SACRAMENTUM
Thy Black Destiny
1999 - Century Media Records

EMANUELE RIVIERA
26/02/2016











Introduzione Recensione
Siamo così giunti, purtroppo, all'ultimo capitolo della breve epopea musicale degli svedesi Sacramentum, una band inizialmente dedita ad un melodic black metal originale, veloce ed altamente evocativo, e progressivamente spostatasi verso sonorità più marcatamente death, meno innovative ed audaci ma comunque affrontate con abilità tecnica non indifferente e con una smisurata perizia compositiva in fase di scrittura dei testi. Dopo la pubblicazione del loro secondo album, The Coming of Chaos, avvenuta nel settembre del 1997 la band affrontò un altro breve tour europeo con i compagni di etichetta Old Man's Child e Rotting Christ. Tra la fine del 1997 e la prima metà del successivo 1998 il gruppo realizzò, invece, alcune cover di gruppi storici dell'universo metal contenute in compilation uscite in quel periodo e che sarebbero state inserite in un album tributo, "Blood of The Ancients", già in cantiere per l'inizio di agosto del 1999 e che, sfortunatamente, la sopraggiunta interruzione di ogni attività discografica e live vanificò. Il gruppo dimostra ancora una volta di saperci fare e realizza tre splendide reinterpretazioni personali ed appassionate rispettivamente di Black Masses dei Mercyful Fate, The Curse /Antichrist dei Sepultura e, soprattutto, l'eccellente versione di 13 Candles dei Bathory che regge degnamente il confronto con la versione originale dell'immenso Quorthon. Grazie a questi piccoli ma significativi lavori i Sacramentum hanno un ulteriore modo di confrontarsi con altre realtà musicali in voga all'epoca e possono così percepire chiaramente quale tipo di piega stia prendendo il mercato discografico. La fine del millennio si avvicina e con esso aumentano le insicurezze ed i timori per un futuro incerto e quanto mai nebuloso. Fear Factory prima, (Demanufcture), e, ancor più ed ancor meglio, Strapping Young Lad poi, (City), hanno già aperto la via ad un universo dominato da umanoidi dotati di intelligenza artificiale e da cyber tecnologie sempre più complesse in cui l'individuo umano non sarà più la razza dominante, sopraffatto nella sua schizofrenia sempre più frenetica e nelle sue paranoie incontrollabili dalle menti superiori delle macchine, fredde e calcolatrici e sempre in grado di fornire una risposta asettica, priva di emozioni e di trasporto sentimentale. Il famigerato virus informatico ribattezzato millennium bug che avrebbe dovuto mandare in tilt i sistemi informatici di tutto il mondo allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 1999 contribuisce ad alimentare il panico e le preoccupazioni generali. Venti di crisi sociali ed economiche già aleggiano grandemente sul medio oriente ed il terrorismo internazionale bussa alla porta dell'occidente prendendo di mira le ambasciate statunitensi dislocate sul continente africano. Il modello di sviluppo basato sul consumismo selvaggio e sul consumo di petrolio illimitato comincia a scricchiolare dal suo interno, i nuovi ricchi del Mondo, (Russia e Cina in primis), si affacciano al millennio entrante con forza e decisione. La crescita demografica incontrollata in alcune zone del Pianeta fa prevedere un rapido e dalle conseguenze potenzialmente drammatiche esaurimento delle risorse a disposizione. Lo stesso scenario musicale vive, a cavallo del nuovo millennio, un momento di evoluzione radicale, minato nelle sue fondamenta di base da alcuni scossoni epocali, (cui peraltro i due album poc'anzi citati contribuirono non poco). Il death metal che era deflagrato così grandemente ad inizio anni novanta entrò in crisi nella seconda metà del decennio, il thrash di stampo ottantiano cominciò a sentire il peso dei propri anni e finì, nuovamente, in secondo piano, il black metal si cucì addosso un etichetta violenta, anticristiana