizzare l'intero ordito sonoro. Morrison presta la voce al donnaiolo in questione e bisogna ammettere che riesce a calarsi benissimo nella parte. E così, durante la notte più profonda, quando tutti gli altri cercano "di dormire", "io sto cercando di realizzare/il mio sogno di mezzanotte", ovvero concludere con la donna di turno. Simpatico poi il siparietto "culinario" orchestrato da Morrison: mentre gli altri mangiano "maiale e fagioli", lui mangia "pollo/più di chiunque si sia mai vista, sì", alludendo chiaramente all'assonanza tra "pollo" e "pollastrella". Musicalmente parlando, il brano ruota attorno a pochi riff, tuttavia facilmente riconoscibile ed assimilabili. Ad arricchire la composizione ci pensano il bel solo di Krieger - ricchissimo di bending che rendono la chitarra davvero "lamentosa" - e gli arrangiamenti, davvero studiati e calcolati con grande ponderatezza, giusto per ottenere un effetto d'enorme suggestione sonora.
Moonlight Drive
L'album Strange Days ritorna qui con la quarta "Moonlight Drive" (Viaggio al chiaro di luna), forse la prima traccia un po' più di nicchia rispetto alle altre finora incontrate. Bisogna però sapere che questa è una delle primissime testimonianze del Morrison autore di testi, siccome risale a quel periodo della sua giovinezza quand'ancora risiedeva a Venice Beach. "Moonlight Drive", pur non godendo del blasone di una "Light My Fire" qualunque, è comunque una traccia di seminale importanza per quanto concerne la genesi dei Doors. Dovete infatti sapere che, all'epoca del primissimo incontro tra Morrison e Manzarek, Jim canticchiò al tastierista proprio questa canzone, che era ancora per ovvi motivi ad una fase di bozza. Ray rimase molto impressionato dalla musicalità fischiettata da Morrison, così come rimase affascinato dalla rara bellezza del testo. Convintosi della capacità di Morrison, Manzarek decise allora, dopo varie vicende, di metter su una band con quel ragazzo appena conosciuto. Il resto della storia, poi, lo conosciamo. Ad ogni modo, la canzone in questione è una gradevolissima traccia, caratterizzata da una cadenza davvero particolare che può ricordare in una certa maniera il tango argentino. La canzone si apre con un botta-e-risposta tra la tastiera e gli altri strumenti. In seguito, Krieger infila il bottleneck per arrotondare il suono della sua chitarra, per poi cominciare a ricamare qua e là qualche nota glissata. Il testo della canzone è fortemente influenzato dal tema dell'evasione/ribellione che ha sempre caratterizzato l'opera di Morrison. La passeggiata al chiaro di luna del titolo diventa così un invito che il protagonista rivolge ad una non meglio precisata ragazza, nei confronti della quale Jim prova certamente qualcosa. I reiterati inviti di Morrison a nuotare nel mare, ad andare sempre più a largo sono tutte spie della voglia d'evasione che il giovane cantante già nutriva dentro di sé, pur giovanissimo. La luna diventa allora la meta privilegiata per simboleggiare un'alternativa alla vita che quotidianamente si conduce. Per raggiungere questa possibilità occorre però impegnarsi e tentare in qualche modo di farcela. Per la seconda volta in questa compilation, l'immagine della notte buia che tutto nasconde ritorna dopo l'episodio di "Back Door Man". Se là l'oscurità era complice dei sotterfugi amorosi delle coppie d'amanti, ora la notte diventa un prezioso alleato al fine di nascondere l'evasione dei due giovani. E così, in una notte rischiarata dal solo chiarore di luna, la coppietta potrà coronare il suo sogno: fuggire insieme, non si sa dove, ma lontano dalle catene che qui li costringevano. Ma attenzione però: c'è sempre la concreta possibilità di fallire. Ad un certo punto del testo, infatti, Morrison comincia ad alludere a "pesci come amici" o "perle al posto degli occhi", tutti segnali che lasciano intendere ad una morte per affogamento. Di punto in bianco si vanifica così ogni tentativo d'evasione: fallisce ogni progetto di ricostruirsi una vita. Ecco, signore e signori, la profondità insista in tantissime canzoni dei Doors, brani che mostrano spesso e sovente due facce: una più semplice, immediata e di facile comprensione; una più intima, su cui bisogna rifletterci sopra al fine di cogliere il vero messaggio che l'autore vuole comunicare. All'intendimento della canzone come narrazione di un episodio che vede due innamorati