Tears for Fears
The Seeds of Love
1989 - Phonogram Records

ANDREA CAMPANA
06/01/2021











Introduzione recensione
Siamo nel 1989. I Tears for Fears sono uno dei nomi più famosi e celebri della musica dell'epoca, campioni delle charts e forse uno dei più importanti gruppi emersi dalla scena inglese detta new wave. Il duo, composto da Roland Orzabal e Curt Smith (accompagnati in questa fase da Ian Stanley e Nicky Holland, i quali tuttavia non vengono riconosciuti componenti a pieno titolo e non compaiono sulle copertine) è tra i nomi più noti della musica dell'epoca. Chi è cresciuto negli anni '80 non può non riconoscerli, né può aver dimenticato i loro accattivanti video, trasmessi senza posa da MTV e colonne portanti del loro stesso successo. Un successo che ad un certo punto, con l'album del 1985 Songs from the Big Chair, arriva a un punto talmente notevole da fare sentire i due come investiti del compito di sfruttare la loro stessa popolarità per proporre una musica artistica e ambiziosa, notevole in tutti i sensi, che cerchi di varcare i confini dei suoni dell'epoca. Altresì, Orzabal e Smith sono decisi a dimostrare di essere musicisti a tutto tondo: non solo un paio di bellocci inglesi che hanno azzeccato un paio di hit in classifica perché capitati nel posto giusto al momento giusto, ma autori e compositori professionisti capaci di grandi cose. Naturalmente non sono i primi a venire colti da un'epifania simile: il nome che viene in mente è subito quello dei Beatles. Il quartetto di Liverpool ha affrontato simili dilemmi nel periodo tra il 1965 e il 1967, quando i quattro si sono accorti che durante i loro concerti il pubblico urlava e basta e che molti li amavano solo in quanto famosi. Allora hanno intrapreso la loro famosa scappatoia, sfruttando la popolarità acquisita durante la British Invasion e proponendo ad un grande pubblico commerciale lavori sperimentali e coraggiosi come Rubber Soul (1965), Revolver (1966) e Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band (1967). Com'è andata a finire poi, lo sappiamo bene. Ecco, i Tears for Fears, forse senza nemmeno rendersene conto, ripercorrono gli stessi passi dei Beatles in questo senso. Nome portante, loro, della Second British Invasion (Duran Duran, Spandau Ballet, The Police, Culture Club, Dire Straits, Wham!, A Flock of Seagulls, The Cure, e si potrebbe continuare per un bel po') si sentono in dovere, a loro volta, di fare qualcosa dell'enorme attenzione loro accordata, da un lato, e dall'altro quasi di "giustificare" un riscontro così notevole ottenuto in così poco tempo. E mentre si affacciano alla fine del decennio, la visione inizia a prendere forma. Roland Orzabal, perfezionista alla ricerca del suono ideale (più Paul McCartney che John Lennon), spinge per una maggiore complessità compositiva nelle tracce su cui lavorano; Curt Smith, bassista più schivo e introspettivo (come proveranno i suoi futuri lavori intimisti da solista) insiste per un movimento verso strumenti e suoni più acustici ed organici, in contrasto con le sonorità elettroniche e programmate dei loro primi singoli. In realtà l'idea non è proprio sua: tutto il mondo della musica, nel 1989, sembra ormai pronto ad abbandonare la decade della tastiera per tuffarsi negli oscuri e cupi anni '90 (anche se nessuno ancora sa che suoneranno così), ridando alle chitarre elettriche e alla distorsione l'importanza che avevano durante la prima generazione del rock, quello classico, negli anni '60 e '70 (di nuovo, i Beatles). La ricerca di un autenticità perduta già tentata dal punk, per altre vie, nel 1977, ma presto "corrotta", appunto, da ritmi da discoteca e sintetizzatori senz'anima. A ridosso della fine degli anni '80, il mondo della musica è pronto a riprovarci: esce il primo disco degli Stone Roses, che segna un punto e a capo della scena rock inglese (da lì prenderanno ispirazione Suede, Blur, Oasis, praticamente chiunque); esce sempre nel 1989 anche Bleach, il primo album dei Nirvana, che ancora non promette la rivoluzione di Nevermind, ma già segna un momento significativo della ribollente scena alternative americana: ci sono anche Pixies, R.E.M., Jane's Addiction, Red Hot Chili Peppers. Tutte queste formazioni promettono un ritorno in grande stile del rock chitarristico, che arriverà a compimento nel 1991. I Tears for Fears, dal canto loro, sono più vecchiotti rispetto a queste band e non comprendono un proprio ruolo programmato all'interno della terza grande "rivoluzione" del rock, che è in realtà semplicemente un passaggio di testimone generazionale. Semplicemente, vivono questo ritorno ai suoni "organici" e l'abbandono delle tinte synth "dall'interno", perché sono attivi in quel momento; un po' nel modo in cui, per esempio, Peter Gabriel ha prodotto all'inizio del medesimo decennio, gli anni '80, lavori appartenenti al genere new wave senza probabilmente nemmeno realizzare che fossero tali. Del resto, il movimento dei Tears for Fears non li ritrova, con il nuovo album, esattamente dalle parti delle chitarre. Ci sono jazz, musica latina, influenze disco e soul. E poi, naturalmente, i Beatles, la cui innegabile influenza riluce nel singolo portante del disco, al quale dà il titolo per metà: Sowing the Seeds of Love. Con il nuovo album, quindi, i Tears for Fears intendono mettersi in gioco in tutto e per tutto, fare musica eclettica ed omnicomprensiva, dimostrare al mondo di essersi meritati il successo che stanno avendo e scrivere, se possibile, la loro personale pietra miliare nella storia della musica.

