TEARS FOR FEARS

Everybody Loves a Happy Ending

2004 - New Door Records

A CURA DI
ANDREA CAMPANA
05/05/2023
TEMPO DI LETTURA:
6.5

Introduzione recensione

Anno 2000. Roland Orzabal e Curt Smith, noti a tutti come i due membri storici dei Tears for Fears, si incontrano di nuovo per la prima volta dopo quasi una decade. Il motivo: alcuni documenti che richiedono loro legalmente di riprendere i contatti. Non si parlano da tanti anni e all'origine c'è ovviamente la loro separazione, risalente più o meno al 1991 e dovuta ad una serie di fattori. Primo fra tutti, la mania di perfezionismo e le visioni musicali forzatamente magniloquenti di Orzabal, cantante, chitarrista e de-facto leader della band in quanto co-autore della grande maggioranza delle canzoni. Intuite le grandi potenzialità della band circa a metà anni '80, all'altezza del grande successo del blockbuster pop/rock "Songs from the Big Chair" (1985), Orzabal aveva iniziato infatti a mirare a composizioni sempre più ambiziose, guardando ai Beatles e alle grandi band della storia del rock, come i Pink Floyd o i Genesis, nel tentativo forse anche parzialmente inconsapevole ma nei fatti deciso di trasformare i Tears for Fears in una di quelle grandi band. E così ecco, nel 1989, l'album "The Seeds of Love", un disco strabordante che cerca di fare mille cose insieme riuscendoci in realtà solo in parte e risuonando per certi versi come una grande scatola vuota. Il controllo di Orzabal era diventato a quel punto maniacale e dopo alcuni altri singoli infine Smith non era più riuscito a reggere la tensione, lasciando il gruppo e trasferendosi in America per dare inizio ad una carriera da solista schiva e appartata. Nel frattempo Orzabal aveva preso le redini del gruppo diventandone ufficialmente l'unico volto e trasformandolo praticamente in un suo progetto personale, ponendo sé stesso al centro di ogni decisione e ogni direzione come (non è un esempio a caso) Paul McCartney con i Wings. Ma il cambiamento a lungo andare non aveva ripagato: gli album "Elemental" (1993) e "Raoul and the Kings of Spain" (1995) non erano riusciti a soddisfare le aspettative né ad eguagliare il successo dei precedenti e specialmente dei capolavori di inizio anni '80. Dopo il fallimento dell'album di metà anni '90 il nome del gruppo era sceso infine pian piano nell'oblio. Si arriva quindi al 2000: millennio nuovo, vita nuova. I due si parlano di nuovo, si incontrano di nuovo e dopo tanti anni, liti dimenticate e divergenze appianate complici il tempo e un successo giovanile che, ormai è chiaro, non si potrà mai più eguagliare, tra i due scatta di nuovo quella scintilla dell'amicizia che li aveva uniti subito dopo la scuola e li aveva portati a dare vita a una band nel coacervo del movimento "punk" (in realtà era già new wave). E di lì, il passo è breve: riabbracciati gli strumenti rinasce la passione per la musica e l'antico legame alla Lennon/McCartney risorge in composizioni inedite, scritte in fretta e febbrilmente sull'onda dell'eccitazione per l'ispirazione ritrovata. Sembra che ben quattordici canzoni vengano scritte ad un certo punto nello spazio di soli sei mesi, complice l'apporto del tastierista Charlton Pettus che diventa di fatto "terzo" componente del gruppo, firmando molti dei nuovi brani tra cui, con Smith (vedi sotto) "Who You Are", l'unica canzone nella storia del gruppo fino a quel momento che non reca invece la firma di Orzabal (ne arriveranno poi solo altre due, nel 2022). E con così tante nuove canzoni in mano e un amicizia tanto importante inaspettatamente ritrovata, che cosa rimane da fare se non registrare un nuovo album? I lavori iniziano presto nell'entusiasmo generale e tempo il 2003 il nuovo disco è già pronto: dovrebbe uscire su etichetta Arista Records ma l'uscita dal management della casa discografica di Antonio Marquis "L.A." Reid, porta infine il duo alla rottura con l'etichetta prima dell'uscita di qualsivoglia materiale promozionale. Inizia a quel punto una lotta al miglior offerente per quello che dovrebbe essere il comeback musicale del decennio, e a vincere è l'etichetta New Door (sussidiaria Universal). Infine, l'album viene pubblicato il 14 settembre 2004. Le aspettative sono alte perché uno dei più importanti gruppi anni '80 si affaccia nuovamente alla scena musicale con rinnovate ambizioni ma, stavolta, una serie di lezioni duramente apprese alle spalle. Molti nostalgici di quel decennio d'oro sono pronti ad accoglierli di nuovo ma i giovanissimi sono coinvolti da tutt'altra musica e i due, ultra-quarantenni, non rappresentano più l'avanguardia new wave ma, piuttosto, i volti di un'era e una musica considerati passati e superati. E la domanda che si pongono tutti è: riusciranno a ritrovare la loro strada con questo nuovo album?

