SLAYER

Repentless

2015 - Nuclear Blast

A CURA DI
MICHELE MET ALLUIGI
17/12/2015
TEMPO DI LETTURA:
9

Introduzione Recensione

Stati Uniti, anno demoni 2015; ben sei anni ci separano dall'ultima fatica discografica degli Slayer, quel "World Painted Blood" che pur essendosi rivelato un successo celava dietro la sua grande potenza sonora una formazione prossima a disgregarsi ancora. La grande line up della band americana, che con Dave Lombardo, Jeff Hanneman, Kerry King e Tom Araya scrisse delle pagine a dir poco leggendarie del Metal estremo era destinata a giungere al capolinea definitivo con il lavoro del 2009. Causa primaria di questo drastico arresto fu la prematura scomparsa di Jeff Hanneman, il biondo axeman del gruppo che dopo una lunga lotta contro una malattia epatica, aggravata dalle conseguenze del morso di un ragno, spirò il 2 maggio del 2013. Gli Slayer non mancarono tuttavia alle numerose apparizioni in cartellone ricorrendo all'aiuto di Gary Holt degli Exodus e di Pat O'Brien dei Cannibal Corpse in veste di turnisti, i quali si alternarono sul palco al fianco dell'assassino potendo così non deludere i fan ed al tempo stesso dare ad uno dei suoi membri fondatori il tempo di rimettersi; a causa di un destino quanto mai beffardo, dopo un miglioramento clinico del chitarrista originario di Oakland vi fu il definitivo ed inesorabile peggioramento che condusse al decesso. Gli Slayer videro così andarsene non solo un collega ma un vero e proprio compagno di avventure a cui noi seguaci del gruppo dobbiamo alcune delle più grandi canzoni thrash metal mai scritte. Seconda causa dello "smembramento" della formazione storica fu il nuovo abbandono di Dave Lombardo, dovuto a dispute non del tutto chiare in merito alle questioni contrattuali sulle royalties della band, di cui King ed Araya sembrano essere ormai diventati i manager assoluti a tutti gli effetti. Il destino di questo gigante della musica sembra ormai segnato ed i lunghi anni in attesa di un nuovo lavoro lasciano dilagare il pessimismo che ci porta quasi cinicamente ad aspettare la notizia della fine definitiva della band che però tarda ad arrivare. Proprio quando tutto sembra perduto, ecco che i due turnisti a cui la band si è rivolta per potersi esibire nei vari concerti, il già citato Gary Holt ed il drummer Paul Bostaph (anch'egli vecchia conoscenza degli Slayer, in quanto sostituì Lombardo dal 1992 al 2002) entrano spettacolarmente in pianta stabile, rinforzando la line up con un retrogusto agrodolce che tra l'entusiasmo per la novità, portato dall'ingaggio di un membro sì proveniente da un altro gruppo ma comunque decisamente in linea con la proposta della band ed un batterista che occupò già lo sgabello su album a dir poco aulici, e le ormai purtroppo consuete polemiche dei puristi; questa manovra inaspettata, volente o nolente, rimise comunque in sesto un gruppo che sembrava ormai sempre più vicino a dover scrivere il proprio epitaffio. Indubbiamente, la nuova line up si presentò sui palchi con un biglietto da visita di tutto rispetto: per quanto infatti l'assenza di Hanneman e Lombardo potesse far male ai fan della vecchia guardia, non si può certo dire che la band dal vivo non scatenasse quella magnifica Apocalisse a cui siamo abituati e che tanto amiamo, ad ogni show infatti questo nuovo quartetto sputò fuoco e fiamme allo stesso modo con cui spalancavano i cancelli degli Inferi d'innanzi a noi negli anni ottanta ed è proprio per questo che l'attesa per un nuovo lavoro si fece sempre più viva. Appurato che live la magia è sempre la stessa, magari anche un po' più rimodernata grazie allo stile più tecnico dei due nuovi arrivati, noi fan vogliamo ora che i nostri idoli ci regalino qualcosa di nuovo e, dopo sei estenuanti anni, eccolo finalmente arrivare a noi, il nuovo "Repentless"(trad. "Senza rimorso"), un disco che già dal titolo parla chiaro fin da subito: al fine di mozzare sul nascere ogni possibile ed inutile sofismo circa questa nuova rinascita, Kerry King e soci mettono subito in chiaro che non si pentono assolutamente delle scelte fatte di recente (con sottinteso messaggio che se a qualcuno non sta bene così può anche andare a farsi fottere), in più, la scelta di pubblicare questo album l'11di settembre (data tristemente nota a noi tutti purtroppo, che fa anche apparire questa scelta abbastanza di cattivo gusto) ribadisce che la malvagità della band è sempre la stessa ed in un anniversario ormai divenuto sinonimo di lutto per il mondo intero, gli Slayer sfornano la loro ultima pugnalata dritta al costato di tutti i puristi benpensanti. L'artwork del lavoro, che riprende in toto i vecchi topoi del gruppo, come le fiamme infernali e le immagini sacrileghe, ricorda vagamente "Reign in Blood",quasi a volerne creare un ponte concettuale: in primo piano infatti troviamo il volto martoriato di un Cristo sofferente che brucia nel fuoco degli Inferi, dietro al quale spicca il classico pentacolo di spade del logo della band su cui Gesù sembra quasi impalato. Sulla immediata sinistra del soggetto compare poi un diabolico profeta con in mano una Bibbia, anch'egli avvolto dalla totalità di fiamme presenti; sulla destra notiamo invece un diavolo dannato che infilza un'anima con la sua spada per poi sollevarla in alto in segno di vittoria, eloquente allegoria di un'umanità destinata a soccombere al male eterno, infine, in alto sulla sinistra troviamo, relegato nell'angolo un macabro crocifisso. Tutte queste figure appaiono mescolate tra loro nel fuoco quasi come se vi ci fossero state spinte da una mano suprema e che si accalchino in questo spazio infernale ristretto mentre cercano di sfuggire ad un rogo che li dilanierà inesorabilmente. Poche storie dunque, dopo un periodo oscuro, gli Slayer sono pronti a farsi nuovamente i portavoce della malvagità sulla terra e questa loro texture diabolica altro non è che solo il sigillo satanico che custodisce la loro rinata furia sonora.