Woman in Chains
Già da Woman in Chains (Donna in catene), l'eloquente e magistrale apertura del disco, le intenzioni dei Tears for Fears si colgono appieno. Un lento ambizioso dai toni soul e dall'atmosfera lacrimevole, che parla della condizione di oppressione della donna, perdurante oggi come ieri, del miraggio di una società matriarcale e non patriarcale, e anche della parte "femminile" di sé che gli uomini, i maschi, devono celare per via della pressione sociale esercitata dal loro stesso genere. Una grande riflessione sui sessi e sui ruoli legati a ciascuno di essi, che in quanto tale viene strutturata come "dialogo" (in realtà un duetto) tra Orzabal, compositore del pezzo, ed Oleta Adams, cantante americana scoperta per puro caso nel 1985 dai due Tears for Fears mentre si esibiva nel bar di un hotel a Kansas City, nel Missouri. I due la mandano a chiamare quando è il momento di registrare The Seeds of Love, e Woman in Chains sembra in effetti già pensata per lei. La canzone, pubblicata come secondo singolo tratto dall'album nel novembre del 1989, lancia la carriera da solista della cantante, che poi continuerà ad avere successo anche durante i primi anni '90, sempre sotto l'ala protettiva di Roland Orzabal. Altro ospite eccellente nella canzone è nientemeno che Phil Collins, la cui influenza si era sentita in precedenza, nella musica dei Tears for Fears, chiaramente nei fill di batteria di Shout e negli accenti orchestrali di Mothers Talk, questi ultimi molto simili a quelli di Paperlate! dei Genesis (1982) e alla versione da solista dello stesso Collins di un altro pezzo dei Genesis, Behind the Lines (1980), da lui proposto in stile Motown nel 1981. Per Woman in Chains, Orzabal e Smith vogliono che Collins decori la canzone con un suo caratteristico e impetuoso ingresso di batteria, come quello celebre della sua mega-hit In the Air Tonight. Il batterista li accontenta, e il risultato si può sentire a partire dal minuto 3:32 della canzone. Woman in Chains è uno degli ultimi grandi successi dei Tears for Fears e anche se non raggiunge nessuna top ten la performance commerciale della canzone (naturalmente agevolata dall'invitante video studiato per il pubblico di MTV) è comunque considerevole. Di per suo il pezzo è assolutamente rappresentativo di ciò che i due intendono fare con questo disco: andare oltre, andare più in là, dire di più e dirlo meglio. Come traspare dalle emozionanti parole del testo stesso: "Meglio che tu ami amare / Meglio che ti comporti bene / Donna in catene / Chiama il suo uomo la grande speranza bianca / Dice che va bene, riuscirà sempre a farci i conti / Donna in catene / Donna in catene / Bè, io penso che mentire e aspettare / Sia un affare da quattro soldi / E mi sento ancorato senza speranza / Ai tuoi occhi d'acciaio / Il mondo è impazzito / Tiene la donna in catene / Donna in catene / Scambia la sua anima per pelle e ossa / Meglio che ami amare / Meglio che ti comporti bene / Lei vende l'unica cosa che possiede / Donna in catene / Il sole e la luna / Donna in catene / Uomo di pietra / Uomo di pietra / Bè sento che in fondo al tuo cuore / Ci sono ferite che il tempo non può curare / Che il tempo non può curare / E sento che qualcuno, da qualche parte / Sta cercando di respirare / Un mondo che è impazzito / Tiene la donna in catene / È sotto la mia pelle ma lontano dalle mie mani / Lo farò a pezzi ma non capirò / Qualcuno da qualche parte / Sta cercando di respirare / Non accetterò la grandezza dell'uomo / Un mondo che è impazzito / Tiene la donna in catene / Impazzito / Donna in catene / Allora, liberala / Il sole e la luna / E allora liberala / Il vento e la pioggia".