Everybody Loves a Happy Ending

La title track "Everybody Loves a Happy Ending" introduce l'album su toni epici, con un intro che ricorda molto gli Oasis più ambiziosi (quelli di "D'You Know What I Mean", per esempio). Improvvisamente con uno squillo di sveglia il brano cambia, trasformandosi in una veloce cavalcata Beatlesiana (ed eccoci qui) che non può non ricordare la sezione di A Day in the Life scritta e cantata da Paul McCartney (con tanto di richiamo "Wake up" che la introduce). Da lì, come già in "Sowing the Seeds of Love" (1989), la canzone si trasforma in un pastiche con diversi riferimenti all'eredità della band di Liverpool: altre sezioni ricordano alcuni "emuli" degli stessi Beatles, come la Electric Light Orchestra o i Dukes of the Stratosphear, versione neo-psichedelica degli XTC. C'è una variazione acustica che ricorda diversi lavori di McCartney con i Wings, e la parte finale del brano riprende sempre i Beatles ma della "prima ora", quelli un po' più rock and roll, istintivi e rumorosi. Finale, immancabile, molto alla "The End" (1969) sempre dei Fab Four. Cominciamo a parlare del testo, un inno all'azione e alla reazione sia personale che inneggiante ad ideali positivi. "Tira la linea / Svegliati, il tuo tempo è quasi finito / Niente più supernova / Nessuna azione garantita / Svegliati, hai avuto un'operazione / Ideali sopra la tua stazione / Troppa realtà / Pensa al tempo speso guardando le ginocchia di Madre Natura piegarsi / A tutti piace un lieto fine". La canzone inizia con l'espressione idiomatica "tow the line" che significa letteralmente "traina la linea" e indica qui un concetto un po' astratto, che definisce più o meno l'idea di restare bloccati in un movimento faticoso e inutile, che non porta a niente. Il testo infatti invita a darsi una mossa, a cambiare le cose. Il "wake up" come già detto è un richiamo ai Beatles e come in "A Day in the Life" invita a darsi una sbrigata ("Made the bus in seconds flat", cantava Macca). La supernova citata potrebbe essere una metafora di un momento di vita passato felice e ora da superare, mentre il riferimento a Madre Natura potrebbe richiamare "Everybody Wants to Rule the World" ("Turn your back on Mother Nature"?) e i temi ambientalisti storicamente cari al duo. "Svegliati, segui la tua propria agenda / Smettila di fare il grande attore / Con occhi verdi da bambino / Svegliati, ti stai appigliando al niente / Sai che stai solo bluffando / Sei morto come le foglie secche". Il messaggio è chiaro, e potrebbe essere rivolto anche dai Tears for Fears ai due sé stessi passati, prima della reunion: non fingere, non fare la vittima, reagisci, muoviti, non cercare scuse. La parte finale della canzone si fa più poetica e metaforica, ma i concetti espressi sono sempre quelli: "L'oscurità del giorno / Una maledizione in ogni senso / Cerchi di vedere la luce / Ma non sai perché / Cercano di dirti al telefono / Di lanciare un osso al tuo Dio / E di farti crescere un paio di ali come una farfalla / I guardiani al cancello / Ti ricordano che sei in ritardo / Cerchi di prenderti il tuo tempo / Ma tiri la linea, tiri la linea / I bambini del mondo / E la bambina di papà / L'erba è sempre più verde dall'altra parte / Quindi rimani e respira nuova vita". Un grande invito alla rinascita, ad un "lieto fine" insomma, che i Tears for Fears per primi sembrano aver accolto appieno.

