TESTAMENT
The Legacy
1987 - Megaforce
ANDREA ORTU
09/11/2022
Introduzione Recensione
Ah, la California! Dalla Silicon Valley a sud del paese fino ai grandi parchi naturali del nord, passando ovviamente per la maestosità cremisi del Golden Gate, simbolo di una città famosa per la sua estetica smaccatamente europea, i suoi locali alla moda, lo stile di vita rilassato, le posizioni progressiste, i fricchettoni e... il thrash metal.
La Bay Area per antonomasia della West Coast, la cosiddetta San Francisco Bay Area, è da almeno settant'anni il baricentro di alcune delle tendenze più folli tra quelle made in USA, comprese le più controverse e all'apparenza improbabili. Qui, a cavallo tra la fine degli anni '70 e l'inizio dei '90, nascono le fondamenta del thrash metal come lo conosciamo oggi: Exodus, Forbidden, Metallica, Death Angel, e - a volerci estendere al resto della California - anche Megadeth e Slayer. Tra queste grandi band ce n'è però un'altra, giunta sulla scena quando questa sembrava già sul punto di sfiorire, una formazione capace di regalare al genere nuova linfa vitale e milioni di nuovi, giovanissimi adepti. Parliamo ovviamente dei Testament, e ancor più nello specifico parliamo del loro storico debutto discografico: The Legacy, anno del Signore 1987. Un debutto arrivato a giochi già fatti, vien da pensare guardando all'anagrafe, ma in realtà a quel punto il progetto era in giro da almeno quattro anni, un periodo artisticamente lunghissimo che ha visto la primordiale formazione andare in tour con tutte le principali metal band di quegli anni. Siamo infatti nel 1983 quando il chitarrista Eric Peterson fonda i Legacy, affiancato dal cugino e chitarrista Derrik Ramirez, dal batterista Louie Clemente, dal bassista Greg Christian e dal cantante Steve Souza. L'aria della baia è particolarmente frizzante, specie per chi porta i capelli lunghi e una giacca di pelle nera: in quello stesso anno escono gli album di debutto di due pilastri del metal tutto, Metallica e Slayer (rispettivamente con Kill 'Em All e Show No Mercy), scuotendo dalle fondamenta l'intera scena di riferimento e, in una certa misura, anche un mercato inevitabilmente di nicchia ma destinato ad esplodere. Di quel periodo intenso i Legacy, nonché futuri Testament, conservano unicamente una demo, datata 1985. È l'anno in cui se ne va Ramirez, seguito momentaneamente da Clemente. L'anno dopo se ne va pure il cantante, elemento storicamente più difficile da sostituire, ma Peterson trova il sostituto perfetto in un ragazzotto che suona in una band chiamata Guilt: il ventiquattrenne Chuck Billy, il cantante ideale per quelli che di lì a poco diverranno i Testament. Questo ragazzo, dall'imponente stazza e discendente di nativi americani, dispone di un registro vocale particolarmente ampio, riuscendo a passare da vocals aggressive e squillanti ad accenni di growl, tecnica che lo stesso Chuck svilupperà maggiormente negli anni a venire. Insomma, l'uomo giusto al momento giusto.
Siamo nel 1986 e i Metallica sganciano la bomba definitiva: il loro terzo album, Master Of Puppets, arriva al successo con la "S" maiuscola e apre all'intera scena le porte dorate delle classifiche mainstream, con annessi vantaggi economici e d'immagine. Qualsiasi formazione thrash che ci sappia fare diviene d'improvviso una potenziale miniera d'oro, e così i Legacy, rimasti fino a quel momento privi di una vera etichetta discografica, si ritrovano in quello stesso anno a firmare per l'intraprendente Megaforce Records (etichetta ben nota ai fans di Metallica e Overkill), coadiuvata tuttavia dalla ben più prestigiosa Atlantic Records. Ma da grandi poteri derivano grandi scazzi, e visto che il moniker "Legacy" si scopre già occupato da parecchi anni, la band è costretta a cambiare nome. Nascono così ufficialmente i Testament, ultimi paladini della gloriosa Bay Area. Eric Peterson non rinuncia però del tutto al suo personalissimo concetto di "Eredità" (legacy, appunto), trasferendolo al titolo dell'album di debutto: "The Legacy" è il manifesto di quattro anni passati a suonare ininterrottamente dalle più grandi e prestigiose manifestazioni metal, ai più minuscoli, fumosi e sgangheratissimi locali della costa del Pacifico. "The Legacy" è la consacrazione in forma di vinile e musicassetta di una giovinezza infuocata e passionale, di una sottocultura che non guardava e non guarda in faccia a nessuno. "The Legacy" è l'eredità di un'America nascosta, di un momento storico irripetibile e di una generazione memorabile.
