STRATOVARIUS

Twilight Time

1992 - Noise Records

A CURA DI
YURI SFRATTI
18/02/2015
TEMPO DI LETTURA:
7,5

Recensione

I primi anni ’90 i gruppi Power metal trovarono terreno fertile, riuscendo a fare terra bruciata in torno a loro, nonostante lo strapotere della musica e dell’estetica Grunge, proveniente da oltreoceano, ma che a differenza della logica con cui era nata, era diventata una moda mainstream. In tale ambito, l’Europa guardava più alla Germania che non più a nord, dove gli Stratovarius furono una stupefacente sorpresa nell’ambito del power. Band come i pirateschi Running Wild dell’eccentrico cantante e chitarrista Rolf Kasparek, oltre a poter vantare uno zoccolo duro di ammiratori, erano già arrivati alla settima fatica in studio ed un album dal vivo (“Ready for boarding” del 1988) oltre che una manciata tra singoli ed EP al 1992; così come i Rage di Peavy Wagner, i Blind Guardian e le maggiori band del genere, gli Helloween (un’istituzione!) e i Gamma Ray del fuoriuscito axeman Kai Hansen, accompagnato dall’energumeno Ralf Scheepers come cantante, che da li a poco fonderà i Primal Fear, a seguito della frustrazione di non poter sostituire Rob Halford nei Judas Priest (con futuro rimpianto del duo Downing e Tipton) per vincoli legali legati a disguidi delle case discografiche. Dopo il misurato successo della prima fatica su 33 giri, la band finnica vedrà incrementare la sua fortuna, durante il tour che ne seguì, suonando come spalla di band anche estere e ben più note, come gli Anthrax. Ma è alla fine del suddetto tour che si registrò una defezione importante in seno alla band: il bassista che registrò la prima fatica, Jyrki Lentonen, abbandonò la band, sostituito da Jari Behm, che vi rimase nel biennio 1992/93, senza registrare alcunché, e quindi, limitandosi alla sola attività live. In compenso, il tastierista Antti Ikonen, che fino ad allora era stato relegato al ruolo di turnista, entrò, finalmente, in pianta stabile quale quarto membro: occupazione che ricoprì fino al 1995, quando, dopo le registrazioni di Fourth dimension, verrà a sua volta sostituito dallo svedese Jens Johansson (nato a Stoccolma il 2 novembre 1963), attuale tastierista e compositore. Terminato il tour a supporto del primo album, la band, cominciò a lavorare alla composizione di nuove canzoni, dividendo di fatto il 1991 tra registrazioni, mixaggi e l’attività live. Il risultato di tale fatica, uscì nei primi mesi dell’anno seguente, con il titolo alquanto manchevole di creatività di Stratovarius II, per la Bluelight record. Pur non partecipando alle sedute di registrazione, Lentonen, venne citato quale bassista; ruolo, che venne raccolto, di fatto, dallo stesso Tolkki in studio, oltre a ricoprire, nuovamente le vesti di cantante. Nelle successive ristampe dell’album, che assumeranno il titolo ben più soddisfacente di Twilight Time, con l’etichetta Shark record, verrà inserita un’immagine del quartetto con Jari Behm, che però, giungerà così nel ’93, nell’anno successivo all’uscita del disco, sostituendo il provvisorio bassista poc’anzi citato. Ma anch’egli, per motivi attualmente ignoti, abbandonò la band nel medesimo anno in cui era entrato a far parte, venendo così sostituito in pianta stabile da Jari Kainulainen (nato ad Helsinki il 29 aprile 1970), che vi rimarrà per ben dodici anni, essendo così presente nel periodo più florido del gruppo. Jari è da ricordare, in quanto, fu il primo bassista degli Stratovarius ad utilizzare non un canonico basso a quattro corde, ma due bassi a cinque e sei corde, rispettivamente un ESP, ed un modello SR3600 customizzato del Ibanez, settando il suono con un pedale wha wha (modello Cry baby), solitamente, utilizzato quale effetto per chitarra, oltre che ad un classico overdrive per rendere il suono più forte e deciso. Le migliorie stilistiche, strumentali e compositive, risultano alquanto evidenti, tanto che il varco che intercorre tra la prima fatica in studio e questa seconda prova, appare abbondantemente esteso. Tanto che, ad ascoltarli separatamente, si potrebbe ritenere che siano due band differenti a suonare. L’impegno propenso a questa maturazione, verrà ricompensato in termini di vendite, tanto che, col secondo titolo, la band riuscirà a trasportare in alto alle classifiche di vendita giapponesi, raggiungendo addirittura niente di meno che la top ten delle vendite.



