SLAYER

Stain Of Mind

1998 - American Recordings

A CURA DI
MICHELE MET ALLUIGI
22/01/2016
TEMPO DI LETTURA:
6

Introduzione Recensione

Cavalcando l'onda dell'allora appena uscito "Diabolus In Musica", pubblicato nel giugno del 1998, gli Slayer andavano a chiudere il bilancio di una decade durante la quale la loro evoluzione fece dei notevoli passi avanti. Se gli anni Novanta avevano visto i capitoli non del tutto eccelsi di altri loro colleghi, la band di Huntington Park si affacciava ora alle porte del nuovo millennio con un disco che abbiamo già avuto modo di analizzare ed apprezzare, ma si sa, Tom Araya e soci non sono assolutamente in grado di stare con le mani in mano, e volendo ulteriormente dare ai fan una nuova dose di Thrash Metal dritta nelle loro facce, eccoli dare alle stampe un nuovo EP, "Stain Of Mind", con il quale veniva valorizzata una delle tracce di punta del full lenght. Questa volta però il format scelto dai quattro californiani torna ad essere più "standard" rispetto all'istrionico "Serenity in Murder": la canzone che compare in veste di titletrack viene adesso collocata in prima posizione, immediatamente in apertura, consentendo quindi al gruppo di dare maggiore visibilità a quello che all'epoca era il prodotto fresco fresco a cui, immediatamente in coda, venivano ad aggiungersi altri quattro brani live; quattro classici nonché pezzi di storia della musica estrema, tutti registrati durante lo show che gli Slayer tennero al Palace Theater di Los Angeles. Non più dunque una raccolta di diversi concerti racchiusi insieme, ma una opinata scelta di pezzi presi tutti dalla stessa occasione in cui i quattro musicisti giocarono in casa, andando quindi a costruire una sorta di "ep nell'ep", dove oltre al singolo promozionale è presente anche un piccolo live bootleg. Per quanto riguarda i titoli dei brani dal vivo, essi si presentano da soli: chiunque si professi fan della band non potrà far altro che esaltarsi leggendo nella lista canzoni del calibro di "Raining Blood", "Angel Of Death", "Mandatory Suicide" e Chemical Warfare" eseguite sul palco, quattro testimonianze storiche della musica estrema estrapolate da tre capitoli fondamentali della storia del gruppo, ovvero il primigenio "Haunting The Chapel", "South Of Heaven" ed il capolavoro indiscusso "Reign In Blood". Ancora una volta dunque, l'Assassino fece centro nel creare un prodotto imperdibile per tutti i suoi seguaci, dando una ulteriore prova dell'astuzia dei suoi membri nel saper trovare nuovi escamotage di volta in volta per rendere questi ep sempre diversi ed accattivanti, pur restando coerenti con il più ampio disegno commerciale da unire ai loro album. "Stain Of Mind" dovette viaggiare di pari passo con "Diabolus In Musica" e, di fatto, l'artwork di questo "lavoro di coda" ne riprende fedelmente lo stile: il soggetto centrale della copertina è nuovamente il prete già comparso sulla fronte del full lenght. A giudicare inoltre dalla sgranatura e dall'utilizzo del bianco e nero come scelta cromatica, si può supporre che questo scatto appartenesse al book realizzato per il disco, dato che il figurante appare in una posa leggermente diversa da quella utilizzata per la pubblicazione dell'album; sull'ep egli infatti compare in piedi in posizione frontale, con la testa dritta e lo sguardo fisso in avanti, mentre nella precedente fotografia egli posava leggermente di profilo e con la testa reclinata. L'unica differenza tra le due grafiche sta solo nel logo nella band: esoterico e snellito quello sul disco, a grandi lettere in stampatello color rosso vivo questo, posto in alto all'interno dell'immagine ed immediatamente dietro la testa del soggetto. "Stain Of Mind" può quindi intendersi come una "costola" del lavoro che lo precede, che oltre a spingere ulteriormente il singolo porta avanti il discorso della potenza live della band californiana. A livello prettamente collezionistico poi, gli Slayer notarono che il Giappone era inoltre una terra assai fertile per il mercato degli ep di nicchia; come il precedente "Serenity In Murder" infatti, anche il prodotto in questione uscì come edizione riservata al mercato del Sol Levante per poi espandersi successivamente in tutto il globo; una ulteriore conferma ormai che Tom Araya e soci sono diventati a tutti gli effetti degli dei della scena metal mondiale, creandosi la propria notorietà con "Show No Mercy" e proseguendo il loro cammino di sonorità extreme anno dopo anno. La formazione non è più quella storica degli esordi, ma è fuori discussione che Paul Bostaph abbia sempre fatto il suo sporco lavoro dietro le pelli degli Slayer, gli oltranzisti sostenitori di Dave Lombardo ci saranno sempre, e per certi aspetti è giusto che ci siano, ma anche la line up degli anni Novanta ha indubbiamente consentito a Tom Araya, Kerry King ed Jeff Hanneman di continuare a spaccare teste senza problemi.