La formazione a questo punto è un po' diversa da quella delle origini: Peterson alla chitarra, Chuck Billy alla voce e Greg Christian al basso, mentre alla batteria torna - bontà sua - il buon Clemente. Alla chitarra che fu di Ramirez fa la sua porca figura uno dei pupilli di Joe Satriani, Alex Skolnick, colonna fondamentale per un progetto che, come vedremo, centra il proprio sound su invidiabili infrastrutture chitarristiche. E quindi, come suona il thrash metal dei Testament? C'è davvero qualche differenza concreta con le altre band della bay area? La risposta, è assolutamente sì. Ovviamente, il sound è thrash al 100%, con gli assoli di Skolnick chiaramente ispirati al metal classico e alla NWOBHM. Per certi versi, potremmo dire che la musica di questi ragazzi è in grado di porsi come un incrocio tra Metallica e Slayer: dai primi, i Testament prendono senza dubbio la classe, la composizione di riff più sofisticati e un certo gusto per la melodia, mentre dai secondi, il gusto per l'irruenza e la violenza, smussata appunto dai break di Skolnick e qualche altro inserto più orecchiabile. Di loro, i ragazzi puntano anche molto sull'atmosfera: i suoni sono spesso cupi, sinistri, volti a creare un clima lugubre. In ciò, la produzione dà senz'altro una mano: malgrado essa non sia delle migliori, sono proprio le chitarre che, attraverso quel suono decisamente impastato e melmoso, accentuano fortemente quest'aura tetra e minacciosa. Oltretutto, se si riflette per un istante, nessun disco thrash americano uscito fino ad allora godeva del sound di "The Legacy": i vari Exodus, Slayer, Megadeth, Overkill (citando band anche esterne alla bay-area), erano contraddistinti da chitarre potenti, rombanti. Peterson e soci, invece, fanno uso di questo suono quasi soffocante ma allo stesso tempo tagliente e velenoso. E questa probabilmente è la vera forza di "The Legacy", quella stessa forza che aveva permesso alla band di distinguersi in un panorama musicale che pareva già saturo. La gran parte dei testi sono firmati da Souza, oramai convolato a nozze con i più blasonati Exodus, ma Peterson e gli altri fanno in tempo a metterci un po' del loro, arricchendo una scaletta di nove tracce al vetriolo, una più cazzuta dell'altra.
Over the Wall
Il primo e unico singolo estratto da The Legacy è proprio l'opener: Over the Wall, "oltre il muro". I Testament non hanno nessuna intenzione d'andare per gradi, la loro apertura è pura deflagrazione che si traduce in dichiarazione d'intenti. La sinergia tra i due chitarristi è palesemente il fulcro del brano, caratterizzato sia da un riffing memorabile (come tanti altri ad opera dei nostri), sia dalle molte sfumature e variazioni della sei corde solista. Elemento compositivo d'interesse, questo pezzo gode non a caso di due momenti pienamente catartici, tanti quanti sono i chitarristi: il canonico solo centrale, ed un break ritmico subito prima di una coda che pare correre a perdifiato, quasi l'intero brano fosse una lunghissima salita dalla quale buttarsi una volta giunti in cima. Tra l'assolo e la coda non manca una parentesi quasi epicheggiante, trasfigurazione in musica di un testo ad opera del solo Souza (che a questo punto, ricordiamolo un'ultima volta, non è più parte della formazione). Qui, l'autore mette in scene un testo meno caustico e osceno di quello di una band come, per dire, gli Slayer, ma anche meno "pretenzioso" della roba che scrivevano, nello stesso periodo, formazioni come Metallica e Megadeth. Il risultato è una via di mezzo dal sapore vagamente intimista, certamente psicologico, ma non alla maniera che di lì a pochi anni avrebbe caratterizzato la poetica del rock mainstream. Il muro di cui parla il titolo è dunque allegoria tanto mentale quanto sociale, una barriera da abbattere dentro e fuori se stessi per andare oltre, e andando oltre deflagrare ogni dannato ostacolo dal proprio cammino. Il tono di Souza è quello d'un impenitente figlio di puttana, un tizio problematico per sé stesso e per gli altri, e fiero di esserlo, imprigionato in un'asfissiante galera d'imposizioni sociali e limiti personali. Il suo intento? Distruggere il muro della sua cella e fuggire, seminando distruzione in giro per la città. Quale che sia il rapporto tra Souza e queste sue liriche, alla fine conta relativamente poco. Quel che conta sono le immagini suggerite al subconscio dal cantato affettato e velenoso di Chuck Billy, immagini capaci d'insidiarsi nel giovanissimo pubblico d'un concerto ed esplodere in un pogo selvaggio, proprio come quello messo in scena nel videoclip dedicato al brano. Qui, oltre a varie riprese effettuate ai live, possiamo ammirare i Testament fare headbanging dentro una prigione; sono tutti ancora nel fiore dei loro anni, giovani, massicci e capelloni, praticamente l'esemplificazione del metallaro vecchia scuola. Bellissimi.
