TEARS FOR FEARS
Songs from the Big Chair
1985 - Phonogram Records

ANDREA CAMPANA
13/04/2020











Introduzione recensione
Songs from the Big Chair (Canzoni dalla "grande sedia") è il secondo album in studio dei Tears for Fears, pubblicato il 25 febbraio 1985 per la Phonogram Records. Prodotto da Chris Hughes, questo nuovo lavoro vede il duo inglese formato da Roland Orzabal e Curt Smith svettare in cima alla scena new wave inglese, conquistando le classifiche mondiali con singoli riuscitissimi, video accattivanti, melodie coinvolgenti e suoni all'avanguardia. Questo è l'album che, più di ogni altro, consegna i Tears for Fears alla storia della musica, decidendo il loro successo presso un'intera generazione, e facendone un simbolo degli anni '80 e di tutto ciò da cui quell'epoca è caratterizzata: suoni plastici, elettronici, colmi di echi e riverberi, con basi sintetiche e giungle di sintetizzatori. L'espressione, forse fino a un certo punto anche involontaria (ma non del tutto) di un'epoca povera di valori e di impegno, nella quale imperano edonismo, culto dell'individuo e megalomania. L'epoca di Ronald Reagan negli Stati Uniti, e di Margaret Tatcher in Gran Bretagna. Risorge la minaccia della guerra nucleare, impera il consumismo indiscriminato e vige l'ideologia capitalista più bieca. I Tears for Fears, da parte loro, non di discostano apertamente da questo contesto: anzi, per certi versi, ne sono la colonna sonora. Non parliamo della scena hardcore punk californiana, apertamente anti-Reaganiana, e nemmeno del punk reggae dei Clash, anti-sistema ma ascoltato da tutti. No, Orzabal e Smith accettano senza problemi il loro ruolo di superstar, volti televisivi e video-musicali presto noti in tutto il mondo, conquistatori di palcoscenici da stadio e trionfatori nelle charts. Eppure, in Songs from the Big Chair non è questo l'unico aspetto che emerge. Tra le canzoni, tra le righe, tra i versi, negli spazi meno evidenti e meno notati, i due musicisti riescono comunque ad inserire i rimasugli etici di quella scuola punk con la quale sono, sulla carta, nati in quanto musicisti. La loro è una critica, se di critica si tratta, artistica, non politica o sociale. Di nuovo, non si parla dei Clash. Le canzoni del disco descrivono un mondo fatto di immagini, quelle osservate e rielaborate dai Tears for Fears, che non rispondono ad un indirizzo ideale preciso, ma vanno interpretate. Il commentario sociale e contemporaneo si mescola con ispirazioni astratte, citazioni letterarie, omaggi a musicisti di alto lignaggio, e criptiche derive linguistiche. Anche musicalmente, Songs from the Big Chair è un lavoro che non segue una direzione precisa e univoca, come potrebbe pensare chi lo conosce solo tramite i singoli più celebri. C'è quel generico pop/rock che, derivato dalla new wave, ha ormai smussato le parti più ruvide ed inessenziali dello stile musicale, per ridare spazio, dopo l'exploit synth-driven di inizio anni '80, nuovamente a chitarre e strumenti "suonati". C'è anche, però, una certa attitudine rivolta al pubblico più preparato, la quale pesca, alla lontana, dal rock progressivo, dai Genesis, dai Beatles, dai Pink Floyd e da Robert Wyatt. Un'attitudine che tradisce una notevole ambizione artistica, imprevista per le forme più di successo del genere new wave. In realtà, esplorando la realtà musicale tanto dei Tears for Fears quanto di diversi altri gruppi loro coevi (come i Simple Minds, i Depeche Mode, i Duran Duran), si possono riscontrare diversi spunti interessantissimi nei meandri di album che però, presso un grande pubblico, sono noti più che altro in virtù del tale singolo, enorme successo radiofonico, o del tale videoclip, passato un numero infinito di volte su MTV. Songs from the Big Chair è appunto uno di quegli album: chi conosce la musica, e specialmente chi è musicista e/o produttore, e si sforzi di muovere oltre l'apparenza della natura "commerciale" dello stile dei Tears for Fears, troverà presto in questo disco una quantità di idee nascoste, eclissate per paradosso proprio dal successo dei pezzi più noti e amati. Questo è proprio il punto: ecco che la qualità musicale, all'epoca attribuita principalmente a band impegnate, come appunto i Clash o gli U2, o dal suono indiscutibilmente rock, come i Guns N' Roses (che arriveranno due anni dopo) o i primi Metallica, può essere invece ravvisata anche in un lavoro dalle pretese non programmaticamente "rivoluzionarie" come questo. Il rock dei Tears for Fears, se di rock si tratta, non è diretto, è sfumato. Non è duro, è composito. Non è energico, è ricercato.

