SLAYER
South Of Heaven
1988 - Def Jam Records
MICHELE ALLUIGI
05/03/2016
Introduzione Recensione
Per quanto profonda possa essere la discesa negli abissi, si può sempre scavare ulteriormente il fondo, andando a grattare ancora di più quella crosta dura e secca che custodisce la vera essenza delle cose. In ambito musicale, gli Slayer non esitarono a proseguire la loro marcia nell'Inferno del Metal ed andarono ancora avanti nell'esaminare quanto di più malvagio ci fosse anche in una visione perfetta ed ideale come quella del Paradiso, esplorandone le regioni più basse della struttura cosmogonica. Nonostante quest'ultimo sia ormai stato analizzato e teorizzato dai più grandi nomi in ambito accademico teologico, che dal sommo Dante Alighieri arrivano fino a Benedetto sedicesimo, tuttavia vi è ancora una parte della beatitudine ultraterrena che non è ancora stata analizzata: si tratta della parte più oscura e trascurata, esatto, avete letto bene, anche il regno dei cieli possiede il proprio lato oscuro, come tutti i concetti e le cose appartenenti alla realtà ed al pensiero umano del resto; non ne si fa mistero del resto, se consideriamo che la creatura simbolo del male per eccellenza , il diavolo (o anche detto Satana, Belzebù, Asmodeo e via dicendo in base alle varie interpretazioni) era in origine un angelo, peraltro uno dei prediletti di Dio, che per la sua arroganza e sfida nei confronti del signore venne esiliato dal Paradiso per essere scagliato nella più buia e remota voragine divenuta nota come Inferno, a maggior ragione non riuscirà difficile comprendere che anche le creature beate e perfette in quanto tali possano possedere un proprio lato malvagio. Proprio l'indagine di questo Mr. Hyde celestiale diventa il punto di partenza di Tom Araya, Dave Lombardo, Kerry King e Jeff Hanneman; gli aspetti reconditi dell'animo umano, per quanto ancora fortemente attuali nell'arte del gruppo, sono diventati materia già abbastanza scandagliata, il male va quindi esplorato sotto una nuova lente di ingrandimento, che vada oltre l'immaginario quasi fumettistico di demoni, mostri, sangue e budella e ben oltre ancora rispetto alle perversioni degli uomini, creature sì del divino ma al tempo stesso notoriamente soggette alla corruzione del peccato. Bisogna quindi ricercare il male laddove esso, almeno sulla carta, non dovrebbe esserci, eppure c'è lo stesso: il regno dei Cieli. Sull'esempio di Dante nei primi anni del '300, periodo in cui il poeta fiorentino si apprestava a comporre le cantiche del Paradiso, il quale elevò a massimo esponente il suo plurilinguismo, arricchendo i suoi versi di termini aulici, latinismi e termini squisitamente tecnici dell'ambito teologico al fine di poter degnamente trattare l'argomento, allo stesso modo si comportarono gli Slayer, i quali, posero al centro del loro all'epoca nuovo materiale, un sound più ricercato e studiato nei minimi dettagli; per poter intraprendere questa nuova marcia verso l'immaginario benevolo della religione cristiana occorreva essere preparati con una musica che fosse adatta allo scopo. Se con Reign In Blood del 1986 la band californiana conquistò ufficialmente le vaste lande infernali, è con il successivo South Of Heaven, del 1988, che Tom Araya e soci intrapresero l'assalto su vasta scala per la distruzione dell'idilliaco regno del bene; con la spada affilata della loro musica, essi andarono infatti ad insinuarsi ancora più all'interno nella carne di quella concezione bigotta e perbenista secondo la quale bisogna essere retti e puri per guadagnarsi la gloria ultraterrena, smembrandone i lembi e dilaniando il tessuto muscolare di quell'atteggiamento ipocrita che dietro al falso perbenismo nasconde quella perversione insita nell'animo umano, quell'appetito così primitivo ma al tempo stesso così naturale che rende desideroso di un lussurioso orgasmo anche il religioso più fervente. Nella conservatrice America degli anni Ottanta, le polemiche ed i falsi luoghi comuni circa il satanismo ed il generale messaggio negativo dell'Heavy Metal erano ormai all'ordine del giorno, e si può citare, giusto ad esempio, il caso del 1984 che vide imputato Ozzy Osbourne per il suicidio del giovane John McCollum, il fan diciannovenne del Madman che si sparò un colpo di fucile in pieno volto ascoltando "Suicide Solution" dell'album "Blizzard of Ozz". Tuttavia, le band metal nel loro complesso, Slayer in primis, andarono avanti imperterrite per la loro strada, continuando a sfornare le loro massicce dosi di violenza sonora a velocità sempre più elevate e con sonorità sempre più taglienti. In barba ai bigotti dunque, dopo l'album intitolato "Regno nel Sangue" perché non andare a cercare il distacco netto dalla massa andandosi a collocare nella parte più remota del regno dei cieli? Ogni buon cristiano infatti aspira a raggiungere le vette dell'Empireo e l'eterna grazia ultraterrena attraverso la rettitudine, i quattro californiani invece vogliono restare in basso, al Sud, per usare una metafora geografica, rifiutando volontariamente la chiamata al cielo per restare in quel settore di creato dove è ancora presente il male. Sul piano creativo invece, "South Of Heaven" continua quel processo di evoluzione artistica che la band di Huntington Park ha sempre cercato album dopo album: pur restando fedelissimi al sacro verbo del Thrash Metal, in queste dieci canzoni emerge una ricerca di qualcosa di diverso dai lavori precedenti, un songwriting che dopo aver sfruttato e metabolizzato pienamente la potenza del tempo serratissimo e dei riff alla soda caustica si concentra adesso anche sull'atmosfera; il riff diventa ora qualcosa di puro ed assoluto, non più solo un'esecuzione mitragliante, bensì una ricerca della massima espressione della malvagità attraverso delle note musicali. In maniera quasi ermetica, Kerry King e Jeff Hanneman mirano ad esprimersi solo attraverso un fraseggio in tandem, ovviamente arricchito sempre dalle partenze esplosive e dall'impatto travolgente, ma il punto focale degli Slayer di fine anni Ottanta sta appunto in questo passaggio, nello studio iper calibrato dell'espressività del singolo strumento da amalgamare con la cruda e primigenia malvagità dell'insieme. Anche l'artwork mira ad un espressione semplice ed efficace allo stesso tempo: alla visione caotica della copertina del lavoro precedente, dove il caprone con il braccio teso pur essendo soggetto principale si perdeva in mezzo ad una serie di altre figure mostruose, viene ora ricercata l'espressività massima dell'elemento semplice; l'immagine del cranio martoriato spicca nitida e compatta al centro della scena, evidenziata anche dai colori freddi che la caratterizzano, mentre il rosso vivo del sangue alla base di esso e le tenebre che avvolgono lo sfondo circostante ne evidenziano ulteriormente lo scontro cromatico. Le creature oniriche questa volta si riducono alle sole orbite oculari del teschio, dando così maggiore risalto alla croce che lo trapassa in diagonale dal basso verso l'alto, creando una metafora efficace di come i dogmi religiosi ci impalino letteralmente il cervello e quindi, di conseguenza, la mente ed il libero pensiero. Il logo della band viene "relegato" in alto a sinistra, quasi a voler ribadire che il nome dell'artista non deve in alcun modo disturbare l'azione penetrante che il soggetto deve avere sugli occhi dell'ascoltatore: il fatto che la religione si insinui nell'intelletto umano e ne influenzi inevitabilmente il pensiero è un concetto ormai conclamato e sostenuto da molti e deve quindi arrivare al fan non perché lo dicono gli Slayer, ma perché egli prenda coscienza da solo di questa agghiacciante realtà.