ed omicida che prevaricò di gran lunga la componente musicale. Ecco allora in un simile contesto emergere nuovi elementi importanti. Il groove metal innanzitutto nato, agli inizi degli anni novanta, da una commistione di stili, quali ad esempio il thrash stesso da cui si differenzia per i ritmi meno incalzanti nelle sezioni di chitarra, il death metal specie nelle sfuriate di batteria in blast beat e, perfino, l'hardcore punk di fine anni '70 ulteriormente estremizzato dalle influenze grunge provenienti da Seattle, e portato al successo planetario da lavori ormai divenuti leggendari come Cowboys From Hell dei Pantera, Roots dei Sepultura e Burn My Eyes dei Machine Head. Inoltre i gruppi più audaci inserirono elementi futuristici quali tastiere elettroniche, campionamenti esasperati e rumori di sottofondo di città sempre in movimento, dominate dal caos e sempre meno a misura d'uomo. Sono tante le definizioni che vennero date a questa nuova corrente musicale, da industrial metal, a techno thrash fino a cyber metal con riferimento ai primi, coraggiosissimi, lavori dei canadesi Voivod. Dopo le prime due pubblicazioni sulla lunga distanza i Sacramentum si trovarono, sostanzialmente, di fronte ad un bivio: provare a seguire la nuova corrente che stava muovendo i primi passi e, forti di una preparazione tecnica non indifferente, proseguire nella sperimentazione audace e nella ricerca di suoni freschi ed originali tanto cara nella prima parte di carriera, muoversi cioè in direzione di quel technical death che ebbe quali padri fondatori gruppi del calibro di Atheist, Cynic, Nocturnus, (contemporaneamente in Polonia stavano emergendo pure i giovanissimi Decapitated), oppure, viceversa, continuare nella strada iniziata a partire dal secondo album di un progressivo avvicinamento ad un rassicurante e piuttosto canonico death metal, abbandonando definitivamente le atmosfere magiche ed oniriche del debutto discografico di tre anni prima. Il coraggio che ad inizio carriera non mancò ai nostri, (vedi la scelta di affidarsi a Dan Swano per l'ep Finis Malorum e per il primo full length, nonché la vivacità e la brillantezza dei testi di inizio carriera, così magicamente introspettivi e personali nei loro lineamenti umani più profondi ricamati su incantevoli paesaggi nordici), stavolta venne meno ed il gruppo, già peraltro sfiduciato ed in crisi di ispirazione, decise di optare per la seconda possibilità. Il loro terzo ed ultimo album, infatti, si caratterizzò per un death metal puro e standard nei suoi stilemi tipici, il marchio di fabbrica della precisione compositiva rimase immutato ma le atmosfere variarono definitivamente e lo scenario che la band preparò per il proprio commiato dal mondo della musica si riempì di odio, sentimenti anticristiani, guerre epocali, sofferenza e morte. Viene da chiedersi quale sarebbe stato il successivo ulteriore passo nella carriera discografica della band che partendo da un iniziale melodic black potente e furioso passò attraversò un death - thrash che rendeva omaggio ai classici del passato e finì su lidi prettamente death assimilabili a gruppi quali i Necrophobic o gli Unleashed. Forti di un contratto ancora in essere con la sempre più potente Century Media i Sacramentum restarono fedeli ai Los Angered Studio di Andy La Rocque per la registrazione del nuovo album che avvenne nel settembre del 1998 e decisero di chiamare il platter "Thy Black Destiny (Il tuo Nero Destino)" che riprende il titolo di una delle migliori tracce proposte nel precedente album. Anche in questo frangente specifico gruppo dimostra di essere arrivato al terzo full length abbastanza a corto di idee e di personalità. La line up venne, come precedentemente anticipato, arricchita dalla presenza stabile di Niclas "Pepa" Andersson, parallelamente anche chitarrista dei connazionali Lord Belial, il che era