Badman's Song
Badman's Song (La canzone dell'uomo cattivo) è la prima grande sorpresa del disco, e non è l'ultima. In questo pezzo i Tears for Fears non solo escono dalla propria comfort zone musicale, ma sembrano anzi proprio fuggire a gambe levate dai suoni a loro familiari. In Badman's Song fa infatti il suo prepotente ingresso il jazz, un genere precedentemente solo sfiorato in composizioni come I Believe (1985), ma mai completamente abbracciato. Il nucleo iniziale della canzone risale al 1985, quando Orzabal lo ha abbozzato durante il tour di quell'anno dopo aver sentito per caso due membri della crew parlar male di lui. Da allora la canzone viene riprovata più volte in diversi stili, e ne emergono arrangiamenti che ricordano Barry White, i Little Feat e infine gli Steely Dan. Quest'ultimo è sicuramente quello che viene ripreso con maggior convinzione nella versione finale della canzone, quella che appare sul disco e che dura ben otto minuti e mezzo. Il risultato è una lunga esplorazione di toni festaioli jazz/soul con assolo di chitarra molto (naturalmente) anni '80, atmosfere da festival e il sempre notevole contributo vocale di Oleta Adams. Rispetto alla new wave di quattro anni prima, qui i Tears for Fears sembrano dediti ad esplorare un universo completamente nuovo. "Ho sentito ogni parola che è stata detta quella notte / Quando la luce del mondo ha messo il mondo a posto / Questa è per i ragazzi della 628 / Dove un orecchio sul muro è stato una svolta del destino / Emetterò una luce accecante / Attraverso quei cuori neri come la notte / Bastone e pietra potranno spezzarmi le ossa / Ma almeno i semi dell'amore saranno piantati / Ora una volta ogni tanto non provo vergogna / Mi metto in ginocchio e prego per la pioggia / E anche se la brezza soffia dolcemente mentre sostengo il mio caso / Ci saranno certi uomini in attesa di graffiarmi la faccia / Cuore in mano io prenderò posizione / Per la vita e i tempi del mio riflesso [Mirror Man] / Nella mia testa c'è uno specchio / Sono stato cattivo, ho sbagliato / Cibo per i santi che fanno in fretta a giudicarmi / Speranza per un uomo cattivo, questa è la canzone dell'uomo cattivo / Colpevole nell'occhio della lente / Illumina la mente dove passano le riflessioni Quando i frammenti di un uomo rotto / Cercano di riunirsi di nuovo insieme / Giace travestito nel nome della fiducia / Metti la testa nella sabbia, diventerà polvere / Qual è il tuo problema? Qual è la tua maledizione? / Non renderà la faccenda peggiore?" La canzone, un po' dai toni gospel nel testo, parlano di peccato e salvezza. Il "Bad Man" in questione è lo stesso Orzabal, che sentendosi giudicato si ferma a riflettere su sé stesso e sui suoi errori, giungendo però alla conclusione che è sempre meglio affrontare il giudizio altrui, per quanto spietato: prendendolo per il verso giusto si può solo migliorare. Del resto, lo stesso narratore (Orzbal, autore, come si diceva, della canzone assieme al tastierista Nicky Hopkins) si trova già di per sé a confrontarsi con sé stesso (il "mirror man") di continuo, per cui un giudizio ulteriore espresso da terzi non fa che divenire una mossa esterna e imprevista in una battaglia già in corso. Ragion per cui, anche se "Sticks and stones may break my bones" (famoso detto inglese), dice Orzabal, almeno i semi dell'amore saranno piantati. Questo è un ovvio riferimento a Sowing the Seeds of Love (vedi sotto), canzone che riassume, anche qui, la tematica argomentativa portante dell'intero album, insita nella dicotomia amore/odio.

