SIX FEET UNDER

Graveyard Classics IV: The Number of the Priest

2016 - Metal Blade Records

A CURA DI
PAOLO FERRANTE
08/03/2017
TEMPO DI LETTURA:
3

Introduzione recensione

I Six Feet Under, la creatura di Chris Barnes, porta avanti un tradizione iniziata anni or sono, rilasciando "Graveyard Classics IV: The Number of the Priest" nel 2016 tramite la Metal Blade Records. Era il 2000 quando abbiamo iniziato a disprezzare (decisamente!) questa iniziativa che, per quanto mal riuscita, era stata comunque in grado di scatenare o meglio sdoganare definitivamente questo fenomeno del Death'n'Roll (ad onor del vero "iniziato" in precedenza grazie a dischi come "Wolverine Blues" degli svedesi Entombed) successivamente divenuto il tratto distintivo degli stessi Six Feet Under. Ripercorrendo brevemente questa tragica epopea, a dieci anni di distanza (nel 2010 quindi) dalla pubblicazione del primo volume targato "Graveyard.." si era già al terzo episodio che, pur non essendo niente di speciale, aveva mostrato dei lati positivi rivelandosi non male, dopotutto. Anche in questa occasione, come succede circa ogni cinque anni, ci troviamo dunque a parlare di un nuovo Graveyard Classics. Sappiamo bene che "Crypt of the Devil" (2015) è stato il primo album dei Six Feet Under ad avere come unico membro ufficiale Chris Barnes; questo avviene anche col presente album, oggi disquisito. Un progetto che dunque assume da due anni a questa parte i tratti di una vera e propria one man band, coinvolgendo nella compagine dei classici "turnisti di lusso". Vediamo allora chi sono i musicisti coinvolti a titolo di ospiti: abbiamo Ray Suhy alla chitarra ed al basso, Josh Hall alla batteria (entrambi fanno parte dei Cannabis Corpse), poi una collaborazione con Ray Alder, storica voce dei Fates Warning, per quel che concerne dei cori nel quarto brano. Si consideri che i musicisti provvedono autonomamente alla registrazione delle proprie parti, e che lo stesso Chris Barnes fa parte del team di produttori assieme a Philip Kyle Hall dei Municipal Waste (ed anche fondatore dei Cannabis Corpse); ne ricaviamo, da tutto ciò, che questo lavoro sa di "fatto in casa", anche se i mezzi che i nostri utilizzano sono certamente di prim'ordine rispetto a quelli utilizzabili da progetti one man band ben più underground o comunque di risonanza assai minore rispetto a quella scatenabile dai Six Feet Under. Il missaggio ed il mastering sono stati realizzati, probabilmente a basso costo, da contatti che si sono prestati giusto perché si trattava pur sempre di un nome grosso pubblicato da un'etichetta grossa, stesso dicasi per la grafica realizzata da Brian Ames, un designer della Metal Blade Records che, onestamente, non si è sforzato poi tanto: sfondo nero, 666 con texture metallizzata, logo della band e titolo con dei colori e dei caratteri tipici degli Iron Maiden. La stessa (scarna) grafica appare nell'edizione in digipak e nell'edizione limitata a 200 copie in vinile. Del resto in una compilation di cover non è poi così importante la grafica, che dopotutto ottiene il risultato che si prefigge: perché se già non fosse stato così chiaro, il riferimento agli Iron Maiden già fatto nel titolo (è la prima volta che si aggiunge una frase ulteriore nella serie "graveyard classics") ci pensano i riconoscibili caratteri ad urlare Iron Maiden agli occhi. Oltre al titolo anche la texture metallica del 666 è un riferimento ai Judas Priest, poiché si dà il caso che metà delle cover (la prima metà per giunta) contenuta in questo album consista proprio in un lotto di brani degli inossidabili Judas Priest, mentre l'altra metà attinge (come già detto) dal repertorio dei colossali Iron Maiden. Insomma ci troviamo di fronte ad una compilation che cita due icone del Heavy Metal britannico. Un nuovo Graveyard.. monotematico dunque, che rispetta l'andatura "altalenante" di ogni capitolo della saga. Il primo, lo ricordiamo, fu un enorme miscellaneo di classici del Metal e del Rock; il secondo fu una riedizione di "Back In Black" degli AC/DC; il terzo optò per un nuovo "minestrone" di band; ed eccoci dunque al quarto, il quale ci propone un focalizzarsi su due gruppi fra i più amati di sempre (o forse, i più amati di sempre) della storia dell'Heavy. Un nuovo tributo ad un mondo ben definito, il quale serve a conciliare fra di loro due realtà spesso messe in contrasto. Non dai membri dei gruppi, ci mancherebbe; bensì dai fan, spesso e volentieri  "in guerra" per quel che riguarda la maggiore importanza degli Irons o dei Judas. E' bene notare il fatto che le due band non abbiano mai neanche lontanamente pensato di osteggiarsi, e di come la "divisione" sia sempre stata messa in piedi da fans troppo oltranzisti. Che Barnes abbia voluto definitivamente farci capire quanto entrambi i complessi siano, o meglio debbano tassativamente essere il pane quotidiano di ogni metal head, senza inutili polemiche? Probabile. Nel frattempo, dedichiamoci alla consueta analisi track by track del nuovo disco in questione.

