SLAYER
Divine Intervention
1994 - American Recordings
LORENZO MORTAI
19/04/2016
Introduzione Recensione
Quando si pensa alla violenza senza quartiere, al Thrash senza compromessi, ma soprattutto al raffinato odio che permea la musica, quasi immediatamente il paragone ed il collegamento con gli Slayer viene in automatico. La band di Araya, King e del compianto Hanneman (senza dimenticare i vari drummer che si sono seduti dietro alle pelli della band, primo fra tutti il grande Dave Lombardo) ha sempre avuto un unico, ferreo e costante obbiettivo; mai avere nessun segno di debolezza o di ammorbidimento del proprio sound o della propria filosofia musicale, solo un'enorme bordata di violenza che sfreccia a destra e sinistra, uscendo da ogni poro della pelle facendola sanguinare. La carriera della band è costellata di album uno più incisivo dell'altro, e nonostante siano passati più di trenta anni dalla loro comparsa sulle scene, quando il caprone mefitico di Show No Mercy ascese dagli inferi portando con sé quella ventata di tecnica mista all'odio più marcato, ancora oggi la band stupisce per la tenacia con cui porta avanti il proprio credo (perfino Repentless, criticato da molti, osannato da altrettanti, e le critiche arrivano particolarmente dalla pesante assenza di Jeff, mantiene ancora quell'enorme abisso mortale). Per raccontare la storia odierna però, dobbiamo fare un passo indietro, fino al 1994; chi vi sta scrivendo era nato veramente da poco, e le informazioni personali e vissute sulla propria pelle di quel periodo sono poche ed assai frammentate. Tuttavia, è bene ricordare che questi sono stati anni molto difficili per la musica alternativa, anzi, più che difficili il termine giusto è "confusi". In quel momento storico c'era grande fermento ed al contempo altrettanta perdita di valori presenti nel decennio precedente; il Grunge, ormai sulla cresta dell'onda dal 1990, stava per volgere la propria dorata storia di ritmi ripetuti e testi malinconici al termine, nel 1994 infatti il biondo frontman e fondatore dei Nirvana, Kurt Cobain, si toglie la vita, lasciando nello zoccolo duro dei grungers americani e non, un vuoto che ancora oggi stenta a colmarsi. Per quanto riguarda il Metal nello specifico, visto che di questo tratterà la recensione odierna, come se la stava passando in quell'anno? Beh, non molto bene per alcuni punti, leggermente meglio per altri. Se nel 1990 c'era stato un riaffiorare di certe sonorità dure e tecniche (con il rilascio di album quali Painkiller dei Judas Priest, ma anche accezioni più "blande" come The Razors Edge degli AC/DC con il quale la band australiana insegnò nuovamente al mondo cosa volesse dire fare Hard Rock) nel 1994 quelle stesse stavano andando a perdersi, ma più di queste stava ormai scomparendo quella linfa vitale che era iniziata negli anni '70 e proseguita negli '80. Appannaggio invece di generi nuovi, come Symphonic, Stoner e Sludge, che stavano ormai prendendo piede sempre di più, rielaborando quei filoni classici inserendovi partiture di nuova generazione, suoni mai uditi prima, ed una atmosfera che, in qualsiasi genere si andasse, risultava sempre permeata di un velo oscuro e buio. E per quanto riguarda gli Slayer? Beh, nel 1990 la band di Araya e soci aveva rilasciato quel che forse è la loro consacrazione definitiva, stiamo parlando di Season In The Abyss. Con quella copertina così particolare, e contenente alcune delle tracce più celebri e blasonate della band, gli Slayer si erano ferreamente assicurati un posto nell'olimpo del Thrash Metal, in un periodo per il genere non propriamente florido, anzi, di lunga discesa. Successivamente a Season abbiamo, dal 1983 ad ora, il primo cambio di formazione considerevole; Mr Dave Lombardo, drummer di eccellente caratura, compositore eccezionale ed uno dei motivi per cui lo "slayer sound" è così ben caratterizzato per i fan, lascia la band. Un vuoto abbastanza grande che la maggior parte del pubblico vedrà come incolmabile, ma con una larga fiducia nelle capacità manageriali della band, soprattutto nel trovare un degno sostituto. Siamo nel 1992 quando Lombardo lascia la band, e due anni dopo il gruppo entrerà di nuovo in studio (Lombardo poi tornerà in formazione soltanto nel 2001, rimanendoci fino all'anno della dipartita di Hanneman, il 2013). Il degno cambio di Dave viene trovato in un virtuoso e giovane drummer, che aveva già dato il suo enorme contributo alla causa del Thrash suonando per una delle realtà più famose nel mondo leggermente più underground, i Forbidden, con i quali ha suonato dal 1988, anno della loro formazione, fino a quando non venne chiamato alla corte di Araya ed Hanneman. Parliamo di Paul Bostaph, classe 1964 (oggi cinquantaduenne); la tecnica di questo drummer era influenzata dai classici del genere, sia Rock che Heavy Metal, ma nel tempo Paul aveva modificato il proprio modo di suonare la batteria, condendolo con altrettante sferzate di violenza senza compromessi, che era ciò che agli Slayer serviva, il tutto unito comunque ad una precisione cronometrica (seppur non ai livelli di Lombardo). Bostaph rimarrà in formazione fino al 2001, anno in cui come abbiamo detto tornerà Mr Dave dietro alle pelli, e verrà nuovamente richiamato all'abbandono di quest'ultimo nel 2013. Dunque, il cambio di formazione e la lacuna ai piatti è stata colmata, non restava che entrare in studio. Già, ma quale album sfornare dal proprio cappello questa volta? Dopo un blocco di adamantio duro e perfetto come Season, c'era bisogno di qualcosa di altrettanto oscuro e possente, un demone mangia uomini abnorme che si staglia sulla terra, facendo razzia dei corpi che trova. La band optò alla fine per un sound ancora più aggressivo; si abbassarono leggermente i toni delle chitarre, portandoli ad un andante pregno di gutturale violenza, si fece della batteria uno degli strumenti principi dell'album, e la voce di Araya venne spinta ai propri limiti, andando a toccare tanto toni alti (ormai celebri) quanto bassi e cavernosi. A svantaggio di questo, specialmente per quella parte di pubblico che amava certe cose, la band perse alcune delle sue peculiarità in campo lirico, andando leggermente a discostarsi dal satanismo e dall'occultismo che avevano caratterizzato i dischi precedenti, appannaggio invece di liriche più mature e complesse, con altrettanti riferimenti storici e culturali che impregnano l'album. Come accade quasi ad ogni nuova uscita degli Slayer comunque, anche nel caso di Divine Intervention, la band non fu esente da pesanti critiche; Max Cavalera, allora leader dei Sepultura, tacciò la band di essere completamente di estrema destra, specialmente per quanto riguarda la traccia SS-3 (le cui liriche raccontano lo straziante eccidio avvenuto a Lidice, Praga, ma ne parleremo meglio nel track by track). Al contempo vennero anche aspramente criticati per 213, traccia dedicata ad un efferato serial killer della storia americana. Insomma, un disco che uscì non sotto i migliori auspici per quanto riguarda una parte del contorno che circondava la band, ma sono sempre e comunque dettagli di cui gli Slayer si sono ampiamente fregati, andando avanti per la loro strada e non fermandosi di fronte a nulla. Forse è proprio questa l'anima del loro successo, non aver mai accettato alcun compromesso, soprattutto non essersi mai fatti influenzare dalle critiche che gli venivano mosse; risultato (roseo, specialmente per la parte più dura dei fan) di tutto questo è che a distanza di così tanti anni dalla loro formazione, gli Slayer siano forse l'unico membro dei Big 4 a non aver mai perso totalmente lo smalto che li aveva ricoperti al loro ingresso sulle scene, cosa che invece nel tempo è successa sia ai Metallica, probabilmente i primi a perdere l'oro sulle spalle, e successivamente anche ai Megadeth (più tardi ed in minor misura) ed anche agli Anthrax (quelli che forse hanno vissuto il cambiamento in maniera più pesante, essendo sempre stati messi un gradino sotto agli altri). Tornando comunque al nostro intervento divino; vede la luce ufficialmente il 27 Settembre del 1994, sotto l'artwork di Wes Benscoten (uno dei mastermind di alcune fra le copertine estreme più apprezzate di sempre, fra cui spiccano nomi come Cattle Decapitation, Amorphis, Autopsy e Bloodbath). Una copertina assai particolare, come lo sono quasi tutte quelle della band; abbiamo il classico logo circolare con le spade pentacolari dietro, sormontate stavolta da due melliflui occhi e da una affilatissima bocca che va ad appoggiarsi sul cerchio. Se allontaniamo leggermente la visuale, notiamo che il corpo di questo enorme teschio, nasconde ben altro; naso e fronte infatti sono composte dalla spina dorsale di un altro scheletro, che si aggrappa al primo ed a due dei manici di spada, quelli più alti. Privo delle gambe, lo scheletro guarda verso destra, circondato dietro da un mare di stelle e pianeti. Il tutto viene colorato nei toni e nei disegni della nuda pietra, come se fosse un enorme oblò da cui osservare il cosmo e la sua enorme potenza, forse aspettando proprio l'intervento di cui parla il titolo del disco. Sul libretto interno dell'album viene riportata anche una piccola chicca; la traduzione del nome della band come l'acronimo di Satan Laughs As You Eternally Rot (Satana Ride mentre tu marcisci in eterno). Tuttavia Araya smentì le voci riguardanti la traduzione del titolo e del monicker in quel modo, affermando che venne scelto quell'acronimo semplicemente perché era semplice da cantare e rimaneva subito in testa, anche se la frase è scritta quasi in prossimità del 25 Dicembre. L'album uscì sempre sotto l'egemonia benefica di Rick Rubin, probabilmente uno dei migliori produttori musicali di tutto i tempi, ed uscì sia in formato CD (che in quegli anni ormai stava iniziando a spopolare), ma anche in vinile, con una pregevole edizione limitata con disco rosso, il tutto sempre sotto la bandiera della American Recordings. Dunque, abbiamo ormai fornito tutti i dati essenziali per affrontare la creatura che ci troviamo davanti, non ci resta che premere Play ed iniziare questa truculenta eviscerazione del sesto disco firmato Slayer.