South Of Heaven
In cima alla tracklist troviamo appunto la titletrack South Of Heaven (Sud Del Paradiso), un brano la cui sola introduzione esprime perfettamente quella ricerca di atmosfera sulfurea assoluta attraverso il lavoro delle chitarre. Sono infatti le sei corde a condurre lo sviluppo del pezzo: le note del celeberrimo riff di "Raining Blood" vengono qui riprese e ricamate nuovamente tra loro per ottenere un fraseggio decisamente più doom oriented. Fin dai primi secondi, per l'appunto, siamo avvolti da una nebbia impregnata di cenere infernale, le pennate cadono pesanti sulle corde facendo di questo riff una vera e propria marcia funebre; durante il susseguirsi delle varie note, un mi lasciato andare a vuoto scandisce le varie battute quasi come una campana scandisce, con i suoi rintocchi, la marcia del corteo dietro al feretro durante un funerale; le armonizzazioni inoltre arricchiscono il passaggio creando un effetto di sonorità completo e variegato, ideale per il dinamismo del riff che alterna, nelle varie parti finali, un bending ed un hammer on derivanti dalla scuola del grandissimo Tony Iommi. Dopo pochi giri fa il suo monumentale ingresso la batteria di Dave Lombardo, il cui primo accento sui piatti e sulla cassa fanno letteralmente esplodere la parte, quasi vi fossero degli effetti pirotecnici a condire il tutto; con l'entrata in scena dei fusti, le chitarre si abbassano di tonalità nel mantenere il riff iniziale, creando così un crescendo che lentamente va a costruire il muro sonoro a cui gli Slayer ci hanno abituati nel corso degli anni. Il rullante è secco e preciso come uno sparo ed ogni colpo precede un passaggio sui tom la cui pesantezza quasi sfondale pelli; la voce di Tom Araya parte da un registro parlato per poi esplodere in un urlo disperato, sempre adeguandosi al crescendo poc'anzi citato che gradualmente ci porterà poi allo sviluppo successivo, ma non è ancora il momento di partire in quarta. Il tempo ora passa ad un ostinato sul ride, che lentamente continua a scandire le note del main riff con la sola cassa, il rullante e la campana del ride. Le sei corde iniziano a sfoderare un terzinato in palm muting e subito avvertiamo che l'aria si sta facendo più pesante, la strofa infatti si lancia su una cavalcata possente e sontuosa su cui Araya può continuare a cantare con il suo proverbiale fare profetico; il bridge si apre poi con un raddoppio del tempo attraverso il passaggio in trentaduesimi della cassa di Lombardo ed un fischio in dirt picking spalanca il respiro per la successiva calma apparente. È qui infatti che riparte la seconda strofa con un fare più deciso: ormai la furia sta per esplodere e si arriva così al ritornello, dove il Sud del Paradiso viene invocato a gran voce. L'assolo di Kerry King immediatamente conseguente si caratterizza per la solita colata di note mitragliate a velocità alcaline, e dopo un nuovo ritornello gli strumenti possono ulteriormente inspessirsi nella successiva parte solista, che si chiude in corrispondenza del finale del pezzo. Dal punto di vista della struttura, gli Slayer iniziano quindi a variare le loro scelte artistiche, iniziando a mescolare i canonici tasselli di strofa, ponte, ritornello e assolo non più secondo alternanze regolari ma cercando qualche nuovo legame su cui costruire le loro canzoni; siamo quindi di fronte ad un Thrash Metal nuovo per la band californiana, un qualcosa che dal ferreo dogma dell'old school si sta trasformando in quel marchio di fabbrica personale che oggi ha reso la band californiana riconoscibilissima al primo ascolto. Immaginiamo ora di essere immersi nella nostra affannosa e monotona quotidianità; improvvisamente il cielo si scurisce, pensiamo ad un temporale e invece è la seconda Apocalisse che si sta per stanziare su di noi poveri mortali. Araya, come da manuale, si fa cantore di questa nuova fine del Mondo, che seppur spesso cantata nelle sue liriche purtroppo non è ancora arrivata a debellare finalmente l'insulsa stupidità raggiunta dal genere umano; siamo tutte vittime prive di sospetto, dato che non ci sono ancora cadaveri in giro e non ci sono segni premonitori se non delle nubi sempre più fitte che però noi, stolti, attribuiamo ad un prossimo temporale, restiamo incuranti, ma quando vedremo quell'improvviso bagliore nel cielo per noi sarà troppo tardi. La follia ormai è dilagante tutto intorno a noi: i palazzi delle città si crepano e crollano come castelli di sabbia bagnati dal mare, mentre il terreno sotto i nostri piedi si spalanca facendo uscire il magma del nucleo terrestre e le creature infernali che riprendono possesso del creato dopo millenni di reclusione negli inferi. Il caos ormai imperversa in ogni dove e le creature rinnegate da Dio si diffondono e prolificano fino a popolare interamente il pianeta, creando così l'habitat peccaminoso dove la luce del regno dei cieli ormai non può più arrivare, tanto sono fitte le nubi e la coltre di zolfo in cui ormai verremo sepolti. Siamo dunque a Sud del Paradiso, o meglio è l'Inferno che si sta elevando per fare della terra la zona più remota ed abbandonata del regno celeste.
Silent Screen
Sul fade out della opener inizia immediata Silent Screen (Urlo Silente); il tiro è decisamente più alto, e con questo brano gli Slayer ci riportano indietro ai loro albori artistici, seppur con un approccio decisamente più maturo. La crescita della band si nota innanzitutto dalla maggiore precisione con cui vengono eseguite le varie parti sul finire degli anni Ottanta: se infatti nei primi due lavori in particolare tutti e quattro i musicisti suonavano i rispettivi strumenti con fare un po' grezzo e a tratti approssimativo, rendendo certi passaggi un po' troppo pastosi, adesso le singole composizioni, per quanto veloci e serrate possano essere, vantano una maggiore perizia tecnica. Nel riff di apertura infatti abbiamo modo di percepire con maggiore nitidezza il lavoro di shredding dei due axeman, che ci regalano delle pennate nette ed incisive quanto i colpi di un m-16 a grilletto premuto. Lo scheletro della traccia è molto più lineare, ma pur trattandosi di uno schema abbastanza standard a livello compositivo, la maturità raggiunta dai californiani ci offre uno sviluppo devastante e travolgente ad ogni secondo. La strofa ed il ritornello sono separati tra loro solo da un cambio di riff delle chitarre, mentre la batteria procede lineare ed inarrestabile con il tempo in quattro quarti nel quale il rullante viene letteralmente massacrato. Lo stile di Dave Lombardo si caratterizza ancora una volta per la sua precisione chirurgica nell'eseguire tempi costanti intervallati sempre da qualche incisivo passaggio sui fusti, ma d'altra parte dagli Slayer vogliamo questo, un'inarrestabile macchina da guerra che ci ricordi perennemente che non esiste mai il "troppo pesante" quando si parla di Thrash Metal. Il cantato di Araya si presenta serrato ed incisivo, letteralmente "incastrato" nelle parti in shredding tra un fraseggio e l'altro del main riff di chitarra; alla velocità funambolica della strofa fa da contrasto l'improvvisa apertura del ritornello, dove le chitarre dilatano il tutto attraverso due power chords tenuti prima di riprendere a mitragliare note a più non posso. Nella parte centrale del pezzo troviamo poi l'assolo, spartito questa volta fra King ed Hanneman in una vera e propria tenzone chitarristica sostenuta dalla struttura della strofa. Siamo senz'altro di fronte ad un pezzo che non lascia sopravvissuti, "Silent Scream" è sempre stato un pezzo che nelle varie set list dal vivo non ha mancato di scatenare un pogo sfrenato tra i fan in delirio (del resto, quale canzone degli Slayer non scatena un'orgia di sangue?) e la sua semplicità tecnica viene perfettamente compensata dall'attitudine con cui gli autori la suonano; va bene, siamo d'innanzi ad un brano "tutto uguale", ma la pacca che scatenano Tom Araya e soci appena iniziano a suonarla è semplicemente qualcosa di unico. Nel complesso la struttura è più quadrata ed anche per quanto riguarda le liriche, il vocalist di origine cilena si riserva di suddividere le varie strofe in versi da due frasi ciascuno, rapidi e decisi così come lo sono le pennate dei suoi colleghi chitarristi. L'ambito tematico è nuovamente quello onirico, l'inconscio del sognare, nel particolar caso degli incubi, ha sempre costituito per Araya un bagaglio di immagini profonde e suggestive per i suoi testi. Le parole si inzuppano di buio quasi come se fossero prese da un racconto dell'orrore di Edgar Allan Poe; l'incubo viene infatti aperto da un'immagine raccapricciante, un bambino che nel calore del proprio letto vede in sogno la propria morte. Il tormento lo assale immediatamente e non c'è nulla che il piccolo possa fare per contrastare questa macabra visione; in un mondo brutalmente sincero e selvaggio come quello del nostro subconscio non vi è alcuna luce di speranza che ci possa guidare: se la parte più recondita di noi decide di proiettarci la visione del nostro trapasso siamo impotenti e come spettatori legati ad una sedia di un immaginario cinema veniamo legati alla nostra poltrona, con gli occhi aperti obbligatoriamente dalle pinze, come Alex in Arancia Meccanica, di modo che non ci sia azione o gesto che possiamo fare per sfuggire al terrore. Trattandosi della mente di un bambino, la morte viene inserita in un contesto fiabesco e ricco di fantasia, uno spettacolo al circo con saltimbanchi, animali e mostruosi pagliacci che si stagliano ridendo contro di lui. La paura lo assale senza lasciargli modo di difendersi, ed il bambino compie istintivamente il gesto più automatico che si può avere di fronte a qualcosa che ci spaventa: urla. La sua voce però viene coperta dal baccano del circo e nessuno lo può sentire per correre in suo aiuto, la sua flebile voce viene eclissata dal baccano delle risate dei clown, dai ruggiti delle fiere e dal boato del pubblico che assiste attonito alla sua aggressione, il bimbo continua ad urlare con tutta la voce che ha in corpo, fino a sentire la sua gola lacerarsi per lo sforzo, ma dalla sua bocca non vede uscire altro che il silenzio, prova e riprova nuovamente ma nulla, nessuno lo può sentire, ed il suo grido resta così avvolto nel silenzio, un urlo silenzioso che si perderà come un'eco in un oceano di silenzio.
