STRATOVARIUS

Fright Night

- 1989 CBS Finland

A CURA DI
YURI SFRATTI
22/12/2014
TEMPO DI LETTURA:
6,5

Recensione

O bianco o nero, o vodka o acqua, o Black o Power ; dagli anni ’90 ai giorni d’oggi, la Finlandia non sembra percorrere strade mediane quando si parla (e quando si suona) di metal; ma negli “eighties”, la situazione era ben diversa da come odiernamente appare: il rock è in mano a parrucconi colorati, abiti succinti ed in latex, trucco pesante, ragazzi, è l’epoca del glam, e i nordici, sembrano guardare molto più ad occidente, forse per scongiurare la paura di un riaccorpamento alla confinante Russia e quindi ad una russificazione forzata, come era di norma prima del 1917. Il metal sembra avere ragione d’esistere se accompagnato dal prefisso “hair”, che per i cultori puristi del genere, non fa particolarmente piacere, che è un eufemismo per far risaltare una vergogna che in seconda analisi, non si vorrebbe far per niente risaltare. Band come Iron Cross e Hanoi Rocks, hanno vasto seguito, manco a dirlo, in modo esclusivo tra i pubblico femminile: gli Hanoi Rocks in particolare, del fascinoso cantante e saxofonista Michael Monroe, riceveranno forti riscontri positivi in termini di vendite discografiche e di notorietà oltre i confini della madre patria e in luoghi decisamente lontani dal circolo polare artico. Ma la Finlandia di quegli anni, non è solamente giovani bellocci e tutt’al più renne, tutt’altro: già dalla seconda metà degli anni ’70 è presente sul territorio un forte chitarrista (Kimmo Kuusniemi) a guida di un altrettanto forte gruppo hard’n’heavy, i Sarcofagus, i quali, al pari di un Tony Iommi o di un Ritchie Blackmore, segneranno la traiettoria che poi molti tra gruppi, e nello specifico, chitarristi, sapranno continuare e far fiorire in qualcosa di superbo; esempio lampante sono i Purgatory, che 1984 varieranno il proprio nominativo nel tutt’ora famoso Tarot, suonando un Heavy metal che a poco a poco prenderà i contorni di quello che sarà poi denominato poi Power (bassista e cantante è un certo Marco Hietala, che, anche in futuro, farà parlare molto di se per l’entrata nei ranghi di una band chiamata Nightwish). Ed è in quegli anni che, fra tutte queste varie sfumature, verrà con forza piantato il seme che germoglierà negli Stratovarius: nascono nella capitale Finlandese precisamente trent’anni fa (1984) con il nome di Black Water, ad opera del batterista e cantante Tuomo Lassila (classe 1965), al quale si affiancheranno il chitarrista Staffan Stråhlman e il bassista John Vihervä. La formazione, dedita ad un hard’n’heavy dai forti prestiti sabbatthiani e all’Ozzy solista, avrà vita breve, tanto che ad eccezione di sporadici concerti, non si conoscono produzioni a loro nome, benché meno di demo. La faccenda, comincerà a prendere una piega diversa con la sostituzione di Stråhlman da parte di Timo Tolkki (nato il 3 marzo 1966 a Nurmijärvi, nel sud della Finlandia), entrato nei ranghi appena in tempo per partecipare ad un importante concerto nella vicina Svezia. Non si conosce con precisione il momento esatto di quando il trio decise di assumere il monicker che tanta gloria e lustro darà a “the land of ice and snow” (parafrasando il titolo di una canzone dell’album omonimo ,ma paradossalmente il meno rappresentativo del gruppo,  che uscirà vent’anni dopo), sia formalmente che a rigor di logica si può ritenere l’entrata di Tolkki come il momento esatto della nascita della band, in quanto lo stesso assumerà le redini del trio, affiancando al lavoro sulla sei corde il ruolo di cantante, lasciando quindi più libertà espressiva al picchiatore di pelli Lassila, e trasformando il trio da clone (o cover band? Non venne mai reso noto) dedito al verbo di baffo-Iommi, a band clone degli Helloween, i quali, in quell’anno, diedero alla luce l’omonimo EP (marzo 1985) e il seminale “Walls of Jericho” (ottobre). La prima produzione sarà un’autoproduzione e giungerà due anni dopo, ma nel frattempo, si registrerà un’altra defezione: il basso passa di mano a Jyrki Lentonen. È con questa formazione che verrà registrato l’appena citato demotape, contenente tre tracce (Future shock, Fright Night, Night screamer) e purtroppo al momento attuale rimasto ancora inedito. Sarà finalmente con l’anno successivo che riusciranno a imprimere su vinile i primordiali vagiti del mito che verrà: ad accogliere tali gemiti, sarà il formato a 45 giri con la coppia di “Future shock” e “Witch-hunt” come lato B; a coadiuvare i tre, ci sarà l’allora venticinquenne Anti Ikonen, un turnista che comparirà nel primo long playing, che sarà presente nei crediti come guest, ma assente nella foto della band in back cover.“Fright night”, uscì quindi l’anno dopo ancora, nel 1989, anticipato dal suddetto singolo, per la CBS Finland, con tanto di copertina disegnata dal leggendario Patrick Woodroffe (tra le collaborazioni più note si ricorda il leggendario tastierista del progressive Dave Greenslade [sia solista che con la sua band a lui omonima], Judas Priest, Strawbs, Pallas, Budgie) recentemente scomparso (1940 - 2014), a suggellare il miglioreb dei battesimi.