Night Crawler

Iniziamo con "Night Crawler (Colui che striscia nella notte)", che include anche un rifacimento dell'inizio melodico originale più una parte di chitarra classica, poi la squillante chitarra distorta fa il suo ingresso e già a questo punto ci rendiamo conto che il sound è meno brillante di quello dell'originale, nonostante quei 27 anni circa di differenza che separano le due produzioni. Appena si sente la voce ogni dubbio svanisce: siamo dinnanzi ad una vera e propria porcheria. Senza contare il fatto che, ancora una volta, il distacco tra voce e strumento è davvero tanto, quindi si innesca quella odiosa sensazione da karaoke demenziale, c'è da dire che le melodie che Barnes cerca di fare col growl non rispettano l'originale e, peggio ancora, gli interventi vocali sono brevissimi e poco interpretano una vocalità sostenuta e potente come quella di Halford. La voce ha un volume talmente alto che, quando interviene, copre perfino la chitarra, il basso è bello pastoso e riscalda il suono, la batteria è secca e noiosa. La scelta del pezzo è azzeccata quantomeno per il testo, che parla di questo scenario di vento ululante, pioggia che scroscia, tutte le porte sono sbarrate, mentre ci sono degli esseri che strisciano nella città. Una in particolare, venuta dritta dall'inferno, striscia furtiva puntando la prossima vittima; non bisogna guardarsi alle spalle, ma semplicemente trovare riparo. Il ritornello è oggettivamente brutto, ascoltandolo la speranza è che finisca presto, gli inserti di chitarra sanno di amatoriale, il rullante è esageratamente alto rispetto al resto, specialmente i piatti che quasi scompaiono. Appena parte l'assolo la sensazione è che tutto sia ovattato, il suono non brilla, poi la parte più epica del pezzo in cui Halford sale sempre più di tonalità in un crescendo favoloso viene imbrattata da una vocalità strozzata di Barnes che, volendo peggiorare ancora più le cose, conclude con quel suo scream caratteristico (tanto odiato da una fetta di fan) che viene oltretutto registrato da cani perché va in distorsione. Un disastro! La notte si avvicina e con essa i mostri; nascoste nello scantinato, le persone non osano neppure respirare e si nascondono terrorizzate. Un urlo lacerante della creatura, come lo stridere delle unghie sui vetri delle finestre, invoca le sue vittime, l'atmosfera è elettrica mentre il mostro scende per le scale. La batteria si prende spazio nel rievocare il pezzo fedelmente, poi il momento atmosferico, un effetto vocale brutto continua a rovinare l'atmosfera mentre la chitarra in clean prosegue la rievocazione, poi si passa al growl, poco controllato e sguaiato. La voce di Barnes appare strozzata, fiacca, arriva l'assolo che viene deturpato da altri interventi di Barnes, il rullante è altissimo e guasta tutto.