Live Undead
Successivamente troviamo Live Undead (Morto Vivente): la chitarra entra in fade in con un riff tagliente ed incalzante, fedelissimo alla grande tradizione Heavy Metal. Pochi accordi a note discendenti che creano subito l'atmosfera plumbea di cui ha bisogno un esercito di zombie per compiere la propria marcia. Su questa parte iniziale troviamo un Dave Lombardo particolarmente in forma, che si scatena in una serie di passaggi sui fusti netti e serrati, prima di iniziare a tenere il proverbiale ostinato sul ride. Nel complesso la canzone è strutturata secondo una linea più doom delle precedenti, le chitarre infatti continuano a muoversi sul main riff seguendo fedelmente i vari raddoppi ritmici che creano il dinamismo dell'intero sviluppo. A mano a mano che il pezzo procede, viene realizzato un crescendo particolarmente interessante, dove le sei corde continuano a calcare la mano con pennate sempre più pesanti su cui la voce di Araya ha modo di sfoderare tutta la sua follia; ancora una volta possiamo assaporare degli Slayer nuovi che mirano a travolgerci ora con la lentezza e la pesantezza di una composizione sabbathiana a tutti gli effetti, ma stiamo comunque parlando di uno dei gruppi più influenti del Thrash Metal mondiale, poteva quindi mancare l'assalto all'arma bianca nella parte finale? Assolutamente no; dopo una porzione centrale all'interno della quale il drummer de L'Avana ha potuto cimentarsi nel suo immenso campionario di shake decisivi sui tom, potendoci regalare un brano martellante e da headbanging assicurato, ecco arrivare il canonico break di sola chitarra: i due axeman abbandonano le loro mani destre ad uno shredding da manuale che scaglia il tachimetro ben oltre il limite di giri consentito. Quattro giri rapidissimi ed improvvisi prima che esploda la cascata di vetriolo sostenuta da un tupa tupa che non annoia mai tutti gli amanti del Thrash; le ultime porzioni di testo si alternano ora a delle parti soliste incisive e serrate eseguite ora da Hanneman ora da King per un ultima stoccata al nostro addome prima di ritrovarci a raccogliere le nostre frattaglie sul pavimento. Questa canzone dunque si presenta come un esempio lampante della ricerca di novità che i quattro californiani stavano compiendo sul finire degli anni Ottanta; rispetto ai brani dei vecchi lavori siamo ora di fronte ad un metodo compositivo più dinamico e variegato, dove alle parti in quattro quarti da manuale si mescolano anche momenti più articolati e tendenti al groove, offrendo quindi un quadro assolutamente completo della potenza della band. Inoltre, la sperimentazione è mirata anche nell'utilizzo della voce, oltre all'acuto di Araya eseguito sul primo cambio strutturale della traccia, elemento questo già utilizzato in "Angel Of Death" e "Post Mortem", i thrasher statunitensi utilizzano su "Live Undead" anche i cori nel ritornello, espediente che a conti fatti riporta un ottima resa anche se utilizzati ancora poco e destinati a restare un elemento quasi totalmente marginale negli schemi artistici del gruppo. Le parole di questo testo contengono una attenta e metaforica riflessione su se stessi, un'analisi introspettiva di tutte le sensazioni che si possano provare ed un suggestivo quadro mentale di tutti i concetti e pensieri che possano percorrere la nostra mente: argomento abbastanza insoliti per gli Slayer, ma tranquilli, la situazione narrata viene proposta vista con gli occhi di un morto che improvvisamente riprende vita. Il cadavere è ormai freddo, le tenebre calano sul cimitero ove esso è sepolto e le pareti della bara si fanno sempre più strette intorno al defunto, come se fossero delle pareti sempre più opprimenti; gli occhi si aprono improvvisamente, e nonostante il torpore del decesso una volta riaccesosi l'impulso vitale essi riescono ancora a vedere. Logicamente davanti agli occhi del corpo vi è solo il legno del feretro ma si può ancora percepire l'immenso senso di vuoto e desolazione che solo chi è chiuso in una scatola sottoterra da anni può provare. Dopo il silenzio eterno, anche le orecchie ritornano finalmente a percepire ogni rumore nell'ambiente circostante, dal gufo appollaiato sull'albero ormai secco del campo santo fino alle voci interne alla testa, quei sussurri che si insinuano nel cervello putrefatto con sempre maggiore insistenza, riportando alla memoria i ricordi della vita ormai giunta al termine. Tutto ci scorre davanti agli occhi, le gioie, ma soprattutto i dolori ed i rimpianti, quelle scene che a rivederle fanno venire subito la voglia di tornare in circolazione a porre rimedio. Tutto è freddo e desolato, ma il morto ormai è pronto ad esplodere e ferve di una nuova energia. Il coperchio della bara di solleva, la terra si smuove, ed il trapassato ritorna finalmente alla vita. I muscoli sono putrefatti ed indolenziti, ma le gambe reggono ancora e nonostante il passo un po' incerto, quelle questioni in sospeso dovranno essere risolte. Gli umani lo hanno dimenticato, nessuno gli ha più reso omaggio sulla sua lapide, ecco come quegli ingrati esseri ancora in vita diventano il succulento pasto di una creatura cannibale ormai tornata a funestare l'umanità scagliata direttamente dall'Inferno.