nuotare al chiaro di luna, s'affianca dunque quello più ragionato e studiato, che trasforma il resoconto di un semplice momento di gioia in un vero e proprio tentativo di fuga dalla vita d'ogni giorno. Ritornando all'impianto musicale, passati oltre all'intro di cui sopra, ci ritroviamo nel verso cantato, che mantiene però il medesimo ritmo iniziale. La proposta varia leggermente in prossimità del chorus, anche se la proposta rimane pressoché la medesima. Densmore pare divertirsi giocando parecchio sul ride, che col suo tintinnio dà brio ad un tempo altrimenti davvero quadrato. Verso metà canzone Krieger - il musicista più sugli scudi in questo brano - comincia la propria sessione solistica, sfruttando una leggera saturazione del suono della chitarra che conferisce un'ulteriore piacevole sensazione alla proposta musicale dei Nostri. Pur essendo un brano piuttosto corto, l'assolo si protrae per il giusto tempo, permettendo così a Krieger di trasmettere tutto ciò che aveva da dire. Sul finale ritorna la timbrica oscura e suadente di Morrison che invita ancora una volta la fanciulla a seguirlo, laggiù "sul bordo dell'oceano", dove diventeranno "molto legati/molto stretti", per poi annegare ("bambina, annegheremo stanotte") ed andare sempre più "giù, giù, giù". Il lato A di questa raccolta è praticamente un discorso privato tra i primi due album della band. Ora tocca infatti nuovamente al debut regalarci un'altra canzone decisamente in sintonia con la precedente, per diversi motivi. Per prima cosa, anch'essa risale ai quaderni d'appunti del giovane Morrison. In secondo luogo, presenta di nuovo il tema amoroso, seppur in altra veste.
Crystal Ship
Come terzo punto, infine, c'è da dire che la traccia - al pari della precedente - non è conosciutissima come altri evergreen, ma certo possiede anch'essa un proprio fascino. Il brano di cui stiamo parlando è "Crystal Ship", la Nave di cristallo, che altro non era se non una piattaforma petrolifera al largo di Santa Barbara che, illuminata di notte, rifletteva dalle sue superfici vetrate una strana luce che suggestionava non poco il giovane Morrison. Il titolo ha però poco a che fare col resto della canzone. Come detto in precedenza, anche "Crystal Ship" tratta dell'amore, ma non di quel sentimento pieno di speranza e complicità che avevamo osservato in "Moonlight Drive". La composizione venne originariamente scritta da Morrison come "lettera d'addio" all'ormai ex fidanzata Mary Werbelow. Tutto l'impianto lirico si configura così come un appassionato addio, dove alla consapevolezza dell'inevitabile - ma giusto - distacco s'accompagna ancora in Jim la voglia d'un ultimo, estremo "altro bacio". La donna ha avuto evidentemente un influenza decisamente importante su Morrison, tant'è che proprio quest'ultimo ne parla appunto in termini di "beatitudine", parola che inevitabilmente rimanda alla visione della donna-angelo dantesca, l'unica figura in grado di donare letizia all'uomo altrimenti "malato d'amore". Ad un passato giudicato "troppo insensato", segue un presente fatto di costernazione per gli sbagli perpetrati e mai scusati. Il momento presente è una circostanza di pura riflessione su quella che era stata la loro relazione. E così, oltre alla ovvia tentazione di un ultimo bacio, Jim è costretto ad attraversare i "giorni luminosi" dell'estate californiana col cuore affranto, giacché quei stessi giorni sono pure "pieni di dolore". L'auspicio è quello che le loro strade possano incrociarsi nuovamente ("ci rivedremo, ci rivedremo"), ma nel frattempo non esiste altro che sangue amaro. Alla sola voce di Morrison piazzata in sede d'apertura s'aggiunge ben presto la sezione ritmica al completa, rappresentata dal drumming spazzolato di Densmore e dal piano bass di Manzarek. Poco dopo è il turno del flautato Hammond, che sommessamente s'inserisce quasi senza farsi notare, così come lo stesso Morrison vorrebbe strappare "un altro bacio" senza che la ragazza se ne accorga. L'impianto musicale è parecchio disteso e per niente concitato, fatto che allontana la band dalle sonorità cui ci aveva abituato, in favore di un momento d'introspettiva riflessione tinteggiata di psichedelia. L'assolo di pianoforte che comincia a 1:09 è di rara bellezza, molto struggente ma assolutamente in armonia col tono generale della canzone, che è poi quello della rassegnazione quasi totale.