Closest Thing to Heaven

"Closest Thing to Heaven" (La cosa più vicina al paradiso) si prefigura come un brano pesantemente indebitato con gli Oasis e con il britpop, un genere che nel 2004 è già in declino ma vive ancora gli ultimi fasti con Coldplay, Travis e The Keane. Questa canzone in particolare in realtà ricorda più forse alcune cose dei Verve o degli Stereophonics rispetto alla variante del genere detta un po' non ufficialmente "noelrock". Ma è comunque difficile sentire il cantato di Orzabal in questo brano in particolare e non ripensare a Liam Gallagher. Nel complesso la traccia è pallida ma decisa, dolce ma anche incoraggiante, con una struttura relativamente semplice e un accento cantautoriale non pretenzioso ma umile e intrigante. Un buon pezzo, anche se non esattamente originale. Passando al testo, come è già facile indovinare dal titolo questa è una canzone d'amore: "Venti giorni di pioggia / Diluvi improvvisi in febbraio / Di nuovo nelle nostre barche / Acqua da bagno e la bambina / Che cosa farò? / C'è stato molto bere / Guardando a fantasmi di te / Mentre tutto il mondo sta affondando / Diecimila miglia nell'atmosfera / Il mio corpo trema / C'è un benvenuto qui? / La cosa più vicina al paradiso / Come ci riesci?" Le liriche sfruttano (non per la prima volta nella storia del gruppo) metafore religiose relative al diluvio come momento di solitudine e mancanza, e al paradiso (che si trova fuori dall'atmosfera) come luogo lontano dalle acque impietose, fonte d'amore e di gioia. "Getta le tue braccia attorno al mondo / Fa dell'amore la tua destinazione / Eccoci qui ragazzi e ragazze / Agite come una generazione / Dammi quella palla da carcerato / Ormai dovrà far male / Trascinare i tuoi piedi di nuovo / Come una bestia da soma / Quando uno e uno e uno fanno due / So che sono su di giri perché ho catturato te / Guarda il mondo dritto nell'occhio / Mangia i paesi che fanno i milioni / Dolce come una torta di mele fatta in casa / Salvati dalle briciole per tutti i milioni che muoiono di fame". Altri riferimenti Beatlesiani: un invito all'amore come ideale generazionale, e un richiamo al testo di "Come Together" (1969): "One and one and one is three". E, per finire, un riferimento alle "politics of greed" già citate dal duo nel 1989, con un invito a sfamare i bisognosi e a combattere l'avidità.

Call me Mellow

"Call Me Mellow" (Chiamami dolce) inizia con un arpeggio jangle molto The Byrds, con una certa caratterizzazione anni '60 che però nel refrain riporta immediatamente, e vividamente, di nuovo al britpop e nello specifico allo storico gruppo The La's e alla loro hit "There She Goes" (1988), che in un passaggio appare chiaramente all'orecchio. Un'altra canzone nel suo insieme molto legata al rock inglese dei precedenti quindici anni (prima del 2004, cioè), e che lascia ascoltare anche alcuni timidi interventi di fiati come a rimarcare l'ispirazione corrispondente (pensiamo a "Penny Lane"?). Anche la coda comprende in breve alcune deviazioni, voci e rumori sullo sfondo che ricordano il finale di "Listen" (1985) degli stessi Tears for Fears ma qui più evidentemente volti alla costruzione di un "collage" un po' sperimentale stile anni '60 / '70 (pensiamo anche a varie sezioni di "Dark Side of the Moon"). Un brano valido quanto il secondo, non eccezionale ma ottimo all'ascolto se si è un minimo appassionati di brit rock e di tutto ciò che è seguito all'influenza dei Beatles. Comunque sia, è questa la canzone scelta come primo singolo tratto dall'album: una scelta forse non felice, dato che non si tratta certo del pezzo più forte nella tracklist. Anche questa canzone nel testo inneggia all'amore: "Riempi il cielo d'amore, riempi il cielo d'amore / Non m'importerebbe ma lei è appena apparsa sulla soglia / Peccaminosa e cinerea, un po' inzaccherata / L'ultima volta che l'ho vista stava ululando alla luna / Girando per la foresta, lupesca e rabbiosa". La metafora del lupo mannaro (evidente) concorre a simboleggiare la natura "selvaggia" di una donna invasa da una passione, più sessuale forse che solo amorosa: "Lei è selvaggia? / Vede il mio bambino interiore? / Ma poi lei sa che è come una maledizione / Vedere i nostri ruoli scelti invertiti / Unificare il mio universo / Chiamarmi dolce / Se solo io avessi metà dei miei anni e lei fosse più vecchia / Vivremmo su un gelato a Coney Island / Penso sia la gravità che tira giù il mio pallone / Lei rimane in orbita ben dopo la mezzanotte / Scivola e scorri / Lei ha tutti gli occhi lucidi?" La metafora prosegue nella concezione dell'amore come di una maledizione, proprio come la licantropia; e dalle liriche appare chiaro che, pur vedendola come tale, i due non intendono veramente liberarsene.