The Haunting
La band tiene fede al richiamo funereo del proprio moniker con l'orrorifica The Haunting, termine qui grossomodo traducibile in "infestante". Dopo la partenza fulminea di "Over the Wall", i Testament non accelerano ma nemmeno rallentano, trovando piuttosto una via di mezzo fatta di frenate, ripartenze, accelerate e ancora frenate, in un grezzo ma funzionale arazzo di luci e ombre che trova il suo zenit nell'assolo centrale, anche qui canonico ma quasi sgangherato, nella sua caotica rincorsa prima del salto, gettandosi a capofitto in una coda che rimane tirata senza mai spezzarsi del tutto, e infine, portando a conclusione un brano curiosamente casinista e ordinato al tempo stesso. Dopotutto, "The Haunting" è quasi un pezzo da "scuola thrash", tanto in termini compositivi che lirici. Il testo del brano è infatti ricolmo di fantasmi, streghe, cavalieri senza testa e altre visioni inquietanti, ma l'afflato è più quello della goliardata, che non piuttosto di un'attitudine genuinamente pseudo-satanista; insomma, contrariamente ad altre band a loro contemporanee, i Testament riescono a non prendersi mortalmente sul serio, pur senza trasformarsi in caricatura di loro stessi. La capacità per nulla scontata di mantenere un equilibrio formale, sia in termini di personalità, sia in termini prettamente musicali, si rivelerà una delle migliori qualità a lungo termine del gruppo californiano.
Discostandosi da qualsiasi pretesa intimista o autobiografica, Souza e Peterson scrivono "The Haunting" quasi come la descrizione d'una sorta di mascherata, che non una vera e propria infestazione paranormale. La macabra processione di creature fantastiche tra i cadaveri di poveri stronzi assortiti, nonostante alcune strofe anche abbastanza forti, ha più il sapore d'una notte di Halloween, folle e gioiosa, che non piuttosto d'un elenco di macabre velleità realmente disturbanti. Quello che potrebbe sembrare un errore funziona invece alla perfezione, specie se confezionato su misura per la voce di un Chuck Billy veramente in forma, capace di valorizzare le strofe non tanto in relazione al significante - abbastanza puerile, in definitiva - bensì attraverso il suono stesso delle parole, e alle fugaci immagini che queste suggeriscono all'ascoltatore. Il risultato finale è una traccia bella dura che in mano a qualsiasi altra metal band, anche blasonatissima, finirebbe per essere al massimo un buon riempitivo, ma che coi Testament riesce ad aggiungere quella marcia in più, tale da renderla parte integrante d'un album ben strutturato, funzionale a un preciso insieme dalla prima all'ultima delle sue nove tracce originali.
Burnt Offerings
Le cose iniziano a farsi serie con Burnt Offerings, traducibile anche come "olocausti", o letteralmente "offerte bruciate". I Testament sono giovani ma non privi d'esperienza e, soprattutto, non privi di un background stratificato e complesso, una qualità che il terzo brano di "The Legacy" mette palesemente in evidenza. Il preludio chitarristico mette in scene la scuola settantiana del buon vecchio hard rock, quella arrivata più o meno intatta agli anni '80 e adottata da varie formazioni della NWBHM, come Judas Priest o Angel Witch, ed ereditata felicemente dalle opere più mature di alcune formazioni thrash metal, come ad esempio i Metallica, o anche gli Exodus nei loro momenti più aulici. Rispetto a questi ultimi, il cui sound è parecchio centrato sulla ritmica di Hunting, o al suono di band che sono state anche abbastanza vendibili al grande pubblico, tipo gli Anthrax, i Testament centrano tutto sulla sinergia tra i due chitarristi - peraltro piuttosto preparati dal punto di vista squisitamente tecnico - cosicché l'eredità della NWOBHM risalta ancora più cristallina, facendo giocoforza a una certa orecchiabilità generale e quindi, perché no?, a una potenziale vendibilità del prodotto oltre le ristrette nicchie dei metalheads purosangue. Parentesi a parte, "Burnt Offerings" non ci mette molto ad accelerare il basso e farsi purissimo thrash di razza, con la produzione un pelino pecoreccia a fare da valore aggiunto, piuttosto che da punto debole. Scevra da tecnicismi autocompiaciuti, la batteria di Clemente è una valanga di fango e detriti che trascina con sé ogni cosa: basso, chitarre e chitarristi, la voce di un cantante che pare venire dal profondo di grotte dimenticate, e tutta quella montagna chiamata "Testament".
Il testo è quanto di più caro al genere ci possa essere, diviso formalmente in tre atti come tre sono le parti che compongono il brano. L'interludio e la successiva accelerazione mettono in scena il presentimento di qualcosa di maligno, un'entità che ben presto riporterà sul mondo il disordine primordiale. Il cantante fa il nome di Tiamat, dea babilonese del caos e madre del cosmo e degli oceani, e sebbene il richiamo non sembri del tutto casuale, la scelta dell'antica divinità pare ispirata più dal suono evocativo del suo nome, piuttosto che da una seria conoscenza del pantheon babilonese. Il secondo atto, laddove la traccia indugia in qualche acrobazia e nell'ovvio solo di chitarra, narra del mondo caduto preda di una rivoluzione totale e totalizzante, la guerra finale del genere umano. Il terzo atto, espresso da una coda in folle accelerazione, racconta il desolante scenario post-apocalittico, orrendo eppure elettrizzante, senz'altro meritato. Insomma, le liriche non sono particolarmente originali, nemmeno nel 1987, ma sono ben strutturate e fanno il loro porco lavoro, infilando nel cranio dell'ascoltatore una manciata d'immagini molto vivide, rinforzate dall'ormai consueta furia dei Testament.