Il compito di aprire le danze spetta alla già nota “Future Shock”, cavallo di battaglia della band di quegli anni, da cui venne tratto. All’apertura strumentale segue il riff che si dispiega per un mezzo minuto abbondante, fino a che entra nel vivo la parte vocale, e già dalle prime frasi si evince un Tolki che se pur abile al suo strumento, dimostra lacunosi carenze nella tecnica vocale, che nel complesso, comunque rimane accettabile e mai del tutto sgradevole a sentirsi. La canzone fila liscia per i canonici quattro minuti e mezzo di durata, schematica, a tratti al limite più ovvio della banalità, con a seguire un assolo di circostanza, non di certo memorabile, ma che fa il suo dovere: così, senza ne lode e ne infamia. È già da qui, però, che si “legge” il Tolkki che verrà, con le tematiche spesso distopiche ed ecologiste a lui care nella produzione futura. Tutto questo viene coadiuvato dal fatto che il testo è l’unico in quest’album, assieme alla title track, ad essere firmato a quattro mani con il batterista, il quale, probabilmente frustrato dallo scarso protagonismo, avrà riversato nella stesura dei testi l’irritazione per l’ovvia cecità da parte del pubblico nell’accogliere spesso con freddezza questo membro della band,  per via della sua collocazione materiale in sede live e strumentale, adducendo al luogo comune, quanto mai abusato, che il “picchiatore” dei tamburi, si limiti al compito essenziale ma spesso ingrato, di tenere il tempo. Ci sono tutti gli Stratovarius che verranno, nella parte lirica:  “L’ho visto sullo schermo il giorno che ha cambiato le nostre vite e la storia, in quella direzione vanno i nostri sogni, attacco nucleare nel cielo, non so perché nel culmine dell’esplosione osserva la bellezza della nube a forma di fungo, non durerà a lungo,  non vivrai fino alla fine di questa canzone”. Canzone che termina, curiosamente, con una proverbiale esplosione, atta a consegnare un degno finale a questa visione apocalittica: sembra di assistere alla trasposizione cinematografica dell’orwelliano “1984”(“Orwell 1984”), memorabile lavoro di regia firmato Michael Radford, uscito nelle sale cinematografiche un lustro d’anni prima: nella canzone si sente in tutta la sua potenza la paura di una imminente esplosione atomica, una devastazione senza precedenti che cambierebbe il volto del nostro pianeta, segnandolo per sempre. A noi poveri esseri umani però non rimane che stare a guardare e farci guardare, come accade nel romanzo di Orwell, aspettando l’infausto giorno nel quale un uomo in giacca e cravatta, premerà il rosso pulsante fatale. Il plot narrativo del primo brano sarebbe risultato utile anche per la traccia seguente, “False messiah”, la quale, in quanto tematica, come si evince dal titolo, tratta il tema di uno dei tanti pastori di pecore smarrite, pronto a portare gruppi di ingenui in dirittura d’arrivo per la fine del mondo poc’anzi narrata. Pastori di pecore smarrite che tanto hanno abusato in passato (e non solo)  nel corso della Storia, della credulità popolare, spesso, facendo perno su debolezze di persone spontaneamente credulone e su paure comuni; nel testo degli Stratovarius si evince, in maniera incisiva, questo tipo di denuncia, una feroce e costante critica al pensiero di massa, a quegli uomini che hanno fatto della bugia la loro ragion d’essere, con il loro affabile modo di fare, hanno soggiogato il mondo; tutto ciò culmina con la devastante deflagrazione finale (ed è qui che troviamo il collegamento con il primo brano), in cui il mondo, forse stanco di tutti noi, decide di implodere su sé stesso. Un minuto e venticinque dei poco più che cinque di durata, è dedicato ad una notevole introduzione strumentale, che principia con un riff smaccatamente maideniano, il quale poi verrà ripreso durante la