Killing Fields
Una enorme infusione di batteria, attraverso rullate pesanti e continue, ci apre a Killing Fields (Campi di Sterminio); ad essa si unisce quasi all'unisono la sei corde di Hanneman, che inizia a ricamarci sopra alcuni fraseggi, dando quasi l'impressione che stia sparando con un fucile. I repentini cambi di tempo giocano sui piatti di Bostaph, che fin da queste prime battute dimostra tutta la sua sagacia, con il massiccio uso del doppio pedale e dei tom, che vengono tranquillamente deflorati dalle sue mani. Le rullate delle pelli non si fermano, anzi, vengono unite ad altrettante pennate di chitarra, che stavolta, dopo i piccoli ricami iniziali, prendono il via ed incominciano ad intonare il riff portante del pezzo, un giro di accordi oscuro e pregno di malvagità, senza ancora l'ausilio della voce. Il giro principe viene accompagnato da alcuni piccoli sprazzi di tremolo, che vengono inseriti qui e là mentre di sottofondo si iniziano anche a sentire le spesse corde di Tom prendere quasi il sopravvento sulla batteria di Paul, attraverso plettrate alternate piene di odio e ricolme di rocciosa possenza. Il primo cambio di tempo viene segnalato dalle pelli, che con alcuni precisi colpi ai piatti danno il via ad un altro giro, preceduto da alcune schitarrate elettriche ed acide, seppur sempre nel segno dell'oscuro. Il giro che segue si annoda su sé stesso, ed ancora non abbiamo avuto l'ingresso del microfono, per il momento stiamo varcando la soglia dell'inferno soltanto grazie alla parte strumentale. Il tupa tupa della batteria viene ben presto sostituito dalle due asce da guerra, che iniziano a duellare fra loro, la prima (quella di Hanneman) continuando ad annodarsi su sé stessa e portando ogni nota ad essere sempre precisa al cronometro, spaccando il secondo, mentre quella del corpulento King da quel tocco di forza in più all'intero sound. Le sue mani pesanti sono altrettanto incisive su quelle sei corde e sul ligneo corpo dello strumento, battono forte il metallo delle corde stesse, producendo un ritmo che dire infernale probabilmente è riduttivo. Dopo aver ripetuto il giro affrontato col primo cambio di tempo, abbiamo una serie nuova di pennate alla chitarra ed un nuovo cambio nell'andamento del disco. Stavolta ci si assesta su un andante funereo, quasi Doom nella sua resa finale, con le note che vengono schizzate da una forte dose di buio, e non per questo risultano essere meno incisive. A seguito abbiamo un'altra serie di pennate da parte di Jeff, ed il successivo formarsi di una filtra coltre di nebbia nel nostro cervello mentre ascoltiamo questa apertura d'album. La sensazione che proviamo è quella di un uomo in mezzo al niente, che vaga a tentoni cercando di capire dove si trova, ma senza riuscirci; il tutto mentre questa danza della morte in sottofondo continua a martellargli le orecchie, facendogli sanguinare i timpani. Sul quarto cambio di tempo dall'inizio del brano, ed a quasi un minuto e trenta, abbiamo finalmente anche l'ingresso del capellone Araya davanti al microfono. Lo stile di canto scelto per questa traccia è un misto fra il pulito e l'urlo più viscerale; le liriche del testo vengono sparate direttamente in faccia all'ascoltatore, che altro non può fare se non prenderle e ritrovarsi pieno di lividi in ogni parte del corpo. Mentre Tom prosegue la sua arringa di dolore, in sottofondo sentiamo sempre il main theme del pezzo, che viene ripetuto quasi in maniera ossessiva e cadenzata, dandogli l'ennesimo tocco funereo. Una accelerata segnalata dalla batteria e seguita a ruota dalla chitarra, ci fa quasi pensare alla conseguente comparsa di un assolo, ed invece no; il cambio repentino di sonorità viene collegato ferreamente ad un nuovo andante, sostanzialmente uguale al precedente, ma suonato a velocità doppia. Il tutto viene poi sormontato dalla voce, che cambia anche essa leggermente tono per adattarsi al contagiri del brano; alternate picking, power chords e blast sono le armi vincenti di questo primo pezzo, il doppio pedale di Bostaph si scatena in tutta la sua forza, rivelando nel nuovo acquisto un'arma davvero vincente. Circa a tre minuti dall'inizio del brano, due urla ripetute di Araya ci portano ad un'altra improvvisa accelerata, in cui stavolta sentiamo le pelli letteralmente esploderci nel cranio, grazie si al massiccio uso del doppio pedale, ma anche alle sapienti mani di Paul, che si spostano sui tom e sui piatti come impazzite. Al cambio di registro vocale consegue anche un cambio delle sei corde, che decidono di alternare alcuni piccoli sprazzi di violenza al tema portante, cambiando l'andamento del brano a proprio gusto. Siamo nel blocco finale del pezzo, che viene segnalato nuovamente dalle pelli, e ci ritroviamo in un ritmo da mosh pit selvaggio, mani al cielo e gola squarciata dal canto urlato che stiamo effettuando durante il live; in tutto questo la grancassa di Bostaph continua la sua corsa, mentre abbiamo forse il primo vero accenno di solo del pezzo, coadiuvato da Araya stesso, solo che arriva definitivamente a pochi secondi dalla fine del brano, dopo l'ennesimo cambio vocale di Tom, Hanneman scatena tutta la sua potenza arrotolando le proprie spire sul manico della chitarra, ritmo serrato e cascata di note per il pubblico che è già in visibilio, mentre dietro l'inferno continua la propria corsa. Prima di lasciarci andare definitivamente gli Slayer hanno in serbo l'ultima accelerata di ingenti proporzioni, che ci investe come un fiume in piena mentre vengono urlate le ultime liriche, le pennate alternate alle sei corde si sprecano, con saliscendi veloci e ricolmi di tecnica, e sull'ultimo grido a squarciagola del frontman (in cui viene cantato il titolo del brano) abbiamo un brusco stop che ci fa finire il pezzo. Non si parla tanto dei campi di sterminio di guerresca memoria in questa traccia, quanto piuttosto dei campi in cui vengono rinchiuse le persone a cui vorremmo tanto fare del male. La nostra vittima è qui, di fronte a noi, occhi lucidi per la paura, il sudore che corre sul suo volto e lo sguardo sbarrato di chi sa quanto il destino sia ormai alle porte. L'arte di uccidere è senza compromessi, bisogna essere freddi e letali, non farsi trascinare dalle emozioni, ma quando lo facciamo per la prima volta, quando sentiamo il sapore del sangue umano in bocca, ormai siamo già schiavi di questo efferato hobby. Diventiamo schiavi dell'onniscienza che porta togliere la vita ad un altro essere umano, diventiamo vacui corpi senza occhi che vagano per il mondo, la vita c'è lì, basta solo prenderla, ma noi ormai abbiamo deciso di toglierla. Le scelte nella vita si pagano sempre, ed anche noi pagheremo lo scotto per aver virato verso l'omicidio, verso la costruzione del nostro personale campo di sterminio, in cui guardare la vittima contorcersi dal dolore mentre ci avviciniamo per farle esalare l'ultimo respiro.