Starbreaker

Il fatto che il prossimo pezzo ad essere rovinato sarà nientemeno che "Starbreaker (Distruttore di stelle)" tratto da "Sin After Sin" del lontano 1977 si accompagna alla triste e pesantissima consapevolezza che ci sono altri dieci pezzi da ascoltare. Un lotto di tracce che nel suo pessimo dipanarsi già comincia a farci sbuffare paurosamente dalla noia e dal fastidio. Si inizia col solo di batteria, la chitarra entra in gioco grintosa ed il basso si fa rispettare con un suono aggressivo ma non troppo sporco,m tutto sembra funzionare anche abbastanza bene, la voce sconta gli stessi problemi già descritti ma non sembra così malaccio, è nel ritornello che la voce però si spezza cercando di emulare la melodia originale, dando brutta mostra di sé. Il testo racconta di questo idolo, che chi è fortunato riesce a vedere una volta nella propria vita, che adesso sta girando per la città e tutte sperano che scelga loro, che le porti insieme a lui a vedere le stelle. Insomma delle tematiche classicissime, come ci si aspetta da un lavoro del '77, questo rubacuori incallito è in giro e tutte sperano che i suoi occhi si soffermino su di loro; possiamo immaginarcelo su un bolide rombante, capace di far vivere l'ebbrezza della velocità alla ragazza fortunata che sceglierà di portare con lui. Le plettrate lunghe funzionano bene con questi suoni più robusti, le stoppate hanno un bel groove ma è proprio la voce ad essere penosa: sembra che stia facendo una fatica enorme ed il risultato è patetico. Serie di assoli ci portano la melodia e ci fanno riposare le orecchie, la voce torna ad irrompere, parte ben piazzata ma si perde per strada, strozzandosi nel tentativo di mantenere la linea melodica, spezzando le parole alla fine, poi di nuovo un tentativo - fallito - di ritornello. Nel finale la batteria raddoppia sulla cassa, la voce insiste e si rinforza di un coro in scream, poi melodia di chitarra solista e finalmente il pezzo finisce. La struttura un po' più grezza di questo brano sembrava dare qualche speranza, all'inizio, che è stata prontamente delusa dalla voce.

Genocide

Purtroppo si prosegue, si cita un altro pezzo storico: "Genocide (Genocidio)" tratto da "Sad Wings of Destiny" (1976). La chitarra si propone sporca e potente, colpi di rullante e piatti, poi la cassa e quindi la voce che inizia a rovinare tutto con una vocalità strozzata, sfiatata, raramente riesce a prolungarsi bene e sembrare quasi interessante. Il volume della voce, eccessivo, copre il resto e continua a dare quella fastidiosa impressione di karaoke, se poteva risultare interessante e provocatorio venti anni fa, adesso la cosa lascia esterrefatti per quanto è ridicola. Il rullante è sicuro, le plettrate cadenzate e poi lo squillo apre una nuova fase, la batteria è sicura, gli interventi chitarristici regalano momenti di vibrante Rock, la voce sembra volersi farsi un attimo da parte ma la sezione strumentale non riesce a decollare. Stoppata e si riprende, con comodo, a pulsare sulla cassa mentre la chitarra ruggisce, la voce si sposta sul parlato (registrato male), dopo delle rullate si riprende. Ci sono questi battaglioni di mercenari che stanno portando morte e distruzione, non è il momento di pensare all'orgoglio: bisogna chiedere aiuto, cercare di salvarsi la vita e sottrarsi a questo genocidio. E' riuscito a sopportare peccato dopo peccato, eppure le ferite che porta sono state lasciate dall'amore. Ci sono degli zombie frenetici che aspettano solo il segnale prima di iniziare il massacro, le generazioni tremano di fronte a questo piano per sterminare la razza perfetta. Un carico eccessivo di effetti riesce a rovinare ulteriormente la voce, poi assoli di chitarra portano squilli vibrati, si riprende con la strofa che viene intervallata da interventi chitarristici in stile Hard Rock classico. Di nuovo il ritornello. Con delle lame affilate taglia a destra e sinistra, nessuno reagisce, sono tutti inermi; nessuno sopravvivrà, stanno tutti a terra con la testa tra le gambe in attesa della loro fine, l'estinzione, perfino la loro anima sarà ridotta in polvere. Il finale veloce è interessante, la voce si prende più libertà e crea dei momenti vagamente Brutal, poi assolo melodico e rombante, la batteria mantiene il ritmo e quindi si arriva alla conclusione; poteva andare peggio!