canzone, in con la finalità di stacco tra il ritornello e la strofa. Il riff è sottolineato da una batteria serrata,  incespicante in disparati cambi di tempo, fino a che finalmente non entrano le tastiere; esse ricompariranno solo nel ritornello, lasciando le strofe libere da tale carico, concedendo a Tolkki maggior espressività durante le stesse. È a seguire la fine del secondo ritornello che parte l’assolo, più intrigante e inconsueto del precedente, denso di una verve misterica e misteriosa, atta a sottolineare l’indecifrabilità del personaggio ipotetico narrato (anzi, cantato) nella vicenda (  the stranger who came healed the sick feed the poor, spread the joy and the cure; lo straniero che è venuto guarì i malati, nutrì i poveri, diffuse la gioia e la cura). Non si ha fine col sunnominato assolo, ma con la ripetizione di strofa e ritornello, come a ribadire un concetto e una storia già espressa; è uno dei brani più pregni di tutto il disco, la cadenzata e pesante critica contro i “falsi dei” umani che popolano la terra, ci permea la mente come una spina nel fianco, e comincia a farci sudare freddo, finché, continuando a leggere le parole, rabbia e disgusto albergano in noi. È con la successiva “Black night” che il tempo accelera, raddoppiando in intensità e vigore, facendo operare Tolkki sui tasti con scale a velocità da ritiro della patente, che vendendo poi sovra incise fanno eco al riff principale; velocità e potenza che non mancheranno di ripetersi nell’assolo. Il riferimento ai Deep Purple è puramente casuale e limitato al solo titolo, giacché si evince che il fondale che si para davanti ai nostri occhi,  narra di una scontro armato e una maledizione (Sopra il mare la Luna splende brillante alla sua maniera, per cancellare la notte nera testimone della battaglia) . Io ho il potere su di te ,noi combatteremo per sempre, ho gettato un incantesimo su di te ,non ti lascerò mai andare , no!!). Il mondo di fantasia che gli Stravoarius ci descrivono, è popolato di strani personaggi, creature mistiche che, come bardi di un’epoca lontana, ci narrano questa storia. E’ in realtà prerogativa di molti dei testi Power saggiare la mitologia o le storie inventate, al fine di creare un connubio fra musica altisonante e testo, considerando la complessità di fondo che alberga nel modo di suonare tipico di questo genere, il testo, va da sé, deve essere supportato da argomenti “alti”, che facciano risaltare ancor di più anche la parte musicale.  Sarà compito del finale liberare l’intera tensione creatasi durante la vicenda rievocata; in questo brano vediamo tutta la tecnica che gli Strato poi hanno dimostrato negli album successivi (in questo, per quanto la costruzione dei testi e delle canzoni sia già di livello alto, il sound di base continua a rimanere acerbo. Nonostante questo però, Tolkki e soci dimostrano al pubblico che, pur essendo alla loro prima, timida, entrata nel mondo musicale, hanno già tutte le carte in regola per rompere gli schemi; rifacendosi per un secondo alle prime righe di questa recensione, la scena Finnica è fra le più particolari di sempre, non esistono sfumature di grigio, ma solo bianchi e neri, nel caso degli Strato, la scelta fu candida, seppur rimanendo su musiche assai aggressive (certamente distanti da sonorità come quelle degli Hanoi), ma senza mai scadere nella brutalità fine a sé stessa, piuttosto in un percorso sempre ragionato ed intuitivo per chi ascolta. È invece un paio di battute di batteria, pesanti come passi lenti ma decisi di inseguitori, a dare inizio alla caccia alle streghe di “Witch-hunt”, dove i primi due riff che si susseguono sembrano voler disegnare idealmente una folla di inseguitori, prima, e di prede poi, (a caccia alle streghe sta arrivando in città ,faresti bene a fare attenzione, la