Behind The Crooked Cross
La seguente Behind The Crooked Cross (Dietro La Croce Divelta) è un pezzo speed metal sotto ogni aspetto; protagonista è ancora una volta un avvincente riff di chitarra, molto più elaborato e possente dei precedenti: l'apertura della canzone si svolge con le sei corde che entrano in fadee, mentre tengono un mi continuato e serrato; immediatamente Lombardo segue i due colleghi con una rullata che passa successivamente ad un ostinato, al main riff si aggiunge improvvisamente un fraseggio che lancia la strofa. Il tempo di batteria diventa ora un quattro quarti lineare che vede alternarsi cassa e rullante secondo una linea più heavy e classica, le chitarre si muovono ora molto più articolate, ed il groove è decisamente più coinvolgente di certe altre creazioni di Araya e compagni. Ad emergere immediatamente lampante è la struttura standard del pezzo, che dalla strofa in pieno stile Iron Maiden e Judas Priest si lancia sugli ormai rodati binari del tupa tupa inarrestabile per la parte solista, dove King ed Hanneman si sfidano nuovamente in un conflitto all'ultima nota. Come abbiamo già avuto modo di apprezzare in precedenza, le differenze tecnico- stilistiche tra i due axeman sono sottili, ma tuttavia riconoscibili se si analizzano nel dettaglio le loro performance: Jeff Hanneman vanta un gusto più ricercato nell'utilizzo delle melodie per i propri arrangiamenti, dando quindi una maggiore attenzione alla scelta delle note ed al pathos da far uscire in tutto il suo corpo in ogni singola nota tenuta in bending. King invece è un velocista senza scrupoli, le sue dita devono mitragliare note finché gli impulsi nervosi dal cervello arrivano alle mani ed in questa continua ricerca di bpm elevatissimi, a risentirne alle volte è però la precisione; le innumerevoli scale cromatiche suonate dal barbuto chitarrista non sempre emergono nitide ma, giustamente, a King non interessala precisione, la musica degli Slayer deve risvegliare Satana in persona e se il demonio prendesse possesso del pianeta, di certo la perizia nell'esecuzione sarebbe l'ultimo dei suoi problemi. Conclusa questa disputa solista, la struttura si riallaccia al riff della prima strofa, tornando ad essere un brano che pare essere composto da un qualsiasi nome di spicco della New Wave of British Heavy Metal. È comunque inevitabile che il metal più classico rappresenti una musa ispiratrice di notevole caratura anche per le band più estreme: se ci soffermiamo un istante a riflettere sulla storia di questo glorioso genere, tutto ebbe inizio dai Black Sabbath ed, in generale dai grandi nomi del rock (Led Zeppelin, Deep Purple e chi più ne ha più ne metta), ma se vogliamo considerare anche l'aspetto iconografico, la band di Tony Iommi può senza dubbio considerarsi l'archetipo di tutto, dal quale poi, attraverso un procedimento a cascata, le varie sperimentazioni hanno condotto al Metal più estremo di oggi. Nonostante per questa canzone gli Slayer siano tornati ulteriormente indietro, andando quindi alle origini del loro sound in generale, un brano con la linea compositiva di "Behind The Crooked Cross" risulta particolarmente efficace pur essendo "vintage", ed indubbiamente gli Slayer sanno spingere benissimo anche quando vogliono essere un po' più morbidi. Il frontman cileno questa volta si porta ad essere interprete del disagio esistenziale dell'io narrativo ormai divenuto protagonista delle encicliche di odio generale verso il mondo e l'umanità che da sempre animano le liriche dell'assassino. Il tempo infatti scorre lentissimo nella realtà monotona ed insopportabile che noi chiamiamo vita. Le giornate, sempre uguali e prive di un qualsiasi stimolo che possa infonderci un minimo di entusiasmo per il vivere, sono ormai divenute un insieme di lunghissimi ed inesauribili tic e tac di un orologio che nonostante i suoi ticchettii non sposta di un millimetro le proprie lancette. Dentro di noi emerge un senso di nausea e di disgusto che solo l'olezzo di una realtà sempre più deludente ci può suscitare, tutto ciò che ci circonda ci lascia attoniti e pieni di quesiti a cui però nessuno potrà mai dare risposta né tanto meno rimedio; inarrestabili fiumi di sangue inondano un mondo ormai dominato dalla violenza e nessuno fa nulla, ci si ammazza ogni giorno ma è tutto assolutamente normale, non vogliamo far altro che isolarci e lasciare che la nostra anima voli via ma al tempo stesso vogliamo lottare e ribellarci verso tutto. La religione, ipocrita istituzione che maschera sotto la falsa benevolenza tutto ciò che di marcio c'è nell'uomo, diventa così il bersaglio della nostra guerra, lotteremo con tutte le nostre forze verso questo male e la croce che la rappresenta verrà diventa dal terreno e capovolta, non solo come massimo affronto ma per fare anche una sorta di spada con cui impalare e dilaniare i ministri di Dio che oseranno sbarrare il nostro cammino. Non solo, quel simbolo ritenuto dalla massa così potente e pregno di significato diventerà ora la bandiera di una rivoluzione che soverchierà il mondo in toto, depurandolo da tutto il putridume ben agghindato per non accecarci che ci attornia.
Mandatory Suicide
Giungiamo ora ad un classico intramontabile degli Slayer, Mandatory Suicide (Suicidio Obbligatorio), una canzone che i quattro californiani non mancano mai di riproporre on stage. L'inizio è subito traumatico e soffocante, le chitarre infatti sfoderano un riff maligno sulle tonalità alte che viene prontamente scandito dagli accenti martellanti della batteria di Dave Lombardo. A conferire ulteriore calore alla parte intervengono le notte grosse e pesanti del basso di Araya, che come un tuono esplode ad ogni colpo rendendo ancora più travolgente questa apertura. Fin dai primi istanti troviamo un nuovo crescendo magistralmente costruito dalla band, la quale dopo un aumento del tempo in ostinato passa ora ad una marcia terzinata sul quale si stanzia la strofa; le pennate in palm muting di King ed Hanneman regalano alla composizione una potenza dall'impatto assicurato, oltre a rendere il tutto decisamente solenne, come un inno sacrale che circonda un suicida nel suo momento di raccoglimento prima dell'estremo atto. Fondamentalmente lo scheletro del brano consta di un'unica avanzata lineare durante la quale si alternano raddoppi e dimezzamenti del tempo, dal punto di vista melodico, le sei corde utilizzano sia le note in palm muting che i power chords aperti, scandendo ogni intermezzo tra una strofa incantata e l'altra. Vero elemento vincente però è il break che spezza in due le strofe: la musica infatti si blocca di netto, quasi come se i musicisti venissero improvvisamente colpiti da un cecchino, per poi esplodere in un urlo forsennato di Tom Araya; altro elemento di notevole rilievo risulta poi essere il salire di tonalità in corrispondenza del bridge, così facendo infatti l'intera creazione si impregna di un'atmosfera schizofrenica e folle e quasi ci accompagna nel gesto di togliersi la vita narrato in queste parole. Il finale del pezzo infatti è costituito da una strofa che procede senza voce e si spegne lentamente in fade out; su di essa un semplice parlato dalla voce netta e mono tonale, privata di qualsivoglia emozione come quella di chi sta pronunciando la solenne profezia del suicidio obbligato. La traccia risulta essere un ulteriore testimonianza di ciò che andavano ricercando i quattro di Huntington Park nel 1988: "Mandatory Suicide" è forse meno "violenta" delle canoniche composizioni della band, ma tuttavia essa risulta affascinante ed avvincente proprio per l'alone di teatralità di cui è pervasa. Alle ritmiche tritaossa si sostituisce ora un tempo più standard e marziale, dalle mitragliate in shredding sulle corde si passa poi ad un riff più calibrato ed articolato, il tutto in funzione di un testo originale sotto tutti i punti di vista, che dopo averci dato l'impressione di ricalcare un immaginario comune al Metal e quasi diventato un cliché, quello del suicidio appunto, sterza improvvisamente per lasciarci a bocca aperta non appena ci cimentiamo alla lettura all'interno del booklet. Esso infatti racconta un suicidio da un punto di vista estremamente singolare: non ci troviamo infatti di fronte ad un individuo stanco ed infelice che decide improvvisamente di porre la parola fine alla sua patetica esistenza, la scena è invece quella di un bersaglio umano centrato dai colpi impeccabili e senza pietà di un cecchino. Chi sia esattamente la vittima non è esplicitamente dichiarato, gli Slayer ci lasciano quindi liberi di immaginarci la realtà a noi più gradita e personalmente mi piace interpretare questa lirica vedendo nello sfortunato soggetto un membro di una band criminale, che dopo l'ennesimo incarico fallito e la conseguente delusione del suo boss viene condannato a morte da quest'ultimo. L'esecuzione però deve apparire come un qualcosa di assolutamente imprevedibile e soprattutto deve sembrare uno dei tanti omicidi su cui la polizia si troverà a dover indagare. L'anonimato è infatti fondamentale per i sicari scelti della malavita, essi sono la perfezione criminale fatta a killer, tuttavia come si suol dire non tutte le ciambelle riescono col buco; il protagonista doveva semplicemente togliere di mezzo una persona scomoda, ma per una serie di infinite ragioni quella persona respira ancora e questo al capo non piace affatto. Il malcapitato è consapevole della taglia messa sulla sua testa e del mirino laser che presto si poserà su di lui ma tuttavia cerca ancora di prolungare la sua vita nascondendosi e restando nell'ombra, ma quando la tua sentenza di morte è già stata decretata e sulla lapide è già stato inciso il tuo nome non c'è rifugio che ti possa nascondere dai tuoi boia. All'improvviso infatti la vista si spegne ed una colata di magma cola improvvisamente sul suo corpo: è il foro di un proiettile che in un istante gli ha frantumato il cranio come un vaso di terracotta, non si capisce da dove sia arrivato, ma poco importa, agli occhi della gente il condannato si sta togliendo la vita ed istantaneamente l'ombra della morte sta facendo calare le tenebre su di lui. Il corpo cade fulmineo a terra, ma per il non ancora morto quegli istanti sembrano immensi ed egli ha così tutto il tempo di vivere in prima persona il suo suicidio obbligatorio.