Sowing the Seeds of Love
Arriviamo alla traccia più importante e famosa del disco, nonché forse l'ultimo grande classico di buon successo dei Tears for Fears. Sowing the Seeds of Love (Seminando i semi dell'amore) è una lunga canzone composta da vari motivi pop/rock che intendono riprendere, ci siamo arrivati, le diverse angolature della musica dei Beatles. Più un omaggio che altro, questa canzone è forse però quella del disco che più di ogni altra tradisce fino in fondo le smisurate ambizioni artistiche del duo in questo periodo. La composizione, pubblicata come primo singolo estratto dall'album, arriva in un periodo nel quale molte nuove band guardano agli anni '60 (precedentemente rifiutati dal punk in quanti ingenui ed eccessivamente idealisti) con rinnovata simpatia. Gruppi come Inspiral Carpets, Stone Roses ed Happy Monday riprendono i motivi psichedelici di quel decennio, abbracciandone nuovamente la cultura mentre l'eredità della Second Summer of Love, quella del 1988, si schiude nel crescente utilizzo di droghe come l'ecstasy (MDMA) e la diffusione dei primi rave parties. I Tears for Fears c'entrano poco o nulla con tutto ciò, ma è necessario spiegare che il ponte da loro formato con la decade d'oro dei Beatles non è un tentativo unico nel suo genere ed avviene anzi in un clima alquanto fervente in questo senso. Ne è anche, perciò, in qualche modo rappresentativo, come "riflesso" di quanto avviene quell'anno nella musica di artisti più maturi. Del resto, non si può dire che la traccia sia completamente ignara del tempo in cui viene scritta. Orzabal compone infatti la prima base della canzone in seguito alla rielezione per il terzo mandato di Margaret Tatcher, nel 1987. La Tatcher viene anche nominata nel testo, come "politician granny" (nonna politicante"). E in questo senso, Sowing the Seeds of Love si presenta quasi da subito come la canzone certamente più politica e più impegnativa mai prodotta dal duo: un anelito Lennoniano che manca però di ottenere l'impatto di una Give Peace a Chance o di una Imagine, dato che il pezzo è troppo allegro e orecchiabile per fungere da canzone di protesta vera e propria: "Il momento è giusto / Prendiamo posizione / E scuotiamo le visioni / Dell'uomo comune / Il treno dell'amore viaggia da costa a costa / Il dj è l'uomo che amiamo di più / Potresti essere, potresti essere morbidamente libero / E distruggere ogni speranza di democrazia / Come dice il titolo di testa sei libero di scegliere / E allora hai un uovo in faccia e fango sulle scarpe / Uno di questi giorni si accorgeranno di quanto sono / Seminando i semi dell'amore, i semi dell'amore / Spio lacrime nei loro occhi / Guardano al cielo per qualche tipo di intervento divino / Il cibo va sprecato, così bello da mangiare, piacevole da toccare / Nonna politicante con i tuoi alti ideali / Non hai idea di cosa sente la maggioranza? / Quindi senza l'amore o una terra promessa / Siamo instupiditi dal piano del governo / Butta fuori lo stile e riporta le paranoie / Seminando i semi dell'amore, i semi dell'amore / Gli uccelli e le api, la mia ragazza e io, in amore / Senti il dolore / Parlane / Se sei un ricercato / Gridalo / Cuori aperti, sentiamoli / Menti aperte, pensiamoci / Tutti quanti, leggiamone / Tutti quanti, gridiamolo / Leggiamolo nei libri, negli anfratti e negli angoli, ci sono libri da leggere / Tempo di mangiarti le tue parole / Ingoiare il tuo orgoglio, aprire i tuoi occhi / Ogni minuto di ogni ora / Amo un girasole / E credo nel potere dell'amore / Il potere dell'amore".