Invader

Adesso si passa ad "Invader (Invasore)", anche questo pezzo è stato pescato da un album storico, "Stained Class" (1978). Viene replicata l'introduzione, dandogli anche un sound nostalgico, poi i colpi di basso iniziano il pezzo che riprende in toto l'originale. La voce si presenta ancora sfiatata, strozzata, ma in una tonalità più alta, nella strofa arranca e nel ritornello peggio: si inceppa spesso, è una sofferenza ascoltare una roba del genere! Ancora lo stesso volume di voce sproporzionato, ancora lo stesso piattume strumentale che esegue scolasticamente il brano senza interpretarlo ma limitandosi ad offrire una pallida copia, da karaoke. Il testo parla di guerra, mentre si aggira per il campo fumante, il pulsare del terreno sotto i colpi dell'artiglieria pesante e poi l'abbagliante flash, però per un attimo gli è sembrato di scorgere un movimento sospetto; si trattava infatti di un invasore, che si aggira furtivo pronto a pugnalarlo alle spalle! Questo era solo il primo di una serie di attacchi sapientemente pianificati, devono prepararsi una difesa, devono stabilire una linea di fronte, chiamare a raccolta tutti gli alleati, devono restare uniti per affrontare questa minaccia. La chitarra squilla, la voce continua a rovinare tutto, di nuovo il ritornello strozzato ma il peggio sta per arrivare: ebbene è proprio questo il brano che si avvale della collaborazione vocale di Ray Alder. Dopo una stoppata entra in gioco una fase particolarmente melodica alla chitarra, Alder canta la variante melodica/epica ma, ovviamente, Barnes ci canta sopra (con un volume che sovrasta quello dell'altro cantante che, facendo solo questa parte, avrebbe anche meritato di essere ascoltato), la demenzialità raggiunge l'apice, la bruttezza è spaventosa. Poi si parte con l'assolo squillante che si produce in una serie di evoluzioni veloci, lo stile Rock tradisce anche le origini Blues, si torna alla strofa. Di fronte a questa invasione ogni uomo deve fare la propria parte nella difesa, per i propri figli non può permettere che gli invasori prendano il controllo, combatteranno fino alla fine, non molleranno senza prima aver dato tutto quello che hanno. I loro radar notturni pattugliano il cielo e mettono uno scudo: gli invasori non riusciranno a toccare terra. Questo ultimo passaggio sembra un chiaro riferimento al ruolo, in difesa, tenuto dagli inglesi durante la guerra mondiale; un ruolo in cui la funzione del radar è stata decisiva.

Never Satisfied

Adesso, con questo ultimo brano tratto dai Judas Priest, voliamo ancora più indietro, fino agli esordi, per trovarvi "Never Satisfied (Mai soddisfatto)" da "Rocka Rolla" (1974). Lunga plettrata iniziale, tempo lento e poi colpi di rullante e cassa, groove classicissimo, arriva la voce e distrugge tutto: una porcheria infame, senza alcunché di utile. L'incedere lento del pezzo rende le cose più difficili a Barnes che, pur potendo restare in tonalità più basse, non riesce a prolungare abbastanza, pur provandoci. Variazioni melodiche di chitarra, proseguono in un ritmo molto tosto, monolitico, dando rilievo ad ogni passaggio. Si chiedono dove andare, i posti cambiano, le facce cambiano, deve pur esserci qualcosa nelle vicinanze; la vita è così strana, in continuo mutamento, quindi deve esserci un posto nuovo per loro, ma non lo trovano. Sempre la solita vita, questo potrebbe essere il loro ultimo spettacolo ma non rinunceranno mai ai loro sogni, non cambieranno vita per adeguarsi. Le chitarre e la batteria con un piglio Stoner proseguono la marcia, la voce arranca, si marca il "mai" poi si ripete che non saranno mai soddisfatti, quindi ci pensa l'assolo di chitarra, veloce, con delle variazioni tecniche ed un graffiato rombante, ancora evoluzioni con scale ascendenti e poi melodie vibrate nel discendere. La chitarra graffia e poi si assesta in un nuovo riff lento, la batteria fa il suo per accentuare il ritmo nei punti salienti, altra strofa come prima: non sono mai soddisfatti, l'amore ed il divertimento se ne sono andati ormai, quindi non resta altro da fare che mettere mano alla pistola e mettere fine ad una vita che non fa per loro, che non ha più nulla da dare; perché questi irriducibili non hanno intenzione di cambiare, non saranno mai soddisfatti di quello che hanno, vogliono di più! Nel finale una celebre parentesi strumentale che rallenta sempre di più e si sporca nella chiusura, ci pensa Barnes a rovinare anche questo con quello scream soffocato. Giunti alla prima metà di questo album l'unico aspetto positivo che si può trovare è che mancano solo sei pezzi alla fine.