Stain Of Mind

In apertura troviamo "Stain Of Mind" (trad. "Macchia della Mente"), canzone posta in terza posizione nella tracklist di "Diabolus In Musica". L'inizio è secco e diretto, non vi sono introduzioni di sola chitarra questa volta e tutto il gruppo parte assieme alzando fin da subito il tiro e rendendo esplosivo il pezzo fin dai primi secondi. Il main riff di chitarra si struttura su un'alternanza regolare di note accentate e non, ponendo sempre la sincope ritmica sulla sulle note pari della serie ed alternando all'interno delle varie battute rispettivamente una salita ed una discesa di tonalità; la batteria invece procede lineare, muovendosi su un disegno ritmico realizzato con solo la cassa, il rullante e il charleston sul quale si muove il basso di Araya con le sue plettrate dimezzate rispetto alle sei corde. Siamo di fronte ad un brano che mette immediatamente in luce la crescita artistica che hanno compiuto gli Slayer nel corso degli anni, nelle strutture dei lavori pubblicati negli anni Novanta infatti, Tom Araya e soci mirarono ad una maggiore ricerca del groove e di una nuova resa dei suoni stessi, che dalle chitarre graffiante di "Show No Mercy" ed "Hell Awaits" passava ora ad un sound più grosso e compatto maggiormente orientato sui bassi. Questa traccia non possiede infatti una struttura elaborata ma mira a travolgerci grazie non a questo o quell'altro strumento ma attraverso il monolite dato dalla potenza dell'insieme. La costruzione della strofa vanta inoltre quella serie di caratteristiche che di lì a poco avrebbero fatto scuola all'intero panorama di band Nu Metal venute fuori nei dieci anni successivi: tempi sincopati, strutture cicliche e ritmiche costituite da passaggi in palm muting lavorando solo sulle dinamiche della mano destra e l'uso delle accordature ribassate per conferire una ulteriore compattezza alla resa generale."Stain Of Mind" appare quindi come il pezzo "zero" di tutta la successiva era musicale, con la differenza che i thrasher californiani hanno il merito di essersi saputi rinnovare in un periodo particolarmente "stantio" per il Metal senza avere dei gli spunti precedenti da seguire. Altra novità che evolve la musica dei quattro statunitensi è il pre ritornello costituito da un break, in cui viene affidato al basso il ruolo di protagonista, seguito la prima volta dalla chitarra in palm muting per poi suonare in solitaria la seconda; il frontman cileno quindi si trova per la prima volta ad avere una sua parte solista durante la quale il collega Bostaph gli tiene solo il tempo con la campana del ride. Questa sessione non solo spezza la linearità complessiva della canzone, ma crea anche quella suspense che ci lascia in attesa della nuova sfuriata di un vocalist la cui voce è ormai diventata sinonimo di follia omicida. A livello strettamente vocale troviamo inoltre una suddivisione più precisa delle strofe del testo, distribuite in maniera più omogenea per seguire gli accenti del rullante, allo scopo di creare quel tiro catchy che consente alla traccia di fissarsi immediatamente in testa. Con questo testo, Tom Araya ci invita ad immaginare per un attimo il mondo con la scala dei valori totalmente capovolta; immaginiamone dunque uno dove l'unico fine dell'umanità sia l'inesorabile declino, dove la spavalderia infesta gli individui e dove l'immoralità dilaga senza che nessuno vi si possa opporre, la differenza con quello reale starebbe solo nel fatto che questa divagazione da per postulato un qualcosa che nella vita quotidiana accade di default ma viene tuttavia continuamente negato. Tutto questo quadro ci appare limpido e chiaro negli occhi del frontman della band, che come specchi ci riflettono una realtà dove l'agonia, la lussuria e l'essere senza dio divengono l'essenza stessa della vita; nell'immaginario religioso dunque non viene mistificato il Paradiso, ma il Purgatorio, un luogo di assoluta perdizione dove gli esseri umani vagano per l'eternità senza uscire mai dalla loro condizione di abbandono e miseria. Tra il vero e l'immaginario dunque, la seconda opzione sembra essere quella migliore per noi poveri mortali, questo schizzo di pensiero dunque passa dall'essere un quadro assolutamente leopardiano del mondo all'essere una nuova luce di speranza per un'umanità che avrebbe così modo di non mentire a se stessa. Siamo tutti destinati alla rovina, e questo è un dato di fatto, ma per continuare a raccontarci delle inutili frottole tanto vale accettare come realmente stanno le cose e lasciare che questa visione onirica diventi la realtà univoca ed effettiva. 