Advice for the Young at Heart
Advice for the Young at Heart (Avviso ai giovani di cuore) è la quarta traccia dell'album e l'ultima davvero famosa che compare nella tracklist dello stesso. Si tratta del terzo singolo estratto da The Seeds of Love, e pubblicato nel febbraio del 1990 con un discreto successo. Questa è l'unica canzone del disco nella quale la voce principale è affidata a Curt Smith, mentre gli autori del brano sono sempre Orzabal e il tastierista Nicky Holland. Il pezzo è una ballad mid-tempo dai toni vagamente latini e dal sapore "pallido": la caratterizzazione malinconica della melodia e l'atmosfera da locale d'altri tempi (nel quale i due suonerebbero, s'intende) non fanno altro che allontanare sempre di più il duo dal tipo di musica a loro nota e da loro storicamente apprezzata. Questo singolo non raggiunge alcuna top 10 (per i Tears for Fears, tempo il 1990, l'era delle top ten si è pressoché chiusa), ma ottiene comunque un buon riscontro in Gran Bretagna, in Francia, in Canada, in Olanda e in Irlanda. A spingere il singolo naturalmente c'è anche questa volta un video dai colori caldi, girato in Florida e che alterna immagini della band che suona a varie scene di un matrimonio latino-americano. Il testo, come già ben esplica il titolo, vuole essere un compendio di consigli ai "giovani" (nell'89 sono entrambi quasi trentenni) che si affacciano per la prima volta sugli impervi risvolti dell'amore: "Avviso per i giovani di cuore / Presto saremo più vecchi / Quando lo faremo funzionare? / Troppa gente vive in un mondo segreto / Mentre giocano a fare le madri e i padri / Noi giochiamo a fare i piccoli bambini e le piccole bambine / Quando lo faremo funzionare? / Potrei essere felice, potrei essere molto ingenuo / Sono solo io le mie ombre / Felice nel nostro 'far credere' / Presto / E con i mastini legati / Chiamerò il tuo bluff / Perché andrà tutto bene / Camminare sulle punte ogni giorno / E quando penso a te e a tutto l'amore che è dovuto / Farò una promessa, prenderò posizione / Perché per questi grandi occhi marroni, questa non è una sorpresa / Abbiamo l'intero mondo nelle nostre mani / L'amore è una promessa, l'amore è un ricordo / Una volta donato / Mai dimenticato, non lasciarlo mai svanire / Potrebbe essere la nostra ultima possibilità / Quando lo faremo funzionare? / L'orario di lavoro è finito / E come mi fa piangere / Perché qualcuno ha mandato la mia anima a dormire".

Standing on the Corner of the Third World
Standing on the Corner of the Third World (Stando all'angolo del terzo mondo) è la traccia dell'album che paga il tributo, quasi dovuto, alla musica etnica ed africana, la cui influenza ha permeato tutto il decennio in procinto di concludersi, gli anni '80, partendo da Biko di Peter Gabriel (1980) e passando per l'album Graceland di Paul Simon (1986), registrato in parte in Sudafrica, a Johannesburg, in pieno Apartheid. L'Africa, come continente e anche come concetto richiamante determinate situazioni politiche, economiche e sociali, è stato un tema caldo per tutta la decade, mobilitando organizzazioni e musicisti famosi in eventi come il famoso Live Aid (1985) per cercare di portare aiuto ad un intero continente in difficoltà. Proprio questo è il periodo in cui il concetto di terzo mondo, presente nel titolo della canzone, emerge per indicare quei paesi (in gran parte siti, appunto, in Africa) molto svantaggiati e, come si dirà poi negli anni '00, "in via di sviluppo". Quello dei Tears for Fears è un omaggio che, pur passando leggermente dal tipo di stereotipi che hanno reso celebre ma in maniera controversa la canzone Africa dei Toto (1982) deve molto di più appunto ai lavori di Peter Gabriel e alle sue collaborazioni con il cantante senegalese Youssou N'Dour. Tutta la traccia vuole accomunare le intenzioni del testo con la caratterizzazione della musica, che ricerca suoni africaneggianti soprattutto nelle percussioni e nell'atmosfera esotica fortemente tratteggiata. Questa canzone è l'unica in tutto il disco, a parte Woman in Chains, ad essere stata scritta dal solo Orzabal, che ne è anche voce principale a fianco alla ormai immancabile Oleta Adams. Dopo una lunga analisi da incubo delle colpe sentite dall'uomo occidentale nei confronti di un intero continente sfruttato, colonizzato e prosciugato di cultura e risorse, l'artista affida ad un crescendo musicale memorabile l'apoteosi del brano e la sua conseguente realizzazione spirituale: "Non ho mai dormito così male / Non ho mai sognato così bene / Sognato che nella vita ero al sicuro / Come cozze in una conchiglia / Girando e controllando / Tutte le cantine e tutte le strade sul retro delle nostre vite / Riempire i loro sogni con grandi macchine veloci / Riempire i loro sogni di sabbia / Bianco sacro, coloreremo la città / Del colore della nostra bandiera / Ehi piccola ragazza, il tuo bambino somiglia ad un uomo anziano? / Stando all'angolo del terzo mondo / Gli uomini affamati chiuderanno le loro menti / Le idee non sono il loro cibo / Le nozioni cadono su terreno pietroso / Dove le passioni sono sottomesse / Figurati tutta la follia, perché la follia è la nostra spina nel fianco / Stando all'angolo del terzo mondo / Quando impareremo? / A chi ci rivolgeremo? / Le promesse che fanno / La richiesta della nostra attenzione / La compassione è la moda / Liberi di guadagnare, le nostre tasche bruciano / Compriamo per amore / Moriamo per amore / Tienimi, sto piangendo / Tienimi, sto morendo".