Ad aprire le danze, è una canzone su un amore sofferto, e quale migliore brano, per rompere il ghiaccio, se non uno intitolato proprio Break the ice ? Brano che fu anche il lato B del singolo che anticipò l’album: fin all’esordio promette una notevole esplosione di potenza, esplosione che tuttavia va scemando durante il percorso, unendo un cantato, se pur migliorato dal precedente lavoro, ancora incerto nell’esecuzione e piatto, specialmente in questa; se si esclude la miglioria nell’uso più sapiente delle corde vocali, e si ascoltasse solo questa prima traccia, si rimarrebbe fermi al giudizio che sarebbe meglio spegnere lo stereo e rimettere il compact disc dentro l’apposita custodia, ma non si farebbe in tempo a pensar ciò che con impeto giunge un inaspettato intermezzo simil ambient e l’assolo suadente riportano in pari il punteggio, segnando numeri a favore di quanto appena udito. Nelle note che si sentono scorrere durante l’ascolto, si riesce bene a percepire quale sia il plot di fondo della canzone; l’amore e il dolore, un dualismo che forse troppe persone sono costrette a vivere in tanti momenti della vita, questo percorso che spesso finisce con le lacrime. Gli Stratovarius tentano di analizzare proprio queste meccaniche, mettendo in luce gli aspetti più bui e nascosti dell’animo umano, rivelando quanto l’amore possa essere una vera spada di Damocle che aleggia sulla testa, il “Rompere il ghiaccio del titolo”, può riferirsi sia al momento dell’inizio, in cui ancora la positività mentale e del cuore la fanno da padroni, e ci vuole soltanto quella virgola messa al posto giusto per iniziare il rapporto. Può anche riferirsi però all’atto con cui una storia si conclude, quando si scava sotto la superfice dura e rigida delle menzogne, e si scopre l’amara e cruda verità. Purtroppo, a dispetto –appunto- del titolo piuttosto prorompente, il brano non sa dare fede alla sua traduzione, e così che relegarlo al lato B del singolo si dimostrò un’idea azzeccata ed intelligente che non venne presa in considerazione dall’eventuale compilatore della track list, che decise di far aprire l’esperienza sonora di “Twilight time” con un pezzo decisamente debole e sottotono rispetto ad altre della produzione della band finnica. Probabilmente, un brano più adrenalinico e veloce, avrebbe aiutato a concepire meglio l’impresa. Poco male, se si guarda dalla prospettiva ottimistica che un brano minore, aiuta a mettere più in buona luce quelli di più pregevole fattura. La cupezza si intravede nelle parole così come nel testo, che continua a camminare con sprazzi improvvisi di rabbia brusca e repentina. Memorabile è invece The Hands of Time, avvincente fin dal primo ascolto, con una magica introduzione tastieristica alla quale fa eco la chitarra che ne esegue il medesimo giro; la parte cantata risulta altrettanto avvincente e vincente, tanto che il ritornello non suona estraneo o totalmente divergente dalle strofe, ma ne è la naturale conseguenza evolutiva: appare qualitativamente un’unica forma indivisa. Un cantato che va veloce per un testo che va appunto veloce: il tema, già ricorrente, è quello del tempo che passa inesorabile e impietoso, che verrà ripreso anche per il successivo singolo Father time del 1996. Durante il brano si riesce bene a comprendere quale sia il meccanismo che gli Stratovarius vogliono infilare nella nostra testa come un ago ben piantato nel cervello; il tempo è una creatura mistica, una chimera che si può inseguire quanto vogliamo, ma essa non si lascerà mai catturare da nessuno, continuerà la sua corsa imperterrita e fiera, materializzandosi di tanto in tanto nella nostra vita, ma non facendosi mai prendere; ogni uomo sa che lo scorrere del tempo è inesorabile, perciò  la vita va vissuta al massimo delle sue potenzialità fin dai primi momenti che poggiamo i piedi su questa terra, non ci devono essere attimi in cui siamo troppo stanchi o troppo affaticati per fare le cose, ma dobbiamo essere sempre “sul pezzo”, non arrenderci mai e continuare a proseguire per la nostra strada, con il tempo che ci guarda dall’alto. L’assolo va realizzandosi