Raining Blood

Prepariamoci ora ad un vero e proprio must per tutti gli amanti del Thrash Metal: "Raining Blood (live)" (trad. "Sta Piovendo Sangue"), non un semplice brano Hard N'Heavy, ma un vero e proprio inno ala malvagità sonora. La registrazione parte immediata e decisa, il clamore del pubblico si sente solo per un brevissimo istante prima che i due axeman si lancino nell'esecuzione di uno dei fraseggi più noti della storia. Il pezzo non viene introdotto nemmeno dall'ormai noto feedback di chitarre con cui ormai i quattro annunciano questo loro capolavoro, la batteria di Bostaph non si risparmia nulla in fatto di brutalità dei colpi e sia gli accenti sui fusti sia la successiva strofa vengono eseguite dal drummer , con un tiro assolutamente travolgente, dove la doppia cassa sostiene il tutto come un motore ritmico inarrestabile. A minare notevolmente un pezzo da cardiopalma eseguito con la perizia e l'esperienza di chi ormai è una leggenda vivente troviamo però una qualità di ripresa dell'audio che lascia decisamente a desiderare: Innanzitutto emerge lampante uno squilibrio dei suoni che concede troppo spazio al basso di Araya eclissando le chitarre di King ed Hanneman, le quali, ahimè, escono inoltre particolarmente zanzarose e stra sature di gain, un vero peccato, dato che siamo ben consapevoli di come gli Slayer riescano letteralmente a demolire tutto con solo i primi secondi di questo loro brano. Sul piano tecnico l'esecuzione è impeccabile ma la resa dei suoni nel complesso non gioca a loro favore, poiché se la batteria ed il basso escono nitidi e corposi, le chitarre, alle quali dovrebbe essere lasciato il centro dell'occhio di bue sulla scena, restano un po' troppo in secondo piano. Anche la voce di Tom Araya, benché ben equalizzata, appare notevolmente incerta e titubante, forse a causa dei volumi non proprio eccelsi che impedivano al frontman di sentire tutto in maniera pulita dai monitor. A differenza della versione su disco, questa particolare performance si interrompe in corrispondenza dell'ultima frase di testo, con un stop netto e preciso da parte dei quattro musicisti senza che proseguano verso l'ultima sfuriata strumentale, dove il quattro quarti regna sovrano e dove i due chitarristi hanno modo di violentare i ponti mobili dei loro strumenti prima del tuono conclusivo (riducendo così la durata del brano a due 2 minuti e 21 secondi a fronte dei 4 minuti e 16 secondi totali presenti sull'album). Il silenzio spiazzante e quasi freddo di questa chiusura ci lascia giusto qualche secondo per sentire l'ovazione del pubblico, un boato che gli Slayer si meritano ma che non rende loro giustizia dopo questa particolare sessione live. Nelle parole di questa canzone leggendaria vi è il perfetto quadro di un'Apocalisse ormai prossima al compimento, l'iconografia di dei quattro guarda infatti ad un immaginario fatto di malvagità, disperazione e, soprattutto, di sangue, quest'ultimo in particolare divenuto ormai il vero e proprio ingrediente principale della band sotto ogni unto di vista. In una landa desolata, una carcassa giace priva di vita, in attesa di poter risorgere dalle tenebre nel momento in cui la Morte stessa si impossesserà di essa; improvvisamente, il cielo si tinge di un rosso color porpora, e nell'ambiente circostante si spande un'elettricità che carica di tensione anche l'aria all'interno dei nostri polmoni; ecco che il soggetto narrante, ossia Tom Araya, diventa immediatamente un profeta di questo rituale blasfemo ed il suo viso sarà lavato con le lacrime purpuree di un cielo intento a battezzare gli ultimi superstiti alla catastrofe definitiva. All'interno di questo quadro decisamente maligno si attua anche il ritorno in vita delle anime per il giudizio finale profetizzato dalle Scritture, con il quale anche i viventi sottoporranno allo scandaglio supremo i loro peccati, a separarci tutti dall'Inferno dunque vi sono solo i pochi istanti del resoconto. Ecco concludersi il tutto con una pioggia di sangue che laverà via ogni traccia di benevolenza dalle nostre anime, il cielo ormai piange dalle proprie ferite ed il messiah ha così modo di instaurare il suo regno sanguinolento.

