TEARS FOR FEARS

Woman in Chains

1989 - Phonogram Records

A CURA DI
ANDREA CAMPANA
09/04/2021
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione Recensione

Con Woman in Chains (Donna in catene) i Tears for Fears si approcciano a tematiche ben diverse rispetto a quelle usualmente trattate nelle loro canzoni. La carriera del gruppo prende avvio dalla trattazione di traumi infantili e mancata elaborazione di problematiche giovanili, basandosi sull'opera di Arthur Janov. Il loro stesso nome è tratto da lì. Ma sul finire degli anni '80, e soprattutto in seguito all'enorme successo di Songs From the Big Chair (1985), Roland Orzabal e Curt Smith si ritrovano investiti di un'attenzione e un'importanza tanto notevoli da non potersi più permettere di limitare, nelle liriche e nelle musiche, la loro arte ad un solo campo argomentativo. Questa, perlomeno, è la visione di Orzabal, de-facto leader della formazione e autore dei loro più grandi successi. Vuole che i Tears for Fears rendano merito ai propri conseguimenti nell'industria musicale con una corrispondente attenzione a ciò a cui la loro ricerca artistica deve condurre. Ergo: le canzoni devono essere più serie, più impegnate, più ambiziose (soprattutto negli arrangiamenti), parlare di temi universali e rivolgersi ad un pubblico ampio, toccando anche, se possibile, qualche nervo scoperto. In realtà diversi loro singoli antecedenti già avevano adottato questo approccio: basti pensare a Shout ed Everybody Wants to Rule the World, canzoni di "ribellione" studiate per il grande pubblico, semplici ma efficaci, soprattutto se cantate negli stadi. Il nuovo corso della loro arte, però, quello che viene abbracciato con l'album The Seeds of Love (1989) spinge per una maggiore complessità sia di musica che di testo. Buon esempio ne è già il primo, sorprendente singolo tratto dall'album: Sowing the Seeds of Love. Un pastiche di motivi Beatlesiani che coinvolge da subito il pubblico, in attesa da quattro anni di nuovi, entusiasmanti lavori della band, ma solletica anche l'interesse dei critici, con la sua struttura quasi prog, i riferimenti alla politica (inediti per lo stile del gruppo) e a Margaret Tatcher, e in generale l'ideologia progressista sposata senza tema dai due. Non che Orzabal e Smith siano mai stati conservatori, fino a quel punto; ma sono sempre gli anni '80 (anche se ancora per poco) e dichiararsi su posizioni simili, soprattutto per una band tanto famosa, non è affatto cosa scontata. Woman in Chains, il secondo singolo, uscito il 6 novembre (dopo l'album) va ancora e con maggior decisione in questa direzione. Una canzone che, come già annuncia il titolo, parla di patriarcato, di gender roles e di sottomissione ed emancipazione della donna nella società occidentale. Un argomento non indifferente, anzi fondamentale ancora oggi, ma che già va affrontato a quel tempo. Del resto, si sta uscendo da un decennio di conservatorismo, garantito dalle presidenze Tatcher e Reagan, nel quale è pur vero che le figure femminili, passando per simboli come Jane Fonda o Jennifer Beals, si mostrano più libere e affrancate; ma è anche vero che l'oggettificazione della donna, soprattutto sessuale, ha raggiunto proprio in quel decennio il suo apice, a livelli dai quali non si può tornare indietro. C'è poi la delicata questione culturale delle civiltà cosiddette "terzo-mondiste": l'Africa è al centro dell'attenzione e dei pensieri non solo di attivisti e missionari, ma anche di artisti e musicisti. Sono gli anni del Live Aid, ma anche dell'Apartheid. Alla discriminazione sessuale si aggiunge perciò quella etnica (di razza, si sarebbe detto allora). Non sembra quindi essere un caso che, come interprete fondamentale della canzone, al suo fianco, Orzabal scelga una cantante donna e nera, Oleta Adams, in modo da dar voce, su queste questioni vitali, a chi ne è direttamente interessata. È il primo duetto ufficiale nel repertorio del gruppo, e viene così registrato per buona causa. L'impatto del singolo è da subito innegabile, e la canzone entra presto di diritto tra gli ultimi grandi classici della band, segnando al contempo l'apice di quel tipo di produzione "chiassosa" e per certi versi ridondante, ma anche molto energica e fluente, che colora tutti gli anni '80 fino alla fine. Dì lì a poco, per i Tears for Fears le cose cambieranno radicalmente; ma nel 1989 sono ancora uno dei gruppi più famosi del mondo, e tengono fede alla propria nomea. Woman in Chains è il perfetto esempio dell'approccio eclettico e coinvolgente che Orzabal vuole per il nuovo album e su questo non c'è affatto da ingannarsi: il risultato viene raggiunto in pieno.

