TEARS FOR FEARS

Shout

1984 - Phonogram Records

A CURA DI
ANDREA CAMPANA
17/02/2020
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione recensione

Se c'è un momento preciso nel quale i Tears for Fears si trasformano definitivamente in una band internazionale, incontrando un successo smisurato e assurgendo a una popolarità alla portata di ben pochi artisti negli anni '80, il momento è questo: la pubblicazione di Shout, singolo celeberrimo, ricordato sicuramente da tutti i nati negli anni '60 e nei primi '70 (la cosiddetta Generazione X) come un tormentone irresistibile. La canzone viene pubblicata il 19 novembre 1984, come secondo singolo in anticipazione del fortunato album Songs from the Big Chair, che uscirà l'anno successivo e del cui successo Shout sarà in gran parte responsabile. Già un altro singolo, Mothers Talk, è stato pubblicato nell'estate del 1984, il primo in attesa di Songs from the Big Chair: ma con Shout è tutta un'altra storia. Se infatti Mothers Talk si poneva come una specie di concitato esperimento, Shout propone per la prima volta quel suono "nuovo" dei Tears for Fears nella sua accezione più commerciale: un pop/rock da stadio, con forti elementi di rock and roll, assolo di chitarra, ritornello energico da cantare tutti insieme, ritmo sostenuto e coinvolgente, e soprattutto una struttura ripetitiva quanto basta per accattivarsi le simpatie del pubblico di MTV, e che infatti subito piace a moltissimi nuovi fan. È proprio il videoclip della canzone, infatti, trasmesso assiduamente dalla più popolare e influente delle emittenti videomusicali, a giocare un ruolo fondamentale nella popolarità del pezzo: girato sulla suggestiva costa di Durdle Door, nel Dorset (non troppo lontano da Bath, città nativa dei due musicisti), il video vede Orzabal e Smith cantare la canzone sullo sfondo di un panorama memorabile; è compresa anche una scena nella quale Orzabal suona l'assolo della canzone in cima alla famosa scogliera di quel sito. Queste possono sembrare immagini banali se riviste oggi, ma nel 1984 non è per niente scontato vedere un chitarrista che suona in un luogo simile, e con uno sfondo tanto caratteristico. Infatti, il motivo principale per cui i gruppi della Second British Invasion hanno tanto successo, specie in America, sta proprio nella fantasia che si ritrova nei videoclip promozionali dell'epoca, laddove invece negli Stati Uniti ci si limitava a montare insieme immagini di un'esibizione qualsiasi dell'artista da promuovere. Non è finita, perché la seconda metà del video è quella che contribuisce al carattere più "nazional-popolare" della canzone, prevedendo un'esibizione di gruppo (ci sono anche il tastierista Ian Stanley e il batterista Manny Elias), con strumenti veri e un sacco di invitati: persone comuni, soprattutto bambini, che si uniscono giovialmente in uno sfogo celebrativo e collettivo. È il 1984, l'anno di Do They Know It's Christmas?, e nei video comincia ad essere sempre più popolare l'idea della performance "corale", che richiami uno spirito di allegria e condivisione. Detto tutto ciò, non può non stupire il fatto che il singolo balzi al numero uno delle classifiche di diversi paesi: Australia, Belgio, Canada, Germania, Paesi Bassi, Nuova Zelanda e, soprattutto, Stati Uniti. Se un artista inglese arriva al numero uno in classifica negli Stati Uniti, è fatta: il successo internazionale è raggiunto, le vendite si impennano, e la popolarità del duo aumenta a dismisura. Oltre ai risultati citati, Shout giunge anche ad una più che dignitosa posizione numero due nella classifica italiana, al numero cinque in quella irlandese e, stranamente, "solo" al numero quattro in madrepatria. Ma i Tears for Fears avranno di che consolarsi negli anni successivi, quando Shout vincerà il disco d'argento in Gran Bretagna, il disco d'oro negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda, e addirittura il disco di platino in Canada. Insomma, Shout rappresenta il picco assoluto del successo della band, sfidato solo (ma non eguagliato) dal successivo Everybody Wants to Rule the World, che uscirà nel 1985. Un pezzo perfetto per le masse e per le charts, con un refrain da cantare e ri-cantare, da ascoltare in radio, in spiaggia o da urlare a un concerto. Una composizione che riassume tutta quell'aura celebrativa e edonistica di metà anni '80, e questo nonostante il contenuto lirico (non è certo un pezzo degli Wham!) che si propone in maniera sì impegnativa, ma comunque sempre semplice e accattivante.