Size of Sorrow

"Size of Sorrow" (Grandi come la tristezza) è una canzone dolce e lenta introdotta da un arrangiamento minimale e semi-psichedelico che ricorda peculiarmente i lavori da solista di Curt Smith (che è, infatti, voce principale). Ma già con il primo refrain rieccoci al britpop, stavolta in chiave ballad e forse più Blur che Oasis. Come le precedenti, una canzone dall'arrangiamento un po' pallido, valido per i conoscitori del genere ma non esattamente incisivo. L'intenzione psichedelica viene rispettata soprattutto da un assolo di quello che sembra un sitar distorto (probabilmente una chitarra affidata a qualche effettistica), ma il resto della canzone rimane una composizione pop rock fondamentalmente semplice e prevedibile. Di questa canzone è interessante dire che era stata scritta da Orzabal già all'inizio degli anni '90 ed era stata suonata durante il tour per l'album "Elemental" nel 1993, cantata all'epoca dalla famosa bassista Gail Ann Dorsey (allora parte dell'organico della band), ma non pubblicata ai tempi sull'album. Il testo della canzone in questo caso è molto criptico e sembra parlare di sofferenza, condivisa e provata per una persona cara in una situazione difficile. "Fatti il bagno nella tomba di un altro uomo / In tempo ti seguiremo / Risparmia tutti i tuoi pensieri per questi giorni / Non rubare, prendi in prestito / Un filo alto è un gioco pericoloso / Ma un gesto difficile da seguire / Se volo alto come una falena verso la fiamma / Saranno i tuoi occhi grandi come la tristezza? Il dolore, posso capire il dolore / A volte semplicemente ingoi / Diciamo che possiamo mettere tutto a posto / Non rubare, prendi in prestito".

Who Killed Tangerine

"Who Killed Tangerine" (Chi ha ucciso mandarino) riprende le tentazioni epiche della prima traccia ma mantiene quella che è ormai chiaramente l'ispirazione portante dell'intero disco. La batteria ricorda nell'intro quella di "Come Together" (1969) dei Beatles e l'atmosfera un po' quella di "Tug of War" di Paul McCartney (1980), mentre il refrain, deciso e prorompente rispetto alla strofa sottile, annuncia un altro Macca, di quelli più decisi per esempio di "Magical Mystery Tour" (1967). Poco dopo il secondo minuto la canzone varia introducendo una sezione in linea con le precedenti ma più interessante e coinvolgente, comprendente un canto ripetuto e corale che ci riporta sia ai Beatles che agli stessi Tears for Fears (facile ripensare ad "Head Over Heels", 1985). Poi, si ricomincia da capo: strofa e secondo ritornello, con una coda che sembra molto quella di "All You Need Is Love" portata avanti su un giro di accordi circolare e con abbondare di entusiasmo "d'altri tempi". Meno entusiasmante, per così dire, il testo della canzone che sembra un altro invito all'azione e al bisogno di reagire contro le avversità della vita ma sfrutta metafore imprecise e poco convincenti: "Che cosa sceglierai, il veleno o le linee / Hai vissuto con il dolore pazzesco tutta la tua vita / Qualcosa nella tua mente semplicemente ti dice di no / La speranza nella conversazione inizia a correre / Incastrato in una ruota / Ti chiedi ogni giorni se sia tutto vero / Strizzi l'occhio ogni volta che tira un vento freddo / Il nostro amore non riempie un miglio in rosa". "Il dolore rimane, che cosa farai quando il vecchio uomo ti leggerà finché non sarai asciutto / Scendi dall'aereo e togliti l'occhio [un riferimento religioso a un passaggio della Bibbia in cui Gesù invita letteralmente a "togliersi un occhio"] / Scivola più a fondo, più vicino all'osso / Non speri semplicemente che il tuo cuore sia fatto di pietra? / Giri come un vecchio 45 giri [i vinili vengono in inglese detti anche "wax", cioè cera: da qui il verso: "Waxing like and old crack 45"] / Conti i modi in cui potresti restare vivo / Piazzando tutte le banche e sentendo le pietre / Il mio amore non le lascerà modo di sfumare".