Woman in Chains

Woman in Chains (Donna in catene) è un inno femminista, o perlomeno, lo si vuole porre come tale. Una lunga ballata soul che coinvolge in maniera dirompente la cantante Oleta Adams, scoperta dai due mentre cantava in un locale negli Stati Uniti. Reclutata, la cantante fa uscire la sua potente voce in "duetto" con Orzabal, per seguire una lunga riflessione sulla condizione moderna della donna e sulle istanze di emancipazione che, dal punto di vista della morale assolutamente progressista seguita dai Tears for Fears, vanno sostenute subito e senza alcuna riserva. Quindi è chiaro che la donna in catene del titolo deve essere libera, a prescindere dal motivo che l'ha resa prigioniera in primis. Le liriche della canzone perciò non vanno a cercare esempi specifici, ma ambiscono ad una filosofia generale del confronto tra maschi e femmine e del ruolo di ciascuno dei due sessi nella società occidentale. Laddove, Orzabal non si esime dal parlare di "donna" anche per indicare il lato femminile dell'uomo stesso, soffocato e "imprigionato" non meno di quanto avvenga nei riguardi del gentil sesso, anche se in maniera purtroppo più concreta e molto meno metaforica. La forza della canzone è innegabile, coadiuvata dalla presenza eccezionale di Phil Collins, chiamato appositamente per partecipare con il suo famoso stile roboante di batteria, quello che da In the Air Tonight in poi (1981) ha segnato tutta la musica degli anni '80 (e "citato" del resto dagli stessi Tears for Fears: si può ascoltare in un'altra loro canzone, Shout). Il risultato, testo e musica uniti, viene centrato in pieno: "Meglio che tu ami amare / Meglio che ti comporti bene / Donna in catene / Chiama il suo uomo la grande speranza bianca / Dice che va bene, riuscirà sempre a farci i conti / Donna in catene / Donna in catene / Bè, io penso che mentire e aspettare / Sia un affare da quattro soldi / E mi sento ancorato senza speranza / Ai tuoi occhi d'acciaio / Il mondo è impazzito / Tiene la donna in catene / Donna in catene / Scambia la sua anima per pelle e ossa / Meglio che ami amare / Meglio che ti comporti bene / Lei vende l'unica cosa che possiede / Donna in catene / Il sole e la luna / Donna in catene / Uomo di pietra / Uomo di pietra / Bè sento che in fondo al tuo cuore / Ci sono ferite che il tempo non può curare / Che il tempo non può curare / E sento che qualcuno, da qualche parte / Sta cercando di respirare / Un mondo che è impazzito / Tiene la donna in catene / È sotto la mia pelle ma lontano dalle mie mani / Lo farò a pezzi ma non capirò / Qualcuno da qualche parte / Sta cercando di respirare / Non accetterò la grandezza dell'uomo / Un mondo che è impazzito / Tiene la donna in catene / Impazzito / Donna in catene / Allora, liberala / Il sole e la luna / E allora liberala / Il vento e la pioggia".