Sex, Murder, Art
Il prossimo slot è occupato dalla traccia più breve di tutto il disco, intitolata Sex, Murder, Art (Sesso, Morte, Arte): si tratta di un velocissimo pezzo che non supera neanche i due minuti, in cui gli Slayer, dopo la scudisciata oscura dataci dall'apertura di album, decidono di malmenarci senza ritegno, propinandoci quasi un ritorno alle loro origini marce e prive di tranquillità. Il brano infatti si apre con un giro che definire Thrash di stampo classico è quasi meramente riduttivo: le chitarre assassine della coppia King/Hanneman fin dai primi accordi ci vomitano addosso una vera e propria pioggia di note, sormontando il tutto con la doppia cassa di Bostaph, il quale non limita il proprio passo neanche se gli viene chiesto. Alla struttura iniziale segue un velocissimo cambio di tempo, segnalato da un colpo dei piatti, ed i giri di chitarra si fanno ancora più rocciosi ed aggressivi, il clangore e le scintille sprigionate fanno tremare la terra, mandandola in fiamme. Nonostante lo stampo nettamente più classico del pezzo precedente, anche qui comunque sentiamo una corposa vena di buio, che possiamo immaginarci ricoprirà tutti gli slot dell'album; all'ingresso di Araya il brano decolla e prende il volo per la stratosfera, con un andante veloce e senza compromessi, chitarre assassine ed un riff ripetuto fino allo stremo, mentre le bacchette mettono la quinta e sfondano il muro del suono. Il demone si è finalmente risvegliato, e se i fan storici avevano vagamente sentito un cambio di tono nel pezzo che ha fatto da apripista, con questa seconda traccia gli Slayer mettono definitivamente un tappo alla bocca dei dissidenti, facendo loro sanguinare occhi ed orecchie durante l'esecuzione. Persino il cantato di Tom, che si era prima assestato su toni alti, ma anche altrettanto gutturali ed infernali, qui torna al suo stile principe, l'urlo viscerale che proviene dai meandri più profondi del Tartaro. La musica del pezzo è stata composta interamente da King, il quale ha dato il suo contributo ad altrettanti brani sia in questo disco, e poi anche nella lunga carriera della band; volendo fare un parallelismo, la composizione di Hanneman è solitamente più alta come toni e cambi di tempo, con strutture complesse che si annodano fra loro, ed altrettanti inserimenti geniali durante l'esecuzione, mentre il corpulento chitarrista preferisce dedicarsi ad una parola sola, violenza. Ed in questo secondo slot si sente molto bene: il pezzo è una lunga corsa contro il tempo, inseguiti da un famelico diavolo che cerca di farci la pelle, ci sentiamo come la vittima di un omicidio che sta per avvenire, e le nostre gambe, seppur provate dalla corsa, continuano a muoversi inneggiando allo spirito di sopravvivenza. I cambi di tempo sono sostanzialmente aboliti in questo frangente, se non per le accelerate della batteria, che a giri regolari si ripresentano di fronte ai nostri occhi, colpendo duro il nostro viso e lasciando il segno. Anche gli assoli di chitarra qui sembrano aver abbandonato la band, andando a foraggiare quella parte più estrema della musica Metal di cui gli Slayer sono stati ispiratori, innovatori e precursori al tempo stesso. La conferma di tutto ciò deriva dall'ascolto dei due minuti che compongono questa traccia; se ci fosse un cantato in growl o in scream, sembrerebbe sicuramente si ascoltare un brano Thrash/Death Metal senza troppi orpelli o ricami, solo la sagace e devastante energia della combo chitarre/batteria che fende l'aria e taglia le note con lame d'acciaio. Finiamo la corsa con il fiatone ed una gran voglia di metterci in cerchio con i nostri degni compari e scatenare l'inferno durante i live; nel tempo questo pezzo è diventato un classico della band, immancabile in molte setlist, e ad ogni nuova esecuzione, sotto allo stage un mare di corpi si accapigliano fra loro, mani al cielo e pugni alzati, calci e spintoni che volano, in una enorme orgia di sangue e distruzione. Prima di lasciarci andare definitivamente, gli Slayer ci offrono un ultimo cambio di tempo significativo, accelerando nuovamente e dedicandoci un mid time di stampo classico, con giri di note sprezzanti e senza freni che vanno bruscamente a stopparsi con l'ultima parola pronunciata da Araya. Nuovamente ci ritroviamo fra le mani il tema della morte e dell'omicidio, stavolta visto dagli occhi di un altro amante degli efferati delitti; la vittima è di fronte a lui, è sua, niente può frapporsi fra questo e la realizzazione degli sprizzi di sangue che seguiranno. La lucida lama del coltello scintilla al buio, e la vittima inizia ad intuire quale sarà il suo destino; scopriamo anche che la vittima è una donna, legata e con le braccia penzoloni, con il suo aguzzino che prima abuserà di lei, e poi completerà la sua opera uccidendola. Il sangue nero nella notte macchierà la strada, mentre l'assassino proverà un piacere immenso nel violare la propria vittima (in ogni orifizio, parafrasando il testo) e poi piantandole un coltello nella carotide, lasciandola esanime. Lei non è niente per lui, solo un altro pezzo di carne di cui abusare e poi lasciarla lì, senza fiato e senza alcun respiro, un manichino da stuprare e sottomettere senza alcuna pietà, l'emblema di tutto ciò che egli ama, ma per il quale non prova alcun sentimento. Il piacere nell'infliggere dolore altrui è come una droga, ogni volta ne hai più bisogno, come un tossico in cerca di una dose, ed allora non ti rimane che gettarti in strada in cerca della tua prossima preda. Profetico e geniale l'ultimo rigo del pezzo, in cui con un sonoro "Dio è morto, io Sono vivo" si va a chiudere, andando ancor di più a saggiare l'odio e la crudeltà del protagonista, le cui mani sono appena macchiate di sangue, colano sulla strada, mentre si trascina al suo prossimo compito.
Fictional Reality
Prodotto interamente dalla mente di Kerry è invece il prossimo brano (il precedente aveva il testo firmato da Tom), intitolato Fictional Reality (Finzione di Realtà): si apre nuovamente con un ossessivo giro di chitarre, cui fa eco la batteria, che ormai non sembra averne mai abbastanza di correre e pestare come una dannata ogni volta che gli viene chiesto. Al giro di stampo Thrash classico fa poi seguito l'entrata di Araya, che stavolta sceglie un inizio nettamente più pulito di quanto ascoltato prima, ma non per questo meno aggressivo. L'andante del brano è cadenzato e ritmico fin dalle sue prime battute, con i riff che vengono letteralmente tirati per i capelli al fine di mantenere l'ascoltatore saldo sulla propria sedia, con la testa spaccata in due per la potenza generata. In questo pezzo vediamo ancor meglio l'estro compositivo di King (anche se forse riusciremo nuovamente e con maggiori dettagli a capirlo nel brano successivo), la cui forza e nerboruta energia risiedono nella capacità di produrre ritmi e riff senza alcun ritegno, ogni tanto sorvolati da qualche assolo, ma maggiormente concentrati sul dare sfogo alla parte più estrema del Thrash Metal, quella che guarda non tanto al Metal, quando alle sue radici Hardcore. Aggiungete a tutto questo un batterista come Bostaph, i cui precisi e devastanti colpi donano quel sapore di apocalisse a tutto il disco, ed otterrete una canzone il cui unico obbiettivo è stenderci e lasciarci esanimi a terra. Sulla ripetizione di alcune parole, che vengono cantate in fila ognuna più incisiva dell'altra, il pezzo deflagra letteralmente nella nostra testa, grazie ad un riff portante di ingenti proporzioni, che forse non brilla molto per composizione, ma sicuramente splende come un diamante per quanto riguarda il carico di odio e cattiveria che viene sprigionata. Ci ritroviamo nuovamente non tanto a correre, ma a camminare in una landa desolata, funestata da venti impervi e da una vera e propria tempesta che si sta scatenando alle nostre spalle, mentre il pezzo prosegue la sua corsa alternando ritmi decisamente più dissonanti, ad altrettanti in cui l'energia mono-nota del gruppo viene supportata dalle pelli e dal cantato di Tom, che qui da sfogo nuovamente alla sua diabolica cattiveria. Con la ripetizione del titolo, scandito ad ogni lettera, abbiamo l'assolo, un saliscendi veloce e lisergico sul manico della chitarra, condito da alcuni effetti dietro ai quali troviamo il drum kit a fare da contraccolpo, rendendo il tutto decisamente più incisivo. Il solo si allunga, protende le sue braccia verso di noi come se volesse afferrarci, ed una volta finito torniamo in medias res all'interno del pezzo, risentendo nuovamente il giro iniziale con le chitarre in prima linea e la voce che si erge su un sanguinolento piedistallo guardandoci torva. Poco prima dei due minuti invece abbiamo un brusco abbassamento dei toni, la musica si fa oscura e ricolma di pathos, come se fosse pronta ad esplodere; le chitarre si legano fra loro producendo un andamento lento e ritmico, mentre la batteria vortica su sé stessa, concentrandosi principalmente sui piatti del proprio set. Le chitarre accennano vaghi sentori di ruggito, battendo sulla barra del tremolo ed improvvisando alcuni inizi di assolo, mentre Paul dietro si da alla pazza gioia scatenando tutto il suo estro, dando ancor più forza alle sei corde, che continuano imperterrite ad accennare una calma apparente prima della sicura tempesta in cui ci ritroveremo. Tempesta che arriva grazie ad un cambio tempo proprio della chitarra, che si stanca si rimanere sul wah e sul tremolo, ed inizia ad intonare un altro riff mortale ricolo di dissacrazione, aiutato dalle pelli che segnalano un altro cambio di andamento con una rullata. A seguito di ciò il brano ci trasporta verso il proprio finale grazie ad una costruzione nuovamente dai toni che sfociano nel Doom, pur rimanendo saldamente ancorati alle proprie radici Thrash, la voce di Araya torna a spron battuto sulla scena, vomitandoci addosso le ultime righe di testo, mentre i due axeman si scambiano una serie granitica di colpi con i propri strumenti, accelerando improvvisamente il tempo e facendoci tornare a correre. La tempesta ormai si è scatenata, il tono del cantato si alza all'inverosimile, la composizione esplode e si torna nuovamente all'aggressivo ritornello, ripetendo il titolo del brano e ricollegandosi all'altro assolo del pezzo, veloce e tecnico, giocando molto sugli effetti. Ci aspetteremo un altro cambio, ed invece è proprio sull'assolo che il pezzo si conclude, stoppandosi brutalmente e facendoci riprendere un attimo fiato. Si parla qui di governi fittizi, di quelle persone, che King definisce "spazzini" che arrivano e coprono tutte le malefatte eseguite, propinando alla gente quel che in realtà vogliono sentirsi dire. Una silenziosa e devastante denuncia al malgoverno, non solo americano, ma anche europeo (abbiamo una citazione al socialismo, nella prima parte di testo). A quelle persone che vogliono gettare fango e fumo negli occhi della società, facendo vedere il mondo come un bel posto, mentre invece sotto la cenere covano distruzione e caos. I governanti che preferiscono soggiogare il mondo invece che salvarlo, che vorrebbero vederlo esplodere senza mai far accorgere la popolazione di ciò che sta accadendo. Un tema questo molto caro al Thrash, che qui viene affrontato con nonchalance e con innata cattiveria, scagliandosi senza remore contro tutti coloro che stanno facendo del mondo l'orribile posto che tutti noi conosciamo. I ciechi guidano altri ciechi ci dicono gli Slayer, in un mondo nel quale la distruzione e la mistificazione sono all'ordine del giorno; l'unica soluzione è alzarsi e combattere, prendere di petto queste menzogne e far sì che le stesse persone che hanno cercato di nasconderci la verità, periscano di fronte ai nostri occhi, così che questa finzione di realtà che ci hanno fatto mettere dinnanzi al viso, sparisca per sempre facendoci vedere il mondo per quel che è veramente.