Swords and Knife
Con Swords and Knives (Spade e pugnali) arriva il momento del pezzo più atmosferico del disco, influenzato fortemente dal contemporaneo smooth jazz, con un bel assolo di sassofono suonato da Kate St John, e da altri momenti delicati della storia del genere (non è troppo difficile, qui, risentire i Weather Report). La canzone inizia come una ballad leggera e dolce, per poi però innestarsi improvvisamente su di un ritmo sostenuto, al quale segue un crescendo strumentale che, molto in stile Shout, culmina in un'esplosione che dal jazz trascina quasi violentemente al rock da stadio più autenticamente anni '80. Ci si può quasi immaginare lo stadio pieno, in alta estate, e il pubblico totalmente coinvolto dall'intensità del pezzo. La canzone spazia a quel punto tra vari momenti diversi combinati, non seguendo l'alternanza facile strofa-ritornello ma perdendosi in divagazioni strumentali che devono molto al prog e alla scena di Canterbury interna a questo genere (se volessimo osare potremmo dire Soft Machine: i Tears for Fears hanno un forte legame con Robert Wyatt, batterista e componente fondamentale dello storico complesso). Il gran finale è un anti-climax, giocato nuovamente su toni lenti ed esotici, che consente ad Orzabal (sempre autore insieme a Nicky Holland) di riprendere le redini del brano e "metterlo a dormire" con un outro leggero e quasi conciliante. Swords and Knives viene scritta inizialmente per la colonna sonora del film Sid & Nancy, del 1986, che racconta ovviamente le vicende (e la tragica fine) della coppia più famosa del punk rock: Sid Vicious e Nancy Spungen. Però, come è comprensibile, la canzone viene scartata appunto perché "troppo poco punk": di punk qui, infatti non c'è proprio nulla. Ma va benissimo così perché in The Seeds of Love questo brano funge alla perfezione come canale di passaggio verso l'ultima parte del disco, quella meno famosa e meno immediata da assimilare per chi non abbia qualche rudimento di teoria musicale o almeno un grande bagaglio di conoscenza dei generi. Le cose si fanno sempre più complesse, insomma. Il testo, che parla di amore rancoroso e delle possibili tragiche conseguenze a cui può portare, riprende perfettamente la linea argomentativa dell'intera tracklist: "Una parola d'innocenza al risveglio / Così forte quel primo nato piange / Se la vita inizia con aghi e spille / Termina con spade e pugnali / Oh uomo del pericolo, oh uomo del pericolo / La tua lama calza come un guanto / Quand'è forgiata da acciaio che il tempo non può guarire / Quel legame d'amore rosso sangue / Nei momenti difficili sei un libro aperto / Come cambi nel modo in cui ti mostri / Ed è triste che l'amore / Non sia quanto basta per far andare le cose meglio / Gira e rigira, bruciamo le favole / Bugie dietro le visioni e i sogni ad occhi aperti / Instupiditi dal presente, mistifichiamo il passato / Come un sogno, come se non fosse successo mai".