abbastanza inusuale per l'epoca in cui si preferiva ospitare altri musicisti attivi solo per uno o due brani al massimo. Una sorta di conflitto di interessi lo definiremmo oggi ma in ogni caso il talentuoso polistrumentista, (anche basso e voce per lui in carriera), giocò le sue carte con discrezione e riservatezza collaborando alla stesura di un gran numero di accordi chitarristici. Cambiò invece, ancora una volta, l'artista incaricato di realizzare l'artwork di copertina. Dopo l'immenso Necrolord dell'esordio ed attraverso l'affine Alf "The Haunting" Svensson il gruppo si affidò questa volta al tedesco Axel Hermann fidato realizzatore di cover per gli olandesi Asphyx e di cui si ricordano, tra le numerose altre, l'aggressiva copertina posta sulla prima stampa di Wolfheart dei portoghesi Moonspell e le epiche e muscolose figure di guerrieri rappresentate sui primi due album dei Runemagick, progetto parallelo prima e poi unico del nostro Nicklas Rudolfsson, una volta interrotta l'attività con i Sacramentum. Pure in questo caso è il colore rosso a dominare la scena, presentato questa volta in tonalità più intense grazie anche all'uso di pennellate più corpose e materiche. Il soggetto raffigurato presenta tra figure scheletriche, diaboliche, in primo piano che paiono volersi liberare dei lacci che le opprimono. I tre loschi individui sembrano essere stati condannati al rogo su una sorta di rudimentale patibolo mentre una decina di altri corpi giace a terra, inerme, divorata dalle fiamme. Sullo sfondo si apre, attraverso un tortuoso sentiero, una ampia vallata ormai in preda ad un rogo indomabile e maestoso. In definitiva un ottimo lavoro per l'artista tedesco, semplice nella sua drammaticità ed energico nelle sue colorazioni, il cui messaggio finale risulta fin troppo ovvio nella sua interpretazione: un destino nero, violento e intriso di odio attende l'umanità tutta che sarà costretta, a stretto giro di posta, ad imbracciare le armi e a glorificare la propria anima all'arte cruda e primitiva della guerra. L'album venne dato alle stampe il 20 gennaio del 1999 e presenta la tipica struttura di death metal: i canonici 40 minuti scarsi di musica sono spalmati in nove tracce tutte comprese tra i tre ed i cinque minuti più una breve intro di poco meno di sessanta secondi collocata ad inizio album. Anche i Sacramentum, (chi l'avrebbe mai detto solo tre anni prima), inserirono i cliché tipici del genere.

Iron Winds
Ad aprire il lotto, dunque, troviamo "Iron Winds (Venti di Ferro)" di appena 52 secondi ma per nulla priva di significati. Gli effetti della coppia chitarra - batteria sembrano voler emulare i suoni tragici e solenni di una marcia propiziatoria ad una guerra, il gruppo stesso sembra voler infondere forza e coraggio all' ascoltatore, è giunto il momento di calarsi in battaglia ed affrontare con ardimento il nemico in un duello corpo a corpo in cui uno solo uscirà vincitore. L'abile Niclas pesta i suoi tamburi evocando le sonorità medievali scandite dagli eserciti rivali pronti allo scontro finale. L'ascia di guerra è stata dissotterrata, il grido bellico dei Sacramentum si è liberato gagliardo ed orgoglioso nell'aria. Scomodiamo ancora una volta il Sommo poeta Alighieri e varchiamo la porta dell'inferno lasciando alle nostre spalle ogni speranza di salvezza, d'ora in poi siamo consapevoli di andare incontro a scenari tragici e furiosi. Il rimando in questo caso non può che ritrovarsi nelle narrazioni viking degli Amon Amarth che riportano ai combattimenti campali tra i primi cristiani giunti sulle coste della Scandinavia e le popolazioni pagane odaliste ivi residenti. Non la migliore intro mai sentita in ogni caso, tuttavia una apertura che presenta una certa dose di originalità e non degenera nel derivativo e rappresenta, inoltre, un preciso indizio rivelatore su quanto ci apprestiamo ad ascoltare.