Ghost Of War
Ghost Of War (Fantasmi Della Guerra) si riallaccia ai binari canonici della band: gli amanti della tradizione più oltranzista del Thrash Metal troveranno infatti nettare ed ambrosia per i loro distruttivi appetiti. La partenza è immediata e notevolmente "in your face"; Dave Lombardo ha finalmente modo di tornare a consumarsi gli arti con il suo tempo prediletto, il quattro quarti meglio noto come tupa tupa che ogni thrasher va ricercando, le chitarre sfoderano un riff brutale ed aggressivo, ricco di passaggi interni che vi conferiscono un dinamismo oltremodo trascinante. Il tutto si svolge con un fade in, in modo che questa furia ci arrivi addosso da lontano per poi impattare sulle nostre membra nell'esatta concomitanza dell'inizio della strofa; come accennato, gli Slayer guardano ora al passato che fu, immedesimatevi quindi nell'attitudine che i quattro californiani vantavano all'epoca di "Show No Mercy", ma immaginatela anche aggiornata in 2.0, rivista e rielaborata con la tecnica e l'esperienza di chi ormai può vantare quasi dieci anni di eccellenza nel proprio settore. Pur essendo un pezzo retrò, se così si può definire, tuttavia i nostri quattro assassini suonano questa musica con un gusto ed un talento notevolmente evoluti rispetto agli albori; i riff stessi, sempre velocissimi e taglienti, vengono suonati in maniera molto più fluida e pulita, lasciando alle spalle quella sporcizia diffusa che rendeva le primordiali esecuzione una amalgama confusa ed a tratti quasi chiassosa. Tutti i membri del gruppo suonano ora con scioltezza e disinvoltura una canzone che magari solo sei anni prima sarebbe risultata molto più caotica. Il salto indietro nel tempo viene compiuto dai quattro thrasher sempre restando fedeli all'obiettivo dell'album intero, ossia quello di evolvere il sound del gruppo alla ricerca di qualcosa di innovativo, ed a tal proposito il bersaglio è centrato in pieno. Pur restando un brano fatto di alternanza di strofa e ritornello, all'interno di essi vi sono variazioni al tema particolarmente interessanti, non solo il cambio di tonalità all'interno della strofa stessa, ma anche la parte solista risulta particolarmente elaborata, la dinamica infatti vanta diversi cambi di tempo al proprio interno, facendo quindi emergere l'anima sperimentale dei quattro americani regalando un pezzo vecchio ma al tempo stesso nuovo, facendo di "Ghosts Of War" un pezzo particolarmente sui generis. Anche per quanto riguarda il testo vi sono diverse soluzioni per la distribuzione delle parole sulla musica, dalle frasi più lunghe ed articolate delle strofe si passa alle sentenze minime ed incisive del bridge e del ritornello, evidenziando anche come la ricerca di novità venga praticata dalla band su vasta scala. Unico punto costante di Tom Araya e soci resta l'immaginario tematico della morte: protagonisti delle liriche sono infatti i fantasmi dei soldati delle guerre passate che fanno ritorno dall'Inferno per impossessarsi di ciò che gli spetta di diritto, la memoria ed il tributo dei discendenti. I campi di battaglia ormai sono stati resi freddi dal tempo trascorso, ma l'eco delle battaglie combattute su di essi è ancora nitido nella memoria dei pochi che ne conservano il ricordo storico. In tutto il globo infatti non si calpesta porzione di terreno che ai tempi non sia stata varcata dagli eserciti che si recavano verso le proprie battaglie e la propria storia; se gli alberi delle Ardenne o le montagne del Carso potessero parlare di sicuro avrebbero mille memorie da riportare sui soldati che si aggrapparono ad essi durante l'agonia dei loro ultimi istanti di vita dopo essere stati colpiti. I libri di storia narrano le imprese in generale, eppure dei singoli uomini non si fa parola, a meno che non siano stati personaggi illustri, ma quando si tratta di poveri contadini arruolati a forza nei regi eserciti e mandati a morire in nome di sovrani che probabilmente non hanno mai visto in faccia, essi sono soltanto dei numeri e dei nomi senza volto abbandonati nell'oblio del tempo. Nonostante ciò, col calare delle tenebre, la nebbia si posa su quelle lande desolate dove il silenzio ormai copre quelle urla di morte e quei boati di fuoco che celebrarono l'ennesima guerra umana, ma col bagliore della luna, quegli eserciti di defunti tornano nuovamente a scontrarsi, orde di soldati incatenati per sempre al mondo terreno dalla dimenticanza dei vivi, a causa della quale non potranno mai raggiungere la beatitudine eterna. Essi sono ancora là, come se nessuno li avesse avvertiti che la guerra durante la quale sono caduti sia giunta ad una fine dopo il loro trapasso, ancora con le uniformi logore ed i le spade ed i moschetti pronti a cantare ancora una volta, dando tutto quello che hanno in corpo in nome dell'unico ideale che li anima, non la politica, ma l'amore dei propri cari che hanno dovuto forzatamente salutare per intraprendere un viaggio dal quale non hanno fatto ritorno. La notizia della loro caduta in battaglia, quando è stata certificata con sicurezza e riferita ai familiari, ha portato l'immenso dolore ai vari parenti solo per un tempo limitato, che con l'inesorabile scorrere del tempo è svanito col passare delle generazioni, eppure i fantasmi della guerra sono ancora là a combattere e morire sul campo.