Roadhouse Blues
A conclusione del primo lato di questo 13 troviamo uno dei loro successi più recenti, risalente a nemmeno un anno prima l'uscita della compilation. Sto parlando di "Roadhouse Blues" (Il blues della locanda), questa sì davvero una hit come si deve. Nonostante i progetti iniziali affidati a questa canzone - doveva essere solamente la b-side di "You Make Me Real" - i Doors si videro stravolgere qualsiasi aspettativa, poiché il brano diventò uno dei loro maggiori successi, che si piazza ancora oggi in maniera sistematica nei palinsesti delle radio rock d'ogni angolo del mondo. Essendo l'opener del disco che segnò il rientro dei Doors nei canoni del blues rock d'eccellenza, "Roadhouse Blues" doveva servire come un interessante biglietto da visita per Morrison Hotel: doveva in sostanza colpire nel segno. Il brano, come detto, ha significato la rinnegazione dell'ampollosità della Soft Parade, così come ha sancito il ritorno sui propri passi. Ritornando la furia viscerale delle prime composizioni, i Doors propongono ora una brano che gioca sì molto sulle potenzialità vocali dell'istrionico singer, ma è altrettanto evidente che i Nostri intendono dimostrare che il blues è tornato a scorrere forte ed impetuoso nelle loro vene. Ed allora ad un Morrison che rivela al proprio compagno d'avventura cosa aspetta a due baldi giovani come loro ("tieni gli occhi sulla strada, le mani sul volante/stiamo andando alla locanda/per divertirci un sacco"), la band attacca con un ritmo estremamente godevole, che coglie nel segno di far muovere l'ascoltatore sino a scatenarlo del tutto. Col basso del guest dell'epoca (Lonnie Mack) che riproduce per tutta la durata del brano il classico giro blues, troviamo così un Manzarek veramente ispirato al piano, strumento che conferisce quel particolare flavour da bordello, da locanda dei bassifondi che fa tanto atmosfera. Certo è che l'armonica a bocca di G. Puglese (pseudonimo di John Sebastian) gioca un ruolo fondamentale nell'ordito sonoro della canzone, tant'è che il suo strumento è uno dei più caratteristici di questo brano. Con un Densmore tranquillamente impegnato in una partitura piuttosto standard, troviamo invece un Krieger realmente infuocato dalla fiamma del blues. Il penetrante guitar work del verso, che martella a dir poco le tempie dell'ascoltatore, gioca sulle classiche due o tre tonalità tipiche del blues, al fine di cesellare un opera di grande caratura. Incitato dagli inviti di Morrison ("Fallo, Robbie, fallo"), Krieger si lascia in seguito andare ad uno dei suoi assoli più memorabili (1:36), seguito prontamente dal pianoforte di Manzarek. Dopo la nottata passata a fare scintille con le belle ragazze della locanda, s'assiste ad una sezione centrale all'interno della quale sia Morrison sia gli strumenti paiono lamentarsi, come stravolti: prima tocca all'armonica, poi alla chitarra, infine alla stessa voce. Jim a questo punto comincia ad improvvisare con una serie di parole senza senso, per poi giungere alla strofa conclusiva, dove, veramente provato dalla nottata di follia, si risveglia il mattino dopo con ancora i postumi della nottata brava. Però, per prima cosa si stappa una birra e se la beve, così per coronare quello che fino a quel momento poteva sembrare anche un sogno: è invece tutto vero ed allora occorre brindare, mentre la canzone s'avvia ormai verso il finale, chiudendosi con una delle soluzioni più standard possibili all'interno del blues.