The Manifestation
Il primo pezzo effettivo che il gruppo propone è "The Manifestation (La Manifestazione)": un concentrato di rabbia e violenza con al centro una sola tematica portante: la guerra decantata in tutte le sue nefandezze più bieche ed addirittura portata, in estrema ratio, all'uso di armi non convenzionali, nucleari per ottenere la distruzione assoluta e completa. I Sacramentum, in un contesto relativamente semplice e di facile lettura come quello qui descritto, offrono ancora una volta il meglio di loro stessi in fase di composizione lirica fondendo due parole in una partendo da un elemento fisso, il vento, al quale viene, di volta in volta, affiancato un altro termine. Ecco così nella prima porzione di brano susseguirsi in rapida successione warwind, ironwind, deathwind, ed ancora, poco più avanti, bloodwind, plaguewind e faminewind. Tutte queste espressioni coniate per l'occasione, (rispettivamente vento di guerra, vento di ferro, vento di morte, vento di sangue, vento di peste e vento di carestia), conferiscono un notevole senso di longevità alla canzone, un sinistro presagio delle insicurezze che l'incombente nuovo millennio porterà con sé. La gloria di Satana ci chiama a combattere, non dovremo più voltarci indietro bensì siamo invitati a manifestare, audaci e possenti, per la guerra eterna, per il sangue dell'uomo, per la nostra supremazia sui rivali e per l'esaltazione della morte di massa. Tutto sa di death metal fin da principio, il drumming è corposo e massiccio, le due chitarre si esibiscono in riff gagliardi ma decisamente standard. Solo la voce di Nisse trasuda ancora black metal, rimasta ancorata a quel discreto scream già presentato nel precedente lavoro ma non incisivo quanto quello proposto nel ep datato 1994. Di nuovo la seconda strofa gioca sapientemente con il termine vento al quale, questa volta, vengono abbinati in successione la battaglia, (battlewind), la furia, (furywind), il dolore, (painwind), il colore nero, (blackwind), l'odio, (hatewind), e l'assassinio (killingwind). Lo scenario però degrada ulteriormente perché cominciano a spirare anche venti di guerra nucleare, l'aria si impregna di odio razzismo e xenofobo, il nuovo millennio nero avrà la morte al suo fianco. Il passaggio di pregio a livello di chitarra si ha al minuto 02:25 quando una transizione più ragionata consente di rallentare un filo il ritmo conduttore e ci conduce al minuto 02:50 allorché, viceversa, la cadenza torna a farsi incalzante e serrata. In sottofondo avvertiamo il rumore degli aerei in volo pronti a recapitare al mittente il loro messaggio di morte e devastazione totale. Gli effetti sonori che percepiamo richiamano alla mente i colpi di potenti armi da fuoco automatiche e di esplosioni immani. La morte arriva dal cielo, su ruote, via mare o portata dal vento, lo stato di guerra è ormai globale, le bombe atomiche deflagrano ad ogni angolo. Al minuto 03.18 trova posto anche un breve assolo di chitarra che conclude degnamente questa prima deflagrante proposta musicale. Tutto sommato anche qui possiamo prolungare il precedente parallelo con la connazionale band guidata dal mastodontico Johan Hegg di cui peraltro il brano risulta essere la naturale evoluzione: al posto di asce vichinghe e spade arroventate i Sacramentum ci offrono la loro versione moderna della guerra totale, tra armi di precisione che non falliscono un colpo e bombe atomiche sganciate dal cielo dritte sul bersaglio prescelto che tutto inceneriscono e tutti sfigurano orrendamente, tra patimenti indicibili.