Year of the Knife
Year of the Knife (L'anno del pugnale) inizia con l'acclamazione di un pubblico dal vivo, così come qualche anno prima terminava Head Over Heels, nel 1985. Il pezzo risponde perfettamente allo stile soft rock particolarmente in voga tra anni '70 e anni '80, ed è molto facile sentirci gruppi come REO Speedwagon, Journey o Toto. Ci troviamo di fronte ad un rock spedito ed energico, sostenuto da forti cori femminili nel refrain e studiato per l'esibizione all'aperto. Qui sono le chitarre a dominare, e questo rende la traccia forse quella meno "atipica" del disco, anche se non ci si allontana mai troppo dall'intenzione prog che sta alla base dell'intera tracklist. Lo provano la durata, sette minuti, e un intermezzo alla Pink Floyd che lascia il tempo di abbassare la tensione per poi rialzarla con l'esplodere di una nuova strofa, in un trionfo di echi e di sfoghi d'atmosfera così tipicamente anni '80 da fare quasi paura. Concettualmente la traccia si pone come collegamento tra la precedente, Swords and Knives (ritorna il "pugnale" nel titolo) e la successiva, Famous Last Words, citata nelle liriche. Il tema unificante sembra essere la morte di un "re", che si può identificare come una figura maschile opprimente (collegamento possibile con Woman in Chains) ma anche come, in maniera più astratta, il peso dell'odio che rende impossibile l'amore. Lo yin e lo yang che hanno sostenuto tutte le canzoni finora sembrano sbilanciarsi decisamente in senso positivo: i "semi dell'amore" sono piantati e l'odio è in procinto di essere sconfitto, come prova l'incedere stesso della canzone, decisamente celebrativo. "Halleluja, il re è morto / Diceva che l'amore era il pugnale / E adesso sognerà che / Qualche regina magica cercherà di salvargli la vita / Dicono che le sue ultime parole famose / Siano venute dal cuore di un uomo / Si è fatto un letto sull'amore negato / Ha giocato a Jekyll e Hyde fino al giorno in cui è morto / Troppo tardi per il giovane pistolero / Per condurre una vita semplice / Troppo tardi / Questo è l'anno del pugnale / Guarda le montagne crollare / Senti il fuoco diventare freddo / L'estate diventerà inverno / L'amore diventerà pietra / Stanotte non dormirò / Il sole e la luna / Il sole e la luna / Il vento e la pioggia".

Famous Last Words
L'ultima traccia, Famous Last Words (Le ultime parole famose) si apre come una delicata ballad nella quale la leggera voce di Orzabal gioca accanto a melodie di pianoforte dolci e rassicuranti. Inizia un crescendo che introduce un accompagnamento orchestrale, studiato per emozionare e premere sull'importanza del gran finale. A metà canzone tutto cambia, e la band si introduce di colpo con energia nel sostenere, con un arrangiamento rock, la riflessione di chiusura che Orzabal esprime dopo un piccolo ma importante viaggio durato otto canzoni: "Dopo il lavaggio / Prima del fuoco / Mi decomporrò / Mi scioglierò nelle tue braccia / Mentre il giorno colpisce la notte / Siederemo davanti a una candela / Rideremo, canteremo / Mentre i santi inizieranno a marciare / A per un cuore [A for an heart] / B per un cervello [B for a brain] / Insetti ed erba / Tutto quello che rimane / Quando la luce dall'alto / Brucia un buco attraverso il nostro amore / Rideremo, canteremo / Mentre i santi inizieranno a marciare / E non porteremo avanti più la guerra / Tutto il nostro amore e tutto il nostro dolore / Sarà solo una musica / Il sole e la luna / Il vento e la pioggia / Mano nella mano moriremo / Ascoltando la band che ci ha fatto piangere / Non avremo niente da perdere, niente da guadagnare / Solo restando in questa vita reale / Ancora per un ultimo ritornello". La sublimazione dello scontro amore/odio che è proseguito per tutte le canzoni fin qui non può che essere un apocalittico auto-annullamento: la pace tra due amanti viene data dalla scomparsa di entrambi, ma anche dallo "sciogliersi" di uno nell'altra e viceversa, come l'ironica e struggente unione tra amore e morte di un Romeo e una Giulietta. Vengono evocate visioni religiose, in linea con le celestiali orchestrazioni, mentre Orzabal, che si fa pieno carico dell'importanza del messaggio, cerca di cogliere la risposta ultima all'eterna domanda di chi cerca un legame che sappia dare tutto e niente, cuore e cervello, sole e luna, vento e pioggia (questi ultime due dicotomie ripercorrono più volte i testi del disco): il dualismo espresso non può ritrovarsi nel Platonico essere perfetto, a meno che ciascuno dei due non rinunci a sé in favore dell'altro. Questa, raggiunta con complessità infinita ma anche semplicità disarmante, è la risposta. Gli ultimi secondi della canzone scendono in un silenzio immateriale, e cala il sipario.