Dittohead
Prossimo brano in scaletta è un'altra composizione totalmente proveniente dalla mente di King, e divenuta negli anni un altro pilastro della discografia Slayer, parliamo di Dittohead (Dittohead): un altro giro di chitarra velocissimo, pieno di odio e distruzione, ci apre al pezzo. Qui superiamo di poco i due minuti, ennesima testimonianza di quanto Kerry preferisca di gran lunga a scale e composizioni complesse, una sana e devastante infusione di energia malefica che esce direttamente dalla sua sei corde. La voce di Arya qui entra praticamente subito, le parole vengono pronunciate a velocità impressionante, mentre dietro Paul alle sue pelli scatena letteralmente l'inferno nella nostra stanza di ascolto, facendoci saltare per aria. Il pezzo decolla da subito e si assesta su un andante veloce e dissacrante, con le due chitarre in prima linea e la voce a fare da contrappeso, seguite a ruota dalla batteria e dal basso, che fino ad ora avevamo citato solo all'inizio, ma che non manca mai di farci sentire la sua possanza sul palco. I cambi di tempo in questo frangente si sprecano, i colpi alla grancassa ed ai piatti continuano senza sosta a martellarci la testa, mentre Tom prosegue nella sua spiegazione e nelle liriche scandendo le parole con un alto numero di giri nel motore; siamo a bordo di una infernale macchina cromata, fra fiamme e fumo, andiamo sull'autostrada della perdizione con il gas tirato a manetta, schiacciamo l'acceleratore con tutta la forza che abbiamo, e per quanto in parte ci mancano le composizioni di Jeff, se volete scatenare la vostra folta chioma e le vostre corna, questo è uno di quei brani in cui il pogo parte quasi in automatico. Cirle pit come se non ci fosse un domani mentre le acerrime note degli Slayer si continuano a contorcere su loro stesse, grazie ai cambi di sonorità veloci e senza freno, un'unica catena le cui maglie si legano l'una all'altra grazie al modus dello stop and go sempre con grande forza. Poco prima del primo minuto un brusco stop ci fa piombare dallo Speed/Thrash al Thrash con alcune influenze quasi Groove nella sua resa, ed anche Araya decide di abbassare leggermente la velocità della sua lingua, iniziando a scandire le parole più lentamente. Nel frattempo Paul, Kerry e Jeff producono un cadenzato acido e pieno di rocciosa forza, andando in su ed in giù come su una immaginaria scala, specialmente la batteria di Bostaph. Blocco del brano in cui le chiome fluenti, se prima erano quasi impazzite, adesso si muovono in maniera decisamente più sinuosa, andando a formare una specie di enorme mare sotto al palco, con le corna al cielo e le borchie lucide illuminate dai fari della ribalta. Nonostante il cadenzato però, quel calice ricolmo di violenza si sente, e ci costringe a bere dal suo bordo ad ogni occasione; infatti, non appena finito il momento lento, abbiamo un enorme solo di chitarra, dal sapore classico e dalle ritmiche decise ed aggressive, cui poi fa capolino nuovamente l'andante ritmico, con il ritorno in campo della voce ed il trasporto verso l'esplosione finale. Prima di lasciarci definitivamente andare, abbiamo un altro solo che in maniera iperveloce ci trascina allo stop ultimo, eseguito da King, che si concentra su una combo di tapping e power chords a cascata, piovono note letteralmente sulla nostra testa, ed il caos ormai ci ha contagiato. Gli ultimi trenta secondi di pezzo sono occupati prima dal solo sopra citato, e poi dal ritorno al ritmo che ha aperto il pezzo stesso, veloce e senza freni, il cantato torna a scandire le parole a gran velocità, prima che un muro di cemento freni finalmente la canzone senza dissolvenza, solo stop e via. Il pezzo, anzi, il titolo, è il soprannome dedicato a coloro che nel 1994 ascoltavano il programma radiofonico di Rush Limbaugh, noto conduttore radio e personaggio assai controverso. La sua natura solitamente polemica, e le sue prese di posizione spesso discutibili su stupro, donne, ambiente e religione (soprattutto a causa del suo fondamentalismo cristiano molto forte), gli hanno valso un eterogeno dissenso nella cultura americana, anche se molti invece apprezzavano il suo modo di fare e di porsi così fuori dagli schemi. La canzone sostanzialmente è un attacco a prese di potere e posizione così forti e così troppo fuori dai canoni classici del vivere civile; siamo in un mondo nel quale l'informazione è letteralmente diventata un'arma, ed il caos mediatico fa sì che chiunque possa manipolare e piegare il fato al proprio volere, influenzando i pensieri della gente, come nel caso del nostro Rush. Il conduttore era un uomo dalle salde convinzioni, che si scagliava contro tutto e contro tutti, ma come dice King nelle liriche, nel 1994 amiamo la violenza, le cose sono cambiate, ed ora è il momento di finirla. Basta gettarci fumo negli occhi per piegarci al tuo pensiero, niente e nessuno può permettersi di farlo, e tutti i vari dittoheads che seguono il tuo programma, dovranno fare la stessa fine. Sono tutti schiavi sociali, impelagati e costretti nella rete della menzogna, una rete che però si può tagliare volendo, basta solo avere la volontà e la forza di poterlo fare. Venne anche girato un videoclip per promuovere questa canzone, che si scaglia non solo contro il conduttore, ma anche contro il governo americano, che viene tacciato di proteggere i criminali invece che rinchiuderli dove dovrebbero stare. Dittohead negli anni si è rivelata come una delle perle contenute in Divine Intervention, anche se personalmente preferisco ben altre tracce del disco (come Sex, Murder, ma sono opinioni).