Quiet Ones

"Quiet Ones" (I silenziosi) è il primo vero rock and roll chitarristico dell'album e ci riporta agli Oasis di "(What's the Story) Morning Glory" (1995). L'atmosfera è leggermente differente dalle composizioni precedenti, qui un po' più malinconica se non triste in certi punti, e quasi ricollegabile (a livello di tono, non di suoni) ai primi vecchi Tears for Fears, quelli più introspettivi e meno celebrativi di inizio anni '80. Anche il testo di questa canzone si presenta come piuttosto complesso e criptico: si parla dei "più silenziosi", ossia le persone timide e introverse, e ci si domanda se la loro natura porti più svantaggi o vantaggi nel vivere la vita. Il concetto è in linea con una certa poetica sposata dalla band specialmente nei suoi primi anni e in un certo qual modo richiama concettualmente "Behind Blue Eyes" degli Who; ma anche in questo caso i due sembrano perdersi un po' in metafore poco comprensibili e poco d'impatto. "Sono sempre i più silenziosi / Che sono più strani della finzione / Si nascondono sotto il tavolo come bambini / Che tipo di chimica è? / Di piombo o d'oro? / Nessuno sembra vedere che ci fa impazzire / È la tua vita / Non andare semplicemente a sbattere contro le onde / Oh guarda nei suoi occhi / Vedrai richiami così silenziosi / Niente sembra importare in questa vita / Sveglia vostra maestà ci sono ladri nel tempo / Prendono le macchie solari dal sole / Cerca la simmetria nell'uomo / Un altro scarafaggio morto [riferimento probabile alla morte di George Harrison, nel 2001] / Giù lungo la via, vediamo come corrono [altra citazione dei Beatles: "See how they run", da Lady Madonna, 1968]".

Who You Are

"Who You Are" (Chi sei tu) è un'altra ballad, sostenuta da un piano sottile e leggero e accompagnamenti semi-orchestrali ma su un'idea compositiva purtroppo blanda e poco sviluppata. Non aiutano troppo alcune note di chitarra rock e alcuni momenti psichedelici (suoni riprodotti al contrario, strane voci distorte) che sembrano tratti da "Their Satanic Majesties Request" (1967), l'album più psichedelico e sperimentale (nonché spesso considerato il peggiore) dei Rolling Stones. Un pezzo che poteva portare molto di più e che sceglie tuttavia, in base ovviamente alle intenzioni degli autori ed interpreti, di adagiarsi su un carattere piuttosto banale. In coda troviamo, appena udibile, una reprise della traccia introduttiva dell'album, che comunque a sua volta serve poco ad inspessire la validità di questa canzone in particolare. Il testo, scritto da Smith, è per contro uno dei migliori dell'album: parla di solitudine con immagini vivide e precise, e richiama brevemente anche la condizione infantile (come metafora di una delusione d'amore molto adulta) legandosi ad un altro tema caro ai Tears for Fears degli esordi: "Qualcuno beve tutto solo / Qualcuno ha lasciato la televisione accesa / Non credo, no non credo / Qualcuno dorme nel mio letto / Qualcuno ha fatto entrare il genio / Non credo, no non credo / Tu sai chi sei, chi sei oggi / Il bambino se n'è andato ed è morto di nuovo / Preso dalla corrente di nuovo / E non c'è nessuna sorpresa / Lei odia gli addii / Qualcuno piega aeroplanini di carta / Qualcuno è al telefono di nuovo / Qualcuno piange per un sonetto / Qualcuno si nasconde da qualcuno / Non credo, no non credo / Tu sai chi sei, chi sei oggi".

The Devil

"The Devil" (Il diavolo) comincia come brano pianistico intenso sostenuto da un arpeggio particolare e non troppo prevedibile. Qui sentiamo i primi Coldplay, quelli un po' più fantasiosi, e allo stesso tempo riscopriamo lo stile dell'Orzabal più "coraggioso"; nella seconda sezione il pezzo si rende più forte, con un climax breve ma coinvolgente. In definitiva, Il brano più atipico, valido e "scomodo" rispetto alle convenzioni d'ascolto, che si potrebbe tranquillamente definire la "gemma" nascosta che si ritrova nella lista tracce di ogni album. Anche il testo di questa canzone sembra parlare di perdizione, di una sorta di "corruzione" dell'animo che va anche oltre la vita e la morte; ma non è chiaro se anche in questo caso sia legata ai risvolti peccaminosi di una passione d'amore. "Il diavolo, prendimi ora / Perché sono stato accompagnato fuori / Perché tu sei come me / Ma io posso sanguinare / E posso morire / Ma non posso nascondermi da te / Prigionieri, certamente / Presi con la forza / Per soffocare i miei corsi / Stanotte nei miei sogni / Perché posso morire / Ma non posso nascondermi / La strada è sgombra / Lontano da qui e da te".