Shout
Il disco parte con un preannunciato inno di rock da stadio. Già un grande successo dei Tears for Fears, Shout (Grida) è una delle canzoni di punta del disco: uno sfogo arena rock tutto anni '80, con strofe semplici ma dirette, percussioni affidate ad echi e occhieggianti al "gated reverb" di Phil Collins (il fill di batteria non può non ricordare quello di In the Air Tonight, successo di Collins del 1981) e schitarrate volentieri distorte. Il ritornello è da cantare tutti insieme, fatto apposta per il pubblico allargato e desideroso di energia e divertimento. Il testo, com'è noto, è un inno alla libertà, al lasciarsi andare e al dare espressione alla propria unicità. Ecco le parole: "Grida, grida, fai uscire tutto / Questo è ciò a cui non posso rinunciare / Andiamo, sto parlando a te, andiamo / In tempi violenti non dovresti vendere la tua anima / In bianco e nero, davvero dovrebbero sapere / Quelle menti a senso unico ti hanno preso per un lavoratore inutile [working boy] / Dì loro addio, non dovresti saltare per gioire / Ti hanno dato la vita, e in cambio gli dai l'inferno / Freddi come ghiaccio, spero che vivremo per raccontare la storia / E quando avrai abbassato la guardia / Se potessi farti cambiare idea, mi piacerebbe spezzarti il cuore". La canzone si trascina sopra un ritmo sostenuto e incalzante, sul quale si sovrappongono sempre più strumenti (tastiere, bassi, synth, basi elettroniche, chitarre funky, sassofoni), in maniera da trascinare sempre di più l'ascoltatore con sé. L'intento di Orzabal e Smith non era forse, inizialmente, quello di creare una canzone tanto coinvolgente, ma la produzione azzeccata del pezzo e, da non dimenticare, il maestoso videoclip d'accompagnamento (trasmesso fino alle sfinimento sulla MTV di allora) non possono evitarne il successo. Shout è, in qualche modo, l'introduzione alla parte più "commerciale" di Songs from the Big Chair, ossia a quella più nota al pubblico ampio, e più amata dai conoscitori del duo.

The Working Hour
Con The Working Hour (L'ora lavorativa), inizia la parte di Songs from the Big Chair più inaspettata, complessa, ricercata, artistica. La canzone parte con un sassofono in libertà, che introduce pian piano percussioni dal carattere etnico ("va" molto, negli anni '80, la musica africana e tribale di vario genere) con un crescendo di atmosfera. Poi, un riff di chitarra molto post-punk crea il momento in cui la canzone inizia una specie di alternanza, tra due anime: una più positiva, dal carattere quasi speranzoso, e una invece profondamente pessimista, disperata. Il testo: "Queste cose che mi hanno detto / Possono riarrangiare il mio mondo / Il mio dubbio, in tempo / Ma dentro e fuori / Questa è l'ora di lavorare / Siamo pagati da coloro che imparano dai nostri errori / Questo giorno, e questa era / Per tutti, e non per uno / Tutte bugie, tutti segreti / Messi gli uni sopra gli altri / E la paura è una cosa così maligna / Mi circonda con le catene / Scoprire / Scoprire / Cosa riguarda questa paura". Il mondo lavorativo, immaginato da Orzabal come la realizzazione di un incubo ma allo stesso tempo il fondamento della società, viene rappresentato strutturalmente come un'entità irrinunciabile ma dispotica, che "riduce in catene" ma paga in cambio. Ci si immagini un classico edificio fatto di uffici a cubicolo, posti gli uni sopra gli altri, piano su piano e stanzone su stanzone. In cima, i capi della catena di comando, che pagano i sottoposti per "sbagliare" al posto loro, e imparare come fare meglio. Una concezione assolutamente utilitaristica, nonché Reaganiana, del lavoro negli anni '80, che annulla l'individuo non emergente ("per tutti, e non per uno") e genera una paura senza nome, che può avere molti volti: la paura di fallire nel lavoro, di non sfamare la propria famiglia, di nascere e morire solo all'interno del circuito lavorativo, senza più avere una vita al di fuori. Da qui, l'esigenza di riconoscere questa paura, darle un nome, un volto, in modo da poterla finalmente affrontare. Uno dei momenti più belli del disco è proprio quando Orzabal grida, in The Working Hour "Find out, find out, what this fear is about".