Touch Me
Non esisteva canzone più indicata di "Touch Me" (Toccami) per ribaltare ogni discorso inerente al "ritorno al blues" fatto qui sopra. Il brano, che proviene dalla Soft Parade, era il manifesto del nuovo corso dei Doors: sonorità danzerecce, grandi orchestrazioni di ottoni ed arie, un deciso occhio rivolto alla classifica. "Touch Me" è l'incarnazione del Rothchild-pensiero ed è una canzone che, in qualche modo, stona con le altre finora ascoltate ed analizzate. Non che sia una brutta traccia, sia chiaro, ma è "diversa": questi non possono essere i veri Doors, vien da dire. Anche il processo di songwriting che portò alla realizzazione della canzone in questione non fu affatto semplice, bensì piuttosto travagliato. Se, almeno in teoria, originariamente il contesto in cui ambientare la canzone doveva essere quello del tavolo di black jack, la canzone cambiò poi il proprio titolo passando dal provvisorio "Hit Me" (che nel gergo tecnico del suddetto gioco di carte significa "dammi un'altra carta") al definitivo "Touch Me". Ed allora, com'è facile intuire, ritorna ancora una volta il tema dell'amore al centro del brano. In verità la tematica è l'unico trait d'union con quanto avevano realizzato i Doors fino a quel momento, dal momento che qualsiasi soluzione sonora si rivela - se non fuorviante - certamente molto audace. Se all'inizio Krieger dava ancora sfogo ad una chitarra spiccatamente funky, suona davvero strano ascoltare degli ottoni di sottofondo, atti ad amplificare un sound di una band che, a mio modesto parere, non necessitava assolutamente d'un'orchestra alle spalle. Se gli ottoni stonano, ancora di più lo fanno le arie dei violini che s'inseriscono nella strofa. Se prima avevo insistito molto sul concetto di snaturare una band, dovrete ammettere che in effetti queste grandi orchestrazioni ci stanno bene con un Sinatra, se non addirittura con un Elton John, ma coi Doors non c'entrano assolutamente niente. Per fortuna qualche rimasuglio del passato c'è, e lo si deve a Manzarek che, nonostante fosse stato fagocitato dal wall of sound stra-ampliato della band, riesce comunque ad immettere degli inserti d'Hammond che fanno letteralmente rimpiangere i tempi andati. L'apparato lirico è decisamente esiguo e consta d'un ritornello ed una sola strofa. Il chorus è la sede dei ripetuti inviti alla pupa di turno a toccare il protagonista ("Dai, dai, dai, dai/Toccami bambina/Vedi che non ho paura?"). Lo smaliziato personaggio maschile mostra allora un lato più tenero, sperando almeno così di far vincere alla ragazza la sua paura nel fare la prima mossa. Nella strofa, infatti, l'uomo comincia a lusingarla con parole al miele ("Adesso ti amerò/Finché il cielo fermerà la pioggia"), salvo poi calcare ancora più la mano per farle abbassare qualsiasi guardia ("Ti amerò/finché le stelle non cadranno dal cielo per noi"). Se da un lato questi pochi versetti denotano una buona poetica, dall'altro non si può far a meno di pensare a quanto accademici possano risultare agli occhi di un ascoltatore tradito. Solo ora un amante dei vecchi Doors realizza davvero la svolta pop: anche se si parla d'amore, se ne parla in una maniera diversa, non abbastanza peccaminosa da far gridare allo scandalo (com'erano invece soliti prima). Se ne parla nella maniera più accettata dal grande pubblico, si parla d'amore in una maniera naif se vogliamo, eccessivamente innocente. Non c'è più pulsazione sessuale, c'è solo retorica amorosa. Se poi ci si concentra anche sulla musica, si capisce realmente perché si parla d'alterazione della fisionomia della band.
Love Me Two Times
Per fortuna il ridotto minutaggio dei brani è una costante di questa compilation, e ciò ci permette di passare velocemente oltre allo sfortunato episodio della Soft Parade per far ritorno invece ad uno dei più bei dischi della band: Strange Days. L'ottava e la nona traccia sono infatti entrambe estratte da quest'album. La prima, "Love Me Two Times" (Amami due volte) è una di quelle classiche tracce dei Doors che si prestano a più letture. Se a prima vista potrebbe sembrare il racconto d'un ragazzo che ha estremamente bisogno di "cure" amorose da parte della sua ragazza, dall'altra c'è da evidenziare un importante passaggio della canzone, che recita "io me ne vado". Dove se ne vada il ragazzo, visti gli anni, è facile intuirlo: sta per partire per la guerra del Vietnam. In questo modo s'incomincia ad instillare nell'ascoltatore una sensazione di crescente angoscia, di una fretta che non scema mai. Altrettanto interessante e piacevole da notare è l'enorme contrasto tra amore e morte: l'amore che il ragazzo chiede all'amata, la morte a cui andrà incontro. Se non sarà la sua di morte poco importa: nella giungla indocinese il ragazzo vedrà la morte di molti suoi amici e compagni, saggerà i propri limiti e si dimenticherà forse persino della bella lasciata a casa. Forse perché a volte l'orrore stravolge qualsiasi percezione della realtà, facendo sbiadire i ricordi in una maniera tale che si pensa convintamente che siano solo fantasticherie immaginate durante una rapida dormita. Ad ogni modo, il ragazzo protagonista di questa bellissima traccia è parecchio insistente nel rivolgersi alla sua donna, ma dobbiamo capirlo. Se "amami due volte, bambina/amami due volte, quest'oggi/io me ne vado" rende già benissimo l'idea della partenza impellente, ci si rende presto conto che una sola volta non può certo bastare, ed allora "amami due volte bambina, una per domani/una proprio per oggi", che "di doman non c'è certezza" per citare Lorenzo il Magnifico. Ritornando più sulla canzone, è impossibile non notare subito quanto trascinante sia il riff di chitarra ad opera di Krieger. Manzarek aggiunge poi un tocco di classe in più rispolverando un vero e proprio clavicembalo, strumento capace di donare un flavour assolutamente indescrivibile alla canzone. Il basso del guest Douglas Lubahn è pulsante, così come piuttosto irruento è lo stesso Densmore, specie nei pressi della coda dei ritornelli. A 1:26 tocca sempre al clavicembalo confezionare un solo superlativo, con la chitarra che umilmente si defila per continuare a tessere l'intricato lavoro di riffing che la vede protagonista. Piazzata come terza traccia all'interno di un album molto sfaccettato come Strange Days, "Love Me Two Times" è un brano che deve mantenere saldi i legami col blues del debut di circa nove mesi prima, permettendo ad altre tracce d'intavolare discorsi leggermente differenti e più sperimentali.