Raging Waters
La nostra nave naviga attraverso il violento mare fiammeggiante / senza conoscere il pericolo che mi aspettava. Ci siamo feriti nella confusione / i vascelli sbalzati e rovesciati. Il timone che ci aveva guidati / lo guardammo bruciare lentamente. Non vedremo più la nostra madrepatria / allora lo capimmo subito. Quel fato era nella seconda mano / del tempo concesso / ché il male ci aveva mostrato la via
Figlia delle liriche di Souza, Raging Waters è l'unica traccia del disco la cui struttura musicale sia opera del solo Peterson, e una delle pochissime a non avere il tocco di Skolnick. Il risultato è un brano che manca di quelle infrastrutture classiciste, per così dire, che così bene s'incastrano al bruto sound del gruppo, mentre quel che rimane è talmente grezzo e privo di filtri "edulcorati" da rasentare il punk hardcore. Clemente spinge l'acceleratore come mai prima d'ora, assecondando un Chuck Billy che sputa parole come fossero sangue. Perfino il solo di chitarra, qui posto a preludio della coda, è più simile a un migliaio di unghie che grattano su una lavagna, glissando del tutto i tecnicismi messi tutto sommato in mostra fino ad ora. È solo sulla coda che la batteria rallenta un poco, pur continuando a macinare parecchie miglia al minuto, fino all'urlo che sancisce la fine. Insomma, a suo modo un pezzo adorabile. Peraltro, i quattro minuti e mezzo di "Raging Waters", normalmente fin troppi per una traccia del genere, non pesano affatto e anzi volano in pochi istanti, complici piccole ma decisive variazioni sparse qui e là. Quanto al testo, Souza s'inventa ancora il suo ormai consueto frullatone d'immagini evocative, interessante nella misura in cui le parole riescono a stampare tali immagini del cervello dell'ascoltatore. Siamo su 'un'imbarcazione preda di un mare che non ha più nulla di "normale", un oceano da cui sembrano uscire demoni furibondi e che pare esso stesso manifestazione demoniaca; ovviamente, sono le "acque rabbiose" cui fa riferimento il titolo. Guarda caso siamo proprio nel bel mezzo del Triangolo delle Bermuda, terrorizzati all'apertura delle porte dell'Ade dinanzi a noi, costretti a officiare oscuri sacrifici per placare la perversione di Lucifero ma, comunque, destinati a morte certa in uno scenario da giorno del giudizio. Tutto nella norma, insomma.
C.O.T.L.O.D. (Curse of the Legions of Death)
Per i Testament non c'è calma né prima, né dopo la tempesta e così, alla lunga sfuriata di "Raging Waters" segue quella, molto più breve ma comunque esaustiva, di C.O.T.L.O.D., acronimo di "Curse of the Legions of Death", letteralmente traducibile "la maledizione delle legioni della morte". Tra le poche tracce del lotto prive dell'apporto di Souza, questa è anche l'unica accreditata a Derrick Ramirez, oltre che a suo cugino Eric Peterson. Ramirez, tanto per ribadirlo, è stato uno dei membri fondatori del progetto, prima d'essere sostituito in favore di Alex Skolnick.
L'andatura rimane quella di un razzo sparato verso la luna, quasi il brano cercasse una certa soluzione di continuità con quello precedente, mentre il suono delle chitarre è perfino più grezzo, largamente centrato sul riffing piuttosto che su qualsivoglia acrobazia tecnica. Dopotutto, sebbene sia stato il primo lead guitaris dei The Legacy, Ramirez era ed è tutt'ora soprattutto un bassista, ruolo che in futuro ricoprirà per un breve periodo proprio con i Testament. Nonostante ciò, non manca l'immancabile momento solista di Skolnick, artista a tutto tondo capace sia di soffermarsi in tecnicismi ben ponderati, sia in vorticosi giri della morte sul costante filo della cacofonia. Nel caso di C.O.T.L.O.D. fa decisamente uso della seconda opzione.
In un'intervista per lo scrittore e giornalista musicale Greg Prato, Chuck Billy affermerà:
"beh, James Hetfield dei Metallica è sempre stato d'ispirazione con le sue liriche argute. Quando iniziai per la prima volta ad ascoltare i Metallica, era qualcosa di nuovo per me la maniera in cui la cadenza del suo stile vocale suonava insieme alla musica (the way his cadence of vocal styles sang to the music). Perché quando stavo crescendo, ero più tipo UFO e Thin Lizzy e Scorpions e Priest, in cui i cantanti avevano un modo di cantare più melodico. Quindi quando c'è stato quell'attacco di thrash, è stata tutta un'altra cosa per me. Nei Testament, aveva a che fare con ciò che stavamo diventando, quello stesso stile. È stato davvero d'ispirazione per me con i suoi testi intelligenti e riferimenti colti".