Delusions Of Saviour


Il massacro, perché è di questo che stiamo parlando, si apre con "Delusions Of Saviour" (trad. "Le Delusioni Dei Salvatori"), la canonica introduzione strumentale con cui la band americana ci invita a questo nuovo rituale di violenza e con la quale si prepara a martoriarci le ossa ancora una volta. Similmente alla celebre "Darkness Of Christ" di "God Hates Us All", è l'atmosfera l'espediente principale con il quale si scaldano i motori: un sinistro ed essenziale riff di chitarra inizia la propria marcia attraverso una serie di battute dapprima eseguite solo con un crunch distorto per poi aumentare di potenza, in un crescendo azzeccato sotto tutti i punti di vista. L'aggiunta di un riverbero fa sì inoltre che il suono si disperda in un immenso vuoto oscuro, mentre in fade in arriva la seconda chitarra ad arricchire lo sviluppo; con l'ingresso della batteria infatti possiamo sentire la malvagità diffondersi in tutta l'area circostante, il tocco di Bostaph si rende immediatamente riconoscibile grazie alla sua pesantezza sfogata sui fusti del set, il fraseggio viene ora eseguito da King ed Holt con un'armonizzazione di terza che conferisce alla parte un tocco marcatamente maligno e funereo, sempre scandito dai passaggi sui tom; pochi minuti di durata, con la tensione arrivata ormai all'apice, tutto è pronto per l'esplosione che sta per arrivare e che noi attendiamo con ansia. 

Repentless

Dritta come un pungo al viso ecco che arriva "Repentless" (trad. "Senza Rimorso"), la titletrack del lavoro; nessun quattro dato sul charlie o preludio di sorta, solo un main riff incisivo e brutale come solo gli Slayer sanno regalarci. Con la sola comparsa del visualizer video di questa canzone su Youtube, la band ci aveva infatti messo l'acquolina in bocca per il suo futuro ed imminente ritorno, seguita a sua volta da altre due tracce che le hanno fatto seguito in veste di singoli promozionali, e se i presupposti erano questi, l'uscita effettiva dell'album sarebbe stato solo un pro forma per confermare che gli Slayer non deludono. Partito il main riff, ecco che Bostaph si lancia in un quattro quarti serrato e tritaossa il cui scopo è unicamente quello di non fare prigionieri: solo cassa, rullante e charleston come elementi costitutivi di un motore ritmico di puro Thrash Metal vecchio stile. Sul tupa tupa del batterista americano troviamo una base di power chord aperti affiancati dalla parte solista di Kerry King, che sfodera tutta la sua maestria nell'utilizzare il wah wah, fedelmente seguito dal basso in ottavi di Araya. Appena quattro giri di questa sessione ed ecco che il gruppo parte subito serratissimo sulla classica mitragliata di note, le sei corde passano allo shredding puro e schietto, mentre la batteria continua ininterrotta con la sua furia inarrestabile. Come di consueto, il vocalist di origine cilena entra sulla strofa con tutta la cattiveria che da sempre contraddistingue il suo stile, urla forsennate e velocità maniacale fanno sì che in poche battute egli riesca a condensare la sua nuova puntata di quella che può essere definita a tutti gli effetti la Bibbia dell'odio. La struttura del brano rimane decisamente standard, modellata sulla classica alternanza di strofa e ritornello, separati a loro volta solo dal cambio delle chitarre, dato che la batteria resta serrata sul tempo principale, scandendo ogni sessione con dei passaggi velocissimi e chirurgici. D'altra parte dagli Slayer ci aspettiamo questo: una semplice maestria sonora che non a caso ha fatto di loro i messiah indiscussi del Metal estremo che, seppur con una formazione rinnovata, non hanno assolutamente perso il vecchio smalto. Sia Bostaph che Holt infatti, fin da questa prima canzone mettono in chiaro che la loro bravura è al servizio della band californiana in tutto e per tutto, e questa ventata d'aria fresca altro non fa che ri aggiornare in 3.0 la potenza di un gruppo che non delude mai. Ancora una volta, Araya diventa la voce narrante di tutta la nauseabonda pestilenza che insozza la vita di tutti i giorni; con la sua ipocrisia, la sua arroganza e la sua mancanza di scrupoli nel vessarci continuamente lasciando che al mondo non siano i più onesti ma i più furbi a vivere meglio. Nuovamente il cardine del testo ruota attorno al contrasto tra la massa, abbietta ed ignorante, ed il singolo, che ormai disgustato non può fare altro che continuare la sua esistenza come un emarginato, disprezzato da tutti proprio per il suo rifiuto ad essere come gli altri. La ricchezza, la fama e l'uniformità al conformismo sono solo inganni vani ed illusori che ci appestano e ci ammorbano, rendendoci schiavi di un potere gestito dai governi sempre più corrotti, che si ingrassano le pance e si riempiono i portafogli sulle spalle di noi poveri plebei che ogni giorno ci spacchiamo la schiena, prigionieri di un lavoro che per quanto possiamo svolgere con professionalità ed efficienza non ci garantirà mai la sicurezza economica. Il mondo non è altro che un'accozzaglia di violenza e malvagità; giorno dopo giorno non si tratta più di vivere secondo i dettami del sistema costituzionale, ma di arrivare al tramonto seguendo la legge della giungla dove è il più forte, ma soprattutto il più spietato, a vincere; il dettame per uscirne vivi è quindi quello di vivere al massimo, senza alcun rimorso per le proprie azioni, lasciando che i nostri arti si muovano senza freni per ottenere ciò che vogliamo, anche se per ottenere ciò bisogna uccidere qualcuno. Il messaggio ci giunge inoltre chiaro dal videoclip ufficiale della canzone; se i Metallica erano già entrati in un carcere per girare il videoclip di "St. Anger", gli Slayer portano ora avanti il discorso con una dose più massiccia di brutalità. La scena non è più quella dell'analisi introspettiva del disagio esistenziale del detenuto fatta da Hetfield e soci ma l'immaginario ora è decisamente più darwiniano: durante una rivolta dei carcerati si scatena infatti un vero e proprio tutti contro tutti, dove i prigionieri non solo scatenano il proprio astio verso i secondini, ma ne approfittano per togliersi qualche sassolino dalla scarpa vendicandosi dei torti subiti dagli altri compagni di cella. In fin dei conti, se non scorresse sangue a fiumi, faremmo fatica a credere che siano gli Slayer.