caccia alle streghe sta arrivando in città , loro vedranno quello che hai trovato), ma ecco che conseguente ad un assolo, tra i più belli e meglio riusciti dell’intero lp, ci introduce al “rovescio della medaglia” della situazione, a favore della nostra malcapitata donna sulla scopa;  la strega ha la vendetta sull’aguzzino che si compie in maniera spietata (La frusta è pronta. In piedi, fissa tra le mani al tuo comando fai quello che devi fare, lei è felice di prendere la tua piccola vita ed andare via). L’atmosfera “Hallowinesca” che si viene a creare in questo pezzo, è densa di magia oscura, ci si parano davanti agli occhi scene di un passato neanche tanto lontano da noi, in cui gli uomini avevano insita nella propria anima, specialmente per controversie religiose, l’atavica paura delle streghe. Fu così che si arrivò alla pubblicazione del “Malleus Maleficarum”, un libro che letteralmente gronda sangue, nel quale i prelati spiegavano come catturare, torturare ed estorcere confessioni alle presunte fattucchiere di Satana. Nella canzone degli Stratovarius però la nostra megera ha la meglio sui suoi inseguitori, vendicandosi in maniera cruenta su coloro che volevano imprigionarla. Qui si riesce anche ad intravedere la poliedricità artistica della band, pur continuando a ribadire che i suoni di questo lp sono molto acerbi, si riesce bene anche ad osservare il modo in cui la formazione sa cambiare argomenti durante le proprie canzoni, pur rimanendo nello spirito base del Power, reo di essere stato il primo fra i sottogeneri del Metal a trattare tematiche mistiche o mitologiche. Prendere uno scenario come quello della caccia alle streghe e farne una canzone, sarà poi quasi una tradizione nelle decadi successive di questo genere, considerando che, da che mondo è mondo, magia e mitologia vanno spesso a braccetto, incontrandosi sempre di più nei meandri della storia.  Sarà compito dello strumentale “Fire dance” a costituire uno spartiacque per designare la metà dell’operato, probabile corollario alla vicenda poc’anzi narrata: che la “danza di fuoco” fosse il rogo acceso per ardere le streghe? Non ci è dato saperlo, ma poco importa, perché i continui cambi di tempo e i riff perennemente cangianti eseguono la parte del leone in questo pezzo (forte) del disco, in cui finalmente riappaiono, se pure per una totalità di tempo pressoché misera, le tastiere, nel momento di maggiore enfasi strumentale; enfasi a cui segue l’assolo, poi “scaricato” sul finale corposo e consistente. La scelta di piazzare alla metà esatta del disco una canzone strumentale, è fra le scelte più classiche che una band possa fare, essa funge appunto da “muro divisorio” fra le due metà del disco, permettendoci di riprendere (e far riprendere anche al frontman) un po’ di fiato. Qui i ritmi si fanno decisamente serrati, in perfetta sintonia col titolo della canzone; vediamo infatti di fronte ai nostri occhi una vampa incendiaria che man mano comincia a farsi sempre più intensa, fino a bruciare anche la sfera celeste; al di sotto di essa, eserciti di uomini senza volto danzano come in preda ad un raptus psichedelico, come durante una immensa Trance di gruppo che avvolge le loro menti, i loro corpi si muovono come se la testa non stesse pensando, e i loro sinuosi e meccanici movimenti diventano man mano ipnotici nel loro essere lineari, e rimangono impresse nei nostro occhi per sempre. Le tastiere che nella instrumental abbiamo sentito in maniera solo velata,  ritornano poco dopo in un horrorifico intro durante “Fright night”: canzone che, oltre a dare il titolo all’album, coi suoi otto minuti abbondanti, è anche la più lunga per durata temporale. Sono proprio le tastiere, con il loro ruolo certo non tecnicamente eccellente e memorabile (come invece sarà nella