In C.O.T.L.O.D. siamo quanto più distanti possibile da dei testi "intelligenti", tantomeno da riferimenti colti o arguti che dir si voglia. Dopotutto, i testi di The Legacy sembrano semplicemente voler raccontare le prime cose disturbanti che passano per la testa dei musicisti, salvo non superare mai troppo la linea del buon gusto E questo, purtroppo, è il problema più grosso di un disco quasi perfetto, nella sua essenziale immaturità di fondo. O sai dare del valore aggiunto che abbia delle basi personali o intellettuali di un minimo rilievo, come faceva per l'appunto Hetfield, o riesci davvero a insinuare il disagio più profondo attraverso la comunicazione d'immagini seriamente disturbanti, come sapevano fare gli Slayer dei tempi d'oro. I Testament, nel 1987, né uno né l'altro, più interessati al suono delle parole che al loro significato. Il che va benissimo, ma in un genere come il thrash metal, alla lunga, può rappresentare un limite. La lezione dei Metllica riguardo lo stile vocale, a quella cadenza affettata e poco melodica caratteristica del thrash, Chuck Billy dimostra d'averla già più che imparata, in questa come in tutte le tracce di the Legacy. La sua interpretazione è il valore aggiunto all'ennesimo testo che parla di maledizioni ancestrali, vergini da ammazzare e legioni sul piede di guerra, un tripudio d'archetipi già ampiamente abusati almeno dal 1977, e che nel 1987 possono al massimo far storcere il naso a qualche bigotto del Midwest (o del Belpaese, volendo). Poco male, finché divertono. E divertono eccome!
First Strike is Deadly
È finalmente il momento di brillare anche per Louie Clemente, che investe l'ascoltatore poco dopo l'inizio di First Strike is Deadly, "il primo attacco è mortale". Poco prima, il brano è aperto da quello che pare il dialogo tra due voci, ma che dialogo (probabilmente) non è. Le due voci sembrano infatti completare l'una la frase dell'altra, in qualcosa che suona più o meno come "You will pay - the price - of the master - and the master says..." (pagherai - il prezzo - del maestro - e il maestro dice...). In realtà non solo Clemente, ma un po' tutta la band brilla in quello che da molti è considerato uno dei pezzi più belli del disco, capace di mantenere alta la tensione pur senza rallentare quasi mai il suo ritmo forsennato, in quella che più che una corsa, pare la picchiata in avvitamento del jet pilotato da un pazzo. Ma la musica di "First Strike..." l'hanno scritta Peterson e Skolnick, e si sente: il riffing di chitarra domina su tre quarti della traccia, lasciando al lead guitarist quello che potrebbe essere il suo momento migliore in tutto "The Legacy". Nel suo solo finale, il più lungo finora, Skolnick mette in scena un gusto che parte dai classici, arriva al presente e sfiora il futuro. La sua sei corde è raffinata senza essere veramente raffinata, rimanendo rispettosa della maleducazione che il genere impone; poliedrica senza mai tradire il sound che un album del genere richiede. L'equilibrio che i Testament, e Skolnick in particolare, riescono a raggiungere tra influenze più classiche e per certi versi più "colte", e le tendenze più dure del metallo ottantiano, rappresenta proprio l'elemento distintivo del gruppo, ed è in brani come questo che risalta con maggiore evidenza. Il testo è del solito Souza ma vede lo zampino di Greg Christian, il quale riesce forse a dare un piccolo valore aggiunto alla solita storia di torture, visioni infernali e violenza premeditata. Il primo attacco è mortale perché ad attaccarci sono serpenti velenosissimi, mentre noi siamo incatenati in una cella in attesa del nostro gramo destino. Lo scenario è grossomodo questo, le motivazioni e gli sviluppi sono a interpretazione dell'ascoltatore, così come il possibile sotto-testo di un brano che parrebbe vagamente allegorico:
il malvagio sentiero che dovete affrontare / è pieno dello strisciare dei serpenti / si nascondono e aspettano / il momento giusto per mordere / la tua carne ed il tuo fato
Ad ogni modo, i Testament non hanno alcun interesse a insegnare come si vive attraverso metaforine spicciole (e grazie a Dio), continuando a dare risalto al suono brutale di strofe dal richiamo immediato, attraverso parole oscure e violente. Funziona magnificamente, completando il quadro d'una canzone tra le migliori di questo già notevole esordio.
Do or Die
Do or Die, letteralmente "fai o muori", è la prima traccia in cui Billy interviene sulle liriche, nonché l'unica con l'apporto di Clemente alla composizione. A tutto il resto, sia per quanto riguarda la musica che i testi, ci pensano Peterson e Skolnick. Il risultato, con i suoi quattro minuti e trentanove, è il secondo pezzo più lungo dell'album; quasi un'eternità per un sound del genere!