Angel Of Death

Passiamo ora all'altra grande traccia da novanta estrapolata da "Reign In Blood", "Angel Of Death (live)" (trad. "Angelo Della Morte"). Anche in questo caso la partenza e netta e senza troppi fronzoli, la chitarra infatti si lancia immediatamente nel main riff, puntualmente scandito a sua volta dagli stacchi della batteria. Le già citate problematiche tecniche fanno uscire però l'esecuzione decisamente pastosa e confusionaria, su questo particolare brano poi, dato che le parti dei due axemen si differenziano su alcuni passaggi in maniera più marcata rispetto alla precedente, emerge lampante il fatto che sia una delle due sei corde, probabilmente quella di Kerry King, ad essere ridotta peggio dell'altra. Nonostante la potenza ed il tiro espressi dalle mani dei quattro musicisti, purtroppo uno dei loro brani migliori esce con dei suoni da dimenticare: la pesantezza del main riff della strofa e l'incisività dei fraseggi posti tra una porzione di testo e l'altra escono troppo cacofonici ed approssimativi, sempre coperti inoltre dal volume stratosferico del basso di Araya, che a questo punto potrebbe utilizzare queste tracce come play through per i tutorial didattici, vista l'evidenza con cui si sentono le sue parti. Unico faro guida sulla struttura lineare e serrata della canzone è la batteria di Bostaph, la cui precisione e pulizia possono per fortuna fare da lanterna in questa selva oscura di suoni fatti alla bene e meglio, dove fortunatamente i quattro musicisti riescono ad orientarsi grazie alla loro ventennale esperienza che consente loro comunque di non commettere errori. I momenti di spaesamento tuttavia ci sono, in particolar modo ad un minuto e 2 secondi di durata, poco prima del primo ritornello, quando non solo si avverte uno dei due chitarristi eseguire una nota non del tutto azzeccata ma spicca anche un picco di volumi che sbilancia provvisoriamente l'esecuzione per poi tornare sui binari poco dopo, probabile indizio di un tentativo di mettere una pezza correttiva da parte del fonico. Per il resto del pezzo i quattro suonano sempre decisi e disinvolti, ma suonare su un palco dove non si ha una percezione chiara dell'uscita del proprio strumento equivale al guidare di notte con i fari spenti in una strada di periferia. La situazione fortunatamente migliora nella parte solista, dove la batteria di Bostaph sostiene le sciabolate di King ed Hanneman in una situazione decisamente meglio organizzata fino al celebre passaggio di doppia cassa in solo della batteria, le cui pelle tiratissime rendono questi pochi secondi una vera e propria mitragliata, sferragliata dalle gambe di un batterista la cui precisione è il pane quotidiano. Giungiamo così alla ripresa finale, il proverbiale ultimo giro di mulinex di un pogo che si sarà scatenato selvaggio fin dall'urlo maniacale di