anthemica “Black diamond” che tanta fortuna regalerà all’ensemblé finlandese in futuro) ,capaci di dare quel tocco d’atmosfera che la sola triade chitarra, basso, batteria risultano non completamente pregni di significato. La sola introduzione della title-track sarebbe utilizzabile da sola in qualità di sottofondo durante una scena di suspense in un film dove la paura fa da padrona incontrastata sulle scene, magari, avventurandosi in una vetusta abitazione dismessa da tempo immemore, anche se il significato, probabilmente, vuole vertere più sulla paura dello scorrere del tempo e dell’affrontare le difficoltà che la vita pone dinanzi con lo scorrere dell’esistenza:  forse è la vita a spaventare più che non la morte; sono i dubbi che attanagliano migliaia di anime nel mondo, domande che tutti ci siamo posti almeno una volta, la vita che stiamo vivendo spesso ci fa più paura di una oscura e macabra notte senza luna, ancor più che trovarci un cadavere di fronte alla porta di casa, ancora più che morire, spesso ci spaventa alzarci dal letto la mattina. Problemi che un giovane come Tuomo Lassila già si sente in obbligo di affrontare, nonostante i suoi ,all’epoca, 24 anni di età: ma si sa, nei paesi nordici, i giovani, raggiunta la maggiore età sono già fuori casa dei genitori, maturando molto prima di quanto accade nell’Europa meridionale. Nonostante la giovane età degli astanti però, saggiamo la loro capacità musicale quando, quasi ad un minuto e mezzo di introduzione, il riff principale,  e di poco successivo il cantato, ci esplodono nelle orecchie, anche se, come sempre durante questa prima fatica della formazione, in maniera esiguamente limpida, imprecisa e limitata nelle capacità tecniche. Ed è un grosso peccato, perché la strofa, allacciata al ritornello, assume in svariati tratti una via melodica davvero interessante: questi vengono ripetuti per ben due volte, intervallati dal riff principale che ritorna come agente separatore, così finché non giunge un assolo di chitarra che oltre a fare il suo dovere non fa molto altro, ma tuttavia, com’è intuibile, appare come assolutamente non inutile, persino nel momento in cui giunge un falso finale che si dirama in un arpeggio pulito, coadiuvato dalle già stimate tastiere, supportate dal cantato tanto tenebroso quanto, ahimè, approssimativo. Al termine dell’intermezzo a sorpresa, ritorna la potenza della distorsione, con una soluzione congeniale che non è ne strofa e ne ritornello, ritornello che però ripete il suo intervento, per l’ultimo minuto di canzone, a seguire di un breve ma potente intermezzo strumentale. Se lo scopo del trio era quello di intitolare l’album con la migliore canzone fino ad allora composta, mai tale concetto fu più indovinata. Si arriva così, proseguendo in ordine, a “Night screamer”, lato B del secondo singolo uscito a nome della band, in qualità di mezzo trainante dell’album (il lato A fu affidato a “Black night”). Dopo la consueta introduzione di una quarantina di secondi e diversi riff a disposizione, sapientemente macinati dalla mano già decisa di Tolkki, ritorna il cantato, ancora più indegno che non negli altri precedenti brani, dando sfoggio della proprio imperfezione durante tutti i neanche cinque minuti di durata; il pezzo, infatti, sa di riempitivo, di già sentito, coi consuetudinari assoli che oramai non fanno ne caldo e ne freddo. Non ci è dato sapere chi gridi nella notte, ma purtroppo sappiamo fin troppo bene chi stride con le proprie corde vocali. A voler spezzare una lancia a favore di questa inefficace canzone, è come sempre, l’uso sapiente delle tastiere, che al termine dell’assolo di Tolkki, ne parano i colpi, creando come sempre un clima peculiare e, quasi dissuadendo l’ascoltatore dalla noia. Il testo cade anch’esso nella banalità più pura, con