in maniera  manieristica, ma mai forzata e leziosa, mostrando una fulgida combinazione di chiare esposizioni strumentali appoggiate particolarmente alla struttura complessiva dell’humus del brano. L’uso smodato e smisurato delle tastiere, sarà un marchio di fabbrica che da li a venire sarà elemento di riconoscimento degli Stratovarius. E questo, nello specifico, sarà il primo album veramente “tastieroso”, suono che spesso sarà ora solista, ora accompagnatore, ora addirittura abbellitore delle linee chitarristiche, oppure evocativo, come accadrà da li a qualche anno con il riff adrenalinico e -soprattutto- così veloce da risultare inafferrabile di “Black diamond”, le cui note da “formula 1” rimandano il pensiero a questa band,( nella fattispecie in cui la mente rimanda ai Deep Purple ogni qual volta si ascolta quei miseri bicordi tagliati con l’accetta del riff iconico di “Smoke on the water”). Questo però sarà un altro album, un altro tastierista, un’altra storia e un altro successo, infinitamente ben maggiore. Certo, “Hands…” non ha la forza evocativa di “Black diamond”, ma del resto gioirà di gloria postuma, venendo ripresa, non casualmente, per la sua straordinaria bellezza, nei live recenti della band, nonostante nessuno dell’attuale formazione attuale fosse allora presente nel   periodo della registrazione. Uno dei punti forti del complessivo lavoro, un pezzo che probabilmente non avrebbe sfigurato come brano d’apertura del disco, ma che all’epoca, probabilmente, non godette di molta considerazione; evidentemente “Hands…” fa parte di quella schiera di canzoni che, come il buon vino, vanno apprezzate invecchiando, ma che all’epoca del loro “imbottigliamento” su disco, passano in secondo luogo. La storia della musica è piena di esponenti illustri e pregressi, e questa non fa eccezione. Un’altra perla del brano che è quasi obbligatorio sottolineare, è quel meccanismo attraverso il quale dallo scorrere del tempo si passa a citare la “ruota del tempo”, e la mente più dell’amante del fantasy anziché del metalhead (ma spesso le due figure si sovrappongono unendosi nello stesso personaggio)entra in gioco; vi sono infatti pochi passi da percorre per arrivare a pensare che vi sia una citazione (probabilmente voluta), all’opera omonima del prolifico Robert Jordan (1948 – 2007) che con la serie de “La ruota del tempo” tanto fece parlare di se, e che in quei primi anni ’90 cominciava a riscuotere un notevole successo di pubblico e di critica; viene da chiedersi se Tolki con Lassila si sono mai immersi nella lettura dei primi corposi volumi di quest’opera.  Le divulgazioni strumentali fanno il loro dovere anche in Madness strikes at midnight, che già dall’introduzione con arpeggio e suoni d’organo spettrali, per due minuti, da il giusto sapore ad una vicenda che verrà narrata da li a poco, conseguente all’entrata prepotente dei suoni distorti: si narra di un fuggitivo notturno di un manicomio, probabilmente un serial killer che sta scontando la propria pena; la mente di questo folle ci viene descritta come un vortice senza fine, le sue parole escono dalla bocca come un fiume in piena, e ci ritroviamo invischiati come in una pozza d’olio nella sua malattia efferata. Egli asserisce che colpirà ancora, la sua lama taglierà ancora la carne di qualche ignara vittima, ogni passo che farà nel mondo (anche se non da vivo) verrà rimarcato sul mondo stesso come una piaga; queste però, come si evince, sono soltanto le fantasie di un folle, dato che l’attesa prima del momento fatale è ormai vicina, il Serial Killer urla, sbava e morde il mondo prima di lasciarlo per sempre, questo incubo ambulante forse rimarrà comunque impresso nelle menti di molti, un ricordo , anzi, un incubo, che difficilmente si può togliere dalla testa. Le strofe si susseguono veloci, così come i ritornelli, in cui è ampio ma abbastanza abusato l’uso dei cori durante il ritornello; è presente il solito assolo alla Tolkki d’ordinanza, e una chiusura simile all’introduzione, se pur decisamente più breve (sarebbe ottima da inserire in una colonna sonora di un b-movie thriller e/o horror). Del