You're Lost Little Girl
È questo il caso di "You're Lost Little Girl" (Sei spersa, ragazzina), che già incomincia in maniera piuttosto sinistra col basso di Lubahn a strutturare una soluzione malinconica amplificata a dovere dagli spettrali arpeggi puliti di Krieger. Costui è anche l'autore della canzone, che ricordiamo dovette essere proposta diverse volte a Morrison, dato che quest'ultimo non voleva assolutamente cantarla. Eppure è lo stesso Densmore a raccontarci di come questa traccia s'ispirasse ad un episodio reale, accaduto proprio allo stesso Jim. Ai tempi in cui i quattro si ritrovavano in saletta per lavorare sul loro secondo album, Jim era spesso distratto da una ragazza piuttosto appiccicosa, che non gli permetteva affatto di concentrarsi sul suo lavoro. Le eccessive premure della ragazzina - a dire il vero donna già fatta e finita, stando alle parole di John nella sua biografia Riders on the Storm (1990) - erano così sensuali che Jim perdeva letteralmente la testa, e così non si poteva procedere con la normale sessione di lavoro. Ad ogni modo la canzone - dotata anch'essa di un testo modesto in termini di lunghezza - si distingue per un bel senso della melodia, mai sognante come in questa occasione. La voce soffusa di Morrison unita ai cullanti arpeggi di Krieger affrescano una dolcissima ninna-nanna che ci permette di rilassarci un attimo dopo la foga della precedente "Love Me Two Times". L'organo Vox Continental di Manzarek produce un vero e proprio tappeto sonoro d'accompagnamento che si rende per nulla invasivo, ma anzi mantiene un distacco ottimale che permette agli altri strumenti di librarsi in volo per delle finezze in sede d'arrangiamento davvero encomiabili. La voce di Morrison scorre come un flusso ininterrotto da cima a fondo, rivelandosi come il motivo trainante di questa canzone. L'unica vera interruzione è in concomitanza dell'assolo di Krieger (1:42), eseguito con la chitarra pulita, senza distorsione alcuna, proprio per non stravolgere l'atmosfera onirica e suggestiva del brano. Alla decima posizione la mente che stava dietro a questa compilation decise d'inserire anche qualche testimonianza di Waiting for the Sun, terzo album della band. Disco che passa solitamente più inosservato degli altri, l'LP - che pur possiede tracce valide - vive una situazione di relativo anonimato per diversi motivi. Nei confronti dei primi due album, non c'è partita per manifesta superiorità di questi ultimi. Nei confronti del ben peggiore Soft Parade patisce paradossalmente della mollezza di quest'ultimo: essendo stato molto criticato, se ne parlò comunque più di Waiting for the Sun, che fu così presto dimenticato.
