TEARS FOR FEARS

I Believe

1985 - Phonogram Records

A CURA DI
ANDREA CAMPANA
14/08/2020
TEMPO DI LETTURA:
10

Introduzione recensione

Basta ascoltare le prime note di piano introduttive di I Believe per capire subito di trovarsi in un territorio, per la musica dei Tears for Fears, del tutto inaspettato. Non una hit pop/new wave rispondente a quello stile ormai rodato che i due, tempo metà anni '80, avevano ormai imparato ad abbracciare e a porre come base di tutti i loro successi. Ma una canzone collocata in quella metà oscura della luna Tears for Fears, su quel lato invisibile al grande pubblico e ancora oggi sconosciuto se non agli appassionati. Il lato più artistico, più strettamente ricercato, più intimista e sperimentale. Un tipo di musicalità in realtà da sempre tentata ed esplorata dai due, fin dall'inizio; cosa che, non si dice mai, vale anche per tutti quanti i gruppi della new wave. A fronte infatti delle caratteristiche impegnative e complesse del rock della generazione precedente, specie quelle proprie della scena prog, si tendono spesso a sottovalutare, nel confronto, i risultati ottenuti dalla successiva new wave, e dai generi correlati di post-punk e synthpop. Non solo gruppi come Siouxsie and the Banshees, The Cure, XTC, Gang of Four, Joy Division e Bauhaus, che rappresentavano l'avanguardia appunto di tale scena, sono da considerare degni di nota per quanto riguarda la deviazione dal proprio genere e la proposta di musiche nuove e interessanti. No, anche band più "insospettabili", come Simple Minds, Depeche Mode (i primi Depeche Mode, si intende) e gli stessi Tears for Fears ebbero in realtà molto da dire al riguardo. E spingendosi ancora più in là, nella ricerca delle fitte trame nascoste delle produzioni new wave più pregevoli ma meno apprezzate, si possono scoprire interi mondi musicali anche nei meandri delle discografie di gruppi come Spandau Ballet, Duran Duran o ABC. I Believe dei Tears for Fears, in questo senso, è l'esempio più brillante delle capacità mostrate da due musicisti, Roland Orzabal e Curt Smith, svezzati col punk e cresciuti con l'elettronica: la loro ispirazione va ben oltre quanto ci si potrebbe aspettare, di sicuro ben oltre rispetto a quanto sospettano i conoscitori superficiali del duo, quelli che ancora oggi nello stereo riascoltano in loop solo e sempre Shout, Everybody Wants to Rule the World, Head over Heels e Sowing the Seeds of Love. I Believe getta infatti un'ombra, nella discografia del gruppo, che funge da linea divisoria tra quelle sonorità più "positive" e allegre, festaiole, da stadio, dei loro più grandi successi, e quelle invece più cupe, disorientanti e nichiliste invise al pubblico ampio, specie il pubblico anni '80, il quale (salvo alcune sub-culture, come quella gothic) cercava nella musica così come nella cultura dell'epoca edonismo, divertimento, soddisfazione materiale. In questo, i Tears for Fears sembravano equivocamente il prodotto ideale. La stessa copertina dell'album Songs from the Big Chair, album nel quale I Believe è un po' il meridiano di Greenwich, riporta semplicemente i volti dei due "bei" ragazzi inglesi, senza pretese, senza colori, persino. Siamo nell'era dell'immagine, un'era che perdura ancora oggi, e che privilegia l'essenzialità, l'immediatezza e la forma sopra a tutto. Ma proprio per questo I Believe, perla nascosta dietro ai videoclip, ai ritmi boogie e alle tastiere piene e colorate delle grandi hit del gruppo, ma riscoperta oggi ancora più che ieri. Può insegnare, nel caso specifico ma anche in teoria generale, come non si debba mai dare per scontato che una band musicale, o un artista, o un gruppo, abbia per forza espresso sé stesso o sé stessa alla meglio con le suddette hit, anzi: è proprio quello il punto in cui bisogna guardare oltre, ascoltare di più, approfondire meglio, come il sommozzatore che sa che troverà le perle più splendenti nelle ostriche sul fondo del mare, anziché in quelle più vicine alla superficie. I Believe è in sostanza come un fiore che, per continuare con le metafore, sorge all'ombra di quella gigantesca montagna che è Songs from the Big Chair: si tende a non considerarlo, a non vederlo, ma sta proprio in questo il suo aspetto più bello. Quando lo si scopre, si scopre un tesoro.