Divine Intervention
La premiata ditta Hanneman/King torna invece nella traccia successiva, title track dell'album, Divine Intervention (Intervento Divino). Essa si apre con un corposo riff di chitarra dal sapore Groove o Thrash del tardo periodo, pieno di cadenzato e di ritmica, con l'ossessiva ripetizione e saliscendi della scala cromatica dello strumento. Un inizio che lascia il tempo che trova, ma che si rivela comunque essere vincente per introdurre una canzone, creando quel necessario tappeto che in molte canzoni degli Slayer, ma anche nel Thrash in generale, serve per prepararsi all'apocalisse. I giri di chitarra coadiuvati dai piatti di Bostaph si fanno ancor più incisivi, andando a foraggiare nuovamente quella parte Hardcore del Thrash, ma abbassando nettamente i toni e coprendo il tutto con un manto colore della notte; l'idea che questo disco sia forse il più oscuro mai prodotto dalla band, non è tanto dissimile dalla realtà dei fatti, e quando trarremo le nostre conclusioni a fine disco, probabilmente riprenderemo il discorso proprio da questo punto. Le chitarre continuano ad annodarsi su loro stesse, proseguendo la loro funerea corsa di morte ed il tutto senza la voce, ma solo con l'ausilio delle pelli e del basso, che imperterrito fornisce il ritmo dietro a tutto il caos che si sta scatenando. Stop and go segnalato da alcuni "ciaf" sui piatti, sordi e repentini, ed il brano cambia leggermente forma, ripetendo si nuovamente un ritmo, ma stavolta decisamente più elettrico del secondo, pur rimanendo in quella accezione "doomica" che sembra dominare la prima parte della title track. A questo segue un altro ritmo molto particolare, quasi Industrial, con meccaniche e suoni che sembrano provenire letteralmente da una fabbrica, il tutto prima di uno stacco più melodico, e la conseguente entrata della voce di Araya, più in forma che mai. Il cantato torna ad essere alto e squillante nel suo tono così cavernoso, il ritmo incalzante del pezzo, cui merito va al giovane Paul dietro alle pelli, prosegue tranquillamente la sua corsa, iniziando a prenderci a pugni. Araya monda e gonfia il pezzo su una base caotica ed aggressiva, prima di lasciare spazio al primo solo, che quasi assomiglia ad un riffing di stampo classico. L'esecuzione prevede l'ennesimo annodarsi sul manico della chitarra e l'utilizzo del wah, anche se stavolta si tende leggermente più a strappare letteralmente le corde dalla propria sede, protraendo l'assolo il più possibile; nonostante venga allungato, l'assolo dura ben poco, e quasi subito la funesta voce di Tom ritorna sulla scena, stavolta aiutata da alcuni giri di batteria davvero estremi, possenti e veloci, concentrandosi in primis sui piatti e sulla doppia cassa, con trigger e blast che si sprecano ad ogni nuovo ingresso. Nonostante il pezzo sia il più lungo di tutto l'album, e quindi una struttura in cui ci si aspettano variazioni a non finire, il blocco centrale consta del medesimo ritmo ripetuto all'ossessione, per permettere ad Araya di ringhiare con forza le proprie liriche (cui ha partecipato alla stesura assieme a tutta la band, essendo Tom uno degli autori della maggior parte dei testi del gruppo) e furentemente morderci come un cane rabbioso. A questo segue una delle poche variazioni presenti sul pezzo; un altro stop and go permette alle chitarre di abbandonare il cacofonico ritmo sentito fino ad ora, e concentrarsi su di un Thrash rythm di ingenti proporzioni, classico e devastante (in cui si sente meglio l'impronta di Hanneman col suo carico di sapienza nel mettere in piedi le fondamenta delle canzoni), rullate di batteria ed il secondo assolo arriva a spararci nelle tempie, stavolta più tecnico del primo, ed anche più lungo, riuscendo anche a districarsi fra le due chitarre, separate da un brusco passaggio in cui letteralmente si passano le note l'un l'altra. Dopo ciò torna l'andante quasi industrial/melodico, su cui stavolta viene montato anche un altro piccolo riffing, ed in cui Araya prima si cimenta in un parlato più che cantato, pulito e recitativo, e poi fa esplodere il pezzo tornando ad urlare a squarciagola per la parte finale. E' abbastanza tipico negli Slayer trovare una struttura del genere, con una enorme detonazione che porta allo stop ultimo del brano, come se la band volesse prima batterci la mano sulla testa, e poi assestarci un sonoro pugno sui denti, di quelli che fanno saltare gli incisivi. L'ultimo minuto del pezzo è dominato dal caos, con la band che inserisce non tanto la quinta, quanto piuttosto la marcia della distruzione, ed inizia a farci a pezzi la cassa toracica a suon di accetta e note; i riffing si fanno via via sempre più cattivi e marci, la voce ormai urla come se non ci fosse un domani, ed i tonfi sordi della batteria fanno da contorno a tutto questo, donando quel sapore di fine del mondo che i fan conoscono molto bene. Abbiamo anche spazio per un ultimo assolo, Speed nella sua resa e molto tecnico, cui fa eco nuovamente la parte pseudo melodica, anzi, nell'ultima parte di brano i due elementi quasi si combinano assieme, e per la prima volta dall'inizio del disco, abbiamo la comparsa della dissolvenza che va piano piano a sfumare il suono, fino al silenzio. Il brano apparentemente parla di un inferno, o dell'Inferno vero e proprio se volete, ma ritengo più corretto definire Divine come il racconto di una vittima del Purgatorio. Egli si risveglia in un posto che è come l'inferno (parafrasando le sue stesse parole), ma inferno non è, eppure il tormento alle sue carni è continuo ed esasperante. E' legato, mani e piedi, dio sta trafiggendo la sua anima. E' l'immagine principe del Purgatorio dantesco, con le vittime che ancora non hanno espiato tutti i loro peccati, e che aspettano soltanto il palesarsi di Dio, raggiungere l'ultima cornice della montagna per ascendere. Nessuno sfugge al volere divino, nessuno, e se i peccati commessi sono tanti, allora la tua carne dovrà venire flagellata dall'inizio finché il peccato non sarà completamente sanato. La vittima non vede, dice di soffrire perché non riesce a vedere in faccia Dio; nel Purgatorio le vittime, i purgati, sono vicine alla luce divina, ma non riescono mai a vederla del tutto, possono solo rimirarla dal basso, compresi quelli più vicini al paradiso. L'anima straziata di questa incauta vittima lo fa riflettere sulla propria esistenza, e chiede, dato che il dolore è così straziante, che gli vengano cavati addirittura gli occhi, così da non poter vedere quel che gli stanno facendo. Un tema misticheggiante dunque, che si scosta da quel satanismo/occulto che aveva permeato molte canzoni nei dischi precedenti; qui abbiamo critica sociale, religione, mistificazione, odio e regressione, temi molto più "terreni" e vicini a noi, il tutto sempre affrontato con la maggior cattiveria possibile.
Circle Of Beliefs
Giro di boa dell'album e troviamo Circle Of Beliefs (Circolo delle Credenze); stavolta voce e chitarra entrano fin dal primo millisecondo, iniziando a martellarci la testa con una ossessiva combo delle due parti, veloce e granitica, che ci spacca il cranio in due. Il tono di Araya torna ad essere dannatamente urlato, e ci entra nella mente a velocità supersonica, mentre la sei corde intona anche un piccolo solo poco dopo l'inizio del brano, solo che va a scrollare di dosso per un attimo le meccaniche Hardcore, a favore di un fraseggio tipicamente Metal e old school. Altra opera totalmente firmata da King, questa traccia è l'ennesima corsa contro il tempo, con quel ritmo così trascinante e lisergico che ci fa muovere la testa a ritmo fin da subito. Una volta concluso il primo solo, la traccia spicca nuovamente il volo verso la più completa violenza, con un andamento ritmico ed incessante, i tupa tupa della batteria si alternano a fraseggi di chitarra rocciosi e carichi di quel viscerale odio che ormai conosciamo bene, finché un cambio di tempo non sposta il brano su qualcosa di decisamente più tecnico e cadenzato al tempo stesso. Si ha infatti un andante nettamente più Thrash di quanto ascoltato fino ad ora, ed una costruzione che mette in risalto tanto i piatti di Bostaph, quanto le due asce da guerra, che continuano a cozzare fra loro e sprigionare fiamme da ogni parte. Rullata di batteria che segnala la fine del momento, ed il brano ripercorre il tema sentito prima, stavolta aggiungendo anche un altro riffing, mentre la calda ed arrabbiata voce di Araya ci ringhia contro e sbavando dalla bocca ci guarda con occhi di bragia, quella cattiveria intrinseca nella voce e nel tono del frontman degli Slayer è passata alla storia, e noi non possiamo far altro che stare lì e prenderle di santa ragione. Il castello di note principe del brano viene spinto oltre con l'aggiunta di alcuni cambi nella sezione centrale, piccoli ricami sempre di grossa caratura che altro non fanno che aumentare l'hype e la gioia dei fan, portandoli ad una immensa orgia di acredine verso tutto e tutti. Ennesimo assolo poco prima dei due minuti, un poderoso saliscendi sul manico veloce e pieno di power chords, prima di ripiombare in un ritmo dai toni forsennati e Speed, con la batteria che stavolta non si dedica a trigger e blast, ma piuttosto ad un accompagnamento forzato e ricolmo di sprezzante energia, mentre la voce imposta un effetto e quasi ci sembra di ascoltare una radio, mentre l'inferno attorno continua a scatenarsi. Siamo neanche a due minuti e mezzo, e già i cambi di andamento si sono sprecati, ma non è ancora finita; forse questo è uno dei brani in cui King ha messo la maggior parte delle cose che ha imparato dai suoi colleghi, sia negli Slayer che fuori. Abbiamo infatti