Tears for Fears
Sowing the Seeds of Love
1989 - Phonogram Records

ANDREA CAMPANA
17/11/2020











Introduzione recensione
Gli anni '80 sono quasi giunti al termine e il mondo (musicale e non) nel quale i Tears for Fears hanno fatto il loro esordio all'inizio della decade è molto mutato. All'alba del decennio lo spettro della Guerra Fredda era tornato a far tremare tutti e a suggerire il quotidiano pericolo della temuta apocalisse nucleare (tema affrontato del resto dal duo in Mothers Talk, 1984). Alla fine, invece, improvvisamente quella stessa guerra decennale tra USA e URSS sta per finire. Anche perché la stessa URSS, sull'onda della Perestroika condotta da Mikhail Gorbachev, sta a sua volta per finire. Quando esce Sowing the Seeds of Love, il nuovo singolo dei Tears for Fears nonché il loro primo inedito da quattro anni, è il 21 agosto 1989. Mancano ancora dei mesi al crollo del Muro di Berlino, evento simbolo della fine del conflitto est-ovest, che sarà abbattuto a partire da novembre dello stesso anno. Ma la definitiva distensione tra le due superpotenze è già nell'aria da mesi e anche da anni e l'occidente, "vincitore" di fatto del conflitto (almeno sul piano ideologico) si affaccia ai misteriosi e oscuri anni '90. Anche la musica ha seguito, forse inconsapevolmente, questo tracciato. L'inizio del decennio, soprattutto in terra inglese e in ambito new wave, era dominato da tastiere, sintetizzatori e sperimentazioni con le nuove tecnologie elettroniche e digitali. Imperava il synthpop, le classifiche erano conquistate, anche negli Stati Uniti, da Depeche Mode, The Human League, Ultravox, Japan e più tardi dai Pet Shop Boys. Anche gli altri eredi (alla lontana o meno) dell'eredità del punk rock si approcciavano a sonorità simili: lo facevano i Police, gli ultimi Clash (soprattutto in Sandinista!, 1980), gli americani Devo, i Talking Heads, ecc. I Tears for Fears stavano più o meno nel mezzo di tutto questo, con l'album The Hurting (1983) e singoli significativi in questo senso come Mad World, pezzo rappresentativo di quell'approccio electro/synth caratteristico della musica inglese dell'epoca. Ma le cose poi cambiano: con l'incedere del decennio gradualmente le band della new wave cominciano a riscoprire gli strumenti e le sonorità acustiche. Dopo aver rigettato la retorica del rock and roll della generazione precedente, cominciano a ri-abbracciarla in una loro propria versione, che va dalla radio alle discoteche e dagli stadi a MTV. Il secondo album dei Tears for Fears, il super-successo Songs from the Big Chair (1985) esemplifica perfettamente questa graduale transizione. Nel frattempo, il panorama musicale vede l'emancipazione progressiva di generi di rock più aggressivi, ribelli e di rottura, che meglio interpretano il lascito del punk rock '77 rispetto all'involontario (in parte) adattamento commerciale della new wave e del synthpop. Si impongono l'hardcore punk e il rock alternativo americano, con gruppi come i Dead Kennedys, i Black Flag, i Minor Threat, i Circle Jerks. Il panorama americano interpreta a modo suo l'influenza del punk inglese, e il risultato è il sorgere di realtà artistiche varie, sfaccettate e interessantissime, dal funk rap dei Red Hot Chili Peppers all'alternative/jangle degli R.E.M., dal noise esasperato dei Sonic Youth fino al proto-grunge dei Replacements. La scena hard rock ed heavy metal riceve un impulso enorme: dai nomi inglesi pionieri del genere come Judas Priest e Iron Maiden (o Diamond Head, Venom e Saxon) il testimone passa alla famosa scena thrash metal americana (Metallica, Megadeth, Slayer, Anthrax) e