I Believe

I Believe (Io credo) è una ballad di pianoforte che nell'arrangiamento rifiuta un po' tutte le convenzioni della musica anni '80: niente elettronica, niente ritmi dance, niente ritornelli facilmente memorizzabili (anzi, tecnicamente il ritornello non c'è), niente assolo di chitarra scatenati alla Van Halen, niente battimani da stadio. L'atmosfera è intima, spenta, fredda, persino: un freddo che però è tanto intenso da essere subito coinvolgente, dimostrandosi in grado di accompagnare l'ascoltatore in una dimensione poetica che per i Tears for Fears, come si diceva, è insospettabile, persino paradossale. La mente dietro a tutto è naturalmente Roland Orzabal, che si mette a nudo in questa traccia più che in ogni altra, con musica e parole, sforzandosi di esprimere al massimo le proprie capacità artistiche in un contatto diretto e sincero con chi ascolta. Un po' il traguardo per eccellenza del musicista, qui raggiunto appieno dall'artista inglese. Tenendosi, come si diceva, ben discosta dalle tendenze new wave, la canzone anzi si spinge verso territori jazz e sperimentali, nei quali le note intense e pulite di piano cadono come in un silenzio oscuro, che è quello dell'esplorazione del sé, decorato da Orzabal con vocalità struggenti e sempre malinconiche. C'è però spazio per molto altro: se è vero che la canzone rifugge dalle convenzioni elettroniche dell'epoca (tese specialmente verso la dimensione disco, come quasi tutte le produzioni synthpop), qui le tastiere intervengono con accenni quasi spirituali che ricorrono sottilmente ovunque, nel pezzo, senza mai invaderlo ma anzi cercando di non farsi catturare, come lucciole sonore che lo illuminino facendo attenzione a non insistere mai troppo nel loro compito. Viceversa, come pugnalate sono gli interventi del sassofonista Will Gregory, oggi noto come co-fondatore e metà del celebre duo elettronico Goldfrapp. Come accennato, la canzone non ha un ritornello; piuttosto segue una struttura che la conduce ciclicamente a interrompersi, frapponendo tra le varie strofe momenti di silenzio, riempiti dalle "lucciole" di cui si diceva sopra, nei quali l'attesa per la ripresa della canzone crea ancor più coinvolgimento e attenzione nell'ascolto. Le strofe iniziano sempre nello stesso modo (Orzabal canta: "I believe..."), e la voce viaggia dolcemente sulle note, come seguendo dei moti ondosi, restando fedele a una melodia precisa ma occasionalmente cambiando, quando al cantante interessa sottolineare un verso in particolare del testo: "Io credo che quando la ferita e il dolore saranno andati, noi saremo forti / Sì, noi saremo forti / E credo che se piango mentre scrivo queste parole / È tanto assurdo? O sto facendo sul serio?/ Io credo che se tu sapessi per che cosa queste lacrime sono piante / Loro cadrebbero semplicemente come ogni goccia di pioggia / Questo è perché credo che sia troppo tardi / Per ciascuno da poter credere / Io credo che se tu pensassi per un momento, ti prendessi il tuo tempo / Non ti rassegneresti al tuo fato / E io credo, che se sta scritto nelle stelle va bene, non posso negarlo / Che sono una vergine anch'io / Io credo, che se ti viene la pelle d'oca mentre ascolti questa canzone / Potrei sbagliarmi, oppure ho toccato un nervo? / Questo è perché credo che sia troppo tardi / Per ciascuno da poter credere / Io credo, che forse da qualche parte / Nell'oscurità, nella notte, nella tempesta / Nel casinò, casinò occhi ispanici / Io credo, no io non credo che ogni volta che senti". Le parole esprimono una fragilità assoluta e la ricerca di un modo per gestirla, per combatterla, quasi, ma anche per esprimerla e cercare una comprensione che spesso non ci viene accordata, proprio per tema di un confronto empatico che è proprio quello che Orzabal intende suscitare. "So che anche tu ti senti come mi sento io, perché non lo ammetti?" Un canto di umanità, disperato ma anche potente, è quello che I Believe vuole ricreare: una canzone da poter cantare e suonare quando ci si sente soli, perduti, e quando si sente il bisogno di ritornare a vedere quello che accomuna tutti noi, uomini e donne, e che ci rende più simili agli altri, anziché diversi. 