Everybody Wants to Rule the World
Si passa, di nuovo, alla parte "luminosa" di Songs from the Big Chair, quella fatta di suoni più accessibili, digeribili, easy-listening, radio-friendly. Non è un caso che Everybody Wants to Rule the World (Tutti vogliono comandare il mondo), altro celeberrimo singolo tratto dall'album, si trasformi all'epoca in una specie di inno generazionale, varcando i confini dei generi e arrivando ad ogni tipo di pubblico. Chi ha vissuto a metà anni '80 si deve ricordare per forza di questa canzone, come uno dei grandi "tormentoni" dell'epoca. Il suono è ritmato, orecchiabile, tranquillamente ballabile (grazie anche alla base di basso elettronico che ne decide la cadenza), e le vocalità più leggere e gentili di Smith (rispetto a quelle di Orzabal) sono quello che ci vuole per creare una canzone piacevole e persino, per certi versi, rilassante. Ecco il testo: "Benvenuto nella tua vita / Non si torna indietro / Anche quando dormiamo / Ti troveremo / Comportati meglio che puoi / Volta le spalle a madre natura / Tutti quanti vogliono comandare il mondo / È il mio progetto / È il mio rimorso / Aiutami a decidere / Aiutami a trarre il massimo / Da libertà e piacere / Niente mai dura per sempre / Tutti vogliono comandare il mondo / C'è una stanza dove la luce non ti troverà / Si stringono le mani mentre i muri crollano / Quando lo faranno sarò proprio dietro di te / Così grato che ce l'abbiamo fatta / Così triste che l'abbiano dovuta far svanire / Tutti vogliono comandare il mondo / Non posso sopportare questa indecisione / Sposato con una mancanza di visione / Tutti vogliono comandare il mondo / Dì che non ne avrai mai, mai, mai, mai bisogno / Un titolo di testa, perché crederci? / Tutti vogliono comandare il mondo". Come si può leggere, un significato che contrasta fortemente con le musicalità appaganti e positive della canzone. Compare un tema già presente nella musica dei Tears for Fears, e in questo stesso album (in Mothers Talk, vedi sotto): la distopia, la guerra, il controllo. La paura di un cambiamento epocale che limiti la libertà e cerchi l'ebrezza del potere. Una paura, negli anni '80, ben viva e conscia.

Mothers Talk
Mothers Talk (Le madri parlano) è, qualitativamente parlando, il picco dell'intero disco. Una canzone con un ritmo forsennato, bassi concitati, orchestrazioni che colpiscono come pugnalate ed effetti confusi che ne decidono l'atmosfera fumosa, apocalittica, densa, quasi da attacco di panico. La caratterizzazione della canzone in tal guisa non è casuale, perché il testo, che si può leggere qui sotto, parla (portando un po' avanti, e spingendo all'estremo, i temi toccati in Everybody Wants to Rule the World e Shout) di un fallout nucleare. Nello specifico, l'ispirazione è l'opera satirica When the Wind Blows (che viene citata direttamente) di Raymond Briggs, del 1982. I protagonisti sono una coppia anziana che, all'indomani dello scoppio di una guerra atomica, adottano ogni genere di confusa misura per proteggersi, fiduciosi che il governo e le istituzioni abbiano pensato a tutto per proteggerli, e così facendo andando invece incontro alla loro fine. Il testo: "La mia espressione cambia con il tempo / Fine settimana, possiamo cavarcene fuori / La mia espressione cambia con il tempo / Possiamo cavarcene fuori / Quando il vento soffia / Quando le madri parlano / Non è che non sei buono abbastanza / È solo che possiamo renderti migliore / Dato che hai pagato il prezzo / Possiamo tenerti giovane e tenero / Seguendo le orme di una pira funeraria / Sei stato pagato per non ascoltare, ora la tua casa va a fuoco / Svegliami quando la faccenda inizia, quando tutto comincia a succedere / Alcuni di noi sono orripilati / Altri non ne parlano / Ma quando il clima comincia a bruciare / Allora saprai che sei nei guai / Seguendo le orme di una ragazza soldato / È tempo di metterti i vestiti ed affrontare il mondo / Non senti che la tua fortuna sta cambiando / Quando tutto comincia a succedere / Posa il tuo capo vicino al mio cuore / Il battere del tamburo è la paura del buio". Le parole già spiegano tutto, ma il cantato alternato e frenetico dei due Tears for Fears, quasi un lamento, o un grido, ne impreziosisce l'effetto. Ancora oggi, si potrebbe sfidare un conoscitore solo superficiale della musica del duo ad ascoltare Mothers Talk e a non restare profondamente stupito. Questo è davvero il brano nel quale, in un modo o nell'altro, Orzabal e Smith riescono a mettere tutti sé stessi, raggiungendo un risultato musicale e artistico oltremodo notevole.