Secret World

"Secret World" (Mondo segreto) non abbandona le ispirazioni seguite fin qui ma comprende un certo accento orchestrale che ci riporta non ai Beatles, non agli Oasis, ma piuttosto ai Bee Gees degli anni '70 nella loro era pre-disco. Un pezzo non esattamente entusiasmante, confuso nell'arrangiamento e poco d'impatto nel refrain. Se si dovesse eleggere una traccia "peggiore" di questo disco, sarebbe probabilmente questa assieme a "Who You Are". Nelle liriche del brano si parla ancora d'amore ma in maniera particolare, costruendo la metafora di un rapporto come quella di un mondo segreto, appunto, appartenente e visibile solo ai due amanti e in quanto tale inconoscibile da chiunque altro e sito al di fuori delle leggi dello spazio e del tempo. "Questo è un giardino / Questo è un campanile / Sento la folla / Sempre prima di / Vedere la gente / Tuo se chiedi di me / E mi puoi prendere / C'è un potere nel vuoto / Che creiamo / Io e te abbiamo un mondo segreto / E lo possiamo tenere dispiegato / E non dare attenzione / Alla culla o alla tomba / E quando veniamo traditi / Possiamo dire che siamo persi / Nel mezzo del niente / Penso che ti piacerà parecchio / E se sbagliamo / E finiamo da soli / Accenderemo un cero / Per le loro ossa innocenti".

Killing with Kindness

"Killing with Kindness" (Uccidere con gentilezza) dà inizio alla parte finale dell'album con un altro momento d'atmosfera lento e quasi misterioso. Nel refrain tuttavia si trasforma in un altro brano britpop, con un inciso però stavolta più mirato e convincente. E l'alternanza tra le due sezioni regala un pezzo interessante, forse l'unico dell'album che non suoni troppo come "l'imitazione" di qualcosa ma più come una composizione originale, per quanto certamente riconducibile ad un determinato genere e a determinati suoni. Rimane forse il momento più convincente e tutto sommato ragguardevole di questo album. Anche le liriche si dimostrano in questo caso peculiari, andando oltre l'usuale allegoria d'amore e costruendo una specie di immagine di un essere umano negativo e ipocrita, descritto tramite le sue caratteristiche e azioni, che si prefigura come tale in quanto "uccide con gentilezza" ed è perciò non solo un vigliacco ma anche un pericolo imprevisto, non ravvisabile come tale. Una figura negativa dalla quale guardarsi e dalla quale fuggire, che può essere tutto: una donna, un politico, un essere umano apparentemente normale oppure no: "Non piangere per me bambina / Non dire una parola / Tutti sanno che sei un uccello pericoloso / Vola come un'aquila d'oro / Elegante come la neve / Fai ticchettare la tua bomba a tempo ovunque vai / Affondi una linea senza una traccia / Con eleganti crimini contro lo stato / Uccidendo con gentilezza / Facendo più casino possibile / Sei madre e senza figli / Uccidili con gentilezza / Arrivederci crudele politico / Ora sei stato preso / Sono arrivati da dietro / È un punto pericoloso / Verdi sono i semi dell'invidia / Guarda come crescono / Tutti sanno che c'è un fuoco giù in basso / Uccidendo con gentilezza / Facendo sorgere il fantasma dalla carne / Non accecarli con la scienza / Uccidili con gentilezza / Girati di schiena / E potresti capire / Diventare il tuo destino / E sarai un uomo fortunato / Non lasciare che niente si metta sulla tua via".