Read Between The Lies
Si prosegue con Read Between The Lies (Leggi Tra Le Bugie); fin dall'attacco capiamo subito che la band si stava preparando a quella ricerca e di groove che avrebbe poi sviluppato nei successivi lavori, scrivendo le regole di base di quel gioco fatto di groove e riff da headbanging che avrebbe poi influenzato quella miriade di band della scena nu metal giunte in massa sulla scena nei primi anni duemila. Il tupa tupa viene infatti messo provvisoriamente da parte per sfruttare le piene potenzialità del mid tempo, con le relative alternanze di raddoppi, dimezzamenti, stop and go e break down. Caronte di questa attraversata nell'oceano dell'innovazione è infatti Dave Lombardo, intento a sfoggiare su questo pezzo mai come in precedenza tutto l'estro dinamico e compositivo del suo drumming: con soli tre pezzi del suo set, poiché è con la cassa, il rullante ed il ride che compie le maggiori prodezze, egli sprona i suoi colleghi a seguirlo lungo un percorso non lineare ma fatto di sterzate continue da una figurazione all'altra, l'unico punto fermo del suo modo di suonare in questa settima tappa della tracklist restano i passaggi sui fusti, sempre velocissimi e distribuiti interamente su tutta la fila di tamburi, andando dal primo tom al timpano che conclude la serie. Anche il riff di chitarra appare particolarmente strutturato: da una prima parte canonica fatta di accenti su una diteggiatura abbastanza serrata delle corde basse si passa ad un ben più complesso fraseggio durante lo sviluppo della strofa, quest'ultima intervallata da un bridge di power chord che riprendono l'uso degli accenti per rendere ancora più sincopato l'intero scheletro del pezzo. Ed è qui che possiamo constatare la voglia di novità degli Slayer, ai due lati del ponte non vi sono due parti identiche ma due componenti ben distinte, mentre la prima si presenta estremamente lineare, la seconda riprende la prima sviluppandola ulteriormente attraverso un diverso disegno ritmico del batterista di L'Avana. L'intera traccia si muove quindi su un incedere sempre imprevedibile, difficile da prevedere e soprattutto ad hoc per mantenerci sempre ben allerta ed al massimo dell'attenzione; per quanto concentrati si possa ascoltare questo brano si resterà sempre spiazzati dalle svolte improvvise dei quattro californiani, che con solo "Read Between The Lies" recuperano tutto il progressive della loro attitudine mai sperimentato nei lavori precedenti. La parte solista si dimostra inoltre particolarmente interessante in quanto essere un vero e proprio "paradosso" compositivo: se l'assolo eseguito da Jeff Hanneman consiste in un vero e proprio stupro del floyd rose della sua chitarra, anch'esso energico ed accattivante, è la ritmica sotto di essa a risultare l'elemento "fuori dal coro" della canzone, essa infatti risulta essere più complicata dell'assolo che sostiene, gli Slayer vanno così ulteriormente controcorrente ribaltando di netto la prospettiva classica della musica rock e facendo dell'assolo solo un contorno per la parte in cui quest'ultimo dovrebbe essere protagonista. Siamo di fronte ad una vera e propria prova di sperimentazione assolutamente riuscita, regalataci da una band che non ha mai voluto ostentare il proprio estro con fine campanilistico, ma che anzi ha sempre creato musica fuori dagli schemi senza farne motivo di gossip. Il testo questa volta è un aperto j'accuse contro la società moderna, in particolar modo contro il modus operandi della chiesa. Viviamo in un mondo dove il consumismo viene aizzato ogni giorno dai mass media, ma le tasche dei consumatori sono sempre più povere ed i portafogli stessi boccheggiano ed arrancano cercando di implorare un momento di pausa e spese più tranquille; la povertà aumenta e conseguentemente aumentano i meno fortunati che perdono tutto e si riducono a mendicare nelle strade per avere giusto qualche spicciolo, un piccolo segno di bontà che si intervalla ad altri dieci inequivocabili atteggiamenti di indifferenza, il tutto per potersi comprare il tozzo di pane con cui sopravvivere fino al giorno dopo. È qui che entra in scena il clero, illuminato, misericordioso e fiero perché guidato direttamente dalla parola di Dio, che prontamente esorta i fedeli ad essere caritatevoli, così come fu Cristo verso gli altri ed i suoi numerosi discepoli nel corso dei secoli. Le donazioni a nome della chiesa sono ormai un'opzione che molti scelgono vuoi per sentimento, vuoi anche per lavarsi un pochino la coscienza di fronte al padre eterno (qui in Italia poi c'è una cosuccia chiamata 8x1000 che tutti conosciamo); ma quello che si chiede Tom Araya in questo frangente, e come dargli torto, è che fine facciano realmente quei soldi, donati in buona fede ad opere di bene; senza una particolare inchiesta giornalistica, ecco svelato l'arcano. Essi alimentano la lussuria delle alte sfere vaticane, pagando le sartorie e i gioiellieri dei vescovi fino alle loro spese più oscure, dalle prostitute alla droga o peggio (e qui in Italia ne sappiamo sempre qualcosa), ecco quindi che tra le bugie delle belle parole si legge che la parte bassa ed abietta del Paradiso non è poi troppo lontana da noi.
Cleanse The Soul
Conclusa questa estemporanea uscita dai ranghi, la macchina da guerra degli Slayer si ricompatta con Cleanse The Soul (Purifica L'Anima). Gli stacchi posti ad incipit del pezzo partono secchi ed improvvisi come un colpo di arma da fuoco, ed ancora una volta il drummer del gruppo ha modo di dare ancora una volta prova della sua sbalorditiva potenza. Il pezzo questa volta possiede una struttura nettamente più lineare ed old school della canzone precedente; gli amanti della tradizione thrash tirino pure un sospiro di sollievo, perché il tupa tupa che sembrava essere scomparso dagli schermi radar, fa il suo trionfale ritorno in questa sessione per procedere ancora più lineare ed inarrestabile. Le mani di King ed Hanneman riprendono a tritare le corde dei loro strumenti attraverso uno shredding mitragliante che ribadisce ancora una volta, perché come si suol dire "repetita iuvant", che nonostante il voler andare avanti dei quattro musicisti di Los Angeles il legame con la tradizione è ancora ben saldo. Da questa brano trasuda infatti tutta la furia graffiante di quel sound underground che guarda direttamente ai fasti di "Show No Mercy"; pur vantando l'enorme crescita tecnica già citata, i quattro ci regalano adesso un vero e proprio fleshback nella loro carriera, il riff di chitarra è incisivo e graffiante e la canzone scorre nel lettore come un unico muro sonoro compatto ed impenetrabile. All'interno della struttura vi sono pochissime contratture ritmiche, poste come preparazione prima dell'assolo, per il resto la traccia è un'avanzata continua all'insegna della grinta più viscerale che gli Slayer possano sfoderare, se è nella tradizione che trovate la linfa per scombinarvi le vertebre cervicali a forza di headbanging è su questo brano che dovete fare affidamento per torcervi ulteriormente la testa, Il main riff stesso è pastoso quanto una colata di cemento ancora da gettare, e la batteria di Lombardo funge da betoniera per rendere il tutto ancora più compatto, le note infatti sono molto più lineari e serrate e ciò rende il brano ancora più psicopatico e claustrofobico. Trattandosi di un pezzo il cui scopo è mischiarci i neuroni nell'ascolto, il calcio di inizio della sfida solista questa volta viene affidato a Kerry King, rinomato per essere, tra i due, il musicista con una maggiore voglia di velocità alcalina all'interno delle sue parti soliste: il barbuto axeman non tarda infatti a darci ciò che immancabilmente ci aspettiamo da lui; il suo assolo consiste in una raffica di note che ci piovono addosso come l'acqua gelida durante una piovosa notte invernale. Mentre la mano destra detta il ritmo delle mitragliate, la sinistra crea sequenze abbastanza usuali di scale cromatiche distribuite lungo tutta la tastiera della chitarra di King, elemento questo che possiamo tranquillamente considerare l'archetipo di tutto ciò che è divenuto in seguito il suo modo di suonare; al bando la ricerca di neoclassicismo dunque, quello che conta è martellare a più non posso. Nettamente diverso è l'assolo creato dal collega Hanneman, il quale va anch'egli alla ricerca della velocità, ma attraverso un approccio più fluido e preciso; la sua parte si colloca sul finale della traccia, l'ultimo assalto al vetriolo prima di concludere la composizione e le sue note si possono ascoltare nettamente più scandite e limpide di quelle del suo compagno d'armi. La linearità è dunque l'ingrediente principale del pezzo, ma del resto, dagli Slayer non potevamo chiedere di meglio per lanciarci in un pogo selvaggio. L'argomento di questo testo si ricolloca nuovamente nell'immaginario della morte e dell'occultismo: un sacerdote sta per compiere un rito atto a purificare l'anima di un defunto e nel prepararsi a far ciò recita una sorta di preghiera che lo possa aiutare a compiere il suo scopo; il corpo giace sul tavolo, l'agonia sta per spegnere gli ultimi soffi vitali di quello che ormai è un cadavere a tutti gli effetti, una vittima sacrificale per un rituale oscuro e millenario, il solo odorare quella carne già imputridita dalle infezioni delle ferite è un momento inebriante che precede l'estasi mistica di questo sacerdote del male, che ha d'innanzi a sé un elemento che con il trapasso ci riconduce direttamente all'essenza della vita: polvere siamo e polvere ritorneremo, e mai quanto negli ultimi istanti di esistenza questa espressione si dimostra più veritiera, dalla terra il corpo è stato plasmato e dopo essersi consumato in vita esso morirà ed inizierà il suo lento processo di disfacimento, quella decomposizione che grazie ai vari necrofagi lo ritrasformerà in quella stessa terra da cui è stato creato. L'altare attende dunque il sacrificio della propria vittima, l'incenso brucia e le candele ardono per illuminare fievolmente quell'oscurità che presto avvolgerà quell'ultima essenza vitale per gettarla nell'abisso, la morte diventa dunque una forma d'arte che necessita anch'essa la sua preparazione ed il poter essere gli artefici di un simile rito purificatorio spalanca definitivamente le porte all'oscuro potere di cui l'essere umano adepto può solo essere un tramite.