Araya in apertura (perché l'acuto della versione in studio che tutti conosciamo lascia qui il posto ad un ingresso decisamente più malsano ed acido) ed il tutto si chiude di netto lasciando al pubblico la possibilità di ringraziare i quattro thrasher con un'ovazione. La dedica del testo di "Angel of Death" è rivolta al medico e criminale nazista Josef Mengele, passato alla storia come uno dei più crudeli scienziati di tutto il Terzo Reich, tanto da fargli guadagnare il soprannome di "Angelo della Morte" per l'appunto. La decisione di trattare un simile argomento in un proprio pezzo portò inoltre alla band diverse accuse di nazismo, sempre smentite dai quattro californiani, tuttavia sappiamo bene quanto sia facile scadere in facili pregiudizi bollando quello che magari può essere solo l'interesse in buona fede per un particolare periodo storico. L'ambientazione è quella del campo di sterminio di Aushwitz, luogo in cui il dottore tedesco condusse i suoi macabri esperimenti a partire dal maggio del 1943, quando vi fu assegnato come sostituto del medico precedente. Per lo psicopatico di Gunzburg, il campo polacco rappresentò un vero e proprio paese dei balocchi: egli ebbe infatti l'occasione di poter condurre le sue ricerche disponendo di un elevatissimo campionario di cavie umane che avrebbe potuto sezionare, drogare, operare ed uccidere senza correre nessun rischio di eventuali responsabilità per i decessi. Ecco spiegato come mai questa figura si prestò perfettamente alla raffigurazione da parte della band americana che più di ogni altra divenne messaggera del male sulla Terra. Nelle liriche di questo brano Araya si cimenta nel descrivere nel dettaglio le atrocità a cui Mengele sottoponeva i suoi "pazienti": il nome stesso del campo diventa sinonimo di dolore ed in sole due frasi viene raccontata la lenta agonia in cui i prigionieri venivano lasciati dopo essere stati chiusi nelle camere a gas per essere giustiziati. Quelli che una volta erano esseri umani adesso sono capi di bestiame mandati al macello, che vengono ammassati alle soglie del mattatoio in attesa della loro fine già stabilita ed al di sopra di questo caos troneggia la figura dell'angelo della morte, intento a sferzare le sue vittime delle barbarie indescrivibili. Ogni incisione di bisturi, ogni flebo inserita in vena ed ogni somministrazione di sostanze sperimentali, fino agli interventi di puro sadismo fine a se stesso, come l'aumento volontario della pressione infracranica fino all'esplosione dell'encefalo, rientra in manuale della chirurgia approssimativa il cui scopo è compiere studi in favore della razza ariana, perché rischiare di fare delle vittime fra i tedeschi, quando si ha a disposizione delle "bambole" di cui non frega niente a nessuno? Questa era la agghiacciante ed abominevole logica del regime nazionalsocialista. 