Murders in the Rue Morgue

Passiamo quindi al lato dedicato agli Iron Maiden, iniziando con "Murders in the Rue Morgue (Omicidi in Via Obitorio)", estratto da "Killers" (1981). Si inizia con un arpeggio in clean accompagnato dal basso, anche in questo caso non cambia una virgola rispetto al brano originale, crescendo di ritmo e quindi le chitarre si fanno melodiche, stoppate ed acuti, evoluzioni quasi epiche. Altra stoppata e stacco di batteria quindi irrompe la voce che immediatamente cancella ogni cosa che fanno gli strumenti. Va chiarito che, in velocità, il growl di Barnes non risulta disastroso (è solo un po' affaticato e si inceppa facilmente) però il volume altissimo dato alla voce nasconde il lavoro della chitarra che praticamente, mentre c'è la voce, non si sente più. Ritmi incalzanti e velocità, altre stoppate e stacchi alla batteria. Il ricordo rimane chiaro come il giorno, anche se si riferisce ad un fatto accaduto in piena notte: stava girando per le strade di Parigi, faceva freddo e stava per piovere, quando improvvisamente sente un urlo. A quel punto si affretta a raggiungere il luogo del crimine per trovarvi i resti macellati di due ragazze, quel che restava dei loro corpi faceva pensare che fossero disposte una accanto all'altra. Ci sono degli assassini, qualcuno chiami la Gendarmeria! La gente che accorre nel luogo del delitto e trova lui, però, inizia ad additarlo e vede in lui l'assassino, quindi viene inseguito e - preso dal panico - inizia a correre per sfuggire alla cattura. Doveva avere del sangue nelle mani, la gente gli gridava e lui, non parlando francese, non riusciva a capire quindi ha saputo solo scappare via; si dirige verso il confine con l'Italia, per sfuggire al braccio della legge. Il pezzo è vivace, incalzante, ad un certo punto inizia una specie di assolo in cui la voce continua a cantare - coprendolo - e si ripete ancora una volta l'assolo, quindi di nuovo la strofa che continua ad apparire alternandosi all'assolo con velocità, rendendo quindi l'idea dell'inseguimento. Finalmente è riuscito a raggiungere il confine con l'Italia ma, pur essendo sfuggito alla Gendarmeria, non riesce a togliersi dalla mente l'immagine della cruenta scena del delitto, ma non ha tempo per pensarci perché deve continuare a stare all'erta: lo cercano tutti i giorni e non può concedersi il minimo errore o sarà catturato. Fase strumentale con gli interventi solistici tipici degli Iron Maiden, squillanti e melodici, avvincenti, la batteria resta costante per dare una base solida sulla quale tessere questa trama. Ancora un ritornello e quindi si può concludere. Un pezzo che conferma tutti i problemi fino ad ora evidenziati.

Prowler

C'era da aspettarsela una citazione dell'album d'esordio, con l'opener "Prowler (Colui che si aggira)" la scelta è scontata. Plettrate sporche e cattive, poi la celeberrima melodia con le stoppate di batteria e basso, il momento diventa immediatamente epico... fino a quando non arriva la voce ad insozzare tutto. Una vocalità calante, ovattata, strozzata, stracarica di effetti e distorsione... una cloaca che mal si concilia con tutto il resto che paradossalmente cerca di riprendere in un modo più possibile autentico il brano originale. Il ritmo si accende e si ripropone, in tutta la demenza, la stessa pantomima ridicola che vuole un growl (per giunta male eseguito, registrato ed effettato) porsi sopra una parte strumentale fiacca e dal basso volume, che fa effetto karaoke. Si aggira per la città tutto tirato a lucido, fa proprio un bel figurone, al suo passaggio le ragazze mettono in mostra le loro gambe e le loro ciglia. Si può vedere mentre striscia per i cespugli, le ragazze non possono credere ai loro occhi: stanno vedendo roba di prima qualità. Insomma ci sono quelle allusioni a carattere sessuale che non potevano mancare all'inizio degli anni '80. La voce non riesce a rappresentare niente di tutto questo, si alterna alle chitarre ed è vistosamente fuori luogo in un modo che non ha niente a vedere con l'arte. Momento chitarristico e basso imponente, la parte strumentale si prende il suo tempo e poi si riparte con la devastazione, una furia tutta note frenetiche, acute e squillanti, un tripudio vivace e colorato; la batteria non fa mancare il pestaggio sulle pelli e quindi si procede, lui è un tipo che deve andare in giro per sentirsi vivo, passare da una parte all'altra e non stare mai fermo. Sul finale la voce si fa di un tamarro gretto, uno sfoggio fiero di ignoranza e cafonaggine senza eguali. La voce è carica di effetti esagerati, dà proprio fastidio sentire questo pezzo, è spiacevole oltre che inutile.