si quel tipico sound dei brani composti dal barbuto axeman della band, con quel ritmo serrato e ripetuto, estremo e cattivo, ma stavolta anche dei discreti fraseggi di chitarra e batteria, unendo fra loro influenze diverse, dall'Hardcore al Thrash, allo Speed per esempio, passando anche per qualche piccolo sprazzo di Metal classico. L'andamento del blocco che ci trasporta al finale è pressoché identico, con un main riff ripetuto costantemente, su cui si appoggia la voce di Araya, che nel frattempo detta anche una parte del tempo col suo basso. Paul nel frattempo ha ormai deciso che qui picchiare duro non serve, e decide di inanellare una serie di combo una dietro l'altra, andando ad assestarsi sulle proprie ispirazioni primarie, la cara vecchia scuola che per molti brani di questo disco aveva abbandonato. E' l'esordio per questo giovane drummer, eppure le carte in tavola ci sono tutte; niente toglie a Lombardo il primato e l'importanza del suo estro, ma anche il buon Paul, forte dell'esperienza Forbidden, sa che cosa sta facendo. Precisione, pulizia e cattiveria sono le sue armi vincenti, e le sfrutta al massimo tutte e tre. A tre minuti e trenta circa, dopo una serie di rullate delle pelli seguite dal basso e dalla chitarra ritmica, abbiamo l'ultimo solo del pezzo; solo che si annoda letteralmente su sé stesso per sparaci in faccia la propria forza, con una serie di pennate e note che si incatenano fra loro, il tutto a velocità inaudita. Arriviamo alla fine del brano risentendo il tema che ci ha aperto al pezzo stesso, condito dalle ultime variazioni e dall'improvvisazione di Paul; le liriche vengono urlate per l'ultima volta mentre dietro si sta scatenando l'inverosimile, con l'intero comparto strumentale che si alza e si abbassa facendo tremare la terra, poi brusco stop nuovamente ed è la fine. Credere in qualcosa è sempre un'arma vincente, ma bisogna vedere in cosa si crede; in questo caso la band si scaglia furentemente contro coloro che credono nel falso, che additano chi non crede come sbagliato, e che pensano che un enorme potere divino stia sopra le nostre teste. Non c'è niente di peggio che anelare la morte, perché si pensa che dopo di essa ci sia la salvezza, questo il messaggio della canzone, unito anche ad una enorme dissacrazione delle convinzioni religiose e sociali che albergano nella mente di tali individui. Chiunque può credere in qualcosa, altrimenti si è come gli ignavi di dantesca memoria, ma credere in ciò che non possiamo vedere, toccare e parlarci, soprattutto avere risposte concrete, è una scelta sbagliata. Segreti che non vengono rivelati, e se rivelati mai mantenuti, bocche tappate al fine di nascondere la verità, corpi sgraziati che si ergono sopra tutto per saggiare quale sia la verità reale del mondo, ma gli occhi con cui stanno guardando non solo quelli che servono, sono falsi, senza speranza. Tutti devono prendere coscienza di questo, e capire che ciò che stanno affrontando e seguendo è sbagliato, pire cinerarie verranno erette per bruciare questi eretici del mondo, a meno che non riescano a vedere il mondo coi giusti occhi. La traccia è stata eseguita dal vivo una volta sola, durante il tour del 1995.
SS-3
Un deciso colpo ai piatti seguito da un altro ritmo che sembra provenire dal più polveroso dei cimiteri, ci apre a SS-3. Quella che forse è la canzone più controversa del disco ed anche della carriera degli Slayer, si apre con questo ossessivo riff dai toni cupi ed infernali, in tinta col proprio argomento (un eccidio). Composta da Hanneman e King, il pezzo prosegue la sua corsa andando a ripetere più o meno lo stesso schema per i primi venti secondi, annodandosi e girando su sé stesso, finché Bostaph non da il la al brano con alcuni cronometrici colpi al proprio set, ed è allora che la traccia spicca il proprio infernale volo. Grazie ad un alternate picking di forte impatto e di grande energia, a cui ogni tanto fa eco la chitarra ritmica, il pezzo incede anche con la voce di Tom, che stavolta sceglie di cantare in maniera molto cadenzata, almeno in questa prima parte; nel frattempo dietro il pennato alternato che abbiamo sentito si trasforma in un main riff di ingenti proporzioni, con l'intero comparto ritmico che inizia a saltare da un capo all'altro, tremando sotto i nostri piedi e spaccando tutto con la potenza del loro sound. Il prosieguo del pezzo, che per il momento preferisce mettere da parte l'estro a favore della violenza senza quartiere, è più o meno lo stesso che abbiamo sentito in partenza, salvo qualche piccola variazione che principalmente è legata alla velocità. Nel frattempo Araya continua la propria arringa, scandendo ogni singola parola ed andando ad inserirsi pesantemente nel nostro padiglione auricolare, urlandoci dentro e facendoci scuotere dalle viscere; variazione importante arriva verso i due minuti circa, nel quale, mantenendo lo stesso ritmo principe che ormai perdura dall'inizio del pezzo, Bostaph da alcuni sfoggi di abilità rullando poderosamente sui piatti, e lavorando molto con la sua doppia cassa. Un brano che certo non verrà ricordato per la sua composizione lisergica e piena di elementi, ma molti fan ritengono questa una delle migliori tracce del disco, ed effettivamente, se si ama l'ossessione, la ripetizione continua ed incessante come in una lotta all'ultimo sangue, condito tutto da una sana e pesante spolverata di male, allora SS-3 è il pezzo che fa per voi. Poco dopo le rullate di Paul, abbiamo il primo cambio di tempo davvero significativo, che consta di una improvvisa accelerata che ci risveglia dal torpore malefico in cui ci eravamo assopiti fino ad ora, e ci riporta in mezzo alla mischia a combattere con spada e scudo. Nel frattempo le due chitarre inanellano combo legandole fra loro con filo spinato, sangue esce dai nostri denti mentre affrontiamo questo scontro, eppure gli Slayer paiono non averne abbastanza, e ce ne danno ancora. Mitragliate continue dalle sei corde fin quasi prima dei tre minuti, dove una delle due chitarre sforna un solo davvero encomiabile, veloce e ritmico, tecnico e sagace, allentando e stringendo le sue spire mellifluamente sul corpo della chitarra, grazie a passaggi veloci e repentini, senza freno, anche se tutto continua ad avere quel sapore di buio. Ed il secondo assolo, dopo una serie di blast e power chords delle chitarre, arriva poco dopo, ed è un'altra infusione di Thrash Metal come si deve, veloce e senza alcun ritegno, che va ad aprire la nostra testa in due fino a farne uscire tutto il contenuto. Il brano va a chiudersi nell'ultimo minuto grazie alla protrazione del solo coadiuvato dalla batteria, e poi dal ritorno del main theme che permette ad Araya di ringhiare le ultime liriche del pezzo, scatenando il caos attorno a sé col suo cantato così incisivo. Colpi e rullate di batteria alternati alle risposte della chitarra fanno da contralto per il gran finale, in cui esplode tutto quanto il set strumentale prima di un altro stop fermo e risoluto. Abbiamo parlato prima di quando Max Cavalera tacciò gli Slayer di essere di estrema destra proprio a causa di questo brano; non a caso infatti il testo racconta dell'eccidio di Lidice, una città vicino Praga. La popolazione aveva ucciso un ufficiale delle SS, commando armato e vero braccio del terrore nazista, nella fattispecie il gerarca si chiamava Reynhard Heydrich. La Gestapo si vendicò del piccolo villaggio nell'unico modo che conosceva, versando ancora più sangue di quanto avesse fatto la popolazione. L'intera città fu rasa al suolo e data alle fiamme, molte donne e bambini perirono durante questo efferato crimine di guerra; l'ordine di distruzione totale della città peraltro venne dato dal Fuhrer in persona a causa di uno sciocco errore. Un ragazzino decise di utilizzare l'operazione in corso come scusa per lasciare una ragazza con cui era fidanzato e che abitava, ma la lettera arrivò nelle mani sbagliate, in quelle del direttore tedesco della fabbrica in cui lavorava la ragazza. Questi la portò all'attenzione della Gestapo, che vide in Lidice il covo dei probabili assassini di Hitler stesso, il quale, sormontato dalla sua storica paranoia (specialmente nella seconda parte della Guerra Mondiale) ordinò la distruzione totale della città. Si contano in tutto 192 vittime (uomini sopra i 15 anni) che non vennero neanche bendati, ma dovettero raccogliere i corpi dei propri amici prima di essere fucilati loro stessi; in più vennero deportate 198 donne e 99 bambini, districate fra fabbriche e campi. Gli Slayer mettono in piedi lo scenario di chi deve aver vissuto quei momenti, facendoci vedere la cosa dal punto di vista dei tedeschi; la rabbia che montò dentro di loro alla notizia dell'uccisione di Reynhard, e la conseguente rappresaglia, furono il motivo di tanta efferatezza (che comunque non giustifica il fatto, sia chiaro).Ora, possiamo aprire un dibattito lungo quanto il mondo sui toni molto aspri e cinici con i quali la band affronta l'argomento (come era accaduto per Angel Of Death), ma per come la vede chi vi scrive, l'unico modo per affrontare certe scelleratezze, è sbatterci la testa contro in modo violento. Ed è proprio questo secondo me che la band ha voluto fare qui; mettere in piedi una enorme suite violenta e acida per farci quasi sentire la sensazione provata dalle vittime, e l'odio senza ritegno di chi ha messo in atto questa opera di sangue. Non sono critiche nuove alla famiglia degli Slayer, ma la band se ne è sempre fregata abbastanza, andando spesso a difendersi contro certe accuse con la consapevolezza di non aver fatto niente di sbagliato, anzi, di essere nella ragione più assoluta.