i soliti dilemmi interiori che non vengono spiegati e i probabili rimorsi e rimpianti che non lasciano prendere sonno al protagonista a cui fa seguito una serie di consigli lapalissiani (i tuoi incubi  non ti lasceranno solo prova a pensare cosa c’è di sbagliato nella tua vita, cerca di mantenere il sangue freddo, troverai la tranquillità) e forse un’istigazione al suicidio (Raggiungi la finestra, Il tuo obiettivo, l’unica soluzione), preferibilmente evitabile. Per quanto la canzone sia tecnicamente povera dunque, viene affrontato un tema molto serio, quello del disagio giovanile (che, per ribadire, nel nord dell’Europa sembra essere quasi prassi), purtroppo tale argomento viene affrontato con la giovinezza nel cuore, limitandosi a vomitare frasi fatte sul pubblico, ma ringraziamo ovviamente Tolkki e soci per averci provato, soprattutto con un argomento così delicato, e non trattato da molte band. A porre termine alla serie di brani cantati arriva nel nostro cervello “Darkness”, con un suadente melodia suonata da Antti Ikonen, in cui per il primo minuto fa da sfondo al cantato, fino a quando non entra, come prevedibile, la chitarra; meno allettante, invece, appare il ritornello, che comunque sa dare un onesto percorso al pezzo. Tutto procede come da copione col camminare in coppia di strofa e ritornello, fino ad un inaspettato intermezzo che sfocia in un assolo amabile e carismatico. Il miglior lavoro di tastiere, ex equo con la title track, e probabilmente il miglior testo del disco, nonché il più elaborato (Vivendo sul margine del precipizio come se ogni giorno potesse essere l’ultimo, raggiungendo le stelle, che brillano così lontano prendi la mia mano, andrà tutto bene, per te e per me è tempo di andare.), e a tratti anche sentimentale. Ci appare come una canzone dai toni melanconici, tristi e degni di significati che non lasciano certo un sorriso sulle labbra, ma un amara e bruciante concezione della verità. La coppia del pezzo sta andando avanti con la propria storia (forse non approvata da qualcuno “sopra di loro”), ma il ragazzo sussurra alla sua amata che non si devono preoccupare di tutto ciò che hanno intorno, debbono piuttosto spostarsi da un’altra parte, purchè rimangano insieme, finchè le loro mani non saranno disgiunte, niente potrà intaccare il loro amore. Da qui si evince anche la scelta del titolo, il nostro protagonista spiega alla ragazza che non deve aver paura della notte, l’oscurità e i mostri che albergano in quell’abisso nero, non potranno fargli del male, perché egli rimarrà al suo fianco. Gli ultimi minuti, dei 40 e mezzo di disco, appartengono  alla strumentale “Goodbye”, che con poco più di un minuto di durata, si pone come epitaffio sonoro sull’esperienza uditiva appena vissuta: c’è solo Timo Tolkki a segnare il tempo con dolci arpeggi eseguiti in acustico, niente di più e niente di meno. Perfetto così, scarno ed emozionante nella sua semplicità, testimone e collaudo di alcuni arpeggi che marchieranno e costruiranno lo stile-Tolkki a venire, in ballate passate a miglior sorte di notorietà come “Forever” o “Coming home”. Ribadiamo per l’ultima volta che, nonostante tutto, le capacità della formazione vengono fuori in quasi tutta la loro interezza, anche se ovviamente sarà dall’album successivo che inizieranno a far sentire veramente la loro voce al mondo, ma questo primo tentativo, e la traccia conclusiva ne è un chiario esempio, spiega bene quali siano le prerogative della band, saggiare con profonda saggezza le tematiche umane, ricreando atmosfere degne di un libro di poesia, anche in un tempo così limitato come l’ultima traccia, in cui un solo membro viene lasciato solo a completare l’opera e “salutare” il pubblico, sono in grado di dare vita ad emozioni vive e vivide nella nostra mente.