nel contempo sorgono un'infinità di sottogeneri che si evolveranno nelle varie forme di death metal, black metal, progressive metal, alternative metal, industrial metal e così via. Il glam metal è lo sviluppo più commerciale ed è quello che con i sound da arena, i toni potenti e ritmi innestati su auto-affermazione e auto-celebrazione (in linea con il famoso edonismo anni '80) conquista le classifiche nella seconda metà del decennio, specialmente quando nel 1987 fanno il loro ingresso sulla scena dei certi signori chiamati Guns N'Roses. Il risultato: se all'inizio del decennio lo strumento dominante della scena musicale, almeno nell'ambito più commerciale, era la tastiera con le sue svariate funzioni, alla fine degli '80 la chitarra ritorna prepotentemente a far sentire il proprio stridio nelle maggiori hit, oltre che nelle produzioni sparse di tutti i più grandi artisti. Un po' quello, tra l'altro, che sta accadendo esattamente anche oggi, nel 2020, con la nuova generazione. Mentre tra il 1987 e il 1990 in America i gruppi glam metal pubblicano tutti i loro dischi classici e le band alternative si emancipano sempre di più con nuovi influenti nomi come Pixies e Jane's Addiction, anche in Gran Bretagna gruppi discosti dalla "moda" new wave come gli Smiths e i Cure di Disintegration (1989) insistono sull'uso delle chitarre e sulla salvaguardia delle sonorità rock più classiche. Sempre nel 1989 poi fanno il loro esordio gli Stone Roses, padrini e di fatto inventori del brit rock anni '90 che avrebbe preso piede di lì a poco. In questo panorama, la pubblicazione da parte dei Tears for Fears di una canzone come Sowing the Seeds of Love trova perfettamente posto. Spieghiamo subito il perché.

Sowing the Seeds of Love
Sowing the Seeds of Love esce in differenti formati: uno in singolo da 7 pollici, uno in singolo da 12 pollici/cd e uno in cd per il mercato statunitense. Come al solito, ai diversi formati vengono destinate differenti b-sides e versioni variabili del pezzo principale stesso. Il primo contiene come b-side il successo Shout del 1985; il secondo una versione completa di Sowing the Seeds of Love, la b-side Tears Roll Down e un remix "americano" sempre di Shout; il terzo contiene la versione originale del singolo e un edit radiofonico, sempre studiato per l'America. Sowing the Seed of Love (Seminando i semi dell'amore) inizia in una maniera che già non può non richiamare il mondo dei Beatles e degli anni '60. I suoni della batteria si odono dapprima alla rovescia, come accadrà poi in un'altra sezione della canzone: i Beatles lo hanno fatto più volte, in Strawberry Fields Forever e in Blue Jay Way, entrambe canzoni del 1967. Il pezzo parte, con un ritmo sincopato basato su basso e tastiere, sopra il quale Orzabal si scatena nel suo pseudo/rap melodico. La strofa è retta da lui, che si esprime in virtuosismi vocali lasciandosi trascinare dall'ispirazione, a seconda del verso che sta cantando e dalla forza che vi vuole imprimere. Nel refrain entra il compagno Smith, che in contrasto con il cantato sciolto e istrionico di Orzabal si esprime invece in linee melodiche e delicate, più tipiche del suo proprio stile vocale. Dopo due ripetizioni, strofa/refrain/strofa/refrain, la canzone inizia a perdersi in divagazioni strumentali e parentesi stilistiche che ricompongono lo schema di un "pastiche", ossia di un insieme di elementi raccolti insieme per creare un collage di forma precisa. Sembra di ascoltare l'Abbey Road Medley (1969) che occupa la seconda facciata dell'omonimo disco dei Beatles, l'ultimo ufficiale della loro carriera; il medley è composto