I Believe
Di certo il momento più profondo ed inaspettato del disco, assieme alla traccia di chiusura Listen, questa I Believe (Io credo) è una ballad pianistica interpretata come al buio, con strumenti spogli e arrangiamento essenziale, in forte contrasto con il resto della tracklist. Il protagonista assoluto della canzone è Orzabal, che con un'emotività tutta derivata dalla prima epoca stilistica del gruppo, richiama emozioni e le mette in musica in una delle sue poesie più belle: "Io credo che quando la ferita e il dolore saranno andati, noi saremo forti / Sì, noi saremo forti / E credo che se piango mentre scrivo queste parole / È tanto assurdo? O sto facendo sul serio?/ Io credo che se tu sapessi per che cosa queste lacrime sono piante / Loro cadrebbero semplicemente come ogni goccia di pioggia / Questo è perché credo che sia troppo tardi / Per ciascuno da poter credere / Io credo che se tu pensassi per un momento, ti prendessi il tuo tempo / Non ti rassegneresti al tuo fato / E io credo, che se sta scritto nelle stelle va bene, non posso negarlo / Che sono una vergine anch'io / Io credo, che se ti viene la pelle d'oca mentre ascolti questa canzone / Potrei sbagliarmi, oppure ho toccato un nervo? / Questo è perché credo che sia troppo tardi / Per ciascuno da poter credere / Io credo, che forse da qualche parte / Nell'oscurità, nella notte, nella tempesta / Nel casinò, casinò occhi ispanici / Io credo, no io non credo che ogni volta che senti un neonato piangere / Tu non possa non sentire il formarsi di una vita / Il formarsi di una vita". La "ferita" a cui si fa riferimento all'inizio è forse una citazione del titolo del primo album del duo, The Hurting, che potrebbe rappresentare anche quel necessario trauma di crescita che occorre per irrobustirsi: dopo il primo disco, i Tears for Fears stanno cambiando, diventando maturi e cercando nuove strade. In una serie di immagini altamente ispirate, Orzabal elenca convinzioni ma anche paure, speranza, aneliti e rimpianti, con un'intensità mai raggiunta prima in alcuna sua canzone. I Believe, secondo quanto scritto nelle note dell'album, è dedicata a Robert Wyatt (se sta ascoltando, sic.): lo storico batterista e leader dei Soft Machine, gruppo prog inglese di culto, che i Tears for Fears hanno omaggiato già una volta con una cover della sua Sea Song, nel 1984.