Shout

Dopo una breve introduzione di sottili effetti percussivi, Shout (Grida) inizia già in maniera imponente, con la batteria tonante e la voce di Orzabal, bella forte, che danno subito il via al primo refrain. Comincia un crescendo, che nei sei minuti e più della canzone aggiunge via via diversi elementi, sovrapponendoli di volta in volta: tastiere, basso, chitarre. Ci sono due variazioni principali: la prima interviene con alcune battute di suoni manipolati, una breve parte di organo, e una sezione di basso nella quale Smith, come suo solito, si produce in alcune note semplici ma organizzate in maniera particolare. Dopo questo primo bridge entra una seconda batteria, più acustica, che inizia ad accompagnare la prima facendo un ingresso spettacolare con un fill che ricorda parecchio quello, storico e spesso parodiato, suonato da Phil Collins nel suo famoso successo In the Air Tonight (1981). La seconda variazione è l'assolo di chitarra suonato da Orzabal, che segue uno stile molto essenziale e classico, poco tecnico ma parecchio enfatico, comprendente immancabili effetti di eco e una certa "verve" alla David Gilmour nello stile. Nel corso della canzone il refrain viene ripetuto diverse volte, ma acquista potenza in ogni occasione, con più e più strumenti che si aggiungono a creare quell'effetto da "arena", compreso sassofono e chitarra distorta e suonata sui power chords come nel rock classico. Il testo della canzone è un testo di protesta, che prende l'avvio da un commento sui tempi difficili e tesi nei quali viene scritta, ma si trasforma poi più in una specie di energico sfogo; uno sfogo che ha ben poco a che fare con i rimpianti e le lacrime di The Hurting, e che qui invece si caratterizza come un potente ed incoraggiante invito a far letteralmente "sentire la propria voce", specie quando si tratta di dire la propria su decisioni che vengono prese da altri senza consenso: "Grida, grida, fai uscire tutto / Questo è ciò a cui non posso rinunciare / Andiamo, sto parlando a te, andiamo / In tempi violenti non dovresti vendere la tua anima / In bianco e nero, davvero dovrebbero sapere / Quelle menti a senso unico ti hanno preso per un lavoratore inutile [working boy] / Dì loro addio, non dovresti saltare per gioire / Ti hanno dato la vita, e in cambio gli dai l'inferno / Freddi come ghiaccio, spero che vivremo per raccontare la storia / E quando avrai abbassato la guardia / Se potessi farti cambiare idea, mi piacerebbe spezzarti il cuore". Un testo breve, come si vede, in quanto si affida parecchio alla ripetizione del refrain quasi come un mantra. Nella prima strofa Orzabal si riferisce ai centri del potere, che decidono tutto (della guerra) ignorando l'opinione della gente comune e lavoratrice ("working boy") che in realtà è la forza e la base stessa di una nazione. Nella visione di Orzabal, potenti e guerrafondai sono "one-track minds", ragionano a senso unico, e dividono perciò il mondo in bianco e nero, cioè buoni e cattivi; concetto affrontato anche dai Pink Floyd in Us and Them, nel 1973. Il verso "you shouldn't have to jump for joy" sta forse ad indicare che la felicità non dovrebbe risultare da un gesto eclatante (il "salto"), ma si dovrebbe poter ritrovare nella normalità della vita quotidiana; questo, si intende, in un mondo ideale. Nella seconda strofa, molto in breve, Orzabal torna al tema a lui familiare dello scontro generazionale, contrapponendo genitori identificati con l'istituzione che decide cosa è meglio ai figli che essa comanda da dietro l'alibi di "aver dato loro la vita". Ma, questo è sempre il senso della canzone, i figli, cioè i giovani, devono assolutamente poter protestare, se ritengono che ciò che i genitori fanno sia sbagliato, qualunque sia il "debito" che hanno con loro e anche se ciò dovesse significare restituirgli "l'inferno" (fargli passare le pen dell'inferno sarebbe una traduzione meno letterale ma più chiara). E se loro restano comunque "as cold as ice", Orzabal spera che lui e gli altri giovani potranno comunque sopravvivere (come infatti avverrà) per raccontare di quei tempi terribili. Nella terza e ultima strofa, il cantante si rivolge ancora una volta ai "grownups", dicendo che a tutti i costi farà cambiare loro idea non appena mostreranno un segno di debolezza, anche se ciò potrà scuotere le loro convinzioni e così far loro del male (e "spezzare" loro il cuore). Shout è una canzone di protesta dal carattere popolare, semplice, e nei fatti sembra non scritta nel 1984, ma nel 1964 almeno. Il bambino traumatizzato che è protagonista delle prime canzoni del duo è cresciuto, ed è ora abbastanza grande per distinguere tra giusto e sbagliato, e per contestare "gli adulti" nel dire loro dove sono nel torto. Il senso della canzone, tuttavia, non riguarda tanto la eventuale "colpevolezza" dei "grandi", quanto il diritto dei più giovani, o di chi si trova in contrasto con una politica maggioritaria, di esprimere il proprio dissenso.