Hello, I Love You
Nonostante tutto ciò, l'album si apre con una canzone diventata poi un classico della band "Hello, I Love You" (Ciao, ti amo). Il brano, risalente ai primordi della band (e quindi al 1965), fu oggetto d'aspre critiche da parte della rock band inglese dei Kinks, i quali sostenevano essere un brutale plagio di un loro brano di qualche anno prima, "All Day and All of the Night". Appurato che le lamentele potevano effettivamente starci dato che la linea vocale di Morrison ricordava molto da vicino quella di Ray Davies, Manzarek provò ad evitare guai giudiziari svelando che la vera fonte d'ispirazione per quel brano era stata "Sunshine of Your Love" dei Cream, ma il tentativo servì davvero a nulla. Aperto il contezioso, alla fine il verdetto sancì la vittoria della causa da parte dei Kinks che videro versarsi nelle loro casse i proventi derivati dalle royalties di "Hello, I Love You", che oltretutto divenne un singolo in grado di sbaragliare qualsiasi concorrenza, attestandosi infatti al primo posto della classifica americana. Ritornando all'analisi del brano, si può certo dire che la canzone rappresenta una prematura fase del passaggio tra l'acidità dei primi lavori alla raffinatezza ostentata della Soft Parade. Se prima si parlava di rock psichedelico, ora alcuni azzardano l'etichetta di pop psichedelico, ma certo è che alcune soluzioni rimangono comunque audaci. Mi riferisco in particolare maniera alla pesantissima saturazione sonora che la chitarra e la tastiera Gibson G-101 impastano assieme. A tratti questa si rende addirittura fastidiosa, estremamente elettrica, se non a tratti elettronica, com'è possibile notare quando parte la strofa. Questo effetto stordente, unito al beating incessante e martellante di Densmore, rendono il brano particolarmente psichedelico, se non fosse per un testo che ammicca decisamente al pop di band come i Beach Boys. La sonorità surf della celebre band di Hawthorne in quegli anni doveva essere diventato un vero e proprio clima diffuso, se non addirittura uno stile a sé stante del rock. Morrison e compagni risentono di quelle assolate composizioni e tentano allora così di dar vita anche loro ad un brano decisamente ammiccante verso un pubblico meno scalmanato del solito. Morrison si ritrova allora costretto più volte a ripetere il titolo, in cui fa trasparire tutta la sua sfrontatezza nel porsi nei confronti di una giovane donna. "Ciao, ti amo" è il suo biglietto da visita, e poi rincara la dose con "mi diresti come ti chiami? [?] lasciami entrare nel tuo gioco". L'obiettivo è una ragazza parecchio altezzosa, che solitamente non incrocia mai gli sguardi dei maschi che cercano d'abbordarla. Eppure il protagonista è troppo pieno di sé, ed è convinto di farcela. Dopo un periodo di sospensione a 1:15, il brano riprende ed allo stesso modo riparte il tentativo di corteggiamento, in una maniera ancora più ostinata e maniacale, sensazione amplificata dal crescendo degli altri strumenti cui siamo sottoposti, salvo poi sbiadire in un lungo fade-out.
Land Ho!
All'undicesimo posto ritorna l'unico altro brano estratto da Morrison Hotel, "Land Ho!" (Terra in vista!). Com'è facile presumere dal titolo, molti termini all'interno della canzone si rifanno al lessico nautico, svelando dei trascorsi di Jim Morrison che forse non tutti conoscono (suo padre era un pezzo grosso della marina americana e Jim crebbe dunque in una famiglia con una forte vocazione marinaresca). Il riff di chitarra d'apertura riesce di per sé già ad infondere un tocco molto particolare che ricorda sin dall'inizio tutto ciò che ha a che fare col mare. Quando entra poi il Vox Continental di Manzarek l'effetto risulta raddoppiato. Tutto, insomma, è inerente all'immaginario marinaro, e pure la voce di Morrison non esula da tale condizione. La sua timbrica ricorda infatti molto da vicino la cadenza dei canti dei marinai e ben s'adatta alle liriche del brano, che si rivelano come il resoconto di vecchie avventure raccontante da un nonno al proprio nipotino. L'uomo rimpiange i bei tempi andati ("figliolo, sto diventando matto/a viver sulla terraferma/sarò meglio che mi trovi dei compagni/e che me ne vada su lidi sconosciuti") e non nasconde in nessun maniera la nostalgia dell'età in cui ogni giorno era un'avventura. Proprio nel momento in cui prende una precisa decisione, ovvero quella di rimettersi in gioco, la band muta l'impianto musicale, concedendo a Krieger giusto un po' di spazio per un breve assolo. È normale che, in questo genere di canzoni, la proposta si mantenga costante per tutta la durata della canzone, e quindi è lecito aspettarsi ben poche variazioni. Assoli di chitarra a parte, i ritmi sono concitati e ballabili, ideali per una bevuta in compagnia. Poi, però, a metà canzone i ritmi scemano sempre più, denotando un calo di tensione all'interno del brano. Prontamente Morrison ridà la carica ai suoi pronunciando a piena voce il titolo della canzone, dando il la all'ultima strofa della canzone, che confeziona un brano inusuale ma davvero divertente.