resto, metal e cinematografia dell’orrore non è mai stato negato che siano sempre andati d’amore e d’accordo, basti pensare che gli stessi padrini del genere, i Black Sabbath, nel lontano 1969 si battezzarono con tale “nome e cognome” per via di un film del regista Mario Bava (titolo originale in italiano, “I tre volti della paura”), o il noto “prestito” degli Iron Maiden di “Flesh of the blade” per la pellicola “Phenomena” del 1985, o ancora, l’arcinoto amore per la musica metal (rigorosamente ascoltata su vinile!) dell’ispettore –dell’incubo- dei fumetti più controverso di sempre, Dylan Dog; e chissà, se qualche regista, un giorno, leggendo queste mia recensione, inserirà “Madness…” nella colonna sonora di un suo lavoro? E perché no? Magari nel momento esatto in cui la suspense si spezza e parte il momento adrenalinico dell’attacco, in cui il puro terrore si impadronisce delle sensazioni dello spettatore: questa canzone, ha proprio tutte le carte in regola per realizzare ciò. Metal Frenzy giunge all’incirca a metà dell’itinerario sonoro, unico brano strumentale del disco, opera del solo Tolkki, ha il compito (o meglio, aveva, nell’edizione in vinile) di porsi quale ceppo del termine del primo lato del disco. Comincia con un conteggio in ordine crescente, sviluppando una base sul banale andante (forse un abbozzo di canzone) al limite del retorico, nell’abc del genere. Un esercizio di stile, un riempitivo, nulla di più: con un Tolkki alle prese per ben due volte ad imitare senza particolare fantasia un Malmsteen che sta esercitandosi sulla tastiera della propria “ascia”: training antecedente a qualcosa di più serio e profondo, che sembra non arrivare mai, e infatti così è. I suoni gravi di tastiere, si limitano a fare una comparsa tanto breve quanto inservibile, tanto che sembra che Ikonnen sia passato di li per sbaglio, inciampando sui tasti. Due minuti e ventuno secondi di vana gloria, autocitazione indulgente, evitabilissima, che nulla aggiunge al disco, se non un breve minutaggio, che si fa dimenticare in tempo ancor minore di quanto duri. Per fortuna la noia termina col velocizzarsi dell’esecuzione, verso il finale e una successiva risata: che fosse uno scherzo? Probabile, si spera sia così. Nel frattempo l’ascoltatore ha perso quasi due minuti e mezzo della propria esistenza. Fortuna vuole che a risollevare le sorti, finalmente giunga la Title-Track, che con i suoi quasi (tutt’altro che radiofonici) 6 minuti di durata, risolleva le sorti e ha modo di aumentare lo spessore che andava perdendosi. La solenne drammaticità con cui esordisce nell’introduzione strumentale non va perdendosi durante l’arrivo ed il susseguirsi del cantato, ma anzi, è lo stesso che col suo incedere dispotico, ma mai brutale, devolve significato e pathos al tutto, esprimendo tutto il furore che riesce e che deve esprimere una tale interpretazione. Il ritornello, calca ancora più la mano (e la voce!) sul lato drammatico della rappresentazione, ma appare appartenere ad un’altra canzone, tanto che è diverso dalla strofa. L’assolo azzeccato, anticipa, come in “Break the ice”, un inaspettato intermezzo quasi ambient, ma con chitarre ben evidenziate, al cui termine, vi si ripete il ritornello con la voce che va sfumando verso gli strumenti per poi riapparire, ma lasciare a questi il compito di terminare l’avvenimento. Una drammaticità espressiva offerta al tema del “tempo del crepuscolo”, appunto, ovvero, quel tempo della vita, in cui un uomo è da solo con se stesso, accompagnato dalle sue paure e dai timori congeniti al riflettere all’esistenza pregressa e dell’esperienza vissuta. Nel luogo dove l’essere umano si trova a parlare col proprio Io il silenzio si fa quasi ovattato e assordante, boati di niente che si stagliano nella nostra mente, siamo soli con lei, dialoghiamo come in un brainstorming senza fine, le parole ci escono come impazzite, ma sappiamo bene quanto sia importante questa operazione, ci consente di avere piena coscienza di noi stessi. Un amore per le tematiche d’introspezione, se pur espresso con terminologia minima e rudimentale, che appare tanto cara