Flash of the Blade

Proseguiamo allora con "Flash of the Blade (Bagliore della lama)" che inizia con la celebre cavalcata alla chitarra, stacco e tempo, in un crescendo di intensità appena si inserisce il basso, il riff si prende tutto il tempo per stamparsi in mente e poi si inizia a sentire il growl che appare immediatamente fuori luogo. C'è da dire che, perlomeno all'inizio, tecnicamente la voce ci sta: sia per la velocità sia per il fatto che non è necessario un cambio di note particolare ma, alla prima variazione, si ripresentano tutti i problemi già descritti, in tutta la loro enormità. Altro pezzo rovinato, i passaggi strumentali sono dei momenti in cui possiamo riposarci nell'attesa di un altro intervento vocale che ci farà trattenere il fiato, nauseati. Il testo parla di un giovane, che immagina la propria battaglia contro il drago usando una spada di legno, immagina di essere San Giorgio; questo giovane è costretto a diventare grande, ad abbandonare tutti i suoi sogni di gloria, quando si ritrova la casa in fiamme ed i corpi dei familiari massacrati. Sta in un angolo, morirà così com'è vissuto: in un bagliore di lama. Tutta l'epicità è rovinata dalla voce che, specie nelle più acute, arranca e si sforza inutilmente, a volte incespicando sulle parole. Parte chitarristica ricca di melodie, quasi neoclassiche; un crescendo di intensità vuole evocare le gesta eroiche sognate dal giovane, con tutta l'amarezza di un presente che non è all'altezza di quelle aspettative. Stoppate improvvise e possenti, un passaggio chiaramente neoclassico in un intreccio di chitarre e ci ritroviamo al ritornello. Si torna a parlare di questo ragazzino che è vissuto sognando il bagliore dell'acciaio della lama che ha sempre collegato a gesta eroiche, cavalleresche, mentre adesso quell'oggetto ha portato la morte alla sua famiglia e si abbatterà presto su di lui. Insomma tutto il testo gioca su questa amara ironia, la vita stessa di quel ragazzino si può paragonare a quel breve ed intenso bagliore rifratto dalla lama. Per il resto, tornando a questo brano, non si può far altro che notare che questa cover fa schifo, più o meno come le altre.

The Evil That Men Do

Restiamo quasi in tema con "The Evil That Men Do (Il male che gli uomini commettono)", si evoca ancora l'immaginario della lama: questa volta la lama affilata è la linea sulla quale cammina. L'amore della ragazza con la quale ha giaciuto, il vederla con gli occhi rossi e priva di vita dopo aver testimoniato al massacro; gli manca, avrebbe dato tutto per lei. Quindi adesso vive bilanciandosi su questa lama d'argento, mantenendo l'equilibrio con fatica. Il pezzo inizia, come sappiamo, calmo con degli arpeggi ed una parte da ballad, i rintocchi di basso e batteria e poi inizia una cavalcata con un basso sopra le righe, che incalza. La voce è una porcheria infame che non rende affatto giustizia all'originale, al tema trattato ed - in generale - alla tecnica di canto. Si passa al ritornello, la voce ha un volume spropositato, la chitarra viene coperta, il basso pulsa solitario e la batteria sembra finta. La porcheria si aggrava considerando che ci sono due growl, sovraincisi (male) in coro e strapieni di effetti che sporcano. Per riuscire a ricreare la melodia vocale Barnes ricorre ad effetti ed ad una sovraincisione di voci... è straziante ascoltare una cosa del genere, non riesce ad essere interessante da nessun punto di vista. Il male che gli uomini commettono continua a vivere nel tempo, si tramanda, ci sono dei riferimenti mistici quando si parla del settimo agnello ucciso, del circolo di fuoco come battesimo di gioia che è arrivato alla conclusione, il libro della vita si spalanca di fronte a lui. Potrebbe tornare un giorno, quindi non dobbiamo piangere per lui, perché è oltre che lui apprenderà. Insomma in questa fase ci sono dei riferimenti mistici che, in qualche modo, cercano di risolvere l'enorme male che gli uomini sono capaci di compiere; a questo punto la preghiera, il trascendere, l'elevarsi ad un altro livello di comprensione, sono le uniche soluzioni per trovare pace. Queste sono tutte cose che è impossibile fare con riferimento a questo pezzo che, rimane brutto, e non dà pace neanche a volerlo sentire con tutto il controllo zen di cui possiamo essere capaci.