Take Control

Con la successiva "Take Control" (trad. "Prendere Il Controllo") il tiro resta altissimo, l'apertura è nuovamente lasciata al riff di sola chitarra prima che batteria e basso facciano il loro ingresso al vetriolo. Il riffing questa volta è decisamente più old school ed incalzante, si sente qui lo stile di Holt, autore di veri e propri capolavori degli Exodus, che porta la sua perizia esecutiva di nuova generazione al servizio di una delle band metal più amate di sempre. La struttura di questa sequenza di note è decisamente più dinamica rispetto a quelle che siamo abituati da sentire dallo stile di Kerry King, le note infatti si alternano più fluide e precise all'interno dell'esecuzione e ciò rende il riff portante di questa traccia uno dei più moderni del songwriting degli Slayer. La batteria di Bostaph segue fedelmente l'incedere del pezzo sempre spingendo al massimo l'intera struttura, anche l'ex batterista dei Testament non si sottrae a portare nuova linfa alla musica dell'assassino mettendo tutto il suo talento in ogni colpo. Conoscendo bene di cosa è capace il nuovo batterista del gruppo, purtroppo appare un po' troppo lampante il fatto che egli debba "adeguarsi" allo stile esecutivo del suo illustre predecessore: Dave Lombardo possiede infatti un drumming sì di impatto ma che non si spinge troppo nell'elaborare disegni ritmici complessi, cosa in cui invece Bostaph è un vero e proprio maestro (basta ascoltare le sue prove batteristiche su "Divine Intervention" e "God Hates US All" per farsene un'idea); tutto sommato comunque, anche la terza canzone della tracklist si rivela coinvolgente e martellante, anch'essa modellata su uno stilema abbastanza semplice che grazie al raddoppiamento ed al dimezzamento del tempo conferisce al tutto un groove da headbanging e pogo assicurato. Il testo si scaglia nuovamente contro il sistema statunitense, in tutto e per tutto votato ad intraprende guerre sul globo intero per mantenere la propria supremazia; gli Slayer non hanno mai evitato di portare al proprio paese le critiche più feroci, analizzate e meditate con l'ottica di chi quel sistema lo osserva dall'interno dei propri confini comprendendone ogni singolo aspetto: la prospettiva della guerra incombe sempre sui cittadini, non solo statunitensi ma di tutto il pianeta, e le prime armi con cui si combatte non sono quelle da fuoco ma la mente e le parole; partendo da un'ideologia, immediatamente si inizia una capillare propaganda atta a diffondere il proprio pensiero in ogni angolo delle strade, andando a stanare gli elettori anche nelle più remote cittadine delle periferie statali, ecco come la voce di un politico può diventare pericolosa tanto quanto un grilletto. Un solo uomo decide quindi quando e perché intraprendere un conflitto e per quanto qualcuno possa non essere d'accordo dovrà comunque adeguarsi alla decisione della maggioranza, dato che, a conti fatti, questa democrazia imposta consente che uno solo parli "per tutti". Come mai si chiama terra dei liberi se chi sostiene una posizione diversa da quella dei sommi vertici non ha nemmeno modo di creare una propria argomentazione per discuterne? Eppure qualcosa continuerà a muoversi nell'ombra, una supremazia fatta da tutti coloro che detestano questo abominio da tutti definito società, che ne ribalterà la leadership e, presto o tardi, ne assumeranno il pieno controllo.

Vices

La successiva "Vices" (trad. "Vizi") si apre con una serie di stacchi accentati che accompagnano il main riff; Bostaph ha finalmente modo di concedersi una maggiore libertà esecutiva, che subito lo porta ad "intricare" maggiormente lo sviluppo ritmico eseguendo una serie di passaggi sotto una base di power chord imponenti e granitici. L'intera struttura gioca perfettamente sul crescendo tra la strofa ed il ritornello, a mano a mano che si avvicina quest'ultimo infatti, il drumming si fa sempre più incalzante ed il tempo accelera sempre di più fino a lanciarsi ad una velocità funambolica. Iniziamo quindi a vedere gli Slayer alle prese con delle composizioni diverse dai loro standard, ma per quanto complicate possano essere le parti, stiamo comunque parlando di un gruppo di musicisti professionisti, la cui esperienza negli anni gli ha fatto ottenere quella disinvoltura che li fa suonare imponentissimi su qualsiasi tempo decidano di usare. A colpire subito di questo pezzo è la pesantezza, il quattro quarti viene provvisoriamente messo da parte in favore di un tempo sempre lineare, ma con la doppia cassa in trentaduesimi seguita da una serie di stop and go che conferiscono un tiro decisamente nuovo, ma a travolgerci le ossa è senz'altro il terzinato in palm muting delle chitarre, che emerge dalle mani dei due axemen come un qualcosa di letteralmente monolitico. A rendere interessante il pre ritornello troviamo invece un classico tempo ostinato sul ride, sopra il quale si stende un riff di chitarra dimezzato ricco di groove che ricrea la perfetta attesa per l'ennesima esplosione colerica di Araya. Nel complesso quindi possiamo apprezzare la band cimentarsi in qualcosa di innovativo, intenzionata ad evolversi rispetto allo scorso "World Painted Blood" andando a ricercare soluzioni sempre di impatto ma leggermente diverse da quello che siamo abituati ad ascoltare. Sulla gogna delle liriche troviamo nuovamente la società contemporanea, il cui più grande vizio capitale è sicuramente quello della fede in un dio assolutamente incurante di quando gli stupidi omuncoli da lui creati vivano sulla terra. La società infatti, pur presentandosi come apice di un processo evolutivo voluto da nostro signore, si rivela come un qualcosa di assolutamente insignificante, la cui esistenza scorre monotona come il flusso del tempo. Ogni azione compiuta dai politici è giustificata dal supposto volere di Dio, ma chi ci da la certezza che colui che tutto può voglia veramente quanto il politico x ci propina ogni santo giorno attraverso la sua inutile parlantina da protocollo? La noia, il disagio e la pesantezza di questa falsità non possono far altro che ripercuotersi su di noi come la necessità di un altro vizio, un qualcosa che come una droga crea in noi una dipendenza sempre maggiore fino ad assoggettarci completamente. Per quanto potenti siano le droghe e l'alcool, essi non sono altro che degli anestetici che ci isolano momentaneamente dalla quotidianità minando solo il nostro fisico, ad essere funzionale invece, può essere solo lo sfogo di quell'istinto di violenza che come una larva cresce sempre più nel nostro subconscio fino a sfregiarsi contro le pareti sempre più strette e claustrofobiche del nostro involucro; non resta quindi che elevarci ad uno stato estatico superiore, cedendo a quello che in fin dei conti risulta essere il più bel vizio di tutti.