ai primi Stratovarius e non solo. È un amore vissuto e poi perso, ma soprattutto vissuto come un episodio della serie tv cult d’annata “The twilight zone” (in italiano, “Ai confini della realtà”), la cui assonanza col titolo sa creare quel fascino che solo certe casualità risonanti all’orecchio sanno avere: il mistero della vita coi suoi rispettivi enigmi non sono mai descritti con banalità, seppur con parole semplici, ma sanno affrontare in maniera tutt’altro che semplicistica i minuti di una canzone e le sensazioni che questa sa dare all’ascoltatore, che la vive come se fosse propria, pur non essendo l’autore e quindi il probabile ricevente (e rielaboratore) di quell’esperienza, così finemente descritta da frasi che arrivano dirette all’anima e da sferzate di chitarra che frustano come un improvviso soffio di vento artico sul volto. Rimane un mistero, invece, il titolo della settima traccia, The hills have eyes, che stando alle prime impressioni, la si potrebbe pensare un omaggio al cult movie del genere splatter omonimo del regista Wes Craven (in italiano, tradotto letteralmente “Le colline hanno gli occhi”, uscito nel 1977), ma mai impressione potrebbe apparire più distante; al contrario di quanto si pensi, i protagonisti della vicenda non sono i membri di quella famiglia americana media della pellicola, che, addentrandosi nel deserto del Nevada per una vacanza, viene assalita dagli zombie cannibali, ma bensì la metà di una famiglia: un padre ed un figlio, tema molto caro allo stesso Tolkki ( che in futuro dedicherà altre canzoni al padre, tra cui la dolcissima Forever, tra le più celebri). Non si capisce dove si svolga la vicenda, ma dalle tematiche, si intuisce che si narri di un genitore che elargisce un’antica ed esoterica sapienza al proprio congiunto, nella doppia veste di prole e discepolo, oltre a ciò indottrinandolo su come affrontare i pericoli nel cammino della vita, tra cui certe intricate decisioni. Il culto affidato dal padre alla propria progenie ha il colore dell’oscurità, riti che si compiono nella notte, e le “colline” del titolo, potrebbero essere riferite agli spiriti malvagi che aleggiano proprio durante questi rituali, osservando padre e figlio prendere la strada del male e della perdizione. I 6,20 minuti si accendono nel migliore dei modi: poche pesanti note d’organo e meste campane a tenere il ritmo, compito mantenuto per circa un minuto, indugianti l’arrivo della batteria che non lascia dare il cambio di guardia, ma le accompagna per un ulteriore minuto, aiutati ulteriormente dalla chitarra, che entrerà protagonista, ma ancora con un temperamento contenibile, finché per neanche un ulteriore minuto, assume un assetto prepotente, eseguendo il riff che anticipa la parte cantata e che seguirà per la successiva distanza, fino a che non giunge un assolo centrale a fendere il dialogo padre-figlio, e terminante un ulteriore assolo. Un brano che si fa ricordare, e non per un ritornello (che non c’è) orecchiabile o un riff particolarmente avvezzo all’ascolto facile, ma piuttosto per via dell’acuta complessità resa a disposizione alla costruzione della canzone stessa. È con un piccolo assolo introduttivo, colmo di positività e vitalità, che si apre Out of the shadows, così forte da saper facilmente toccare il cuore; positività che si disperde poco dopo con la ritmica serrata e terzinata che va rincorrendo fino al canto, canto che è un’invocazione a non arrendersi e a superare, altre tematiche molto care allo stesso Tolkki, e che riprenderà più volte in futuro, in canzoni come nella più famosa Hunting high and low, di otto anni più giovane. La nebbia fitta che assale la vita di tante persone, alle volte può essere diradata con la forza di volontà, attraverso quei meccanismi con cui gli uomini sono capaci di cose straordinarie; gli Stratovarius ci inseriscono in un contesto nel quale vediamo come la sola brama di libertà e correttezza nella vita, possa farci vedere un sole così splendente da accecarci gli occhi quasi, ma è un piacevole tepore da sopportare, abbiamo sconfitto il male, quegli ostacoli che la vita stessa ci ha