Stranger in a Strange Land

Passiamo ad un altro pezzo iconico degli Iron Maiden: "Stranger in a Strange Land (Straniero in una terra estranea)". Le aspettative sono chiaramente basse, dati i disastri compiuti negli altri brani. Anche questa volta la parte strumentale viene ripresa senza cambiare una nota, cercando di riprodurla in modo fedele, tutto questo va bene (anche se è inutile da qualsiasi punto di vista); la voce, che dovrebbe essere la novità e l'elemento principale, è anche quello più brutto. Il pezzo ha una chitarra che ruggisce e regala melodia, il basso cavalca possente, continua alternanza tra crescendo e decrescendo alla batteria. La voce è un insieme di errori: a partire dall'esecuzione ed a concludere con la post-produzione possiamo assistere ad una porcheria assoluta; una raccolta delle cose da non fare registrando un album. Ascolto fastidioso, inutile, pesante (nel senso della noia)... non si salva proprio niente. Nel testo c'è ancora quella vena epica che abbiamo assaggiato nei precedenti brani: un giovane pieno di speranze che lascia la casa e parte all'avventura. Inseguendo questi sogni perde tutto e non guadagna nulla: dopo tutto il viaggio e la sofferenza non trova alcun nuovo mondo, non trova questo mondo da sogno che si aspettava. Scruta l'orizzonte, giorno e notte, il suo spirito vaga ma in cerca di aiuto, vuole essere salvato, vorrebbe tornare a casa perché si sente come uno straniero in un mondo estraneo, una prigione di neve e ghiaccio senza attrattiva alcuna. La parte strumentale si svolge come da copione, la voce fa del suo meglio per rovinare il pezzo; chitarra e basso si producono in una struggente parte romantica. Il pezzo in sé è eseguito bene, senza alcun errore, in maniera anche fedele... tanto che - appunto - non ha senso; viene infangato da una vocalità che oltre ad essere male eseguita non c'azzecca niente. La permanenza in questo mondo estraneo ed ostile cambia irrimediabilmente il giovane speranzoso che era partito, lascia il suo segno in lui; un po' come l'ascolto di questo album che lascerà un marchio indelebile nell'ascoltatore e lo porterà a rivalutare cose che magari, fino a quel momento, avrebbe giudicato spazzatura. Se in altri pezzi c'era una componente più aggressiva, più sporca, è proprio nei brani come questo che puntano alla melodia, alla sensazione di epico, che la trovata di Barnes è più fuori luogo.

Total Eclipse

Siamo arrivati (finalmente!) all'ultimo brano: "Total Eclipse (Eclissi totale)"; che indescrivibile sensazione di sollievo e liberazione. Colpi di batteria, plettrate lunghe ed armonici alla chitarra, il basso si fa sentire con colpi secchi e vibrazioni in sottofondo. Si accelera il ritmo con un crescendo e quindi arriva quella porcata di voce, uno schifo senza ritegno che a metà tra growl e scream cerca di riprendere la melodia originale. Nella parte più cadenzata sembra quasi convincente, ma è un attimo, poi si torna agli infimi livelli generali. Il pezzo prosegue con la bruttezza cui ormai siamo abituati, quindi nemmeno scandalizza più di tanto, anche se stranamente in questo caso la voce non copre la chitarra, quindi almeno col volume ci hanno azzeccato in questo pezzo. Questa eclissi viene descritta come la vendetta della Natura nei confronti degli uomini che l'hanno deturpata, questi uomini così tanto impegnati nella loro infantile guerra reciproca andavano puniti e quindi - per ricordare loro quale sia la potenza vitale della natura - non c'era modo migliore che oscurare il sole. Tutti quanti, nel mondo, allora si fermano, col terrore negli occhi guardano l'orribile spettacolo del sole che viene oscurato e rimangono col fiato sospeso; un'ombra di oscurità si abbatte quindi sugli uomini che vengono colpiti come fossero mosche. Le plettrate sono decise e rombanti, il ritmo acceso e ben marcato. Tutti attendono, temono la fine. Inserti solistici alla chitarra con veloci evoluzioni melodiche. E' la fine, in milioni si disperano. Nel finale la melodia vocale è di una bruttezza straziante. Adesso gli uomini ricevono la loro punizione e sono finiti i tempi in cui guarderanno le cose dall'alto al basso, adesso coloro che sopravvivranno dovranno sopportare la tempesta imminente. Un altro brano inutile e fastidioso.