Mandatory Suicide

A seguire troviamo "Mandatory Suicide (live)" (trad. "Suicidio Oblbigatorio"), annunciata dal vocalist di origine cilena con il suo proverbiale fare profetico. L'inizio del pezzo questa volta è imponente ed epico, gli accordi di chitarra entrano pesanti e granitici, purtroppo sempre minati dalle imperfezioni tecniche dello show di Los Angeles. Vista però la struttura più lineare e l'incedere maggiormente cadenzato della composizione, gli Slayer suonano più disinvolti e rilassati, consci di trovarsi su un terreno più solido rispetto alle tumultuose canzoni eseguite in precedenza per la cui velocità era ulteriormente essenziale l'estrema pulizia dei suoni. A vantaggio della band però, su questo pezzo la grezzura dei suoni gioca un ruolo di valore aggiunto, le parti in palm muting ed i successivi power chord escono particolarmente graffianti ed acidi conferendo al tutto un sound più black metal norvegese di primi anni Novanta; pensiamo quindi ai Darkthrone ed ai Mayhem come metodo di paragone, metro di giudizio non certo ideale per Kerry King e soci ma che in questo particolare caso si sceglie per definire una canzone particolarmente ben riuscita nella sua resa tagliente come un rasoio arrugginito. L'inconveniente tecnico quindi non stona troppo su "Mandaory Suicide" e soprattutto ne contiene i danni, dando ulteriormente il merito agli Slayer di essere musicisti di tutto rispetto ed in grado di suonare bene anche in situazioni particolarmente ostiche. Nonostante qualche piccola incertezza nel fraseggio iniziale, anche le successive parti eseguite con le due sei corde armonizzate escono con la giusta malvagità e perizia esecutiva che meritano. A fare di nuovo da locomotiva trascinate è la batteria di Bostaph, sempre precisissima e pesante ad ogni colpo, che sostiene l'intera impalcatura ritmica con un drumming deciso e ricco di groove in ogni sviluppo. Siamo ormai nel periodo di "South Of Heaven", emerge quindi la crescita stilistica fatta nei due anni successivi a "Reign In Blood"; il songwriting dei quattro infatti ora è più maturo, ordinato ed organico ed il disegno complessivo procede con una maggiore pulizia rispetto alle velocità inumane degli esordi. Anche nella parte solista, dove possiamo apprezzare gli assoli di Hanneman eseguiti in maniera molto fluida ed energica, l'architettura d'insieme esce molto più organizzata e fruibile. Il risultato migliore arriva con lo sviluppo del finale: la batteria procede inarrestabile con la doppia cassa intenta a martoriare ossa ed il rullante a scandire il tempo del massacro inesorabile con dei colpi netti ed aggressivi, le chitarre si muovo sinergiche con dei powerchord in palm muting che creano l'impatto necessario ad una conclusione epica come l'inizio del brano; Araya infine si lancia in una preghiera sconnessa ed in preda alla disperazione, conferendo una ulteriore dose di pathos maniacale per un pezzo in cui il suicidio è il tema fondante dell'intero sistema concettuale. Non un rituale compiuto in solitaria da un individuo stanco di vivere però, ma un omicidio suicidio organizzato da una setta di assassini per un suo membro particolarmente inefficiente nello svolgere le proprie mansioni. Vi sono infatti realtà organizzative le cui segretezza e potenza vanno ben oltre la nostra immaginazione, ma nonostante esse restino volontariamente nell'ombra sono tuttavia le responsabili di alcune delle dinamiche politiche del mondo intero. L'efficienza è dunque fondamentale, e quando un sicario inizia ad avere troppe missioni fallite a suo carico occorre che un altro killer si occupi di eliminare la parte difettosa di questo complesso meccanismo; dovendo restare top secret il tutto, l'omicidio dovrà apparire agli occhi del pubblico come un suicidio, il proverbiale omicidio-suicidio, e l'intera operazione sarà quindi catalogata dalle autorità come "suicidio obbligatorio", o meglio, su commissione, perché saranno i boss ad essere i mandanti dell'assassinio. La vittima però è ben conscia di essere al centro di un mirino ed a sua tutela cerca di non dare troppo nell'occhio, ma i sicari sono dei professionisti e quando meno se lo aspetta, rassicurato fra le proprie mure domestiche, il condannato sente immediatamente il foro di proiettile perforargli la testa: il dolore è lancinante ed istantaneo, che però si staglia sul suo cervello come se i proiettili a penetrale fossero mille insieme ad altrettanti mille che gli crivellano il torace; tutto si spegne, lasciando solo quel cenno di sensibilità che consenta al giustiziato di fargli vivere la sua caduta a terra ed il bruciore del definitivo decesso, facendogli vivere così il suo "suicidio". 