Ladybird

"Ladybird" (Coccinella), la penultima canzone, è un pezzo semi-acustico che si trova ancora una volta in bilico tra Paul McCartney e Noel Gallagher. La chitarra acustica sostiene l'insieme ma una cornice d'atmosfera rock interviene presto a portare validità alla composizione, rendendola trasognante se non direttamente onirica. Per qualche ragione l'impressione che se ne ha è quella di una composizione che potrebbe comparire sul White Album, con alcuni piccoli momenti di minima complessità che suggeriscono il passato pseudo-prog dei Tears for Fears, senza abbandonarvisi. Comunque, tra le migliori canzoni dell'album. Sembra che questo sia il primo brano scritto insieme dai due musicisti una volta riuniti, e lo si coglie bene nel testo colmo di immagini dalle quali traspaiono speranza, voglia di ricominciare e di lasciarsi il passato alle spalle: "Dimmi una storia di mente sopra la materia [cioè, qualcosa di astratto] / La speranza e la gloria della vita per sempre [cioè, il "per sempre felici e contenti" delle fiabe] / Il suono e la furia di mantello e pugnale ["cloak and dagger", espressione utilizzata per indicare una storia di mistero] / Giorni in cui affondiamo come una pietra / Ritratti di porcellana e medaglioni d'argento / Soldati di plastica che marciano in battaglioni / Angeli di pietà e compagni di vita / Giorni in cui affondiamo come una pietra / C'è una stanza da qualche parte con un aspetto diverso / Dove la tua vita segreta è un libro aperto / Dove l'amore che abbiamo fatto era un rischio che abbiamo corso / Giorni in cui affondiamo come una pietra / Coccinella vola via, i nostri amici se ne sono andati / Coccinella vola via, la nostra casa va a fuoco / Lasciateci essere amanti, ci scioglieremo dopo mezzanotte / Issa la vela maestra, costeggeremo lungo la luce del giorno / Contorti come candele che scompaiono nella mezza luce / Giorni in cui affondiamo come una pietra / Beh a volte moriamo per ricominciare di nuovo / Quando gli stessi vecchi sogni hanno la stessa vecchia fine / Quando perdiamo la nostra mente o perdiamo i nostri amici / Giorni in cui affondiamo come una pietra".

Last Days on Earth

"Last Days on Earth" (Gli ultimi giorni sulla Terra) chiude l'album con un altro peculiare momento anni '70 completamente distante dalle usuali composizioni della band. La copertura dell'intero brano con un sottile filo orchestrale di sottofondo, il basso tastiera alla Stevie Wonder, le chitarre funky e persino i vocals ricordando con precisione qualcosa che sarebbe potuto uscire nel 1975 o nel 1976 e cantato da Gilbert O'Sullivan o da Leo Sayer. Interessante perché se non altro devia fortemente appunto sia dal resto del disco che da ciò che sempre si è abituati a sentire per voce (e musica) dei Tears for Fears. E si conclude in bellezza con un altro inno all'amore, in questo caso non particolarmente originale specie se si pensa che si tratta delle liriche di fine disco: "Stufo di questa vita elegante / Con la miglior volontà del mondo / È una spina nel tuo fianco / Stordito, non un poco confuso [riferimento alla famosa canzone dei Led Zeppelin "Dazed and Confused", 1969] / Lasciamo che il paziente faccia il lavoro / Non hanno nulla da perdere / Ti ho detto che ti stringerò fino agli ultimi giorni sulla Terra / Legami che sono testati e messi alla prova / Come l'impatto delle onde / Saremo persi nella marea / Porta via il dolore per l'ultima volta / Come una eco in una caverna / Lascia che muoia nella tua mente / Se dovessi cadere in queste braccia aperte / Saresti benedetta, non solo perplessa / Sveglia la loro mente amore, è un mondo solitario / Dove niente sulla Terra muore come una verità".