Cast The Fist Stone

Giungiamo ora a "Cast The Fist Stone" (trad. "Scaglia la prima pietra"), altra canzone pubblicata dagli Slayer in anticipo rispetto all'uscita del lavoro come nuovo assaggio di quanto stessero per regalarci. Il pezzo viene introdotto da un sinistro arpeggio di chitarra leggermente distorto: giusto un paio di terzine, separate tra loro da una pausa per conferire al fraseggio un tocco funereo e sulfureo; ogni nota suona infatti come se la mano che porta la pennata appartenesse ad un chitarrista agonizzante che esegue la sua trenodia con l'ultimo soffio di vita (pensate, giusto per avere un'idea, all'apertura di "A Dying God Coming Into Human Flesh" dei Celtic Frost). La suspense è perfetta, ed ecco il consueto trionfale ingresso della batteria, del basso e del main riff delle sei corde: l'impatto è decisamente spiazzante, dalla calma della parte precedente si passa senza il minimo preavviso ad un tempo serratissimo ed incalzante che ci travolge come un carro armato in manovra. Le chitarre sono serrate e pesanti nelle strofe per poi aprirsi nel ritornello, il gioco tra questi due sviluppi conferisce alla traccia un dinamismo che tiene sempre desta la nostra attenzione in attesa della mazzata successiva. Il punto cardine del brano risulta però essere il medley precedente l'assolo, dove una serie di stop and go scandiscono un riff di chitarra con una serie di accenti marcati e pesanti dati dalle martellate di Bostaph. Nella parte solista troviamo una sequenza che vede alternarsi prima Holt e poi King, chiaramente non si può non constatare la maggiore precisione e pulizia del chitarrista degli Exodus, le cui note vengono eseguite con un tocco più limpido e fluido di quello leggermente impreciso del barbuto fondatore degli Slayer. L'alternanza dei chitarristi nel cimentarsi in vere e proprie battaglie soliste è sempre stato una caratteristica fondamentale dei brani della band, ma mentre Hanneman si muoveva su orizzonti più simili a quelli del collega, Gary Holt risulta immancabilmente una spanna sopra al suo "avversario", vuoi anche per la sua appartenenza ad una scuola più moderna in fatto di Thrash Metal. Il brano si conclude con la ripresa dell'ultima strofa, dove ad aumentare l'energia è ancora la voce di Araya, orientata verso un'ira sempre più funesta. Attraverso la celebre metafora biblica, il frontman del gruppo riflette ora sulla dualità dello scontro fisico: in ogni battaglia, per quanto forti e determinati si possa essere, anche nella più suprema delle vittorie si subiscono ferite e perdite; il nostro nemico infatti si lancia nell'arena con la stessa determinazione che abbiamo noi e se non saremo abbastanza scaltri nel combattere pagheremo col sangue ogni nostro singolo errore. Ogni attacco va portato con la massima ferocia, facendo sì che il nostro oppositore possa affondare il volto nel fango per poi soffocarvi, ma non vi è il tempo per gli studi tattici; se l'attacco è la migliore difesa di tutte ecco che siamo noi i primi a dover scagliare la prima pietra, in modo da sfigurare subito il volto di chi ci è ostile mettendolo intanto nella condizione di doverci affrontare col gusto di ferro in bocca e i propri denti per terra. Chiunque si trovi sulla nostra traiettoria con un'arma in mano non ha certamente le migliori intenzioni, ed ecco che il sasso scagliato da noi si presenta subito come azione preventiva che, se non altro, riduce la possibilità di sconfitta. Un ragionamento abbastanza pragmatico quello degli Slayer, ma che in un mondo come quello odierno, prossimo ormai al predominio della legge del più forte, sembra essere l'unica regola di vita che consenta di sopravvivere. Se i latini erano soliti dire "mors tua, vita mea" (trad. "la tua morte, la mia vita"), Tom Araya e soci sviluppano ulteriormente il discorso andando ad approfondire la matrice marcatamente violenta di questo concetto, che purtroppo, oggi più che mai, si rivela estremamente attuale.

When The Stillness Comes

A metà della tracklist troviamo "When The Stillness Comes" (trad. "Quando Giunge l'Immobilità"), brano che viene aperto nuovamente con un arpeggio di chitarra; questa volta però, le note sono eseguite in maniera più fluida, effettate con un pulito e leggermente arricchite con un delay. Bostaph tiene sempre il tempo con i piatti, mentre lo sviluppo si tinge di un alone oscuro grazie ad un crunch che immediatamente impregna di malvagità le note delle sei corde. È l'atmosfera l'obiettivo principale di questo brano, che dopo un'improvvisa esplosione in distorto, dove i powerchord entrano pesanti e sontuosi riprendendo le toniche dell'arpeggio, ritorna alla quiete iniziale, come l'acqua di un lago mossa da un sasso che dopo pochi secondi ritrova la quiete. La batteria ora si muove da sola, seguita dal basso e dalla voce di Araya, che ha modo di esprimere tutta la sua follia omicida; lo stile non è più quello claustrofobico e serrato dei pezzi precedenti, ma il vocalist si cimenta ora in un'esecuzione solenne e profetica che ne fanno un vero e proprio messiah della distruzione. A 3 minuti e 50 secondi inizia il crescendo finale, l'ultima estrema mazzata al viso prima di perdere i sensi: le chitarre fanno il loro ingresso grazie ad un riff energico e carico di furia tagliente per poi avviarsi verso la conclusione con una batteria che non ha mai smesso di tritare ossa e macerie; giusto qualche minuto privo di voce nel quale gli Slayer possono ribadire senza troppo impegno di essere loro i veri profeti dell'extreme. Delle tracce ascoltate finora, "When The Stillness Comes" potrebbe essere considerata la "ballad" della band californiana, anche se come ben sappiamo tale termine riferito agli autori di "Reign In Blood" assume una connotazione del tutto particolare. Le parole di questa canzone offrono una dettagliatissima descrizione di uno scenario da film horror: immaginate una stanza buia e sudicia, con le pareti insozzate da macchie di sangue ormai raggrumato conseguenti alle più atroci torture; di fronte a noi, dei cadaveri giacciono a terra immobili come bambole gettate via da bambine ormai annoiate dai loro usurati giocattoli. L'ansia ormai ci pervade, con quella cara e vecchia sensazione che in cuor nostro sappiamo di aver già provato in passato, come mai ci troviamo in quel posto non è dato saperlo, ma l'unica cosa certa è che di fronte a noi, tra quelle carcasse ammassate l'una sull'altra, spicca una lapide, unica traccia di civiltà in quello scenario da pura follia omicida. Siamo consci del fatto che chi occupa quella tomba è li per causa nostra, il nostro oscuro passato immediatamente torna a galla, dopo tanti sforzi per celare quel maldestro scherzo dove "ci è scappato il morto", forse proprio il morto stesso non ha dimenticato quanto gli è successo: l'unico modo che ha per poter liberarsi dalle catene che lo legano ancora al mondo terreno, facendo marcire la sua carcassa, è quello di pareggiare i conti. Sono mesi che aspetta di poterci finalmente dare quanto ci spetta ed è sempre rimasto lì, immobile nella sua fossa, ad aspettare che il nostro rimorso come un esca ci attirasse al suo cospetto. Ormai l'ansia ci divora, tanto che le allucinazioni ci attanagliano la mente e scorgiamo il suo sguardo fissarci dal marmo della lapide, quando d'improvviso l'immobilità eterna coglie anche noi: non sappiamo chi, non sappiamo da dove, sentiamo solo un dolore lancinante aprirci in due il cranio come una mela; tutto accade in un lampo, ed anche noi crolliamo esanimi su quel mucchio di cadaveri che prima ci aveva tanto disgustato.