Chemical Warfare

 A chiudere l'ep troviamo "Chemical Warfare (live)" (trad. "Guerra Chimica"), brano originariamente contenuto in "Haunting The Chapel" del 1984. Il titolo del pezzo viene pronunciato da Araya con una voce indemoniata ed immancabile parte il boato del pubblico. Il riff terzinato di chitarra parte immediatamente secco e diretto, passando da una sola sei corde all'esecuzione insieme di entrambe, la tensione aumenta e precisa quanto un pugno in faccia tirato da un pugile arriva l'esplosione definitiva con l'ingresso della batteria. Lo shredding di King ed Hanneman unito alla possanza devastante di Bostaph rende questa traccia il non plus ultra per il mosh pit selvaggio, ogni colpo del rullante, seguito dalle pennate del basso, non fa altro che trascinare un pubblico sempre più in visibilio. Le pecche sui volumi ci sono ancora, anche se leggermente sistemate rispetto alle due canzoni iniziali, ma fortunatamente i due axeman, sono sempre precisissimi ed anche le parti in solitaria vengono eseguite, se non altro, in maniera impeccabile. È però il muro sonoro complessivo a fare di questa canzone una vera mina nei denti, ed ascoltandola eseguita live non si può far altro che lanciarsi nell'headbanging più sfrenato; le parti a note serrate delle strofe si alternano magnificamente con i power chord aperti distesi su un inarrestabile quattro quarti, dilatando così una ritmica claustrofobica e concedendo qualche attimo di respiro prima del break in cui Araya pronuncia il titolo del pezzo. La successiva ripartenza ci travolge per poi rigettarci nella mischia di un brano che non lascia alcuna via di fuga e riconferma la potenza inarrestabile della band dal vivo. Delle quattro canzoni live contenute in questo lavoro, "Chemical Warfare" risulta quindi la migliore dal punto di vista complessivo: su tutte le esecuzioni la performance diretta dei musicisti è ineccepibile, trattandosi di brani scritti da loro che sono sempre presenti nelle varie set list, ma le già citate pecche a livello di caratura dei suoni, probabilmente progressivamente corrette nel corso dello show, hanno immancabilmente penalizzato due brani in particolare che sono veri e propri simboli del Thrash Metal. Per fare ammenda verso i propri fan, se così si può dire, la band regala per la chiusura di questo e finale una vera e propria bolgia, un ultimo assalto all'arma bianca con cui mischiarsi ancora una volta le ossa prima della fine del "minishow" contenuto in questo ep, se si vuole ascoltare il meglio di queste tracce dal vivo dunque, a parità di esecuzione tecnica e resa dei suoni, occorrerà dunque fiondarci direttamente su "Chemicl Warfare". A fare da soggetto per il testo del pezzo troviamo nuovamente uno spunto storico, ovvero l'utilizzo delle armi chimiche durante i conflitti bellici che diede luogo alla coniazione de termine "guerra chimica". La loro prima comparsa fu durante la Prima Guerra Mondiale, durante le varie offensive in corrispondenza della cittadina di Ypres che passarono alla storia con il nome di "battaglia delle Fiandre". Fu infatti la prima occasione "ufficiale" in cui i gas, in particolare il tioetere del cloroetano (meglio noto come gas mostarda e per l'occasione passato alla storia anche come Iprite), vennero utilizzati nelle varie offensive, sterminando migliaia di soldati da entrambe le parti. La particolarità di questa nuova arma era proprio quella di poter essere lanciata su vasta scala senza poter essere contrastata, fu infatti dopo le prime mattanze che al fronte si iniziarono a distribuire le prime rudimentali maschere antigas. Nel testo degli Slayer, viene quindi descritto come questi gas distruggano l'organismo fino al decesso. L'esplosione della nube si crea immediatamente ed in pochi istanti veniamo avvolti da una nebbia che non solo ci acceca ma ci penetra nelle vie respiratorie anche se tentiamo inutilmente di coprirci il naso e la bocca con le mani. Il primo sintomo è un diffuso senso di stordimento, che provoca disorientamento, disturbi della vista e dell'udito ed un lancinante senso di nausea. La peculiarità dell'Iprite era inoltre quella di corrodere gli alveoli polmonari, i soldati quindi morivano bruciando letteralmente dall'interno contorcendosi in una seria di crampi dolorosissimi dovuti alle contrazioni del sistema nervoso; le liriche del pezzo vi aggiungono quindi il senso di eterna dannazione di un essere umano ormai inerme che trova nella trincea il proprio terreno sepolcrale e nell'essere divorato dall'arma chimica invoca perciò la morte istantanea che lo liberi da un Inferno che alle atrocità della guerra di trincea univa ora l'assoluto senso di impotenza. Se le pallottole, con una enorme dose di fortuna, potevano essere evitate, nulla si poteva fare contro quelle bombole che venivano gettate nei tunnel e che immediatamente li saturavano di Iprite. Le morti dovute alle armi chimiche costituirono infatti una notevole parte dell'intero bilancio del conflitto, stanziando nel mondo di inizio Novecento una nuova minaccia per il futuro.