Conclusioni

"Everybody Loves a Happy Ending" è chiaramente definibile come un disco britpop. Parliamo del genere sviluppatosi lentamente dal rock alternativo inglese a partire dagli esperimenti negli anni '80 di The Smiths, i primi Pulp, alcune cose di Echo & The Bunnymen (dopo metà decennio) e degli Stone Roses, e sorto a fenomeno con i dischi di Suede, Oasis, Blur, Supergrass, Cast, Verve. Un genere inizialmente ignorato dai Tears for Fears e poi, con il solo Orzabal alla guida negli anni '90, guardato un po' da distanza o in altre occasioni timidamente accolto ed introdotto nelle sonorità del gruppo. Ma anche negli anni '90 la band ex-new wave ed ex-pop prog si rivolgeva più volentieri piuttosto al grunge o al rock alternativo locale (famosa rimane una cover, risalente a questo periodo, di "Creep" dei Radiohead). Ed essendo le canzoni del presente album state scritte tra il 2000 e il 2004 parliamo di un periodo nel quale il britpop ha superato e già di molto il suo picco di influenza e creativo, con gli Oasis come unica forza dominante, i Coldplay presto tramutati in araldi dell'indie pop, i Blur completamente convertiti ad altri suoni e alcuni sporadici successi in linea con questo stile musicale riconducibili a band ricordate oggi più che altro come one hit wonder, come The Keane, Razorlight, Starsailor o Travis; al fianco di tutto ciò del britpop a inizio millennio rimangono gruppi semi-sperimentali come i Doves o presto convertiti all'indie come gli Snow Patrol. I Tears for Fears prendono posizione in tutto questo rifacendosi al contempo ai suoni che del britpop stesso erano ispirazione già anni prima, ricollegandosi con un cordone ombelicale musicale agli anni '60 e ai Beatles, ai Kinks, ai Rolling Stones e ad altri gruppi e suoni dell'epoca. Tendenze del genere si sentivano già, in ambito britpop, nella musica degli Stone Roses e sul versante psichedelico sono poi particolarmente evidenti nello stile dei (sottovalutatissimi) Kula Shaker, che producono a fine anni '90 una neo-psichedelia molto "gimmick" ma ciò non di meno grandemente d'impatto. E i Tears for Fears? Le loro aspirazioni "Beatlesiane" erano già evidenti nella sopra citata Head Over Heels (1985) e di fatto inconfondibili nella famosa Sowing the Seeds of Love (1989). L'album dell'89 era stato quello poi in cui Orzabal aveva cercato di prendere il controllo e di trasformare i Tears for Fears nei "Beatles 2", con una serie di composizioni ambiziose e di alto livello ma in una confusione d'insieme che purtroppo non aveva premiato e aveva portato, di fatto, alla separazione del duo; e questo ci riporta al discorso con cui abbiamo aperto. Passati diversi anni, Orzabal e Smith più maturi (per non dire invecchiati), meno coinvolti dalla fervidezza della scena e riformatisi come coppia creativa troppo tardi per rendersi partecipi o forse protagonisti degli anni d'oro del britpop (che tocca i suoi livelli massimi di qualità e popolarità tra il 1994 e il 1997), cercando con il nuovo album in ogni caso di recuperare posizione nel panorama inglese. Impresa disperata e per certi versi fallita in partenza, tentata da un gruppo che non è più davvero popolare da quindici anni e che adotta suoni per le nuove canzoni che sono di fatto già datati; questo mentre poi la musica anni '00 è pronta alla fine dell'era sia britpop che post-britpop e all'arrivo di nuovi suoni categorizzati sotto l'etichetta grossolana ma del resto dirompente che tutti ancora oggi conoscono come "indie". Già i Libertines hanno portato una ventata di freschezza reminiscente del punk e in terra inglese il garage rock / post-punk revival di Franz Ferdinand, Bloc Party e Arctic Monkeys riscrive tutte le tendenze. Nel 2004 è ancora presto, succederà subito dopo; ma il clima è già quello e per i Tears for Fears è troppo tardi per recuperare il loro "momentum". Infatti l'accoglienza critica dell'album è molto, molto tiepida: Blender assegna addirittura una sola stella su cinque, mentre su Metacritic conta un voto di 65/100. Non migliore il responso del pubblico, che tiene il disco fuori dalle top delle principali classifiche e, dove va bene, gli consente qualche buona posizione più per via dell'effetto nostalgia scatenato dal ritorno del duo che per altro. In Italia il disco raggiunge la posizione numero 68 secondo la classifica FIMI, mentre in Gran Bretagna arriva in decima posizione solo nella chart UK Independent Albums, ed è il massimo risultato raggiunto. Per non dire poi dei singoli, completamente fallimentari: solo Closest Thing to Heaven raggiunge una timida posizione numero 40 nella classifica inglese. In seguito i Tears for Fears continuano i loro tour e dal vivo il pubblico li accoglie, per forza di cose, più fedelmente e con maggior calore. Ma questo non cancella lo scarso risultato di quello che doveva essere un grande ritorno, ragion per cui i due aspetteranno quasi vent'anni per pubblicare un altro album. Che sarà "The Tipping Point", uscito solo nel 2022.

1) Everybody Loves a Happy Ending
2) Closest Thing to Heaven
3) Call me Mellow
4) Size of Sorrow
5) Who Killed Tangerine
6) Quiet Ones
7) Who You Are
8) The Devil
9) Secret World
10) Killing with Kindness
11) Ladybird
12) Last Days on Earth
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