Dissident Aggressor
In penultima posizione troviamo Dissident Aggressor (Aggressore Dissidente), brano originariamente composto dai grandissimi Judas Priest, e contenuto nell'album "Sin After Sin" del 1977. Alla faccia degli inutili sofismi moderni, gli alfieri della musica estrema non provano alcuna vergogna nel coverizzare un pezzo più "leggero" composto da una band capostipite dell'intero Heavy Metal. A scapito di tutte le varie dispute su chi sia più true di chi e chi spacchi più di chi, i signori della malvagità sonora rendono omaggio al grande colosso britannico con la dedizione dei metalhead che quel disco lo hanno consumato, rielaborando la traccia attraverso la propria visione fondamentale senza sminuirne l'essenza primaria. Potrà sembrare scontato, ma è proprio questo approccio che distingue una cover ben riuscita da una mera sterile riproposizione tecnico-esecutiva. Procediamo però con ordine, partendo dalla versione originale della canzone: il sound generale è ovviamente ancora tipicamente seventies; la batteria possiede dei riverberi enormi sui fusti del set, lasciando invece abbastanza scarni la cassa ed il rullante per meglio evidenziare la precisione dei tocchi del drummer dell'epoca Simon Phillips. La struttura si apre con un fade in che fa arrivare un riff di chitarra puramente hard rock che quasi strizza l'occhiolino ai Deep Purple, ma è con l'ingresso del super acuto di Rob Halford che realizziamo immediatamente che il prete ha fatto il suo trionfale ingresso; le chitarre sono possenti e granitiche e ci regalano una composizione compatta e travolgente attraverso una serie di power chord semplici ed efficaci. Nel ritornello, alternati ai dirt picking delle sei corde, si alternano degli acuti vocali, terreno su cui il vocalist inglese ha sempre marciato con passo fiero e sicuro divenendone l'assoluto sovrano indiscusso. La resa di questo brano, della durata di poco più di due minuti nella versione slayeriana, viene realizzata tutta attraverso i giochi melodici realizzati dalla voce di Halford, che insieme alla grinta generale di un pezzo standard ma al tempo stesso sincero come noi fan lo vogliamo, realizza uno dei migliori componimenti dei Judas Priest, immancabile quindi l'immediato tributo da parte di un altro colosso metallico. Gli Slayer però skippano direttamente l'intro in fade in, partendo subito con il main riff eseguito con le chitarre ribassate a conferire un impatto più solido e travolgente. La struttura della canzone resta invariata, ma ovviamente in sostituzione degli acuti troviamo delle pennate decise di chitarra sulle note alte, senza essere propriamente dei dirt picking, che subito si accostano alle parole "Stab" (trad. "Pugnala") e "Fight" (trad. "Combatti") pronunciate da Araya con voce decisamente più baritonale. È nella parte solista che troviamo un passaggio interessante: i due axemen di Los Angeles si cimentano in assoli che tentano si seguire a piè pari lo stile di K.K. Downing e Ian Hill pur attraverso il canonico stupro dei ponti mobili delle chitarre che da sempre caratterizza i solos degli Slayer; a livello compositivo dunque non ci sono variazioni al tema, ma nel complesso questa cover scorre via liscia e gradevole in qualità di tributo ad una band che ogni metallaro che si voglia definire tale deve ascoltare e conoscere a menadito. Le liriche ripercorrono l'avventura di un fantomatico aggressore che attraverso viaggi supersonici attraversa il mondo intero aggredendo ed uccidendo chiunque gli si pari davanti, un'immagine adatta tanto ai Judas quanto agli Slayer come protagonista di un testo. Ad alimentare questa furia omicida è sempre il senso di disagio e di esclusione verso una massa sempre più conforme a degli schemi che al nostro uno differente vanno sempre troppo stretti. Il confronto tra il soggetto principale ed un qualsiasi essere di questa marmaglia di automi svuotati di ogni essenza individuale balza subito agli occhi: da un lato troviamo un essere con un'identità definita, affermata ed assolutamente narcisista, che non manca occasione di ribadire la sua indipendenza da qualcosa che non lo rappresenta in nessun modo, dall'altro troviamo invece un pupazzo, un fantoccio meccanico costruito con pezzi di quella che una volta era una identità personale e che ormai si presenta allo sguardo come un qualcosa di assolutamente amorfo e privo di qualsiasi caratteristica umana. Uno Ying ed uno Yang che interagiscono tra loro senza creare equilibrio, ma che anzi scatenano immediatamente il caos al solo minimo contatto. L'aggressore non riesce infatti nemmeno a sopportare la vista di ciò in cui il sistema stesso lo vuole trasformare ed immediatamente la sua presa si serra sempre di più intorno al manico del coltello, per poter dilaniare la carne di un manichino che non opporrà nemmeno resistenza da quanto è ormai omologamente ipnotizzato dalla massa. I concetti del sistema si conficcano nel cervello del protagonista come degli uncini arrugginiti, ma la violenza sembra quasi essere l'unico balsamo per alleviare il dolore di questa realtà inevitabile.