Broken
Broken (Piegati) inizia con un ritmo rock da subito deciso e spedito, che viene presto raggiunto da un riff di chitarra distorta degno delle tendenze del rock più alternativo anni '80, e che in quanto tale preannuncia un altro momento di Songs from the Big Chair assolutamente unico. Del tutto ragguardevoli in questo pezzo sono basso e chitarra, quest'ultima specie nello splendido assolo in dissonanza suonato dal chitarrista Neil Taylor. Broken è in realtà una canzone dei Tears for Fears non propriamente nuova: era infatti già comparsa nel 1982 come lato b del singolo Pale Shelter, e con il titolo We Are Broken, in una versione più lenta e meno "rock". Qui, il brano funge da parte prima di una ideale trilogia: Broken/Head Over Heels/Broken Reprise. Nel pezzo, richiamando la tradizione prog della citazione interna alle composizioni, viene anticipata la melodia introduttiva appunto di Head Over Heels, la traccia che seguirà, nella tracklist, subito dopo. Ecco le parole, cantate da Orzabal: "Tra la ricerca e il bisogno di far funzionare tutto / Smetto di credere che tutto andrà a posto / Piegati, siamo piegati / Cammino su per la collina, ma mi fanno girare di continuo / Mi muovo in segreto quando i miei piedi sono sul terreno / Piegati, siamo piegati / E nell'occhio della mia mente / Un piccolo ragazzo provoca rabbia ad un piccolo uomo / Divertente come il tempo vola". Ancora una volta, il tema della società opprimente e della confusione dovuta alla contemporaneità destabilizzante prendono il sopravvento, premendo sull'individuo (Orzabal) che, sforzandosi di restare legato alla propria realtà, cerca di non farsi sopraffare. Il "tempo che vola", rappresentando un vero e proprio viaggio nell'occhio della mente del narratore verso una realtà "altra" (forse il passato, forse il futuro), fa da collegamento con la traccia successiva. Anche Head Over Heels, a sua volta, sarà chiusa dal medesimo verso, ridando spazio al rock aggressivo e furioso di Broken. Questa è, in conclusione, un'altra di quelle canzoni da far sentire assolutamente a chi conosce i Tears for Fears solo per i loro successi da classifica.

Head Over Heels / Broken (Live)
Head Over Heels (Fuori di me) è la canzone più positiva, almeno a livello di sonorità, di tutte quelle presenti in questo disco, e anche quella più lontana dalla new wave e più simile alle forme del rock classico, nello specifico allo stile dei Beatles. Pochi azzeccati accordi di piano guidano una canzone d'amore vera e propria, che però, essendo dei Tears for Fears, non può non passare attraverso un testo analitico, criptico e anche un po' paranoico: "Volevo stare da solo con te / E parlare del tempo / Ma le tradizioni che posso tracciare contro la bambina sul tuo volto / Non possono sfuggire alla mia attenzione / Tieni la distanza con un sistema di tatto / E gentile persuasione / Sono perso in ammirazione, ho davvero così tanto bisogno di te? / Stai sprecando il mio tempo, stai solo perdendo tempo / Qualcosa succede e sono fuori di me / Non me ne accorgo mai finché non sono fuori di me / Qualcosa succede e sono fuori di me / Non prendermi il cuore, non spezzarmi il cuore, non gettarlo via / Ho acceso un fuoco e l'ho guardato bruciare / Ho pensato al tuo futuro / Con un piede nel passato, adesso, quanto durerà? / No, no, no, non hai ambizione? / Mia madre e i miei fratelli vivevano nell'aria pulita / E sognando che io fossi un dottore / È difficile essere un uomo quando c'è un'arma nella tua mano / Oh, e io mi sento così / E questo è il mio quadrifoglio / Io sono in linea, una mente aperta / E questo è il mio quadrifoglio / E nell'occhio della mia mente / Un piccolo ragazzo che se ne va in giro / Divertente come il tempo vola". La canzone si chiude con un coro nonsense (la la la la la) che non può non richiamare canzoni come Hey Jude o All You Need Is Love: classico inno da cantare per celebrare tutti insieme. Nel complesso, la canzone sembra una riflessione sullo sbocciare di un amore ingenuo, forse adolescenziale, e tendenzialmente non ricambiato. Head over heels (letteralmente: la testa, o la mente, sopra i tacchi) è un'espressione inglese intraducibile che, in italiano, richiama uno stato generico di esaltazione ed euforia che potrebbe facilmente essere proprio di un innamoramento. Un tuffo nel passato, in quella finestra aperta già alla fine di Broken, alla riscoperta di quando i sentimenti erano più semplici ma già erano pronti ad inasprirsi, complicarsi, e preparare il terreno per le difficoltà dell'età matura. E infatti, "uscito" dall'occhio della mente e fatto volare nuovamente il tempo (in avanti, stavolta), Orzabal ci riporta a Broken, che viene ripresa per una versione strumentale finale, molto tecnica e quasi arrabbiata, la quale si conclude con un trionfale applauso del pubblico dal vivo.