appunto da una serie di spunti, canzoni sviluppate a metà o solo accennate, incollate tra loro in modo da dare vita a un'unica lunga composizione multi-sfaccettata. Cosa che, tra l'altro, anticipa le classiche suite divise in più sezioni del prog. I Tears for Fears fanno lo stesso, anche se non sembra che le varie sezioni siano state scritte separatamente, bensì tutte insieme. I riferimenti Beatlesiani si sprecano, dall'assolo di tromba alla Penny Lane al finale corale alla Hey Jude, dal breve intermezzo di chitarra alla I've Got a Feeling al tipico incedere "Maccartiano" degli accordi. È Paul McCartney, in effetti, quello che più si sente qui, e non tanto John Lennon. Anche se Lennon viene richiamato non musicalmente, bensì idealmente, nel caratterizzare il pezzo a livello testuale. È noto il grande impegno di Lennon in politica, contro la guerra e a favore dei rivoluzionari degli anni '60 e '70. Non che i Tears for Fears si possano esattamente definire tali (certo non al livello a cui lo è stato Lennon), ma l'idea di base della canzone, sviluppata in seguito alla vittoria di Margaret Tatcher nelle elezioni del 1987, parla da sé. Ecco il testo della canzone e che cosa significa il messaggio del titolo collegato alle visioni politiche di Orzabal e Smith: "Il momento è giusto / Prendiamo posizione / E scuotiamo le visioni / Dell'uomo comune / Il treno dell'amore viaggia da costa a costa / Il dj è l'uomo che amiamo di più / Potresti essere, potresti essere morbidamente libero / E distruggere ogni speranza di democrazia / Come dice il titolo di testa sei libero di scegliere / E allora hai un uovo in faccia e fango sulle scarpe / Uno di questi giorni si accorgeranno di quanto sono tristi [they're gonna call it the blues] / Seminando i semi dell'amore, i semi dell'amore / Spio lacrime nei loro occhi / Guardano al cielo per qualche tipo di intervento divino / Il cibo va sprecato, così bello da mangiare, piacevole da toccare / Nonna politicante con i tuoi alti ideali / Non hai idea di cosa sente la maggioranza? / Quindi senza l'amore o una terra promessa / Siamo instupiditi dal piano del governo / Butta fuori lo stile e riporta le paranoie [kick out the style and back the jams, vedi sotto] / Seminando i semi dell'amore, i semi dell'amore / Gli uccelli e le api, la mia ragazza e io, in amore / Senti il dolore / Parlane / Se sei un ricercato / Gridalo / Cuori aperti, sentiamoli / Menti aperte, pensiamoci / Tutti quanti, leggiamone / Tutti quanti, gridiamolo / Leggiamolo nei libri, negli anfratti e negli angoli, ci sono libri da leggere / Tempo di mangiarti le tue parole / Ingoiare il tuo orgoglio, aprire i tuoi occhi / Ogni minuto di ogni ora / Amo un girasole / E credo nel potere dell'amore / Il potere dell'amore". Un testo lungo ed esaustivo, affidato a parti di "rap" ma anche dolci melodie che tutto hanno a che vedere appunto con quella visione "ottimistica" e costruttiva tipicamente '60s, che a tali gioiose atmosfere affidava appunto la trasmissione della positività del messaggio. I Tears for Fears fanno lo stesso, lamentando (un po' demagogicamente, ma siamo negli anni '80) l'incapacità dei governi ma prendendosela anche con l'elettore che, pur potendo scegliere, compie la scelta sbagliata e si ritrova con "an egg on your face and mud on your shoes", con l'ultimo verso che ovviamente fa riferimento ad Another One Bites the Dust, successo dei Queen del 1980. Un altro riferimento è quello alla canzone di Elton John e Bernie Taupin intitolata I Guess That's What They Call It the Blues: essere "blue" in inglese significa essere triste, e così saranno secondo i