Serenity In Murder
Prossima ed ottava traccia del disco è l'unico singolo estratto (cui vi rimando alla recensione completa), la velocissima e dissacrante Serenity In Murder (Serenità nell'Omicidio). Un altro brano- shot del disco, dalla durata di poco più di due minuti, si apre con uno Speed/Thrash riff di grandi proporzioni, e portato avanti tanto dalle chitarre, quanto dalla batteria di Paul. L'accelerazione è grave e pesante fin dalle prime battute, e come era accaduto per Sex, Murder, ci troviamo a correre nuovamente come forsennati, inseguiti da non si sa bene quale demone, forse quello che campeggia sulla copertina. Il riff portante si continua a protrarre finché l'energia è a disposizione, e credetemi, gli Slayer in questo frangente ne hanno da vendere. L'andamento del pezzo prosegue alla massima velocità possibile inframezzando il tutto con alcuni colpi ai piatti della batteria, che successivamente segnalano anche il primo cambio tempo e l'ingresso della voce, che stavolta sceglie di operare un cantato molto frusciante e oscuro, quasi recitato più che ritmato con la canzone in sottofondo. Mentre Araya continua la sua arringa di dolore, il pezzo monda e gonfia il proprio petto, finché ad un cambio di vocalizzo operato da Tom, che ritorna allo stile che conosciamo bene, il pezzo non ci spara dritto nei denti un primo assolo, lungo e dissonante, con note acide che vengono legate fra loro da altrettanti fraseggi ed effetti, senza alcun ritegno o limite. L'assolo viene allungato all'inverosimile, con dietro la chitarra ritmica e la batteria che parallelamente reggono la base solida del brano intonandone il main theme; tutto questo fino ad un piccolo stop segnalato dalle pelli, e poi il prosieguo dell'assolo continua la sua folle corsa, senza la voce a fare da contrappeso. Voce che rientra poco dopo, con quel solito cantato/recitato non appena il riffing riprende la sua classica corsa sulle corde; appena Araya riaccenna all'urlo, la canzone riesplode nuovamente, ed alla fine, su una velocissima rullata di batteria da parte di Bostaph, abbiamo il secondo solo di Hanneman (autore del brano assieme a King) stavolta decisamente più tecnico e sagace; pennate alternate si legano ad alcuni hammer on e tapping qui e là, andando a rialimentare quella fiamma old school che nella scuola degli Slayer non è mai morta del tutto, neanche nei dischi successivi a questo. Mancano pochi secondi alla fine del brano, ed ecco che la band sfodera la sua ultima arma vincente; la classica esplosione preceduta da un piccolo stop, nel quale l'intera suite deflagra per l'ultima volta prima dell'imminente silenzio. Un bell'intermezzo insieme a tanta oscurità che permea questo disco, la band, come era accaduto qualche traccia fa, mette per un attimo neanche la quinta, ma la sesta marcia, e ci costringe ad un mosh serrato e teste che volano qui e là, nella più enorme e completa violenza musicale che si possa pensare. Il tema è quello già sentito in Sex, Art ed in altri pezzi; la voglia di uccidere. Stavolta siamo nuovamente dalla parte del carnefice, che con cristallina e paurosa trasparenza parla alla propria vittima, dicendole che cosa le farà. Verrà lavato con un'onda rossa, dice lui, il suo sangue macchierà la sua carne quando la lama affonderà nella pelle, e niente potrà più salvarlo. Niente si può mettere in mezzo, sono solo loro due, e la smodata voglia di uccidere di uno dei due, che con vacui occhi di desiderio omicida guarda la preda come una tigre fa con un pezzo di carne, ansioso di azzannare ed affondare i denti in quel morbido e succoso pasto. Egli vuole che la vittima esali l'ultimo respiro guardandolo negli occhi, mentre l'assassino vede piano piano la vita abbandonare il suo corpo, e gli occhi spegnersi man mano che l'anima ascende all'inferno in cui lo sta spedendo. Ma se l'inferno, o il pensiero di esso, gli sembra molto e devastante, quel che gli sta per accadere sarà molto, molto peggio, glielo giura mentre la lama dell'arma brilla nel buio, scintillando alla luna, già coperta del sangue di precedenti vittime.
213
Penultimo brano in scaletta è un altro dei più controversi dell'album, e nuovamente per la natura e l'ispirazione delle sue liriche, parliamo di 213. Si apre con un intro assai melodico, in cui la chitarra di Hanneman intona un piccolo ed articolato riffing sulla propria chitarra, preannunciando la venuta dell'inferno, che siamo sicuri ci aspetta al varco. L'intro così particolare e mai sentito in questo disco prima di ora, viene coadiuvato ogni tanto da alcuni colpi di batteria, prima che si aggiunga anche la chitarra ritmica, che invece per fare da contrappeso inizia ad intonare un energico e roccioso riff portante, mentre dietro la melodia continua. Rullate di batteria aprono poi al cadenzato principe del pezzo, sempre nei toni della notte e del buio, così che si riesca meglio a percepire la grande cattiveria e male che gli Slayer hanno voluto infondere ad ogni traccia dell'album, compresa questa. Il riffing continua la propria lemme corsa sul filo della morte finché a poco meno di un minuto e trenta non abbiamo una piccola ripresa, con l'introduzione di un tema nettamente elettrico, che però va subito a spegnersi lasciando il posto ad un altro andante funereo e Doom, cadenzato e ricolmo di energia oscura, ci sembra quasi di sentire un brano che potrebbe tranquillamente capitare in un disco dei Candlemass, tanta è l'energia così particolare ed atipica per gli Slayer che sentiamo in questa prima parte di pezzo. Siamo però ancora completamente certi che ad un certo punto la canzone esploderà nelle nostre orecchie, devastando ogni pensiero avuto fino a quel momento; ed ecco che infatti non appena superiamo i due minuti la voce di Araya ci ricorda che siamo in un album firmato dagli Slayer, il brano decolla finalmente e ci troviamo in una enorme battaglia, stavolta non a gran velocità, ma sicuramente in mezzo al sangue. La traccia prosegue andando avanti col nuovo ritmo, Bostaph dietro le pelli, che fino ad ora era rimasto quasi in disparte, prende saldamente le bacchette fra le mani e pesta come un fabbro sui tom e sulla doppia cassa, alternando ogni tanto tutto questo ad alcune veloci passate sui piatti, con colpi obliqui e piatti, ma di grande impatto. Tom nel frattempo sceglie il suo classico stile urlato anche per questo nono slot, ed inizia a raccontarci la sua storia di terrore, mentre King ed Hanneman cozzano i loro strumenti senza alcun freno, passandosi i riff l'un con l'altro. Un unico cambio tempo alberga nella sezione centrale, ma più che di un cambio si tratta sostanzialmente di un diverso registro della batteria, che prende e se ne va in solitaria per alcuni secondi, prima di tuonare nuovamente nel main theme che ci ha aperto la sezione principale del brano dopo l'intro. Verso i tre minuti e trenta, su un poderoso "Die!" di Araya tirato per i capelli, il brano torna per un attimo al tema iniziale, ma stavolta anche con l'aiuto della voce, che decisamente sceglie un cantato più pulito e meno urlato, in linea con le note suonate. Tutto ciò ci sta per portare al blocco finale del pezzo, nel quale la band prima sfodera un lungo e lemme assolo, articolato e comunque molto oscuro nella sua resa, mentre dietro il comparto ritmico affonda gli ultimi colpi, e poi, con il nuovo ingresso della voce, abbiamo la sezione finale, nel quale alcuni giri concentrici della strumentazione guidati da Tom che intona le ultime frasi con enorme forza distruttiva, ci traghettano fino allo stop ultimo. Il 1994 non è stato solo un anno particolare per la musica, per tutti i discorsi fatti in apertura, ma è stato anche l'anno nel quale è stato giustiziato uno dei più efferati serial killer della storia USA, Jeffrey Dahmer. Il "Cannibale di Milwaukee" come amava essere definito, è stato protagonista di una lunga scia di sangue fra il 1978 ed il 1991, arrivando ad un totale di diciassette omicidi. Quel che sconvolse l'opinione pubblica non fu tanto il numero delle vittime, molto alto ma superato da altrettanti killer nella storia, quanto per le dinamiche accessorie del modus operandi di Jeffrey. Egli abusava delle proprie vittime una volta morte, consumava la loro carne, staccava alcune parti e le portava a casa come souvenir (una cosa simile a quella di Ed Gein, l'ispiratore di Non Aprite quella Porta). In più collezionava letteralmente corpi smembrati delle proprie vittime (che sono poi stati ricomprati alla modica cifra di mezzo milione di dollari per distruggerli definitivamente), e molto molto altro. Catturato e processato nel 1992, doveva essere giustiziato due anni dopo tramite iniezione letale, ma non arrivò mai sul tavolo dell'esecuzione, venne ucciso da un suo compagno di cella schizofrenico, che lo colpì prima alla gola, lasciandolo quasi morto, e poi, dopo il suo ritorno in carcere, con un bilanciere trafugato dalla palestra; il cervello venne asportato durante l'autopsia per studi scientifici. Gli Slayer mettono in piedi l'ennesima suite dedicata a questo killer, senza mai prendere posizioni concrete pro o contro, ma trasformando la vita vera del killer in un enorme film horror. Vengono raccontate le scellerate efferatezze di Dahmer, viste e narrate in prima persona da lui stesso (213 è il numero della stanza in cui abitava Jeffrey, ed in cui compiva i propri crimini). Si riesce a percepire la follia dilagante del soggetto, che in mezzo a tutto quel sangue provava un'eccitazione morbosa che faceva paura; amava uccidere, amava squarciare la pelle delle sue vittime e cibarsi dei loro corpi, amava soprattutto avere rapporti sessuali con loro una volta che avevano esalato l'ultimo respiro, quando ancora erano calde. Brano assai controverso, ma che alla fine rispecchia perfettamente quella che può essere l'interpretazione psicologica di una così enorme macchina per uccidere, ti fa mettere nei suoi panni, e capire ancor meglio cosa passava (o non passava) in quella malata mente.