Chasing Death

Dopo questo momento di calma hitchcockiana, gli Slayer ci rigettano nella mischia con "Chasing Death" (trad. "Cercando La Morte"), il cui riff di apertura mette subito in chiaro che l'obiettivo del gruppo, in questo come in ogni canzone, è quello di spaccare teste senza alcuna discriminazione; nel caso della musica di Kerry King e soci infatti vice l'uguaglianza assoluta poiché tutti siamo fatti di carne ed ossa, materiale assolutamente facile da tritare a forza di Thrash Metal. Le chitarre si muovono più dinamiche rispetto le strutture precedenti, la sequenza di note che compone la strofa appare infatti maggiormente articolata e più studiata, meno immediata da metabolizzare magari dal punto squisitamente artistico, ma non per questo meno decisa o priva di mordente. Come ogni composizione slayerana, al dinamismo delle asce fa da sostegno un basso corposo e dimezzato in quanto ad esecuzione, un espediente che ormai caratterizza lo stile di Tom Araya, che pur non avendo mai dato particolari prove di tecnica, tuttavia non si è mai sottratto al suo sporco lavoro di dover reggere ogni passo di questa inarrestabile macchina da guerra. A dare una prova assolutamente da oscar su questa traccia è Paul Bostaph, che ha qui modo di ribadire che sullo sgabello degli Slayer, per quanto si possa essere tradizionalisti, anche il suo fondo schiena non ci sta così male; del resto stiamo parlando di un batterista che comunque si è fatto una discreta gavetta nel genere e che, avendo già militato nella formazione, conosce anche adeguatamente la materia di cui stiamo parlando, cosa che alle volte viene forse data un po' troppo per scontata dalle altre band quando reclutano un nuovo musicista nella loro line up. La batteria ci regala su questo pezzo una nuova prova di maestria, che al canonico tempo in quattro quarti aggiunge anche una serie di passaggi sui fusti veloci, precisi e devastanti come solo l'ex batterista dei Testament è in grado di regalare. Come nel caso della titletrack e di "Take Control", siamo di fronte ad una traccia che dimostra ulteriormente l'evoluzione della band conseguente al rinnovamento della formazione. Tema principale della liriche è nuovamente l'eterna dicotomia tra l'individuo e la società in cui egli vive, questa volta analizzato attraverso una lente di indagine maggiormente introspettiva da parte di Araya: ogni giorno non facciamo altro che ascoltare bugie, solo stupide e vane promesse che ci prefigurano un futuro più roseo che non arriverà mai, proprio perché l'essere umano, per sua natura, non fa altro che illudere i suoi simili per poter primeggiare. Se in una tanto cara, ed ormai remota, età antica gli uomini stabilivano la loro supremazia attraverso lo scontro fisico, oggi, all'alba del 2016, la forza, caratteristica sì grezza ma senz'altro più nobile e primordiale, lascia il posto all'astuzia ed al volersi a tutti i costi approfittare degli altri per ottenere ciò che si vuole: il concetto di esistenza simbiontica viene ora estremizzato all'inverosimile, prevedendo che la persona di cui ci stiamo servendo esca danneggiata (moralmente se non economicamente) da questo "rapporto". Ecco quindi che senza rendercene conto ci ritroviamo ignari a cercare la morte, la fine di questo stato di schiavitù invisibile che ci rode l'anima morso dopo morso fino ad annientarci completamente.

Implode

Veniamo ora ad "Implode" (trad. "Implodere"), il brano che per primo venne lanciato dagli Slayer nell'oceano mediatico per richiamare i riflettori su una band che, come detto in precedenza, era rimasta in stand by e data prossima allo scioglimento. A dirla fuori dai denti, al primo ascolto di questo brano, rimasi abbastanza soddisfatto di quello che stava bollendo in pentola, senza però gridare al miracolo, anche perché comunque Tom Araya e soci hanno più volte dato prova in passato di saper rinascere dalle proprie ceneri come una fenice maestosa senza cadere nel tranello di pubblicazioni a dir poco inutili ed assolutamente evitabili (il nome "St Anger" dovrebbe farvi venire in mente qualcosa). "Implode" infatti è il classico pezzo "Slayer al 100%": conciso, diretto e senza troppi fronzoli, ciò che a conti fatti ogni fan vuole, anzi pretende, con ragione di sentire dal nome in questione. Su Youtube questa traccia mi è parsa buona ma soprattutto onesta, quasi come se i quattro musicisti americani ci volessero dire: "Stiamo uscendo da un periodo non del tutto roseo ma la grinta c'è tutta e preferiamo prenderci il giusto tempo, componendo qualcosa di autentico, senza prenderci in giro da soli". Ora che invece la si riascolta inserita in un album le cui linee direttrici sono ormai state tracciate, la semplicità iniziale assume ulteriore valore; a balzare immediatamente alle orecchie è il tempo, notevolmente dimezzato dello sviluppo. Il main riff assume una connotazione quasi nu metal atta a conferire sapientemente un incedere più cadenzato e marziale al tutto. Lì per lì si può sospettare che la band abbia perso il proprio smacco, quand'ecco apparire il canonico, ed attesissimo break. Quando nei brani dell'assassino si sentiva una pausa, in passato si aveva la certezza che presto le nostre teste avrebbero iniziato a roteare, ed anche in questo caso l'aspettativa non è assolutamente delusa: Bostaph si lancia in un tupa tupa assolutamente trascinante e coinvolgente, seguito dalla carovana di motoseghe a sei corde che mitragliano note in shredding fino a quando i due chitarristi non giungano a martoriarsi le articolazioni dei polsi. La voce di Araya è ancora più malata e forsennata che in precedenza, arrivando a toccare tonalità alte quasi desuete per il vocalist cileno, quasi a fargli interpretare il ruolo di uno psicopatico che dopo lunghi anni di quiete forzata ha finalmente modo di sfogarsi incendiandosi letteralmente e corde vocali a forza di urlare, come se ad una calma esteriore corrispondesse una vera e propria implosione che fa deflagrare ogni segno di razionalità che una mente umana possa avere. Il ritornello è retto da una sequenza di powerchord aperti su cui il vocalist cileno può scagliare a tutta voce l'imperativo che da il titolo a questo pezzo, quasi fosse un comandamento a cui nessuno di noi può sottrarsi per liberare quella parte insana che da troppo tempo si cela in noi, incatenata dietro un muro di convenzioni e falso perbenismo. Il filo conduttore dell'analisi introspettiva viene portato avanti questa volta attraverso una concezione più rabbiosa che parte da una semplice domanda: "So is it just me or everyone can see the world drowning in it's own blood?" (trad. "sono solamente io (ad accorgermene) oppure ognuno di noi vede che il mondo intero sta annegando nel suo stesso sangue?") e questa non è altro che la prima di una cinica e rassegnata serie di constatazioni che supportano questa tesi di rovina. L'umanità sta marciando verso il suo inevitabile declino sempre più demolita, mentre dal fango emergono i fossili di quelli che una volta erano gli esseri umani con ancora un minimo di valori. Un nuovo io, sempre in netto distacco dalla massa, giace da solo nella sua stanza seduto sul letto, con la testa fra le mani, in preda alla disperazione dopo che per primo si è accorto realmente di cosa stia succedendo alla razza umana. Dentro di sé non può far altro che sentir ribollire la propria ira come una colata di magma ormai prossima all'eruzione, in che modo si potrebbe dar sfogo a tutto questo astio represso? Uno sfogo esterno sarebbe del tutto inutile, dato che per quanti oggetti si possano distruggere non saranno di certo i frammenti di essi a riportare gli uomini sulla retta via, ecco allora che l'implosione all'interno della nostra anima annienta uno per uno tutto ciò in cui credevamo: un dio, la lealtà, l'onesta, qualunque fossero i nostri punti saldi ecco che vengono pian piano fatti detonare in un processo autodistruttivo che ci lascerà vuoti, completamente attoniti di fronte all'inesorabile decadenza.