Sea Song

Sea Song (La canzone del mare) è una canzone originariamente scritta e registrata dal genio Robert Wyatt, musicista noto per la sua militanza nei Soft Machine, per il suo secondo album, Rock Bottom, pubblicato nel 1974. Si tratta di uno degli artisti più apprezzati della storia della musica inglese, lodato dalla critica e guardato con rispetto da generazioni di musicisti. Tanto per dire, Piero Scaruffi indicava proprio Rock Bottom come uno degli album che, secondo lui, dovevano figurare tra i migliori della storia della musica. Viaggiando tra jazz, improvvisazione, prog e art rock Wyatt è un esempio classico di artista onesto e fedele alla propria visione, che rifiuta qualunque compromesso e, lontano dai riflettori, segue il proprio percorso con costanza e rettitudine. Non una scelta casuale, quindi, questo omaggio reso dai Tears for Fears già in passato, e qui re-inserito come commento d'appendice. Infatti, se la loro versione di Sea Song era stata pubblicata per la prima volta come b-side di Mothers Talk, nel 1984, viene qui ripresa per un motivo preciso. I Believe era difatti in un primo momento stata scritta proprio per Wyatt, da registrare e cantare in prima persona. In seguito era stato deciso di includerla nel nuovo disco della band, che sarebbe stato appunto Songs from the Big Chair. Però, nelle note del disco, i due hanno fatto poi in modo di includere una dedica specifica: "Per Robert Wyatt, se sta ascoltando". Il testo, che è naturalmente lo stesso della canzone originale di Wyatt, costruisce una sorta di fiaba, che i Tears for Fears naturalmente interpretano con sentimento e passione. "Sembri diversa ogni volta / Vieni dall'oceano increspato di schiuma / È la tua pelle che riluce dolcemente al chiaro di luna / Per metà pesce, per metà focena, per metà cucciolo di capodoglio / Sono tuo? Posso giocare con te? / A parte gli scherzi / Quando sei ubriaca sei grandiosa / Quando sei ubriaca è quando mi piaci di più / A notte fonda, va tutto bene / Ma non posso capire la 'te' diversa / Al mattino quando è ora di giocare / Ad essere umani per un po' / Sorridi, ti prego / Sarai diversa in primavera, lo so / Sei una creatura stagionale / Come la stella marina che giunge a riva con la marea, con la marea / Quindi finché il tuo sangue corre ad incontrare la prossima luna piena / La tua follia si incastra bene con la mia / Il tuo capriccio [your lunacy] si sposa bene con il mio / Proprio il mio / Non siamo soli". Una performance, nella sostanza, immancabile per comprendere il lato più artistico e ambizioso della musica dei Tears for Fears quando va ad omaggiare un artista di massimo livello come Robert Wyatt. 