Mind Control
Il compito di chiudere questa enorme e buia suite è affidato a Mind Control (Controllo Mentale); scritto da Hanneman e King, con testo di Araya, questa ultima traccia prende vita con un veloce ed intricato riffing delle due chitarre, che danno subito una enorme spinta al pezzo facendolo decollare. La voce di Tom entra quasi subito per iniziare a dare le sue sprezzanti sferzate di energia, mentre al contempo Paul, Kerry e Jeff annodano i propri strumenti passandosi le note a velocità inaudita, sprezzanti del pericolo e senza alcun ritegno. L'ultima traccia va a chiudere quella sezione di "shot slot" iniziata con Sex, Murder, proseguita con SS-3 e così via; un'alternanza di brani lenti e ritmici a shot di distruzione come questo, in cui la parola d'ordine è solo fare del male fisico, prendere a pugni chi sta ascoltando il brano, e trascinare il suo corpo in una enorme mischia rissosa. La strada del pezzo è scritta nel caos, ed infatti mentre Araya continua a fomentare la violenza con i suoi urli, la band dietro scatena altrettanto inferno per darci l'ultima scudisciata sulla schiena prima di lasciarci andare definitivamente. Il primo assolo arriva poco prima del minuto, ed è un solo bello ramificato, con note che vengono annodate fra loro a gran velocità, facendo anche un largo uso del tremolo e degli effetti, strappando quasi le corde. Mentre il solo viene eseguito, dietro il main theme non accenna ad andarsene, e la band continua ad intonarlo senza sosta, non sono stanchi, come non è stanco il pubblico di sentirsi prendere a ceffoni da questi individui. Un enorme saliscendi mentre Bostaph rulla poderoso sui piatti fa ritornare in auge la voce per l'ennesima deflagrazione, stavolta ritmica ed al tempo stesso veloce, seguita poi da un altro pregevole assolo che da quella nuova linfa al brano, solo eseguito sempre con precisione cronometrica. Influenzatori dell'estremo, in questo ultimo pezzo la loro scuola si sente assai bene; l'ossessiva ripetizione di quei ritmi così incisivi sarà poi la nave scuola per altrettante formazioni che vorranno darsi alla musica più cattiva che ci sia, dal Death al Black, passando per Grindcore e tutti gli altri, le basi sono qui, e nonostante fosse il 1994, nuovamente gli Slayer avevano qualcosa da insegnare agli estremisti del Metal. Prima di lasciarci andare e dello stop finale, la band alza per l'ultima volta la bandiera della velocità e si scatena nelle nostre orecchie proponendoci un giro dopo l'altro, collimando il tutto con una combinazione di power riffs e trigger da parte di Paul, che trasportano l'ascoltatore allo stop, il quale come sempre arriva all'improvviso. Come si può evincere dal titolo, la canzone narra di quando qualcuno prende il controllo della tua mente, ed inizia a farci ciò che vuole; come accadeva per il pezzo sul conduttore radiofonico, gli Slayer si scagliano violentemente e senza ritegno su coloro che vorrebbero prendere il controllo della nostra testa, ed iniziare a giocarci a loro piacimento. Una volta che il controllo è attivato, niente lo può fermare; diventiamo esseri non più senzienti, ma schiavi della logica di qualcun altro, che come un improbabile burattinaio tira le fila della nostra vita. Eppure non c'è bisogno della fantascienza per immaginare il controllo mentale, basti pensare a quanta gente si fa influenzare dalle parole degli altri; spesso anche una sola persona con la massima convinzione e con il grande potere dialettico, magari approfittando della debolezza di uno, o più persone, può portarle dalla sua parte e fargli fare quel che vuole lui. Molte dittature sono nate così, così come molti crimini sono stati compiuti da persone che erano solo gusci vuoti ormai, stipati di malsane idee inculcate da qualcun altro. Una degna conclusione d'album questa, un leggendario disco che verrà ricordato negli annali, in cui ogni traccia trova la sua esatta collocazione, senza alcun problema, ed in cui le sbavature sono davvero poche, per cercarle si deve riflettere profondamente.
Conclusioni
Per molti questo è il vero "canto del cigno" degli Slayer; c'è chi sostiene che dopo questo album la band si sia auto riciclata all'inverosimile, fino alla scomparsa di Jeff e la conseguente nuova formazione che ha ripreso in mano le redini della band. Sicuramente è l'ultimo disco forse in cui possiamo sentire il caldo suono che la band aveva agli inizi della carriera, eppure al contempo, è un album strano, quasi atipico per questa formazione. Va da sé che gli Slayer, se si va ben a vedere, non hanno mai fatto un album uguale all'altro, sia chiaro, ma in questo caso, dopo una enorme suite quale era stata Season, la formazione statunitense decise per virare al buio. Quando molte righe fa abbiamo detto di avere un discorso da finire, beh, adesso è il momento; è sicuramente Divine Intervention uno degli album più oscuri e bui dell'intera discografia di Hanneman e soci. Ogni traccia è permeata di un manto di buio, ed è forse la diretta conseguenza di quanto abbiamo ascoltato in Abyss. Se in Season infatti il gruppo aveva ancora molto da dire sul piano del Thrash classico, e lo Slayer sound era ai massimi livelli di espressione, qui gli Slayer hanno deciso per un approccio nettamente più sperimentale, pur rimanendo ancorati al proprio credo principe. L'unico difetto che possiamo trovargli, ma più che un difetto è una scelta diversa, è la poca presenza di assoli ed articolazioni come il gruppo ci aveva abituato fino al disco precedente. Tuttavia, è superabile se si pensa alla enorme infusione di violenza e cattiveria che ogni dannata nota del disco contiene; dalla prima all'ultima traccia, Divine è un compendio del male, molto più di quanto accadrà anche in dischi successivi, come Diabolus, Christ o God Hates. Con questo Intervento Divino gli Slayer si sono definitivamente assicurati un posto nel pantheon del male e del Thrash. Se con il disco precedente infatti la band aveva finito di completare la propria pagina di storia, con questo disco (il cui merito più grande è essere così dannatamente old school pur essendo in un periodo di magra per il genere) la pagina è stata ulteriormente rafforzata. In più si respira anche in tutto l'album l'assoluta mancanza di voglia di scendere a compromessi che ha sempre contraddistinto la formazione; ciò che modificherà in parte il sound negli anni non sarà la voglia di vendere o fare un piacere al mercato discografico, tutt'altro, sarà semplicemente la voglia di sperimentare, ed anche qui, seppur in minor misura, permane la stessa regola. C'è penuria per il Thrash Metal? Chissenefrega, noi confezioniamo un disco in cui si, abbassiamo leggermente i toni e rendiamo il tutto più Doom/Groove, ma alla base c'è sempre quel diamantato caprone col pentacolo che ci ha fatto conoscere nel 1982, e che non accenna ad andarsene ancora. Dunque, se siete fan storici del gruppo, beh, non ho detto niente di nuovo, gli Slayer sono una delle poche realtà in cui il fan non è solo fan, è letteralmente cultore della band. Gli Slayer non hanno generato solo un tipo di musica, contribuito ad innovazioni ecc ecc, hanno di fatto dato vita ad un vero e proprio culto. Se invece siete appena arrivati su queste coste musicali, beh, una volta che vi siete recuperati gli album precedenti, sparatevi in vena anche questo Divine Intervention, non ne rimarrete delusi: entrerete in un mondo fatto di dissacrazione, serial killer, omicidi, horror, violenza e depravazione, il cocktail sostanziale di ogni "mondo sotto al mondo" che si rispetti, e gli Slayer sono qua per portarlo a galla ogni volta che possono.
2) Sex, Murder, Art
3) Fictional Reality
4) Dittohead
5) Divine Intervention
6) Circle Of Beliefs
7) SS-3
8) Serenity In Murder
9) 213
10) Mind Control