The Big Chair

La b-side ufficiale del singolo Shout è The Big Chair (La grande sedia), canzone che fa ovvio riferimento al titolo del secondo album dei Tears for Fears, Songs from the Big Chair, in uscita di lì a pochi mesi. Entrambi fanno riferimento al film Sybil, del 1976, nel quale una donna che soffre di personalità multiple si sottopone a psicoterapia, andando a sedere ogni volta appunto su una "grande sedia" nello studio del terapeuta, che diventa il simbolo della sua auto-analisi e guarigione. Sono appunto i dialoghi del film che accompagnano questa breve digressione strumentale, altrimenti priva di liriche o testi. La musica è infatti un synthpop discreto e molto atmosferico, con percussioni precise e scandite, ma i due musicisti non intervengono mai a commentarla con le proprie voci. Questa canzone è un commento sulla volontà dei Tears for Fears di creare una sorta di senso di continuità con le tematiche che avevano ispirato il loro primo album, e cioè quelle legate alla psicoterapia "dell'urlo primevo" teorizzata da Arthur Janov. Si parla ancora di psicoterapia, e di traumi infantili, ma stavolta (e più in particolare nell'album di prossima pubblicazione) la reazione non sarà di auto-commiserazione o rimorso, bensì di rabbia euforica e voglia di reagire. Ciò nonostante, The Big Chair come canzone si mantiene su toni ancora molto cauti, forse a creare un ponte tra le due ere nella storia del gruppo, e permettendosi nel frattempo di sperimentare un poco.