Listen
Proprio quando sembra che l'album abbia ormai regalato tutto, e non possa andare più in là di così, ecco che arriva la traccia finale. Listen (Ascolta), è una canzone fortemente atipica, anche per il canone già molto deviante delle canzoni meno "famose" di questo celebre album. Si tratta infatti di un pezzo che, pur partendo da una base new wave, si sposta ben al di là di quanto faccia qualunque altra canzone nella tracklist dell'album, costruendo un'atmosfera surreale e psichedelica che non può non richiamare alla mente i Pink Floyd (specie negli interventi quasi traumatici di chitarra distorta), con i loro ritmi ipnotici e panorami musicali eterei. Ma si va ancora più lontano: con le pinze, si potrebbe addirittura parlare di un esperimento post-rock prima del tempo, che anticipa le sperimentazioni dei Talk Talk e di altri gruppi che, tra anni '80 e '90, de-costruiscono la forma canzone per dare più spazio appunto ad atmosfera ed astrattismo sonoro. La canzone, nella parte strumentale, è stata praticamente scritta dal solo tastierista Ian Stanley (e si sente), un altro unicum nel disco. Il tempo è quasi inesistente, ed è deciso principalmente dalla sequenza delle note sintetizzate stesse, le quali sono accompagnate da un numero esorbitante di effetti, suoni da altri mondi e da altri luoghi, voci lontane e vicine, rumori elettronici ed echi di percussioni che sembrano provenire da chilometri di distanza. Nelle due strofe (non c'è un ritornello vero e proprio), è Smith a cantare, e lo fa con un testo criptico, che sa di nostalgia, romanticismo e narrativa epica: "Madre Russia malamente bruciata / I tuoi figli leccano le tue ferite, le tue ferite / Padre pellegrino, ha navigato lontano / Ha trovato un mondo tutto nuovo, tutto nuovo". La prima parte fa riferimento ancora una volta, e ora molto più direttamente, all'Unione Sovietica e all'esperienza nociva che la Russia ne ha tratto. La seconda parte potrebbe forse essere un riferimento, per contrasto, alla storia degli Stati Uniti d'America: i padri pellegrini, navigando sulla nave Mayflower, posero le basi della prima colonia americana nel 1620, attraversando l'Oceano Atlantico da Plymouth, in Inghilterra, fino a quello che sarebbe diventato il Massachusetts. Nel finale della canzone, tra toni crescenti e sempre più epici, comincia la cantilena celebre, dal carattere tribale, che generazioni di fan hanno cercato di interpretare, e che accompagna il climax finale sia del disco che dell'album. Secondo alcuni, le voci (tra le quali alcune evidentemente femminili) dicono: "Cumpleaños chica, no hay que preocuparse"; e cioè, in spagnolo: "Compleanni, ragazza, non ti devi preoccupare". Forse una riflessione, finale e definitiva, sullo scorrere del tempo? Una chiusura memorabile che chiami in causa una concettualizzazione astratta tanto, ancora una volta, vicina allo stile dei Pink Floyd? Forse, ma forse no, perché c'è anche chi dice che, secondo il tastierista Stanley, quelle pronunciate sarebbero solo parole senza senso, ma con una voluta somiglianza alla lingua Swahili, parlata in varie zone dell'Africa sud-orientale, come in Kenya e in Tanzania (già è stata sottolineata l'influenza della musica e della cultura africana nel pop rock anni '80): "Home ana chicken a kuku say". Una chiusura, se così intesa, più astratta che mai, e sottolineata da un quasi apocalittico "colpo" finale, che svanisce in quello che sembra il suono estremamente distorto di un pubblico festante, come una celebrazione dagli accenti però stranamente grotteschi, e la cui intenzione viene quindi negata.