Tears for Fears coloro incapaci di esprimere un voto importante o di prendere le decisioni giuste in materia di politica. E quali sarebbero? Ovviamente quelle avverse alla parte di Margaret Tatcher, la "nonnina politicante" indicata nella canzone, che all'epoca ha in effetti sessantaquattro anni. Senza entrare troppo nel merito delle scelte politiche dei Tories, i due procedono a ricollegarsi con i Beatles, al messaggio universale di diffusione dell'amore e in generale alla ingenua positività di fine anni '60. Per farlo ribaltano uno schema imposto dalla famosa canzone Kick Out the James degli MC5, gruppo americano fondamentale per il garage rock, genere che di lì a pochi anni darà vita (dall'America alla Gran Bretagna) appunto al punk. Kick Out the Jams significa scrollarsi di dosso le paranoie e i problemi e sfogarsi con energia e a mente spenta per non pensare a niente. Per i Tears for Fears invece è proprio il momento di ricominciare a "pensare", rinunciando allo "stile" del punk, per quanto in voga, e riprendendo a farsi "problemi", anche se ciò significa vivere ovviamente un'esistenza più difficoltosa. Questo è quindi un modo, per il duo, di negare le proprie origini musicali non tanto nella forma (che è comunque indissolubilmente Beatlesiana) quanto nell'ideologia: il "no future" nichilista dei Sex Pistols viene definitivamente rigettato, laddove chiaramente il futuro di ogni individuo dipende da ciò che egli fa della sua vita. Ed ecco quindi il messaggio finale: leggete, pensate, impegnatevi, fate qualcosa di costruttivo. Questo è nella sostanza il proclama politico dei Tears for Fears alla fine di un decennio difficile come gli '80. Metà inno di John Lennon, metà nostalgia del decennio utopistico per eccellenza. E, ingenuo quanto si vuole, ma funziona alla grande. Manca solo il tocco finale: il video, in assoluto il più noto e apprezzato dei Tears for Fears, che vede i due muoversi tra paesaggi fantasiosi con disegni animati alla Yellow Submarine e riferimenti immaginifici a panorami psichedelici del tutto fuori tempo, nel 1989, ma perfettamente in accordo con i toni della canzone. Ancora una volta, i Tears for Fears conquistano tutto.

Tears Roll Down
La b-side del singolo è una canzone intitolata Tears Roll Down (Le lacrime scendono giù). Si tratta di una prima versione, spuria e sperimentale, di quella che diventerà poi Laid So Low (Tears Roll Down), singolo del 1992 che vedrà per la prima volta Roland Orzabal (autore assieme a Dave Bascombe) portare da solo il nome Tears for Fears, dopo l'uscita dal gruppo di Smith nel 1991. Il singolo del 1992, evoluzione di questa canzone, verrà contenuto nella prima raccolta ufficiale del gruppo, alla quale darà anche il titolo, con sottotitolo Greatest Hits 82-92. Qui, in ogni caso, abbiamo solo una prima traccia di quello che diventerà poi il successo di tre anni dopo. La canzone, come buona parte di Seeds of Love (l'album) è in gran parte influenzata da sonorità latine ed etniche, pur non rinunciando alle atmosfere tese e profonde tipiche del duo. Gran parte di questa versione è strumentale, e la voce di Orzabal interviene solo a metà canzone: "Nel vuoto del silenzio / Dove piangiamo senza suono / Dove le lacrime scendono giù / Le lacrime scendono giù / E dove la violenza di tua madre / Ha spedito la tua anima sottoterra / Dove le lacrime scendono giù / Le lacrime scendono giù". Il testo è breve e conciso, consistente in soli due versi che sembrano richiamare le tematiche classiche delle prime canzoni dei Tears For Fears, come The Hurting, Pale Shelter e Mad World, relative a traumi e disagi infantili.