messo davanti, e tutte quelle persone che ci hanno sempre additato dicendoci “non ce la puoi fare”, quando la nebbia del nostro essere scompare, finalmente anche noi brilliamo di felicità. Nella “luce della foschia” citata nel brano, si intravede un paesaggio finlandese, simile di molto alla bandiera estone (l’Estonia potrebbe considerarsi un’appendice della stessa Finlandia per lingua, cultura ed etnia), con l’azzurro del cielo, il nero delle foreste oscure e il biancore delle gelate di nevischio sul terreno, ma scorgendo meglio il significato, si capisce che la foresta in cui il protagonista si perde, è nei meandri della sua mente. Il ritornello si ripete due volte, il proverbiale assolo giunge e quasi si dimentica, ma nel complesso la band da l’idea di saper fare il proprio dovere. Il testo è scritto a quattro mani da Tolkki e Lassila, come un po’ tutte le liriche di questo disco (fatta eccezione per “Madness strikes at midnight” e “Lead us into the light”, del solo Tolkki e di “The hills have eyes” del solo Lassila), e le ombre di cui si parlano, sembrano sparire quando giunge l’atteso e irrimandabile crepuscolo (irrinunciabile appuntamento col proprio destino). Arriva come una redenzione finale che rivolge lo sguardo con entusiasmo all’assoluto, il crepuscolo che intitola il disco. Crepuscolo non sempre negativo e utile alla ponderazione, ma non vi è tempo per meditare mentre si ascolta “Out of…”, perché il ritmo corre e con lui il tempo, non lasciando nemmeno un mezzo minuto per riprendere fiato che ecco cominciare un’altra canzone, l’ultima. A terminare i 42 minuti di “Twilight time”, quindi, viene posta Lead us into the light, lato A del singolo anticipatore dell’album: situazione curiosa, se si pensa che venne posta come A side su singolo, ma ultima track dell’album, a differenza della prima traccia dell’album, posta, come B side del singolo (un richiamo simbolico all’evangelico motto “gli ultimi saranno i primi”? Casualità?). Non ci è dato saperlo, probabilmente non si sarà trattato ne del Cristo e neanche di un buon messia, quello a cui si rivolgono le pecore in cerca di pastore, protagoniste in prima persona in questa canzone. Gregge privo di identità e che ,appunto, anela ad essere guidato dentro la luce, qualsiasi essa sia. Qualunque essa sia, non sarà una situazione di espiazione e salvezza anteriormente promesse. Tema caro, a Tolkki, quello della manipolazione mentale (ma anche della distopia), già accennato nel precedente lavoro in False messiah, dove a differenza di questa, che ne è l’ideale risposta, è il redentore a rivolgersi alla massa, e non viceversa. La redenzione è un percorso così complesso che solo pochi eletti possono intraprenderlo con la forza necessaria per poterlo portare a termine; in questo caso il penitente si rivolge alla folla sotto di lui, arringando ed urlando la propria gioia per la strada che egli ha scelto di percorrere, ogni passo che i suoi piedi fanno in più, lo avvicinano alla fine del cammino, e alla tanto agognata ricompensa, quella luce meravigliosa alla fine del tunnel che scalda il cuore e l’animo come non mai. Già dal meraviglioso arpeggio iniziale, a cui seguono gli archi sintetici, si capisce il perché della scelta di lanciare questa canzone come singolo apripista: l’introduzione con il cantato preciso è colmo di sentimento, sa plasmare un’atmosfera oscura, situazione forgiata ulteriormente dagli sporadici colpi sulle pelle e dal sapiente uso dei piatti in maniera suadente; il tutto è un crescendo d’ambientazione sempre più forte, senza mai che riesca a perdere lo smalto di power ballad quale è. La batteria aumenta di volta in volta, coadiuvata, successivamente, dall’entrata del basso, fino a che il tutto non sfocia in un assolo perfetto dalla prima all’ultima nota: nemmeno una fuori posto! Finisce l’assolo e ritorna il cantato, che altro non è che una ripetizione esaustiva del titolo a mo di motto, fino a che non giunge nuovamente un secondo assolo, purtroppo meno incisivo del primo, col quale, si giunge alla conclusione tanto della canzone che dell’album: in sintesi, una degna conclusione.