Conclusione
Da gruppo punk/new wave a protagonisti del grande pop/rock da stadio degli anni '80, i Tears for Fears giungono con The Seeds of Love al completamento dell'arco del loro successo. Un duo diventato troppo famoso, troppo in fretta, e attraverso un decennio frenetico e impietoso che, per eccellenza, non risparmia nessuno. Questo va detto col senno di poi, dato che di lì a poco succederà il cataclisma: Curt Smith lascerà la formazione, che diventerà (cosa che del resto era già in gran parte) fondamentalmente un progetto solista del solo Roland Orzabal; il quale, prese le redini e condotto il gruppo attraverso i cinici e impenetrabili anni '90, che si dimostreranno piuttosto impietosi con lui e la sua musica fuori moda, accetterà infine di riunirsi al socio ad anni '00 inoltrati. Da lì faranno altre cose insieme, ma la loro parabola, di fatto, si è chiusa già nel 1989, con questo album. Un lavoro che critici e fan ancora stanno cercando di inquadrare: un disco riuscitissimo e ancora incompreso, oggi dopo più di trent'anni? O un deciso passo più lungo della gamba, ma anche di molto, che vede due musicisti competenti ma tutto sommato non geni immortali cimentarsi con qualcosa che va molto al di là delle loro possibilità? L'impressione è infatti che se The Seeds of Love, pur restando comunque tra i migliori album del 1989, fosse stato tenuto nella lavorazione "a freno", e se le ambizioni stilistiche dei due si fossero concentrate nell'approfondimento di ciascun genere affrontato anziché mescolare il tutto in un trionfo di strabordante eclettismo, il risultato avrebbe potuto essere di gran lunga migliore. Più conciso, più essenziale, più diretto. Anche la cornice da concept album, tentata, accennata, tratteggiata ma non ricalcata a sufficienza, se ben sfruttata avrebbe conferito all'insieme una coerenza che avrebbe reso l'intera tracklist ben più memorabile. Soffermarsi sugli "avrebbe potuto" e gli "avrebbero dovuto" è d'uopo, dato che The Seeds of Love, come terzo lavoro di una band che ha conquistato un decennio, segna purtroppo anche il respiro finale della loro forte creatività. Naturalmente, i problemi e le divisioni da cui i due saranno poi piagati sono sempre quelli che devono affrontare artisti del loro calibro e del loro successo: la realizzazione di una visione artistica talmente celestiale da non poter essere neppure intravista nella sua interezza ma con le varie parti del capolavoro ancora disgiunte e non ben combinate come dovrebbero, è tutto ciò che soprattutto Orzabal, perfezionista pienamente consapevole delle sue capacità, si ritrova in grado di ottenere. Un gigantesco e nobile affresco che però, dipinto in fretta e non con i colori e i materiali giusti, e soprattutto senza un'idea chiara dello schema finale, crolla su sé stesso una volta ascoltato. Giunti all'ultima canzone, infatti, si ha l'idea di un lungo percorso non necessario, di cose che si potevano dire in maniera molto più semplice ed efficace senza sforzarsi così tanto. È un po' come ascoltare Thick as a Brick (1973) ed Aqualung (1972) dei Jethro Tull, due album successivi l'uno all'altro, laddove il primo voleva essere la realizzazione in toto di quello che il secondo, uscito precedentemente, aveva solo tentato, e anche "per sbaglio". In quell'occasione, dopo aver visto il primo dei due album definito come "prog" (la musica "seria" dell'epoca), Ian Anderson aveva deciso di produrre un secondo lavoro, infinitamente più ambizioso, che potesse essere insieme parodia e realizzazione audace di quel concetto. Mentre, secondo molti, già Aqualung aveva tutto quello che serviva. Lo stesso accade un po' ai Tears for Fears con The Seeds of Love e Songs from the Big Chair. Il secondo è, per opinione comune, il punto stilistico e qualitativo più alto mai raggiunto dai due proprio perché non cerca di essere tale. Il primo, al contrario, è un lavoro che rende evidenti le sue irrefrenabili ambizioni ad ogni nota e ad ogni verso. E il complessivo fallimento nella concretizzazione di queste ambizioni si rende ancora più cocente quando poi i due si separano e il nome del complesso precipita tra quelli delle ex-glorie anni '80, come Simply Red, Level 42 o Men at Work, che cercano di sopravvivere in un'epoca che non è più la loro, che capiscono solo in parte ma non vivono quasi per nulla. Difficile dire se la storica divisione del mitico duo parta da The Seeds of Love, o se questo album sia solo la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso; o se, ancora, le ragioni siano altre e ben più nascoste. Di fatto, però, The Seeds of Love alla storia della musica consegna questo: non tanto ciò che è, quanto l'immagine, forse meno spettacolare ma in compenso ben più memorabile, di ciò che avrebbe potuto essere.

2) Badman's Song
3) Sowing the Seeds of Love
4) Advice for the Young at Heart
5) Standing on the Corner of the Third World
6) Swords and Knife
7) Year of the Knife
8) Famous Last Words
9) Conclusione