Shout (Dub version)

Eccoci a Shout (Grido). Le versioni "dub" delle canzoni andavano molto negli anni '80, prendendo le mosse dalla cultura giamaicana del reggae: in quell'ambito (i Clash l'hanno fatto più volte, per esempio), pezzi famosi venivano rivisitati in salsa appunto dub, ossia risaltando ritmica e bassi ed eliminando buona parte della melodia e del testo, dal prominenza anche alla dimensione dance. Cosa significa? In Giamaica, ai tempi dei primi MC (Masters of Ceremony), figura che all'origine si mescolava con quella stessa del DJ, queste versioni rivisitate delle canzoni servivano come fase finale delle feste o dei concerti, e spesso davano modo appunto all'MC di parlarci sopra, coinvolgendo il pubblico con una esaltante parlantina: da qui, si dice, deriva una delle prime forme di musica rap. Ovviamente, non è questo il caso: la versione dub di Shout, traccia introduttiva di Songs from the Big Chair e successo tra più significativi dei Tears for Fears, non contiene strofe rap, ritrovandosi piuttosto in un lungo remix del pezzo con accenti elettronici, forti bassi, ritmica incalzante (ma anche un po' ripetitiva), e cantato ripreso all'essenziale. In pratica, la versione originale è stata presa, svuotata, e ricomposta a seconda delle esigenze del pubblico di destinazione: ossia, nella fattispecie, quello delle discoteche che di lì a poco, con l'avvento di techno e house, si sarebbero chiamate "clubs". Un esperimento, quindi, che è anche un interessante retroscena produttivo della musica anni '80, ma che difficilmente aggiunge qualcosa alla canzone originale, o riesce a creare qualcosa di nuovo più di quanto non facciano le canzoni vere e proprie scritte dai Tears for Fears. Ancora oggi, questa versione di Shout (come quella del remix "americano", vedi sotto), rimane più che altro una curiosità per collezionisti ed appassionati. 

Shout (U.S. remix)

In una maniera molto simile alla versione dub, questo remix alternativo di Shout cerca di ridurre al minimo le componenti melodiche della canzone, "asciugando" i suoni più concitati e premendo tantissimo sulla ritmica e sulle voci. Ad andarci di mezzo è il classico crescendo della canzone, che si apprezza nell'originale al progressivo aggiungersi dei diversi strumenti, uno sopra l'altro, strato su strato, fino all'esplosione delle chitarre e della batteria stile Phil Collins che accompagnano i cori da stadio finali. Invece, qui, il pezzo procede per otto minuti del tutto inessenziali, perdendosi in passaggi di basso elettronico certo apprezzati dal pubblico delle discoteche, che non teneva ovviamente ad ascoltare la canzone, ma solo a ballarla. Per il resto, si tratta solo di una scomposizione e di un rimaneggiamento disordinato delle varie sezioni della canzone, rimesse in ordine qua e là seguendo chissà quali criteri anni '80. Operazione che però appunto, vanifica un po' tutta l'intenzione iniziale dell'originale, e che si apprezza oggi solo come particolarità produttiva (cosa che vale, come detto, anche per la versione dub), risultando in un pezzo da riascoltare solo per pura curiosità. Difficile andare oltre.