Obbligatorio per i collezionisti più accaniti, ma consigliato anche ai neofiti della band, che con tale lavoro, possono rendersi in grado di scoprirne le radici. Il disco, come il precedente, non è pienamente Power, ed infatti, non stiamo parlando di un album al cento per cento Power, ma piuttosto onesto heavy, con tratti cupi e picchi di stile; di per se, appare più che gradevole fin al primo ascolto, ragguardevole nei suoi considerevoli vertici. La tecnica strumentale appare migliorata, così come (quasi per magia), quella vocale di Tolkki, anche se la presenza di un cantante solista si fa sentire; per sopperire a tale mancanza, bisognerà attendere ancora pochi anni, e due dischi, nel frattempo, vi sarà ancora tempo per maturare lo stile e la traiettoria intrapresa, ma la band appare già da ora, perfettamente incanalata nella direzione giusta da seguire. Così sarà, e lo sarà almeno fino all’irraggiungibile “Vision”, tutt’ora non ancora bissato da un degno successore, ma da una serie di album cloni, fino al tonfo finale dell’omonimo album, che per volere del caso, pur possedendo il nome della band, ne è il meno rappresentativo in assoluto per via di certe soluzioni intraprese (vuoi per rinsaldare una maggiore coesione tra aficionados e grande pubblico e quindi come risultato da intraprendere, quello di maggiorare le vendite, fino a perdere il proprio master mind), ma continuare con una formazione rivisitata, ripercorrendo la via egregiamente intrapresa, con fantasia compositiva limitata e spesso ripetitiva. In tale ottica, quindi, Twilight time, pur non essendo ne un capolavoro e neanche uno degli album più rappresentativi e memorabili dell’essemblee, ha il pregio unico, oltre a quello di contenere deliziose gemme, cioè quello di di rappresentare lo schizzo a matita su carta di un imponente affresco che sarà prossimo ad essere completato da li ad un lustro di distanza. Uno schizzo a matita di una quanto basta ampia gamma cromatica.Il voto per questo lavoro, non può oggettivamente essere minore ad un 7 scolastico, ma nemmeno maggiore di 8, come al solito, l’equilibrio risiede mediano tra i numeri; a difesa di tale scelta, si pone la capacità dello stesso Tolkki di saper scrivere ottima musica e di saper modellare differenziate e multiformi personalità su ogni canzone, anche all’interno di ogni canzone stessa (fosse anche aiutato, in tale compito, dalla sua ben nota malattia: il disturbo bipolare?). In ogni caso, il disco si colloca precisamente a metà strada tra l’acerbo Fright Night e l’esplosione di stile di Dreamspace, che seguirà da li a due anni: è l’anello di congiunzione tra i due lavori, ma nel contempo vive di personalità propria, e ciò è un buon motivo, oltre per confermare il voto poc’anzi espresso, anche per ascoltare e quindi amare questo episodio ,a torto, ritenuto uno dei minori della band finlandese.


1) Break the Ice
2) The Hands of Time
3) Madness Strikes at Midnight
4) Metal Frenzy
5) Twilight Time
6) The Hills have Eyes
7) Out of the Shadows
8) Lead Us Into the Light

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