Shout
Shout (Grida) è uno dei più grandi successi dei Tears for Fears, risalente al 1985 e famosissimo grazie all'intensa circolazione del relativo videoclip. Un super-pezzo da stadio, con atmosfere rock potenti e rimbombanti, fill di batteria alla Phil Collins, echi, cori e un bell'assolo di chitarra facile da seguire e da apprezzare. Shout, pur essendo il punto più alto (o uno dei punti più alti) della produzione del duo a livello commerciale, rappresenta in qualche modo anche un po' la punta dell'immenso iceberg che è la loro discografia. Questa canzone, assieme ad Everybody Wants to Rule the World e a un paio di altre (tra cui anche Sowing the Seeds of Love, appunto) costituisce più o meno tutto ciò che dei Tears for Fears ricorda l'ascoltatore di musica occasionale o appassionato superficiale. Shout, pretesa di inno rivoluzionario in un'epoca di profondo conservatorismo, assicura con la sua uscita il successo alla band ma ha anche il doppio effetto di nascondere "tutto il resto", trasformando effettivamente il gruppo, nonostante l'impegno infuso in ogni sforzo musicale, in una effettiva e tipica meteora anni '80. Il testo della canzone, che parecchi conosceranno a memoria, è questo: "Grida, grida, fai uscire tutto / Questo è ciò a cui non posso rinunciare / Andiamo, sto parlando a te, andiamo / In tempi violenti non dovresti vendere la tua anima / In bianco e nero, davvero dovrebbero sapere / Quelle menti a senso unico ti hanno preso per un lavoratore inutile [working boy] / Dì loro addio, non dovresti saltare per gioire / Ti hanno dato la vita, e in cambio gli dai l'inferno / Freddi come ghiaccio, spero che vivremo per raccontare la storia / E quando avrai abbassato la guardia / Se potessi farti cambiare idea, mi piacerebbe spezzarti il cuore". Il pezzo naturalmente funziona benissimo, ma l'idea di inserirlo a forza come b-side di Sowing the Seeds of Love in qualche modo sembra sminuire il ruolo di quest'ultima canzone: come se il gruppo non fosse abbastanza certo che la nuova composizione possa funzionare da sola, affiancandole un "fratello maggiore" per accompagnarla in sicurezza sul terreno impervio del mercato discografico. Shout è sempre grandiosa e nel disco Songs from the Big Chair funziona benissimo; ma qui, nel 1989, non c'entra niente.

Conclusioni
Con Sowing the Seeds of Love, va da sé, per i Tears for Fears si apre tutta una nuova fase musicale, distinta da quelle precedenti ma allo stesso tempo un po' conseguenza delle stesse. Il nuovo approccio, se vogliamo esagerare, "prog" che il duo adotta per le musiche del terzo album (che non a caso si intitolerà The Seeds of Love) fa da specchio alla percepita importanza del loro nome nella scena. Roland Orzabal e Curt Smith sono tra i musicisti più famosi del mondo, una coppia di volti noti degli anni '80 celebri quanto quelli di George Michael e Andrew Ridgeley o di Neil Tennant e Chris Lowe. Come molte altre celebrità musicali prima di loro (non è fuori luogo citare ancora i Beatles), i due comprendono l'importanza del loro ruolo, in cima alla scena pop ma anche a metà strada verso quella rock. Oltre a riaffermare l'importanza della componente strumentale nella loro musica, cosa che del resto nel 1989 tutti quanti più o meno si apprestano ormai a fare (di nuovo), i Tears for Fears tengono ad imprimere nella musica stessa messaggi sempre più importanti. Chiaro, non diventano i Pink Floyd, ma il tentativo di proclama politico di Sowing the Seeds of Love si sposa, per esempio, con l'importanza del messaggio sociale di Woman in Chains, inno alla libertà e all'emancipazione femminile che per l'occasione viene affidato anche alla vocalità di una "scoperta" del duo, Oleta Adams. Il singolo Beatlesiano apre tutto questo discorso: i Tears for Fears guardano sé stessi e scoprono dei comunicatori, oltre che