Piano Wire

La successiva "Piano Wire" (trad. "Corda Di Pianoforte") si apre con un incedere decisamente più pesante e marziale, con questo sviluppo torniamo indietro al 1998, direttamente a quelle atmosfere soffocanti ed insane che caratterizzarono "Diabolous In Musica", che grazie ad una velocità dimezzata, non senza le consuete accelerazioni, e le aperture melodiche segnate dagli arpeggi ricchi di armonici conferiscono alla composizione un tono al tempo stesso solenne e maligno, come una cerimonia ecclesiastica celebrata direttamente all'Inferno. La batteria scandisce con potenza ogni colpo, quasi a tenere il tempo di una lunga fila di dannati intenta a marciare verso la propria sepoltura, le chitarre si muovono pesanti su un riff terzinato che dal palm muting pesante passa allo shredding per poi aprirsi nel pre ritornello, regalandoci un dinamismo spiazzante ma che tiene tuttavia sempre desta la nostra attenzione. La vera e propria partenza al fulmicotone si ha nella parte centrale, sede dell'assolo di King che, come da manuale, si lancia serratissima in un quattro quarti con i bpm altissimi per poi tornare al tempo dimezzato iniziale, eletto ormai a motore conduttore della traccia. L'assolo del barbuto e tatuato axeman è costituito da una vera e propria colata di note sparata a velocità forsennate, sempre dilatate mediante l'uso del wahwah che è ormai diventato una propaggine del suo piede, per poi concludere con l'ennesima sferzata al ponte mobile, apportando così un bending sovrumano alla nota conclusiva e rendendola più malsana prima che Araya rientri a vomitarci addosso l'ultima razione d'odio di questo testo. Il vocalist degli Slayer veste ora i panni di un malvagio maestro, intento a fornire al suo allievo i precetti per compiere un mistico massacro in linea col volere di un'antica profezia. Mentre il traditore, ormai meritevole solo di morire, si nasconde in una foresta popolata dai lupi, l'oscuro sicario si prepara a compiere ciò che va fatto: la tensione sale e l'aria si incendia come un fuoco, spargendo tutto intorno un odore di morte che ammorba l'ambiente ed i polmoni di chi verrà giustiziato. È ormai calata la notte mentre l'assassino prende la corda di pianoforte con la quale impiccherà il traditore per il bene della sua setta facendo sì che essa possa far suonare la melodia della giustizia dilaniando la carne del suo collo. La serie di imperativi forniti da Araya fa sì che l'azione del killer sia rapida ed efficace, "ingaggia il combattimento", "gusta il sangue", "attacca", "continua", "non ti fermare", "vincerai e la corda di pianoforte suonerà la sua musica", questi sono i passaggi di un manuale per uccidere di cui gli Slayer possono ritenersi gli autori sonori indiscussi. Una volta braccata la preda, non resta che appostarsi in attesa di un suo passo falso che lo conduca dritto da noi, basta porsi dietro un albero dal tronco abbastanza spesso da coprirci ed aspettare; il respiro non deve essere affannoso ma calmo, in modo da non fare rumore, ed ogni nostro muscolo deve essere rilassato per poter poi esplodere al momento decisivo. Quando il bersaglio passa a fianco a noi non resta che scagliarcisi alle spalle, stringendo la corda intorno alla sua trachea finché non vedremo le nostre mani color rosso vivo e non sentiremo più alcun lamento. L'esecuzione è compiuta e la cinica giustizia quasi massonica è stata fatta.