Sul muro di suono che apre il brano, la produzione del disco dà un po' il suo peggio ma pazienza, a noi piace anche così. Forse, soprattutto così. Dal punto di vista compositivo, siamo su montagne russe fatte di partenze, accelerazioni, altre accelerazioni e picchiate vere e proprie. Più che la tensione data dall'alternanza tra ritmiche differenti, i Testament sembrano partire e non essere più capaci di fermarsi, né tantomeno rallentare, fino all'inevitabile schianto conclusivo. A ben vedere è un elemento di The Legacy che ci piace parecchio, e che rifulge in questo pezzo in particolare, laddove perfino il canonico solo di chitarra è finalmente messo da parte o quasi, lasciando a Skolnick la libertà di schitarrare felice qui e là come fosse a seconda suo umore. L'elemento di maggior interesse è tuttavia il testo, scandito da un cantante particolarmente preciso e meticoloso, scrupoloso, diremmo, nello sputare le liriche addosso all'ascoltatore. Finalmente c'è qualcosa di più personale in questo testo, forse perché non l'ha scritto Souza, o magari proprio grazie al contributo di Chuck Billy, il cui spessore alla scrittura diverrà determinante dal secondo album in poi. Il singer ci trascina per i capelli su un aereo e ci infila un paracadute addosso, sorvoliamo scenari di guerra con un misto di terrore ed eccitazione in cuore, infine ci lanciamo fra le trincee e diveniamo bestie, o demoni sanguinari, cacciatori alla ricerca di prede. Il campo di battaglia è ben presto un lago di sangue in cui non vigono mezze misure: o ce la fai, e sopravvivi, o muori. L'eccellenza di un testo così apparentemente semplice e relativamente breve, specie se diluito in un brano di quasi cinque minuti, non è nel soggetto, sebbene uno scenario coi piedi per terra sia già di per sé una boccata d'aria fresca, in mezzo a un mucchio di sacrifici umani, streghe, diavoli e divinità sumere. L'eccellenza, in effetti, sta nel modo in cui le liriche ci consentono d'immedesimarci in un soldato mandato quasi allo sbaraglio, instillandoci con fatale precisione ogni genere d'emozione fra terrore, divertimento, istinto omicida, istinto di scappare, furia sanguinaria e perfino compassione, rifuggendo la bidimensionalità in cui troppo stesso annega il genere ma, nonostante tutto, rimanendo saldamente fedeli a uno stile privo di troppi fronzoli, rispettose di quell'opera granitica che è The Legacy. Un gran bel pezzo, ben adatto ad accompagnare l'album verso la sua fase conclusiva.
Alone in the Dark
Chissà, magari chi ha pensato la nota saga videoludica si è ispirato proprio ai Testament, quando ha dato vita ad Alone in the Dark, titolo della penultima traccia di "The Legacy". L'intro, dominata da Clemente e soprattutto da Skolnick, gode d'un afflato classicista ai limiti del barocco, inatteso e splendido, capace di raddoppiare l'esplosione dei sensi al vero e proprio attacco del brano, guidato da uno dei riff più memorabili dell'album e dalla voce di Chuck, onnipresente e ineluttabile, mai così "melodiosa", se così si può dire, eppure mai così spietata e inquietante, con quel tono sarcastico e cantilenante, rincarato da cori oscuri nei momenti di maggiore enfasi. L'attitudine compositiva non cambia: anche questo pezzo inizia prendendo la rincorsa dalla cima di una montagna, e corre, accelera, precipita e infine va a schiantarsi in un tripudio d'esplosioni, per la nostra gioia autolesionista. Il momento in cui il masso diviene valanga è chiaramente quello che precede la coda del brano, quando Skolnick si esibisce in un solo pulito, non propriamente tecnico ma certamente più che di mestiere, pieno del talento naturale d'un musicista nei suoi anni migliori. Comunque, una parentesi decisamente heavy in un pezzo che forse gioca con una certa ambiguità, ma che in ogni caso macina terreno e ossa umane a velocità inaudita, esattamente come ogni altra traccia del disco. La composizione di "Alone in the Dark" è figlia dei due chitarristi, e questo è evidente; il testo invece è di Souza, e anche questo è piuttosto evidente; ma se è vero che i testi dell'ex Testament sono raramente originali, se è vero che sono caratterizzati da archetipi riccamente abusati, e se è vero - com'è vero - che questa traccia non fa eccezione, c'è comunque da segnalare che quello di "Alone in the Dark" è uno dei testi più riusciti del debut. I Riferimenti di Souza sono "accademici", per usare una parolaccia, ma il paroliere prende la materia con la massima serietà, riuscendo finalmente a dare un valore aggiunto alle sue visioni, azzeccando ogni parola, ogni riferimento più o meno gratuito (tipo quelli a Faustus e Astaroth), finendo addirittura per suggerire un sotto-testo psicologico alle sue strofe. Come suggerisce il titolo, siamo "soli nell'oscurità", torturati dai demoni, e tutto ciò che riusciamo a vedere sono gli "oscuri passaggi della vendetta". Questo, grossomodo, il senso del ritornello che martella le nostre orecchie. L'interpretazione del brano è volutamente criptica, a interpretazione dell'ascoltatore, ma l'idea è quella d'essere nella psiche corrotta d'un serial killer, un uomo la cui mente, quand'egli era ancora giovane, era stata "reclamata dagli stregoni"; il peccato finale del "Signore del gioco" era stato "smascherato", e infine, chiunque s'era trovato sulla strada del killer era rimasto ucciso. Il resto potrebbe essere tutto frutto d'una battaglia interiore di quest'anima storpiata: gli eserciti di streghe richiamati dal nord, gli omicidi di massa dei più deboli, dei vecchi, poi degli innocenti, la tortura, la carne lacerata, la battaglia contro gli stregoni e la liberazione della mente. Infine, l'incontro con l'angelo caduto. E poi ancora eserciti e legioni che marciano sul mondo, l'apocalisse finale, e un'invocazione disperata: set me free, "liberatemi". Una battaglia per ritrovare una sanità mentale irraggiungibile, o forse, più prosaicamente, il sacrificio umano per l'evocazione del male sul mondo, con la conseguente estinzione del genere umano. L'interpretazione è a nostra piena discrezione, e il risultato finale brilla sotto ogni punto di vista. "Alone in the Dark" è un gioiello, oltretutto tra i più sottostimati del suo genere.