Spill The Blood
Il disco si chiude con Spill The Blood (Versa Il Sangue), pezzo sinistro e malsano fin dai primi istanti: ad aprire le danze sono le chitarre, con l'esecuzione di un arpeggio pulito e fortemente riverberato sul quale Dave Lombardo introduce il proprio ingresso mediante l'uso dei piatti. Con la partenza del mid tempo, le sei corde passano ad un rapido cambio su dei power chord aperti per poi lanciarsi in un riff decisamente più articolato. Abbiamo nuovamente una prova lampante del lavoro di ricerca che gli Slayer stanno compiendo attraverso composizioni maggiormente ricercate rispetto ai primi lavori. All'interno della strofa stessa troviamo diverse articolazioni che alternano parti in accordi distesi e parti più serrate, che danno modo al drummer americano di sfoderare nuovamente tutto il suo estro ma, soprattutto, la sua pacca nel martoriare le pelli della sua batteria. Il pezzo però non si presenta come la sfuriata alcalina a cui gli Slayer ci anno abituati: la struttura infatti denota un tempo dimezzato più marziale ed imponente, ulteriormente appesantito dalle due asce con il loro palm muting scandito e prepotente. Abbiamo modo di apprezzare uno dei brani più solenni e doom mai composti dal gruppo statunitense; ogni singola pennata, ogni singolo colpo di rullante ed ogni parola pronunciata dal cantante di origine cilena ci fanno sentire l'odore dell'incenso sparso nell'aria di questo rituale blasfemo che fa della musica la sua massima espressione. La composizione vanta inoltre uno sviluppo in crescendo; dopo l'introduzione iniziale ed il successivo aumento di tensione ritroviamo nuovamente l'arpeggio d'apertura a fungere da nuovo incipit per l'ultimo colpo di coda di questa creatura che ruggisce attraverso il proprio Thrash metal sempre fresco ed originale. C'è la volontà di restare fedeli ai propri principi, ma si sente anche il bisogno di comporre qualcosa che possa colpire i fan in maniera netta senza troppi giri di parole ed in questa canzone di chiusura troviamo tutto ciò che occorre per farne una traccia completa ed accattivante per qualsivoglia necessità di ascolto. C'è l'atmosfera, ottimamente creata verso l'arpeggio, che grazie alla serie di note discendenti di semitono in semitono si muove su sonorità tipicamente sabbathiane, c'è l'impatto, ottenuto grazie all'ingresso esplosivo della batteria e dei power chord, che immancabilmente dilatano l'intero momento attraverso un consolidamento sonoro sopraffino, ed infine c'è il tiro, quello che tutti noi thrasher aspettiamo con ansia dopo una qualsiasi introduzione degli Slayer, ottenuto questa volta non con il canonico tupa tupa (che anche quando c'è, tutto sommato, non dispiace), ma attraverso un tempo dimezzato secco e dritto che spinge attraverso ogni singolo quarto delle varie battute. Se proprio si vuole provare a definire che cosa renda questo pezzo piacevole all'ascolto, è proprio la sua caratteristica di lasciarci sempre in trepidante attesa del cosa verrà dopo la sessione che stiamo sentendo, mantenendoci sempre pronti per l'ennesima razione di head banging frantuma cervicale. Centro tematico del testo è nuovamente un rituale sacrificale, come quello già narrato in "Cleanse The Soul", ma questa volta, l'obiettivo narrativo di Araya si sposta dal versante spirituale a quello più decisamente pratico della cerimonia, mirando in particolar modo sull'atto di versare la coppa di sangue. Il registro linguistico si eleva ora verso un orizzonte più solenne, che fa del protagonista/vocalist un profeta portatore di un antica saggezza millenaria giunta fino a noi grazie alla fedele pratica occulta dei suoi discepoli nel corso dei secoli. Il sapere dei mondi antichi giunge quindi fino a noi per creare questa nuova vita terrena, versando il sangue di un'anima eterna destinata a sovrastare il creato con la sua essenza primigenia di pura malvagità. Il cerimoniere mostra agli astanti qualcosa che essi stessi faticheranno a credere essere possibile tanto grande è la sua incredibile magnificenza, eppure quell'erotico piacere provato attraverso la fusione con il puro male rende possibile ora sentire l'odore della suprema immortalità. Versare il sangue è quindi il passaggio del rito necessario ad ottenere la vita eterna, abbandonando dunque la dimensione umana per raggiungere uno stato metempsicotico funzionale all'estasi che ci trasformerà in esseri superiori, eterei e materiali allo stesso tempo, reali e spirituali, supremi e fondamentali, rendendo le nostre anime gli archetipi di tutto ciò che fu, che è e che sarà in futuro. Ai discepoli non resta ora che chiudere gli occhi, vedere il mondo attraverso questo nuovo potere ed afferrare anch'essi il calice per versare questo sangue ancora una volta e compiere così il supremo atto della magia nera. Tutto si compie con questo rapido gesto e gli Slayer diventano così i messaggeri di un rito occulto destinato a relegare l'umanità agli antipodi più remoti del Paradiso Terrestre, opportunamente nascosti alla luce divina di Dio.
Conclusioni
Se vogliamo individuare i punti principali della crescita artistica compiuta dalla band durante la loro illustre carriera, non possiamo assolutamente saltare questo capolavoro che è South Of Heaven; innanzitutto, esso rappresenta l'epitaffio vinilico della band, in qualità di ultimo vinile pubblicato dal gruppo: con l'avvento degli anni Novanta e l'imposizione sul mercato del formato compact disc, i successivi lavori degli Slayer, a partire da Seasons In The Abyss, saranno pubblicati con questa nuova veste. A conti fatti dunque, se dal lato espressamente materiale questo album segna la fine di un'epoca per i quattro di Huntington Park, da quello espressamente artistico rappresenta una vera e propria rinascita; "si chiude una porta e si apre un portone", come si suol dire, ed in questo caso stiamo parlando di un portale dalle dimensioni illimitate, visto il potenziale creativo enorme che Tom Araya e soci hanno racchiuso in queste dieci canzoni. Gli anni Ottanta volgevano definitivamente al termine, e con essi anche la fase più squisitamente underground della musica degli Slayer, ma se questo epilogo segna un addio monti per tutti gli amanti della tradizione più pura, sull'altro versante vediamo aumentare esponenzialmente i fan della band; merito di questo ampliamento su vasta scala è senz'altro la presa di coscienza da parte dei quattro thrashers di un bisogno di rinnovamento del proprio sound, al fine di poter veramente continuare la loro scalata nell'olimpo del Thrash Metal. Sul piano della post produzione siamo ancora ben lontani delle sonorità ultra limpide e chirurgiche dei lavori più recenti, ma quanto fatto dai quattro in studio a Los Angeles, con successivo mixaggio e mastering ai Barry Diament Audio di New York, risultava comunque essere il non plus ultra in ambito Heavy Metal. I suoni sono ancora scarni e secchi nel pieno rispetto della penultima decade del Novecento, ma in queste tracce andavano già affermandosi quella maggiore pulizia e definizione dei singoli particolari che non solo resero "South Of Heaven" uno dei dischi più in voga del periodo, ma che saranno destinate a dettare legge in tutto l'ambito delle produzioni in studio del settore. Stiamo parlando di una band che ormai aveva intrapreso con fare sicuro il lungo e tortuoso cammino verso la fama mondiale ed il disco in questione sembrava quasi non necessitasse di singolo aggiuntivi per la promozione, dato il suo essere promettente di per sé stesso. A renderlo grande, come già accennato, era il filo conduttore della sperimentazione e dell'evoluzione dello stesso modo di comporre di questi quattro musicisti; vuoi perché probabilmente marciare sempre a forza di tupa tupa risultava alienante per gli autori stessi di quei pezzi, vuoi forse perché i tempi stavano cambiando e con essi anche i gusti del pubblico e si rese quindi necessario un rinnovamento tout court della creatura degli Slayer. L'underground delle demo tape e dei vinile registrati alla bene e meglio si avviava a divenire un ramo leggendario destinato esclusivamente ai cultori più convinti ed anche il Metal, volente o nolente, stava diventando oggetto di mercato. Il restyiling del gruppo può considerarsi perfettamente riuscito, visto e considerato quanto fatto e quanto ottenuto dalla band dagli anni Ottanta ad oggi. Se Reign In Blood è da considerarsi un capolavoro assoluto di un genere, immediatamente dopo dobbiamo collocarvi South Of Heaven nella nostra scala di valutazione, non solo come diretto successore cronologico a tutti gli effetti, ma come genesi di una nuova fase artistica di uno dei nomi più affermati della storia della musica estrema.
2) Silent Screen
3) Live Undead
4) Behind The Crooked Cross
5) Mandatory Suicide
6) Ghost Of War
7) Read Between The Lies
8) Cleanse The Soul
9) Dissident Aggressor
10) Spill The Blood