Wild Child
Con "Wild Child" (Fanciulla selvaggia) sembra ritornare lo spettro inquietante della Soft Parade, ma occorre ricordare che questa era una delle canzoni che più si rifacevano al vecchio percorso della band. Già dal titolo riusciamo a capire che questa ragazza senza freni è in verità la personificazione della ferinità dell'uomo primitivo, bestialità poi acquietata da millenni d'evoluzione. Morrison acclama la sua venuta alla stregua di un Ave Maria o di un canto sacro: "fanciulla selvaggia piena di grazia/salvatrice della razza umana/la tua faccia impassibile". Paiono esserci insomma gli ingredienti lirici giusti per poter abbozzare un ritorno ai fasti del passato. Se a ciò sommiamo l'eversione del riff di chitarra di Krieger, l'allucinato organetto di Manzarek coi suoi lisergici inserti melodici, pare davvero d'esser tornati indietro nel tempo, all'acidità del rock degli esordi. Il brano possiede un incedere strano, vagamente orientaleggiante nella sua melodia, che nulla ha a che fare con singoli come "Touch Me". Qui la psichedelia sembra esser ritornata la parola d'ordine, non si lesinano nemmeno le partiture solistiche di chitarra (da notare l'assolo di Krieger a 1:25), seppur questo "Wild Child" sia un brano estremamente corto (giusto due minuti e mezzo). La canzone è infatti l'esempio che anche sulla corta distanza i nostri sanno sfruttare tutte le carte a loro favore: se il tempo è scarso, puntano tutto sull'immediatezza espressiva (che del resto da sempre li caratterizza).
The Unknown Soldier
Ultimo tassello della compilation 13 è "The Unknown Soldier" (Il milite ignoto), primo singolo estratto da Waiting for the Sun. Questa è una canzone decisamente impegnata, poiché presenta il punto di vista di Morrison su uno dei temi caldi di fine anni Sessanta: la sopracitata guerra del Vietnam. Senza andare ad imbastire una lezione di storia contemporanea su uno degli episodi più bui della nazione americana, la genialità morrisoniana si spiega in pochissimi ed icastici versetti "colazione leggendo il giornale/televisione, i bambini hanno mangiato/vita non nata, vita morta/il proiettile colpisce la testa nell'elmetto". Mentre gli americani fanno colazione leggendo il giornale, conducendo insomma la solita vita, dall'altra parte del mondo, nella sperduta giungla della nazione indocinese, i loro figli stavano perdendo la vita uno dietro l'altro. Che il reinserimento nella società civile dei reduci sia stato un altro brutto momento delle vicende postbelliche è indubbio, ma qui Morrison pare volersi concentrare maggiormente sul grande traviamento perpetrato dai mass media statunitensi. Giornali, televisioni, radio e quant'altro evitavano infatti accuratamente di raccontare come stessero realmente le cose Oltreoceano. Anzi, per cause "di forza maggiore" dovevano raccontare un'"altra" verità, quelle che in effetti non esisteva. La critica dell'autore è tosta e decisa, ma la stessa cosa non si può dire per l'apparato musicale. Il brano non è furente come ci si potesse lecitamente aspettare. Tutta la canzone è guidata dalle stranianti tastiere di Manzarek, mentre il basso di Kerry Magness riesce ad acuire la sensazione d'alienazione dalla realtà che ci circonda. Terminata la prima fase della traccia, s'innesca un particolare break militaresco, al cui interno Densmore scandisce col rullante la più classica delle marcette. Una voce fuori campo, nelle vesti del comandante di plotone, ferma tutti col suo "Compagnia! Alt! Presentatarm!". La componente teatrale di Morrison, filtrata attraverso le singole personalità degli altri Doors, viene qui prepotentemente a galla, prendendo addirittura il posto di quella musicale. Densmore simula coi tamburi delle spaventose fucilate, e pure Krieger - specie nei live - alzava la chitarra a mo' di canna da fuoco, per poi sparare sul malcapitato Morrison, che cadeva esanime a terra quando Manzarek abbassava la mano per dare l'ordine d'aprire il fuoco. A questo punto riprendono gli spettrali suoni d'organo di Manzarek e la traccia può finalmente ripartire con grande impeto, grazie anche alla timbrica di Morrison leggermente più rabbiosa. Jim, reduce impazzito, è fuori di senno: non sa far altro che esclamare "è tutto finito/ la guerra è finita", ma non sappiamo se questa sia realmente la verità. Anche le campane che suonano a festa potrebbero essere frutto della sua immaginazione, frutto di una mente segnata da tragici eventi inenarrabili che l'hanno sconvolta per sempre.