Apocalyptic City
L'esordio dei Testament cala il sipario con il suo pezzo più lungo, l'unico che si prenda il tempo e lo spazio per indugiare su bassi più profondi, pieni, centrando tutto sul riff scritto da Peterson e sui momenti solisti di Skolnick. Parliamo di Apocalyptic City, la "città apocalittica". Non solo la composizione, ma anche i testi sono opera dei due chitarristi, che ne approfittano per scrivere un vero e proprio manifesto d'intenti, tanto personale quanto generazionale. Il tema centrale è infatti la piromania, allegoria velata come un'incudine che sottintende il genere, il movimento in seno alla Bay Area, gli stessi Testament e l'intera generazione che rappresentano. O quantomeno, i metalhead della suddetta generazione. L'inizio del brano farebbe pensare che la band abbia deciso di lasciare per ultimo il classico lentone metal, salvo poi rivelare che "The Legacy", un pezzo lento, semplicemente non ce l'ha. Il preludio, definito dall'arpeggio insieme malinconico e inquietante di Peterson, oltre che dall'incedere guardingo e minaccioso di Skolnick, apre ben presto alla furia della strumentale al gran completo. Chuck Billy racconta le vicende d'un piromane con cadenzata precisione: siamo nei panni d'un uomo nato sbagliato, già avvelenato da un dolore insito nel profondo del suo animo. Ben presto ardiamo dal desiderio di bruciare il mondo intero, godendoci le urla della popolazione cremata vita, senza provare vergogna né dolore.
Il brano ha un'accelerazione improvvisa, prima del momento di gloria della chitarra solista, ovattata e insieme straripante, in gran sintonia col resto della strumentale e scatenata, finalmente, per un lasso di tempo sufficiente a darci la misura di un talento già ampiamente formato. I toni sono esattamente quelli che dovrebbero essere: grevi e apocalittici, fino al ritorno a una corsa sfrenata sullo sfondo di una città in preda alle fiamme, le urla disperate della popolazione che riempiono l'aria, e la nostra risata che squarcia un cielo di fumo nero.
Ora il mio grande assalto è terminato / e la mia vita è finita / fisso i miei grandiosi inferni / era il mio unico svago / così vi lascio con la mia storia / qui crolla la mia coscienza / vittima di me stesso / così adesso porrò fine a tutto
La volontà di annientare la città e la sua bella gente, con la sua morale, di bruciare il mondo e le sue leggi: è questo che rende l'esistenza del piromane degna d'essere vissuta, un ritratto che calza a pennello a un intero movimento metal che, nel 1987, faceva ancora inorridire le anime belle, tanto da finire spesso additato come colpevole a fianco dei più disparati fatti di cronaca. Sullo sfondo di questo finale catartico il pezzo rallenta e infine, per la prima volta in un brano di "The Legacy", i musicisti rallentano in tonfi funerei e maestosi, fino a fermarsi del tutto. È decisamente la fine.
Conclusioni
Volendo tirare le somme di un album del genere, si fanno prima a elencare i pochissimi contro (ma sono realmente tali?). Si potrebbe ad esempio accennare alla produzione del disco. Se la distribuzione gode di tutti i possibili agganci in possesso di un gigante come Atlantic Records, garantendo ai Testament la visibilità che meritano, gli aspetti più pratici riguardo la produzione dell'album sono gestiti da Megaforce a una maniera, grossomodo, in linea con le produzioni di una piccola label, ancora impegnata a sperimentare su varie direzioni. Il risultato non è così malvagio come alcuni detrattori hanno sempre evidenziato, ma suona forse ancora più grezzo e più ruvido di quanto i musicisti stessi avrebbero voluto. Tuttavia, se magari è vero che un'impostazione del genere finisce per togliere qualcosa ai momenti chitarristici più tecnici, a tratti quasi "aulici" di Skolnick in particolare, è anche vero che fa giocoforza allo spirito caustico di una formazione percepita dal pubblico dell'87 come "alternativa", rispetto al resto della scena thrash. I Testament, nel 1987, non sono la band di scappati di casa in cui suona tuo cugino, ma nemmeno il gruppo sulla bocca di tutti di cui anche tua nonna Palmira, o tuo zio Cleto, hanno sentito almeno una volta parlare; sono invece una band in ascesa con un mucchio di promesse da mantenere e di scommesse ancora da giocare, e questo, ai metalheads duri e puri piace parecchio. D'altra parte la produzione ha anche i suoi estimatori, alcuni dei quali hanno ravvisato in tempi non sospetti il talento dell'ingegnere del suono Alex Perialas, in quell'anno ancora con tutto o quasi tutto da dimostrare, ma già degno della fiducia di Jon Zazula e sua moglie Marsha Zazula, fondatori di Megaforce, un'etichetta che nei suoi primissimi anni da indipendente (senza Atlantic alle spalle), aveva già prodotto i primi due album dei Metallica, i primi tre degli Anthrax e i primi due degli Overkill, tra le altre cose. Quindi, sebbene opinate da una parte di critica e pubblico, alcune scelte dietro il sound di "The Legacy" pertengono a una vera e propria scelta artistica, piuttosto che a limitatezze intrinseche, e se ad alcuni hanno fatto legittimamente storcere il naso, a tantissimi altri sono altrettanto legittimamente piaciute. "The Legacy" suona duro e puro ed è così che dev'essere, come sottolinea, ad esempio, il critico Adam McCann tra le pagine di Metal Digest: Era thrash metal fino al midollo, era pieno di passione e integrità e stava iniziando ad allontanarsi da quelle band che erano divenute maggiormente affermate e che avevano firmato con le major. Ancora oggi, The Legacy suona magnificamente con tracce come "Apocalyptic City", "The Haunting" e "Burnt Offerings" che guidano la carica, e sebbene la produzione non fosse fantastica, il thrash non ne ha mai avuto bisogno per creare qualcosa di spettacolare.