Conclusioni

Con Shout i Tears for Fears raggiungono quello che forse non era neppure stato il loro obbiettivo primario: diventare uno dei gruppi più famosi del mondo, in un'epoca per giunta nella quale la fama significa tutto. Il video del singolo, come già spiegato, conquista MTV e porta Roland Orzabal e Curt Smith a diventare due dei volti più noti di tutta la musica anni '80, mentre il ritornello orecchiabile e radio-friendly viene cantato in continuazione da una generazione intera. Questo è il momento nel quale i Tears for Fears escono definitivamente dalla new wave, un genere (o meglio, una scena) ormai morente, e i cui nomi principali stanno a loro volta correndo in mille direzioni diverse. Di lì a poco si scioglieranno infatti gruppi storici come i Clash e i Police; i Culture Club precipiteranno presto nell'oblio, mentre George Michael si sgancerà dal peso morto del collega Andrew Ridgeley per esordire trionfalmente da solista nel 1987; Peter Gabriel e David Bowie, ciascuno a modo suo, si sposteranno sul cosiddetto "blue-eyed soul", favorendo sempre più canzoni romantiche e disimpegnate, dimentichi delle sperimentazioni degli anni '70; e infine, già si sono ormai sciolti i Roxy Music, padrini di tutta quella branca "new romantic" della scena, ma anche di molte delle sperimentazioni nell'arrangiamento e nella composizione che la caratterizzano. Questi sono solo alcuni esempi elencati frettolosamente, ma in realtà ciò che avviene attorno al 1984/85 è la generale "migrazione" di un'intera generazione di musicisti lontano da tutta una tendenza musicale complessa e influente (quella del "punk", nel senso più largo possibile del termine), che ha causato negli anni precedenti una vera e propria rivoluzione dell'arte sonora. Si giunge per certi versi al "riflusso", alla contro-rivoluzione, nell'ambito della quale gli artisti tornano sui propri passi, guardando con maggiore favore ai generi passati così frettolosamente rinnegati. E infatti i Tears for Fears riprendono, con Shout, il rock più chitarristico degli anni '70, iniziando a tradire l'influenza di artisti come i Pink Floyd (nell'assolo di chitarra), di Phil Collins (nelle parti di batteria) e delle liriche "arrabbiate" degli anni '60 (nei testi). Un miscuglio di vecchio e nuovo, che consente al duo di cementificare la propria posizione e imporre la propria presenza sulla scena con forza e solidità, appellandosi tanto ai più giovani, cresciuti come loro con tastiere e sintetizzatori (da notare che, in sottofondo, Shout mantiene sempre una base elettronica d'accompagnamento), quanto al pubblico più eterogeneo e di tutte le età sensibile a contenuti universali e ritmi trascinanti. È proprio l'universalità della loro musica - la capacità di allargare lo spettro delle influenze fino ad accoglierne tra le più diverse - è proprio questo il loro segreto. La conquista delle platee mondiali è dovuta, come impresa, ad un sapiente mix di esperienze musicali diverse, tratte dalle fonti più sparpagliate, che viene pensato, ebbene sì, come mezzo per il perseguimento del buon risultato commerciale. Non che in Shout o negli altri successi dei Tears for Fears manchi una componente di espressività artistica (come, del resto, non manca mai in tutta la musica che coinvolge spirito e dedizione), ma è chiaro che Shout non è Mothers Talk, non è I Believe, non è Broken. È invece il super-successo per eccellenza, la hit per antonomasia, il volto più noto e più riconoscibile di quel lato dell'arte dei Tears for Fears che abbraccia più volentieri la popolarità, la celebrità e la fama, e che lo fa con un bel po' di auto-celebrazione e anche forse un pizzico di demagogia. Ma va bene così, perché i Tears for Fears sono uno dei sintomi più eclatanti del loro tempo, il prodotto di un'epoca attraversata da tendenze precise ma anche in continua contraddizione, un periodo che vede scontrarsi ambizione, introversione e spettacolo. Shout è la canzone che, più di ogni altra (con la sola possibile eccezione, ripetiamolo, di Everybody Wants to Rule the World) consegna il duo inglese alla storia della musica, e che con maggior tenacia si imprime nelle menti degli ascoltatori del 1984. E questo comprende sia gli appassionati e cultori di musica, sia coloro che magari, accesa la radio al momento giusto, vengono immediatamente conquistati dal ritornello infallibile del brano.

1) Shout
2) The Big Chair
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