Conclusioni
A conti fatti, nonostante gli intenti meramente commerciali dell'etichetta, 13 non è assolutamente una brutta raccolta, perché possiede brani davvero importanti all'interno della discografia dei Doors. A differenza dell'Absolutely Live uscito circa quattro mesi prima, questa compilation contiene davvero grandi tracce, e quindi non si può criticare in alcun modo una tracklist realmente completa, che pare non volersi dimenticare di nessun frangente della carriera della band, momenti tristi compresi. Ed infatti la giusta commistione di sonorità vecchie mescolate a quelle più recenti ha fatto sì che l'album ottenesse un buon successo commerciale. A venti giorni dalla sua uscita (che ricordiamo essere stata il 30 novembre 1970), l'album esordì in classifica alla posizione numero 75 della Billboard americana. Nel periodo immediatamente successivo al periodo natalizio, 13 scalò posizioni su posizioni, consolidandosi al 25° posto assoluto per due intere settimane. Anche se il successo pare comunque modesto, dobbiamo ricordarci che si trattava pur sempre di una raccolta, e che ovviamente non poteva competere con gli altri lavori più freschi della band che uscivano proprio in quegli stessi giorni. Così, dopo 21 settimane di presenza in classifica, per l'inizio del maggio '71 l'album uscì dai primi cento posti, eclissandosi così pian pianino. Col senno di poi sappiamo comunque che 13 raggiunse lo status di disco di platino sia negli Stati Uniti (dove vendette un milione di copie) e nel Canada (100.000 unità vendute): un successo niente male per una raccolta. Come abbiamo avuto modo di vedere durante l'analisi track-by-track, l'album risente maggiormente della presenza di brani dei primi due album (The Doors ne presenta tre, Strange Days addirittura quattro); seguono poi Waiting for the Sun, The Soft Parade e Morrison Hotel con due brani a testa. Ovviamente non è presente niente di L.A. Woman, poiché ai tempi il disco era ancora alle prime fasi di lavorazione. Proprio per questo motivo - per il fatto di non includere nulla dell'ultimo album dei Doors con Morrison alla voce - 13 non venne mai ristampato in formato digitale, quindi non esistono cd - ma nemmeno musicassette - di questa compilation. L'album presenta solo un'unica variante, che è poi quella per il mercato inglese. Anche qui, però, le differenze sono davvero minime, giacché la scaletta è stata oltretutto lasciata invariata. Le uniche due sottigliezze che differenziano la versione americana da quella britannica è che, per prima cosa, su quest'ultima i crediti degli autori sono specificati canzone per canzone, dettaglio che mancava invece su quella a stelle e strisce. Come secondo punto, c'è da notare infine un lieve scarto di minutaggio a favore della versione inglese, i cui brani risultano leggermente limati sul finale, ma che in ogni modo non influiscono sulla durata globale dell'album (c'è uno scarto di circa 30 secondi). Anche la copertina si mantiene identica per i due mercati discografici. L'artwork, come già detto, presenta i Nostri in versione rilassata e pulita, depurati da qualsiasi elemento estetico potenzialmente controproducente ed eversivo. Sul retro del disco, appare la band in un'altra posa con di fianco un piccolo busto scolpito, che si dice essere di Aleister Crowley, uno dei più grandi occultisti dell'epoca contemporanea. In sintesi, mi sento di consigliare questo 13 per chi non si fosse ancora avvicinato al grandioso mondo dei Doors. In qualsiasi altra maniera, un ascoltatore fedele andrebbe incontro ad un ri-ascolto (inutile) di brani che già conosce a memoria. Da best-of, c'è da dire che, anche se questa raccolta possiede sì i grandi classici, sovente le hit che il mercato ed il pubblico scelgono non sono del resto i brani migliori mai scritti dalla band. In 13 compare sì l'eterna "Light My Fire", ma per ovvie questioni di spazio l'Elektra ha potuto inserire una sola suite sui tredici brani programmati, dimenticandosi così di tracce epiche come "The End" e "Five to One", ma anche di brani da classifica come "Strange Days" o "Break On Through (To the Other Side)". Quindi ribadisco il concetto: 13 può avere uno scopo, come non averne alcuno. Se siete giovani adepti dei Doors, procuratevelo perché v'introdurrà coi giusti mezzi nella loro superba discografia; se siete fidati ascoltatori, di quelli che hanno scandagliato ogni meandro della lirica della band di Los Angeles, allora lasciate perdere e passate oltre
2) People Are Strange
3) Back Door Man
4) Moonlight Drive
5) Crystal Ship
6) Roadhouse Blues
7) Touch Me
8) Love Me Two Times
9) You're Lost Little Girl
10) Hello, I Love You
11) Land Ho!
12) Wild Child
13) The Unknown Soldier