Atrocity Vendor

Con la seguente "Atrocity Vendor" (trad. "Venditore Di Atrocità"), già comparsa nell'edizione giapponese del precedente "World Painted Blood" come bonus track, il gruppo torna a spingere sull'acceleratore: del resto già dal titolo si può ben intuire che l'amore e la delicatezza saranno parole sconosciute per gli autori di questa traccia. Il riff di apertura si tinge immediatamente di un retrogusto old school, i power chord che lo compongono vengono eseguiti attraverso una pennata serrata e mitragliante che rende queste note taglienti come dei coltelli smussati intenti ad insinuarsi nella carne viva. L'energia del pezzo viene lanciata attraverso un efficace crescendo, che vede Bostaph martellare incessantemente il charleston del proprio set prima del lancio della strofa; le chitarre sono le protagoniste assolute dello sviluppo, in quanto non si risparmiano di macinare i nostri timpani attraverso una serie di pennate serrate e tagliente alternate ad un apertura di power chord sapientemente piazzata al punto giusto per dare un buon dinamismo. Il tiro sicuramente non manca, ma per chi conosce gli Slayer, questa traccia risulta senz'altro la meno elaborata; parliamoci chiaro, la testa si scuote da sola senza problemi, ma per la band di Kerry King e soci si tratta della classica composizione che rispetta la concezione del massimo risultato con il minimo sforzo. La struttura infatti è lineare e marcia sempre sullo stesso tempo senza apportare grandi variazioni se non quelle date dai cambi delle sei corde; da un gruppo che ha fatto la storia si è sempre spinti ad aspettarsi il meglio della produzione, ma con questa particolare composizione sembra che il gruppo americano abbia mirato unicamente alla sufficienza senza sbilanciarsi troppo. Un vero peccato del resto, perché il main riff ed il songwriting sono convincenti, ma a conti fatti sembra un'idea ancora lasciata in work in progress e alla fine sappiamo tutti che con una meditazione più approfondita gli Slayer ne avrebbero fatto sicuramente una canzone da cardiopalma. In questi 2 minuti e 55 secondi comunque c'è quello che la band può dare quando è "sottotono", il resto è tutto grasso che cola dunque. Nel mondo attuale, atroce e privo di scrupoli, anche la violenza diventa bene di consumo, ecco quindi Tom Araya diventare un vero e proprio agente di commercio della materia, un venditore ambulante che va di porta in porta ad offrire il meglio del proprio campionario, poco importa se si tratta di un pugno nei denti o di una bastonata sulle ginocchia, al giusto prezzo si può ricevere un massacro all inclusive. La follia della modernità ormai è tale che anche una brutale aggressione passerebbe come evento all'ordine del giorno, del resto basta vedere che giungla selvaggia sia diventato il mercato del lavoro per non faticare ad immaginarci un rappresentate che pur di ricevere le proprie provvigioni arrivi a pestare a sangue un acquirente. Tuttavia, il venditore di atrocità si rivela essere il migliore sulla piazza, appena aperta la porta infatti non importa se dovrà violentare il cliente, spaccargli le ossa o amputargli degli arti, quello è il suo mestiere ed è lì per svolgerlo al meglio. Il venditore non esiterà nemmeno a gettarci a terra, cospargerci di benzina e darci fuoco, tutto per farci provare cosa sia realmente l'agonia che tanti smidollati osannano sui loro social network come desiderio di evasione dalla monotonia della loro vita. Tutti i vari i leoni da tastiera, che spargono minacce a destra e a manca protetti dallo schermo del loro computer, si troveranno ora a giocare con un avversario che segue le loro stesse regole, e con lo stesso garbo gli spezzerà le articolazioni una ad una.

You Against You

Decisamente più buona è la prima impressione della successiva "You Against You" (trad. "Tu Contro Di Te"), dopo una prova non del tutto convincente nella traccia precedente, fortunatamente i quattro americani ci fanno tirare un sospiro di sollievo e ci regalano un pezzo spacca teste come solo loro sanno fare. L'apertura è di nuovo lasciata alle chitarre, che entrano subito sontuose con un riff carico di groove e marzialità. A rendere questa parte coinvolgente e trascinante è senz'altro l'utilizzo degli stop and go: Bostaph segue ogni pennata con tutta la potenza del suo set, attraverso una cassa potente e profonda ed un rullante che spicca come un vero e proprio mitragliatore; grazie ad un accorto espediente, ecco arrivare nettissimo il cambio di tempo, che lancia una strofa rovente e corrosiva tanto quando la soda caustica, gli amanti del tupa tupa vecchia scuola non potranno evitare di esaltarsi di fronte ad un brano che risulta essere un vero e proprio manuale del mosh pit. Su questo brano troviamo quanto di meglio gli Slayer possano offrire per travolgerci e spappolarci sull'asfalto senza pietà; la pulizia esecutiva di Holt emerge non solo nella strofa e nei ritornelli ma anche nell'assolo, parte nella quale l'axeman degli Exodus dimostra nuovamente di essere di una scuola più moderna e meno grezza di quella del buon Kerry King. La semplicità del ritornello inoltre fa si che questo motto di autolesionismo ci resti impresso nella mente senza problemi e che le nostre corde vocali si riducano ai minimi termini nel cantarlo. Un pezzo semplice ed onesto, come quello che ogni fan degli Slayer vuole. Il tema pirandelliano del doppio e della perdita della propria identità di fronte all'ipocrisia del reale trova in questo testo una delle sue espressioni più crude ma al tempo stesso più efficaci di sempre. Ognuno di noi vive la propria esistenza come una somma delle nostre due parti: quella mentalmente aperta, razionale e positiva verso il futuro e quella più romantica, pessimista ma anche adirata con il mondo intero per tutto ciò che di sbagliato subiamo ogni giorno; uno ying ed uno yang continuamente in lotta fra loro ma che non possono fare a meno l'uno dell'altro per creare la nostra completezza. Certo, con i tempi che corrono la parte apollinea del nostro essere fa una gran fatica a valutare col giusto senno tutta la violenza che ci circonda, molto più conforme a tale compito è invece la nostra parte dionisiaca, che oltre a manifestare apertamente il proprio disprezzo non perde occasione di vessare la propria controparte, canzonandola per la stupidità con la quale crede ancora che le cose prima o poi cambieranno. Ecco che si scatena quindi una lotta senza esclusione di colpi, dove il nostro io "buono" si trova a dover combattere con quello "cattivo" per riuscire a sopravvivere. Naturalmente l'immaginario degli Slayer è quello di un vero e proprio duello di disumana atrocità, dove non si esita ad affondare le mani nelle orbite del proprio avversario pur di strappargli gli occhi. Come due gladiatori quindi le nostre due componenti si affrontano fino a quando non resterà in piedi solo il vincitore, non vi sarà però l'imperatore a dettare clemenza o spietatezza con il verso del proprio pollice, ma solo la supremazia di quella parte del nostro subconscio che avrà spazzato via l'altra segnando per sempre in maniera immutabile la nostra concezione del mondo.