Conclusioni

Siamo giunti alle amare conclusioni / riflessioni da compiersi, arrivati alla conclusione definitiva di questo quarto lavoro della serie "Graveyard Classics". Una valutazione oggettiva di questo disco impone comunque di riconoscere quanto segue:  gli strumentisti sanno suonare, ed ogni musicista chiamato in causa ha senza dubbio mostrato delle indubbie qualità esecutive. Tutti hanno eseguito bene le loro parti, anche se (e qui giungiamo alle dolenti note) non si coglie il senso nell'eseguire pedissequamente un qualcosa senza un briciolo di interpretazione personale. A livello prettamente strumentale, dunque, un qualcosa di discreto. Punto a favore quanto incredibilmente debole al contempo. Memori di ciò che dicevamo pocanzi, ovvero sulla riproduzione pedissequa, si può concludere quanto segue, ovvero che il lavoro sia stato fatto tanto bene, quanto inutilmente. L'elemento che dovrebbe essere caratteristico e distintivo in questa raccolta di cover è proprio la voce di Barnes, è chiaro; inutile dire che Barnes è stato un disastro totale! A livello tecnico possiamo parlare tranquillamente di un growl strozzato, sfiatato, che stenta a riprendere le stesse melodie originali e che, nel provarci, si inceppa, mangia parole, è spesso calante, sforza troppo.. insomma, una lunga lista di problemi che sarebbe davvero superfluo stare ad elencare, tanto che le prove del nostro possono essere riassunte in tre semplici parole: ha fatto schifo. Senza contare il fatto che la voce è tutta farcita di effetti, i più disparati (ma anche disperati se si immaginano i tecnici impegnati a far suonare interessante un qualcosa che fa oggettivamente schifo). Di base abbiamo un lavoro che dal lato strumentale riprende completamente i pezzi originali, ma che dal lato vocale vorrebbe proporre gli stessi pezzi in una tecnica diversa; l'idea in sé non è male - specie se nasce con l'intento di promuovere e nobilitare una tecnica vocale spesso  avversata come il growl - ma non riesce nel suo intento, neanche lontanamente, per gli evidenti limiti tecnici di Barnes che semplicemente non ce la fa. Acquistare un lavoro del genere è un'operazione che potrebbero compiere tre categorie di persone: lo sbadato (quello che lo compra per sbaglio e poi, pentendosene amaramente, chiede a tutti gli amici se lo vogliono in regalo prima di buttarlo); il masochista (chi, volendo espiare delle colpe, nella piena consapevolezza della portata autoinflittiva di questo ascolto, vi si sottopone spontaneamente alla ricerca di quella sensazione di riscatto che gli deriverà dal supplizio cui si è sottoposto) o il benefattore (ovverossia colui che lo acquista proprio per evitare che venga acquistato da altri, di cui sopra, al fine di disfarsene lui stesso e quindi risparmiare ad altri l'inevitabile sofferenza). Un lavoro realizzato con mezzi quasi amatoriali, con una grafica tanto scialba quanto banale, con un contenuto che penosamente approfitta del richiamo di pilastri del Metal per ingenerare negli altri la speranza di ascoltare buona musica per poi deluderli con un proverbiale pacco (integrando quasi gli estremi della truffa). Di un lavoro del genere non si salva davvero niente ed il 3, nella valutazione, è giustificato dal fatto che comunque si tratta di persone che sanno suonare. Se nelle altre compilation della serie poteva esserci la scusante della goliardata, o del pretesto per farsi qualche risata, qui non risulta esserci davvero niente da ridere.

1) Night Crawler
2) Starbreaker
3) Genocide
4) Invader
5) Never Satisfied
6) Murders in the Rue Morgue
7) Prowler
8) Flash of the Blade
9) The Evil That Men Do
10) Stranger in a Strange Land
11) Total Eclipse
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