Always in the Past

Always in the Past (Sempre nel passato) è un caldo pezzo funk soul che sembra quasi una produzione dell'ultimo Marvin Gaye, incrociata con i lavori jazz più convinti di Wynton Marsalis. L'intera canzone viene sostenuta da un ritmo sincopato di basso che, accoppiandosi con percussioni etniche e parti di sassofono adattate a melodia d'accompagnamento, crea un insieme dall'incedere sensuale e coinvolgente. L'atmosfera calda della composizione è decorata da cori femminili, un assolo di chitarra in perfetto stile pop/rock e la voce coinvolta di Orzabal sempre pronta a liberarsi in sfoghi tipicamente blue-eyed soul. Il testo è piuttosto criptico, e sembra far riferimento ad un personaggio diventato ricco o fortunato in seguito a qualche imbroglio e a discapito di qualcuno, che ora però, nonostante abbia "risolto" la sua vita, non riesce a smettere di guardarsi indietro e a ripensare a quello che ha fatto. "I soldi non possono cambiare il modo in cui ti senti / Strisce di fumo sui tuoi polpastrelli / A posto per tutta la vita non vuol dire nulla / Quando c'è qualcosa dietro di te che proprio non si incastra / Non posso smettere di pensare / Sempre nel passato / Il fumo forma uno schermo, alla fine del giorno / Ragazzo devi aver avuto una nottata solitaria / E i tuoi sogni hanno rivelato il piano divino? / Il cielo ti ha detto che andrà tutto bene? / Cammina per quelle strade pavimentate d'oro / Io e te siamo la stessa cosa / Abbiamo un grande animo / Danza quei passi dell'antica piaga / Puoi affilare i coltelli sulle celebri vite che non sono mai state salvate". Nel complesso, Always in the Past è un pezzo incredibilmente convincente e coinvolgente, che mostra il duo efficacemente alle prese con la black music, riportando echi della fattura più diversa, da Prince a Hall & Oates. Davvero un peccato che una canzone tanto valida non sia stata inserita nell'album The Seeds of Love, ove avrebbe potuto prendere il posto di almeno metà delle composizioni invece presenti.

My Life in the Suicide Ranks

My Life in the Suicide Ranks (La mia vita nei ranghi del suicidio) è forse la canzone più atipica scritta dai Tears for Fears fino a questo momento. Un completo nonsense, un testo senza significato che sembra quasi un flusso di coscienza lasciato libero su di una base synthpop che se da una parte riporta ai primi caratteri della carriera del duo dall'altra crea un panorama sonoro volutamente ripetitivo, una sorta di litania, un mantra armonico che non pare avere altro scopo che quello di ripetere sé stesso. Le liriche non incoraggiano ad un interpretazione compiuta, come si è detto:  "La mia vita nei ranghi del suicidio / Chi c'è nel giardino? / Sei ancora così prezioso? / Amore per i tuoi altri / Vino sul tappeto / Tutto sul finire dell'alba / Troverai selvaggio quando vieni / Che lasci al resto credere vergogna / Amami come un bambino / Nessuno mi dice perché / Grazie per l'aiuto ma / La strada alta è la strada bassa / Chi sa meglio di una chiacchierata / Bene lo stupido o il corvo / Mi terrai, mi scuoterai / Quando pensi di essere tutto solo? / Non cercare la tua salute nel colore della tua pelle / Aprirò un barattolo di soda e lascerò che le tenebre vi entrino". Altro particolare importante: la voce in questa canzone è solo femminile, e si tratta probabilmente della stessa Oleta Adams che, partendo da un'idea iniziale forse nata per gioco o per caso durante prove e registrazioni, incede nella ripetizione del titolo della canzone, intervallata da strani sfoghi senza compimento. Uno dei momenti più oscuri ed indecifrabili dell'intera discografia del duo.

Ghost Papa

Ghost Papa (Papà fantasma) è uno strumentale che gira tutto intorno a suoni di chitarra funk e rock, alternati, mescolando vocalizzi femminili liberi e bassi future funk immancabilmente anni '80. Un evidente divertissement, che non vuole e non deve essere preso sul serio. Questa canzone non trova spazio come b-side nel singolo di Woman in Chains del 1989, e verrà inserito come unica traccia bonus nella re-release del singolo nel 1992, tre anni dopo, in occasione dell'uscita del primo Greatest Hits dei Tears for Fears. Rimane una prova particolare della loro inventiva, e un raro esempio della loro capacità di divertirsi. Ma esprime, come canzone, poco altro.