Conclusioni
Songs from the Big Chair è, per molti versi, un disco dalla natura schizofrenica. In ciò non si distacca poi troppo da quelle che sono le caratteristiche portanti, da sempre, della musica dei Tears for Fears: da una parte una irresistibile, innegabile e insopprimibile attrazione per la melodia, per il ritmo, per la composizione canonica e la voglia di arrivare al pubblico; dall'altra, viceversa, ci sono la ricerca, l'analisi, la sperimentazione, l'esplorazione di confini stilistici, generi differenti, strumentazioni inusuali, arrangiamenti particolari e nuove tecnologie. Nel mezzo, l'immagine stessa del duo, sospesa tra iconoclastia e disadattamento punk, e riscoperta del rock in una veste nuova, improvvisamente appagante, che passa per i videoclip, le copertine, le foto, i live atmosferici e altamente scenografici. Nel disco, le canzoni si alternano tra l'una e l'altra di queste tendenze, tra singoli di successo e pezzi noti solo ai cultori, tra precise melodie pop e alchimie sonore che raggiungono il limite stesso della musica rock (dalla parte, però, "non commerciale"). Ecco perché ha perfettamente senso che la Big Chair, la "grande sedia" menzionata nel titolo, faccia riferimento a quella sulla quale la protagonista del poco noto film Sybil, del 1976, trova riparo dal proprio disordine di personalità multipla, condizione di cui soffre. La sedia è, in questo senso, l'unico luogo sicuro che anche i Tears for Fears scelgono per dare sfogo a tutte le sfaccettature possibili della loro musica, senza nel contempo abbandonare le tematiche di ispirazione psicologica dei loro lavori precedenti (la sedia in questione, nel film, è quella di uno studio psico-terapeutico). Il grande successo dei Tears for Fears, quindi, è un successo a due facce: forse largamente imprevisto, e che non viene colto come tale dalla maggior parte del pubblico. Pubblico che, ormai abituato a metà anni '80 a fruire di un fenomeno dopo l'altro, accogliendolo, innamorandosene e lasciandolo da parte per dedicarsi a quello successivo (sono sempre anche gli anni dei successi subitanei ed effimeri di Wham! e Culture Club), comprende i Tears for Fears perciò solo a metà: quella metà, per così dire, che si trova "in luce", ben visibile e presto nota a tutti. Ma del resto delle canzoni dell'album, quelle non diventate arcinote grazie ai video o rimaste di culto negli anni (anche Head Over Heels, oltre a Mad World, compare nella colonna sonora del film di culto Donnie Darko, del 2001), di queste canzoni ci si dimentica sempre: anzi, addirittura, ne si ignora l'esistenza. Ed è questo il motivo per il quale, ancora oggi, Songs from the Big Chair non viene riconosciuto come il capolavoro che è: liquidato troppo in fretta come una piccola collezione di successi, coinvolgenti ma tutto sommato prevedibili se confrontati con altre produzioni "alte" dell'epoca, come quelle dei New Order o di Echo & The Bunnymen. La conseguenza: negli anni successivi, dopo tour sold out e popolarità senza precedenti, i Tears for Fears mancheranno di venir capiti quando si sposteranno, con i lavori successivi, su suoni sempre più intriganti e ancora più ricercati. Un percorso in realtà non inedito per le band della new wave (basti pensare ai Talk Talk), ma che in questo caso viene scambiato, da gran parte del pubblico, come un sentiero intrapreso per mancanza di idee. Certo, la popolarità aiuterà in ogni caso, e fino alla fine della decade i Tears for Fears resteranno comunque uno dei gruppi musicali più di successo della Gran Bretagna e dell'Europa, se non del mondo intero. Però, se Songs from the Big Chair segna l'apice assoluto della loro carriera e della loro produzione, non si può non segnalare come vada allo stesso tempo a stabilire il punto di inizio della loro discesa. Ma allora, a maggior ragione, un album musicale come questo va assolutamente, e al più presto, riscoperto in tutte le sue sfumature e nella complessità della sua natura composita, stratificata, e per certi versi manichea. Un simbolo anche, per molti versi, di come la musica di qualità negli anni '80, anche e soprattutto in ambito rock, passi anche dalle classifiche, anche per il successo, meritato o meno, conservato o meno. Songs from the Big Chair può insegnare una avvedutezza, nella considerazione della musica, che andrebbe adottata quanto più possibile anche oggi, alla ricerca di tesori che altrimenti rimarrebbero nascosti e sepolti: la parte in ombra, rock, oscurata da quella, in luce, pop.

2) The Working Hour
3) Everybody Wants to Rule the World
4) Mothers Talk
5) I Believe
6) Broken
7) Head Over Heels / Broken (Live)
8) Listen