Conclusioni

Purtroppo di "Stain of Mind" non si può dare un giudizio pienamente positivo: sia chiaro, per quanto riguarda l'aspetto compositivo ed esecutivo sia della traccia in studio che dei brani live nulla si può ad imputare gli Slayer se non la "colpa" di aver scelto del materiale on stage non del tutto eccelso da inserire nella tracklist. Evidentemente la scelta ricadde su quel particolare show in quanto svoltosi nella città madre della band, ma è anche certo che i quattro thrasher possiedano (e possedessero già all'epoca) un archivio live ben fornito da cui sicuramente si sarebbe potuto estrapolare del materiale migliore. La qualità della canzone "Stain Of Mind" infatti è impeccabile sotto ogni punto di vista ed offre da sola una panoramica esauriente degli orizzonti artistici raggiunti dal gruppo, ma le pecche tecniche del concerto da cui sono tratte le altre quattro canzoni dal vivo penalizzano notevolmente dei brani su cui normalmente gli Slayer offrono il meglio della loro bravura. Il format di singolo e materiale live per un ep è una scelta più che azzeccata, e lo abbiamo visto con "Serenity In Murder", ma nel caso di questo lavoro, purtroppo, non si può certo dire che il risultato sia altrettanto lodevole; leggendo il nome del gruppo sulla copertina e la scritta "live" accanto ad alcuni titoli si è sì messo in guardia verso tutte le eventuali imperfezioni che possono incorrere in un concerto, ma ci si aspetta altresì che se quelle registrazioni sono state inserite in un disco vantino una qualità degna di tale scelta. Dato il prestigio raggiunto dall'Assassino nel 1998, si può pensare che la band avesse a disposizione un producer ed uno studio per sistemare il materiale registrato, anche se per quanto si possa essere bravi dietro al banco mixer in studio, se l'esecuzione di partenza possiede dei suoni discutibili a posteriori non si possono certo fare i miracoli. Beninteso, la grezzura nel Thrash Metal ci deve essere ed è giusto che sia così, soprattutto nei bootleg, ma i difetti tecnici di questa esibizione vanno ben oltre la semplice attitudine old school; si parla infatti di difetti che mettono in difficoltà gli stessi musicisti e che quindi si trovano ad essere i primi a non potersi esprimere al meglio. Parliamo anche di un prodotto del 1998, quando, come già detto, Tom Araya e soci erano ormai a sedere nell'olimpo del Metal e da dei vip come loro ormai si pretende anche un prodotto che sia all'altezza del prestigio raggiunto e non più la classica demo underground. Faccio questa riflessione da fan accanito degli Slayer, che ha visto la band diverse volte dal vivo e che ha recensito questo lavoro con il sorriso sulle labbra, ma da una band di tale prestigio ci si aspetta sempre il meglio del catalogo; questi pezzi sono stati suonati dal gruppo di Huntington Park con tutta la grinta e l'esperienza che li ha resi un mito del Thrash ma è un vero peccato che per colpa di qualche difetto tecnico del concerto dei pezzi di storia della musica extreme non abbiano la resa che meritano.

1) Stain Of Mind
2) Raining Blood
3) Angel Of Death
4) Mandatory Suicide
5) Chemical Warfare
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