degli artisti, con un ascendente su di una intera generazione e che necessita di essere bene impiegato. Come i Beatles (John Lennon in special modo), Orzabal e Smith si ergono a figure fondamentali, commentatori e interpreti, non più solo osservatori, del loro tempo. E dal commento all'impegno il passo è breve, anche se nessuno dei due (per fortuna) sceglie mai di intraprendere una carriera politica o di sposare cause ideologiche specifiche. Il messaggio dietro a Sowing the Seeds of Love è in realtà un po' sempre quello, universale e perciò facile da predicare, di All You Need Is Love. Un tipo di messaggio persino sdegnato e ridicolizzato dalla generazione del punk, che agli esordi favoriva invece un certo nichilismo cinico che poi non aveva potuto però, con la crescita della generazione in questione, non recuperare quel tanto di caratura ideologica che mancava al punk. Il quale, con i Sex Pistols si limitava piuttosto ad avventarsi verso il fallimento del capitalismo al grido di "no future". I Tears for Fears sono in realtà tra coloro che, in vari momenti degli anni '80, cercano volentieri un collegamento con i vituperati '60s: l'epopea hippie, vista non più da dieci, ma da vent'anni di distanza, non sembra più così ridicola e ingenua. Esattamente come a noi, nel 2020, non sembrano più così biasimabili generi di vent'anni fa all'epoca spesso derisi come il nu metal o il pop punk. Nel 1989, in Regno Unito questo "ponte" con la generazione hippie si va creando specialmente grazie all'attività dei "giovani", le nuove leve che di quegli hippie sono appunto i figli: gli Stone Roses, poi i Blur (specie a partire dal secondo disco, Modern Life Is Rubbish) e infine ovviamente gli Oasis, passando per gli altri nomi della famosa scena Madchester come Happy Mondays e Inspiral Carpets e giungendo alla psichedelia dei primi Verve. Sono stati i Tears for Fears a riaprire questo "dialogo" con quell'epoca dimenticata e poi riscoperta? No. A dire il vero già a inizio anni '80 c'era Julian Cope, con i suoi The Teardrop Explodes, a rivisitare in una maniera tutta sua l'eredità del rock psichedelico anni '60, mentre a metà del decennio gli ultra-sottovalutati XTC assumono dal canto loro l'identità fittizia dei Dukes of the Stratosphear, che richiama il dualismo Beatles/Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. Insomma, quella dei Tears for Fears in tutto questo è più una singola battuta in un dibattito molto più ampio, e che del resto non si limita a questa specifica tendenza: già da Songs from the Big Chair i due stanno riscoprendo un po' tutto il rock classico, passando anche per esempio per i Genesis e i Pink Floyd. I Beatles sono quindi necessariamente un nome da affrontare, ma non costituiscono l'esclusiva indicazione della strada da battere di lì in poi. Piuttosto, con il lontano eco della sua influenza il quartetto di Liverpool sembra suggerire ai Tears for Fears cosa fare, in sostanza, del proprio successo: il che non significa che debbano farlo come loro, o alla stessa maniera, ripetendone lo stesso percorso. Ma l'occhio ispirato con il quale il duo guarda alla propria musica alla fine degli anni '80 non può non ricordare il medesimo spirito che guidava le produzioni di tutti i grandi artisti, Beatles in primis, alla fine degli anni '60. Quello spirito vent'anni prima aveva dato vita al prog, ed ecco perché ha senso di parlare dell'approccio dei Tears for Fears in Sowing the Seeds of Love e nell'album quasi omonimo come di un approccio "prog", rilevando la ricerca crescente di complessità e di spessore che i due non intendono negare alla propria musica. Cosa che renderà The Seeds of Love, se non il disco qualitativamente più riuscito dei Tears for Fears, o l'ultimo loro "grande" album, perlomeno un lavoro di estremo interesse.

2) Tears Roll Down
3) Shout