Pride In Prejudice

L'album si conclude con "Pride In Prejudice" (trad. "Orgoglio Nel Pregiudizio", storpiatura voluta del titolo originale dell'opera "Pride And Prejudice" dell'autrice inglese Jane Austen). Ad aprire le danze questa volta è Paul Bostaph, che esegue sui fusti un passaggio rapido e precisissimo che da l'avvio alla sequenza successiva: le chitarre entrano con degli accordi aperti e profondi, un'idea ottimale per dare al pezzo un'atmosfera più cupa e per creare la giusta suspense prima che parta una marcia funerea vera e propria. L'ingrediente principale di questo brano è la pesantezza, la struttura infatti verte tutta sul groove e sulla cadenza doom del main riff; dopo tanta velocità dunque, il gruppo dimostra ora che loro sono dei maestri indiscussi anche quando c'è da andare a velocità più basse di bpm. Non si tratta solo di pennate forsennate, anche quando si tratta di eseguire delle semplici terzine in palm muting, i quattro californiani dimostrano che la loro potenza è letale come sempre. Durante l'inarrestabile incedere degli accordi di chitarra, che si susseguono sempre secondo la stessa struttura, è la batteria a dare il dinamismo, passando dai quarti agli ottavi e viceversa per poi partire con un tappeto di doppia cassa serratissimo in trentaduesimi. Alla sontuosità delle chitarre e del basso si contrappone quindi un disegno ritmico incessante e variegato, che rende la canzone fruibile ed assolutamente gradevole da seguire nonostante tre strumenti su quattro suonino, in pratica, sempre la stessa cosa. La voce di Araya è marcata, decisa ed energica, la metrica inoltre fa si che ogni sillaba venga a cadere sugli accenti della batteria, offrendo quindi al vocalist la possibilità di calcare ulteriormente le parole con il tono iracondo e psicopatico che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Ancora una volta il pragmatismo degli Slayer non lascia adito a dubbi: ancora una volta è una visione dicotomica quella che Kerry King e soci ci propongono, la vita è una guerra ed ogni individuo che si presenta d'innanzi a noi sceglie l'arma con cui affrontarci; di conseguenza, dal canto nostro, non ci resta che assumere la giusta posizione per poter affrontare al meglio questa nuova sfida. Bisogna dare per scontato che la realtà è solo un altro avversario da sconfiggere e che la fedeltà e l'amicizia sono diventati ormai solo dei valori metafisici; tutto si riduce quindi a dare per scontato che il bene non esista più, un pregiudizio quindi, di cui bisogna andare assolutamente fieri. Grazie a questa visione nichilista e conflittuale verso tutto ciò che ci circonda, abbiamo la certezza di non restare mai delusi e soprattutto sconfitti; la civiltà, la politica, il welfare, sono tutte stronzate con cui chi è al potere cerca di ipnotizzarci per servirsi di noi, ma alla fine sono tutti uguali e disprezzare tutti alla stessa maniera non può che tutelarci dall'ennesima delusione. È forse questa una maniera pressapochista di giudicare? Può anche darsi, sostiene il gruppo, ma non è che con i sofismi ed i dibattiti finora si sia arrivati a qualcosa; di fronte al bivio che ci pone di fronte un miglioramento solo possibile ed una certezza che trova nel disprezzo la propria base per mettere tutti sullo stesso piano, il vero orgoglio sta nel buttarsi su questa seconda opzione, l'ottica di queste parole riprende fedelmente la democrazia cinica del caro vecchio sergente Hartman di Full Metal Jacket: "Qui vige l'uguaglianza, non conta un cazzo nessuno", semplice, diretto ed orgoglioso.

Conclusioni

È quindi valsa la pena aspettare sei anni per questo ritorno degli Slayer? Assolutamente sì. "Repentless" è un lavoro che ci riporta lo stato di una band assolutamente in forma, che ha saputo ritrovare la propria direzione dopo un momento di smarrimento e, grazie al reclutamento di due musicisti di tutto rispetto, ha saputo inoltre evolversi senza scadere in sgradevoli stereotipi. A differenza dei già citati passi falsi dei colleghi Metallica, Tom Araya e Kerry King hanno preferito prendersi tutto il tempo che occorreva per una manutenzione completa della propria creatura; entrambi i nuovi arrivati hanno dato prova della loro maestria sul palco grazie alla loro attitudine, ma era in studio che Gary Holt per la prima e Paul Bostaph per la seconda volta erano attesi al varco. Merito di questo lavoro di ottima fattura va senz'altro prima di tutto ai quattro musicisti che lo hanno composto: questa nuova formazione ha saputo creare dodici tracce, alcune delle quali già abbozzate ancora con Jeff Hanneman ed ulteriormente riviste, che colpiscono e coinvolgono con una grinta assolutamente travolgente, essendo anche suonate con una tecnica di tutto rispetto, ma che soprattutto aggiornano il sound di una band nata agli inizi degli anni ottanta per renderne la musica assolutamente attuale. D'altra parte non è la prima volta che gli Slayer si dimostrano al passo coi tempi (ricordiamoci che nel 2001 con "God Hates Us All" seppero tenere ottimamente testa all'ascesa del Nu Metal), ma in questo caso la sfida fu ancora più ardua, trattandosi di dover rimettere in piedi la formazione ancora prima di poter iniziare a comporre. In secondo luogo, se questo disco suona come un qualcosa di magnificamente devastante è grazie all'ottimo lavoro svolto agli Henson Studios di Los Angeles dal producer Terry Date (nel cui curriculum spiccano lavori di Overkill e Pantera), che ha saputo rendere alla perfezione quello che sono gli Slayer oggi. Ogni strumento infatti emerge al massimo del proprio potenziale, ad iniziare dalla batteria, di cui ogni fusto suona pesante ed imponente, passando per un basso reso a dir poco monolitico grazie ad un'equalizzazione mirata a rendere ogni plettrata una vera e propria onda d'urto per arrivare infine alle chitarre: un vero e proprio muro sonoro spesso ed invalicabile che allo stesso tempo suona limpido e preciso sia nelle articolazioni ritmiche dei vari riff che nelle cascate di note degli assoli. La voce infine, ultima ma non certo meno importante, non viene sovraccaricata di effetti ma viene resa in maniera molto naturale, una scelta ideale per dar modo alla follia di Araya di esprimersi secca e diretta come necessitano questi brani. In un periodo come quello attuale, dove le tecnologie digitali ormai sono in grado di creare da zero capolavori senza quasi che i musicisti li suonino, gli Slayer hanno dimostrato di essere dei musicisti di inestimabile esperienza e che nonostante siano dei "vecchietti" del panorama metallico, sono comunque in grado di frantumare il coccige a tanti ragazzetti spavaldi. A loro non serve chissà quale artificio tecnologico per sfoderare un gran album, basta entrare in studio e registrare, fatto ciò stiamo pur certi che il risultato ci asfalterà senza il minimo rimorso.

1) Delusions Of Saviour
2) Repentless
3) Take Control
4) Vices
5) Cast The Fist Stone
6) When The Stillness Comes
7) Chasing Death
8) Implode
9) Piano Wire
10) Atrocity Vendor
11) You Against You
12) Pride In Prejudice
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