Volendo trovare un punto debole, se non esattamente un "contro", si potrebbe accennare alle liriche. Sono forse un paio, i testi presenti nell'album, capaci di smuovere l'ascoltatore attraverso il loro significante, ma tutti gli altri passano così inosservati che potrebbero anche non esserci, sostituiti da versi disarticolati e urla (che poi è quello che a un certo punto farà il porngrind). In realtà, sebbene gli autori dei testi - perlopiù Souza - non siano granché interessati a dare una lettura che sia personale, o intellettuale o men che meno autoriale, le liriche di "The Legacy" sono comunque il frutto di mestiere, e il mestiere è figlio delle tradizioni: si ricalcano archetipi radicati e si piega il significante al suono, badando unicamente a suggerire al cervello immagini potenti, coadiuvate da suoni altrettanto potenti. Una vera e propria botta sensoriale. I Testament impareranno a dare un peso maggiore alle loro liriche dal terzo album in poi, "Practice What You Preach", anche perché in quel periodo il grunge sarà ormai nell'aria, e ben presto spazzerà via le donne e i motori del vecchio rock 'n' roll, insieme pure a diavoletti e seiseisei - anche a buona ragione, in una certa misura. Il fatto che il vero e definitivo successo commerciale della formazione arriverà proprio con quell'album, non è un caso ed è ulteriore motivo d'orgoglio per i ragazzi californiani, che riusciranno a brillare in un periodo in cui gran parte della vecchia scuola farà fatica anche solo a stare a galla. D'altra parte le liriche del gruppo un pregio ce l'hanno: stanno nel loro tempo. Se da una parte i Testament si limitano a restare entro certi stereotipi funzionali al genere, è pur vero che dietro ogni singolo brano del loro debutto aleggia l'ombra di una imminente apocalisse, una guerra totale che vede l'annientamento totale o quasi del genere umano. Dopotutto, la fine degli anni '80 rappresenta l'imminente fine della guerra fredda, e le vicende di quel periodo, che anticipano l'ormai prossima caduta del muro di Berlino, fanno temere un'escalation nelle tensioni internazionali. Non è un caso che Rocky IV fosse uscito appena due anni prima di "The Legacy". Sono quindi gli ultimi, tesissimi anni di reale paura atomica, prima dei tre decenni di distensione successivi. Come ben sappiamo, le lancette della storia sono state di recente portate indietro a quelle antiche paure, rendendo l'afflato apocalittico di quest'album nuovamente d'attualità.
Ad ogni modo, nel 1987 "The Legacy" è un gran bel successo, magari non enorme, e soprattutto non immediato, ma capace di crescere col tempo attraverso i concerti e i passaparola, fino a sforare le centocinquantamila copie vendute in tre anni nei soli Stati Uniti. Nell'anno che segue l'uscita del disco, la band intraprende un tour mondiale che la vede aprire i concerti di formazioni già parecchio grosse, tipo Anthrax e Megadeth, e suonare a fianco di stimati colleghi come, tra gli altri, gli Overkill. La critica di settore esalta il disco e il pubblico di riferimento lo ama, eleggendo i Testament a paladini di un modo di fare metal che resiste. Resiste alla corruzione del mercato, resiste alle mode e i suoi capricci, resiste al tempo. E il tempo, in particolare, non sarà sempre clemente con il progetto californiano, portando scompiglio tra i musicisti, rivoluzioni nella line-up e problemi personali anche seri, come la malattia di Chuck Billy. Lo stesso tempo, tuttavia, porterà alcuni degli antichi compagni a ritrovarsi, e alla fine guarirà anche le ferite più serie. Oggi, i Testament godono la fama che meritano e continuano a sfornare dischi, spesso eccellenti, ancora ostili a tendenze passeggere e facili scorciatoie, fedeli unicamente a loro stessi.
Ma nel 1987, poco dopo l'uscita di quel gioiellino del loro debutto, la strada è ancora lunga e tutta da scoprire...
Un ringraziamento speciale a Francesco Nappi, per le sue dritte
2) The Haunting
3) Burnt Offerings
4) Raging Waters
5) C.O.T.L.O.D. (Curse of the Legions of Death)
6) First Strike is Deadly
7) Do or Die
8) Alone in the Dark
9) Apocalyptic City