Col tempo, col successo, con la maturità stilistica, con ben migliori produzioni e soprattutto con il passaggio del testimone al microfono ad un altro “Timo”, niente di meno che Kotipelto, Tolkki a tratti rinnegherà questo lavoro da lui spesso definito con parole fin troppo sprezzanti, e a tratti esageratamente negative. L’unica prova per le masse dell’esistenza e delle composizioni della band negli anni ’80 rimarrà questo disco, oltre ad un frammento video, della durata di un minuto scarso, di “Fright night”, ripresa all’edizione 1988 del Giants Of Rock ad Hämeenlinna (Finlandia), quindi, tale fatica, se pur prematura nelle intenzioni e acerba nei fatti, è da accogliere come una reliquia degli albori di una band che farà molto parlare di se e che rappresenterà un unicuum nel metal (checchè se ne dica) a metà anni ’90. Da li a tre anni, vedrà la luce il loro secondo lavoro, “Twilight Time” (sulle prime intitolato Stratovarius II), con un Tolkki localmente affinato e tecnicamente arricchito, una formazione che sarà stravolta a favore di Ikonen che entrerà in pianta stabile, ma con la conseguenziale perdita del bassista, sostituito da Jari Berhm, il quale, se pur presente nelle note e in foto, si limiterà ad apparire solo nominalmente. Saranno già gli anni ’90, altra storia e altra musica, se pur perfezionata e ottimizzata per un mercato più vasto e meno circoscritto alla sola Finlandia. Una nuova realtà, ormai collaudata, che guarderà all’Europa e al paese del Sol Levante, ma nel 1989 ancora non era tempo per quei momenti di gloria. L’insufficenza è immeritata per un lavoro del genere, il quale, se pur immaturo e a tratti criticabile per essere sul mediocre andante, possiede in se alcune potenzialità in equal modo interessanti, anche se poco sviluppate, nonché alcuni concetti insufficientemente espressi di cui in futuro Tolkki saprà farne i propri punti di forza. La buona volontà di scrivere buona musica si percepiva e soprattutto si sentiva già allora, ed è solo per questo che la prima fatica dei finlandesi è meritevole di raggiungere la piena sufficienza con un mezzo voto per la buona volontà e la promettente invettiva.



 



Tracklist:

 



1)Future Shock

2) False Messiah

3) Black Night

4) Witch - Hunt

5) Fire Dance

6) Fright Night

7) Night Screamer

8) Darkness

9) Goodbye