Conclusioni

Woman in Chains rimane ancora oggi uno dei singoli più memorabili del duo, uno degli ultimi loro afflati creativi davvero validi e in grado di attirare un interesse mondiale. Anche se il successo del singolo non tocca le vette dei classici di metà decennio, permette comunque ai Tears for Fears di farsi sentire ancora come una forte presenza nella scena contemporanea. Questo cambierà di lì a poco, giacché, al di là dell'uscita dal gruppo di Smith (dalla quale del resto Orzabal, autore principale della formazione fin da inizio anni '80, sarà segnato solo parzialmente) la band dimostrerà di non sapersi adeguare al cambiamento dei suoni e delle tendenze che interverrà tra le due decadi. L'album successivo, Elemental (1992), tenterà di approcciarsi alle nuove sonorità alternative rock con suoni più chitarristici e incisivi: ma il tentativo di adeguamento sarà guastato, viziato per meglio dire, dalla medesima visione caotica che rende The Seeds of Love, l'album del 1989, un lavoro riuscito a metà. Però, nell'89, perlomeno la formazione si muove ancora in maniera sicura, su territori che seppur esplorati solo parzialmente (nel disco ci sono anche jazz, soul, prog) perlomeno non si trovano troppo distanti, per come guardati da loro, da quel pop/rock new wave da stadio che i due sanno proporre così bene. Questo per dire che l'ascolto di Woman in Chains, a distanza di più di trent'anni, riprova ancora una volta come i Tears for Fears fossero, sono e resteranno sempre un complesso profondamente anni '80. Come tanti altri (Simply Red, The Smiths, Duran Duran, Culture Club) si dimostrano con il tempo in grado di esprimersi compiutamente solo fintantoché la loro musica appartiene a quel tempo e a quella epoca particolare. L'incarnazione dell'etica anni '80 (e della contro-etica anti-sistema ma pur sempre liberamente edonistica) emerge anche in un singolo come questo, un inno femminista (scritto da maschi) che affronta temi importanti, intoccabili quasi, con un senso d'importanza tipico degli artisti di questo periodo, e quasi solo di questo periodo. Abbiamo già citato il Live Aid; si può citare anche Phil Collins, ospite (come abbiamo detto) del brano, con un famoso singolo altrettanto impegnativo che esce proprio nel 1989: Another Day in Paradise, che parla dei clochard. L'ambizione di importanza cercata dalle band più famose del periodo (non iniziamo nemmeno a parlare degli U2) va di pari passo con la ricerca di cause fondamentali da sostenere. In fondo, poco importa la convinzione che vi sta dietro, perché l'epoca consente ancora un alto grado di ingenuità e fa filtrare del resto un senso di ottimismo, di possibilità, che nel cinismo degli anni '90 non troverà assolutamente posto. Questo è come si fa musica al tramonto degli anni '80: se si vuole conquistare bisogna stare sul fronte, fare "politica", si potrebbe dire tra virgolette. Se, certo, lottare per la parità sessuale si vuole ridurre a questa definizione. Di buono c'è che i Tears for Fears, seppur con l'ingenuità che deriva dalla comunicazione semplice dell'epoca (la rete Internet è ancora lontana), si prestano con convinzione genuina all'espressione dell'importante messaggio. Scavano alla ricerca delle radici del problema e offrono, se non una soluzione, perlomeno un lieto fine. Che è quanto, in fondo, molti chiedono, per non chiedere di più. In questo senso Woman in Chains si accoda perfettamente alle altre canzoni "ribelli" del duo, come Mothers Talk e Shout, le quali inneggiano contro un non ben identificato "sistema" e, pur non scadendo nel qualunquismo al quale siamo abituati oggi (risultante poi, di fatto, in lamentele vaghe e totale inazione) si "limitano" a porre il problema, a parlarne compiutamente (che è già qualcosa) ma non si spingono a lavorarci su più di quanto non richieda lo spazio della canzone. Del resto, qui non si fa altro che ereditare la retorica ribelle del rock più classico, che pur ponendosi in atteggiamento costantemente anti-conformista, raramente arriva a sostenere cause ad un livello attivo di impegno. Mentre, per esempio, i Tears for Fears si apprestavano a conquistare le classifiche, a inizio decennio, negli Stati Uniti i giovani punk della costa ovest, appresa la lezione dai colleghi inglesi ma anche dai precursori Newyorchesi, realizzavano qualcosa di concreto: fondavano case discografiche indipendenti, organizzando selvaggi concerti hardcore punk e producendo inni anti-Reaganiani che, lontani com'erano dal mainstream e dalle charts, erano veri e onesti spasmi di ribellione. Il Rock and Roll con le erre maiuscole, insomma. Lo sforzo dei Tears for Fears invece, per quanto apprezzabile come mossa etica, non fa altro che riprendere quella un po' solita solfa del "vai contro il potente", che inizia e finisce nella stessa frase, difficilmente proseguendo al di là di essa. Tutto questo per dire che Woman in Chains, per quanto riuscita e sicuramente apprezzabile come canzone, non deve trarre in inganno: i Tears for Fears sono tante cose, autori, compositori, valenti musicisti. Ma non sono attivisti, né tantomeno dei ribelli.

1) Woman in Chains
2) Always in the Past
3) My Life in the Suicide Ranks
4) Ghost Papa
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