Conclusioni

La versione di I Believe pubblicata come singolo il 30 settembre del 1985 differisce da quella presente nell'album. Si tratta di una registrazione dal vivo, dal carattere quasi acustico, e infatti sottotitolata a soulful re-recording: una registrazione "piena di anima". Si può avere così un perfetto saggio della presenza dal vivo del duo: anche se la performance vede al centro sempre la figura di Orzabal, nonché la sua voce, il contorno è fondamentale nell'impreziosire la validità del pezzo e la sua alta riuscita artistica. L'atmosfera è puramente anni '80, ma allo stesso tempo rimanda sia ad una forma di rock classico anni '70, sia ai famosi concerti unplugged del decennio anni '90, resi famosi dai gruppi grunge soprattutto. Il coinvolgimento, della band come del pubblico, è notevole, tanto che in uno dei momenti di maggior climax Orzabal incita il sassofonista gridando "William!", al che lo strumentista risponde prontamente con un assolo fantastico. I Believe, in questa versione, è l'undicesimo singolo in totale pubblicato dai Tears for Fears, e pure se non raggiunge il grande successo di altre canzoni tratte da Songs from the Big Chair, come Shout ed Everybody Wants to Rule the World (precedentemente citate), si guadagna comunque alcune buone posizioni, aiutato anche dalla fama stessa dell'album. Raggiunge infatti un dignitoso numero 23 nella top 40 UK, volando fino al numero 10 in Irlanda e anche, imprevedibilmente, al numero 28 della Nuova Zelanda. Un particolare da citare: la canzone non viene pubblicata come singolo negli Stati Uniti, seppure la performance che ne costituisce la base risalga appunto al tour americano della band nel 1985. I Believe (A Soulful Re-Recording esce in quattro versioni diverse, e mentre in tutte queste viene accompagnata da una registrazione della Sea Song di Robert Wyatt (come si è detto, il musicista inglese dei Soft Machine per il quale originariamente il pezzo era stato scritto, e al quale è dedicato), a seconda della versione compaiono altre tracce bonus. Si tratta della versione album della canzone (doppio singolo a 7'' e singolo a 10''), una versione dub di Shout (doppio singolo a 7'' e singolo a 12'') e del remix "americano" sempre di Shout, della durata di otto minuti esatti (singolo a 12''). Di tutte queste tracce bonus si è già parlato, ma qui si può specificare come questa composizione eterogenea del materiale pubblicato possa dare un buono specchio delle strategie di marketing per come adottate da un gruppo inglese new wave a metà anni '80. Si cerca di andare in più direzioni, interessando il pubblico più tradizionale (con Sea Song), quello più "dance" (con i remix), e i fan ormai fedelissimi con la versione tratta dall'album di I Believe. In conclusione: I Believe chiude più che degnamente, per i Tears for Fears, l'era di Songs from the Big Chair. Se si esclude la versione tutta speciale di Everybody Wants to Rule the World, ri-titolata Everybody Wants to Run the World in occasione di un'iniziativa benefica, finisce qui la vera epoca d'oro per il duo inglese. Ed ha senso che a porvi fine sia non un tormentone ossessivo e indimenticabile da radio, ma una traccia che al contrario lascia emergere con delicatezza ed efficacia la sponda più artistica e ambiziosa del duo. Da qui, bisognerà attendere il 1989 perché Roland Orzabal e Curt Smith si rifacciano vivi con Sowing the Seeds of Love, aprendo la terza era della loro carriera, l'ultima nella quale riusciranno ancora a conservare un po' di successo, con l'album Seeds of Love (1989), in gran parte non capito e non accolto entusiasticamente da un pubblico ingannato dalla facciata più accogliente delle canzoni del gruppo, e quindi non pronto alla complessità del nuoVo lavoro. Del resto, gli anni '80, passata la metà, cominciano a volgere al termine: la new wave, allontanandosi dalle iniziali ispirazioni punk e dalle contaminazioni elettroniche del primo periodo, si fa sempre più acustica, riscopre il rock chitarristico e prepara lateralmente il terreno per la rivoluzione alternative rock degli anni '90. Rivoluzione nella quale i Tears for Fears, orfani di Curt Smith (che lascerà il gruppo nel 1991, proseguiranno praticamente come un progetto solista di Roland Orzabal, e riusciranno a farsi notare molto poco, con un numero limitato di singoli. Si parla specialmente di Elemental, 1992. È importante quindi rimarcare l'uscita di questa I Believe come un addio, anche se di certo non cosciente di essere tale, al periodo migliore di uno dei gruppi più sottovalutati e forti della musica inglese new wave degli anni '80. 

1) I Believe
2) Sea Song
3) Shout (Dub version)
4) Shout (U.S. remix)
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