Shun The Light
Il successivo brano è "Shun The Light (Rifuggire le Luce)" che si apre con dei riff di chitarra piuttosto classici per il genere e non particolarmente intriganti, a mio parere. La situazione migliora dopo un minuto esatto, all'ingresso del coro centrale, dove le tonalità si fanno più decise e secche. La batteria, ad essere onesti, si limita a svolgere il suo diligente compito ma appare piuttosto limitata nella sua potenza di fuoco che tanto avevamo amato nei primi due lavori della band. E' allora ancora una volta il prodigioso Anders Brolycke ad innalzare a dismisura il livello qualitativo della canzone quando, al minuto 01:58, si esibisce in un virtuosismo tecnico di una trentina di secondi che cresce progressivamente di intensità fino al minuto 02:23 quando raggiunge il picco per pathos e coinvolgimento emotivo e che sicuramente farà la gioia di tutti i chitarristi esperti. Gli ultimi secondi di questa transizione sonora sono inoltre accompagnati da una batteria fattasi ora più tosta e trascinante. I ritmi cominciano a decrescere nuovamente a partire dal minuto 03:30 quando si inserisce l'ultimo, pregevole coro che completa la descrizione lirica. Questa si ricollega chiaramente al precedente album e descrive un futuro ormai prossimo dominato dal caos e dall'oscurità. I nostri sogni sono perduti irrimediabilmente, è la violenza a regnare incontrastata, il seme dell'odio e della faida personale è stato piantato da tempo e cresce ora rigoglioso e senza trovare ostacoli. Il tempo di pace è finito, l'animo dell'umanità è ricolmo di collera e all'orizzonte si intravvedono furiose battaglie da combattere per ottenere la vittoria. Consacriamo, dunque, le nostre spade al combattimento, issiamo, altresì, le anime alla gloria perenne. Il respiro dei draghi arde a morte sulle arene teatro di grandiosi scontri corpo a corpo. Per ottenere una nuova alba di gloria dovremo rifuggire la luce e consacrarci al trionfo, dovremo assistere allo sbriciolamento dell'orizzonte e alla rovina immane di ogni cosa. In un cielo colorato dal sangue versato copiosamente salutiamo la venuta della morte infernale che miete le sue vittime in gran numero e senza difficoltà. I nostri spiriti, che si sono coperti della fama immortale perendo in battaglia, bruceranno per sempre di una fiamma nera, energica. Sia a livello lirico che a livello compositivo il rimando del pezzo in questione sembra provenire dalla Germania di metà anni ottanta: il thrash grezzo e velocissimo della triade teutonica Sodom, Destruction e Kreator a cui i nostri aggiungono qualche saggio rallentamento in più nel corso della traccia. Una simile dose di epicità nella battaglia combattuta e l'inserimento della figura del mitologico drago sputafuoco però non può che far indicare come rimando anche i nostrani Rhapsody, (così chiamati all'epoca prima del forzato cambio di nome). I Sacramentum guardano con interesse anche alla scena metal del bel Paese e dimostrano apertura mentale anche nei confronti di sottogeneri musicali distanti dal loro.

Demonaeon
Il quarto pezzo che la band ci propone si candida, subito, per ottenere la palma di best track dell'intero album: è la volta di "Demonaeon (Demone - eone)" aperta da una debordante, incontenibile intro di batteria sparata letteralmente al fulmicotone, in grado di incenerire all'istante ogni cosa con i suoi blast beats potenti ed incalzanti, in perfetto stile death metal. La voce di Nisse è quanto mai feroce e le ritmiche sono quelle ideali per scatenarsi in un headbanging selvaggio in sede live. La chitarra guida di Anders è decisa e tirata e riesce a trasmettere la giusta dose di energia e carica fin dalle prime battute sonore. Il gruppo si concede un breve momento di pausa poco prima dello scoccare del minuto di esecuzione con uno stacco della durata di una dozzina di secondi più ragionato e guidato da una batteria in questo caso più ordinata e meno selvaggia. Anche il secondo passaggio vocale è caratterizzato da una velocità esecutiva meno marcata e da una tonalità espressiva solenne e più facilmente distinguibile. Ma è solo un fuoco di paglia illusorio e fatuo perché le nostre orecchie vengono letteralmente travolte da una seconda ondata di drumming sfavillante e granitica a partire dal minuto 01:19. Batteria che è protagonista indiscussa pure nella sezione intermedia del brano quando prende per mano la coppia di chitarre e le accompagna ad un livello di potenza quasi inaudito per gli standard della band, le nuove coordinate musicali di evidente derivazione death trovano qui, la massima espressione artistica della band, anche se, francamente, le atmosfere gelide e spettrali e l'aurea magica, fatata presente nel primo full length era onestamente un'altra cosa. Nuove cadenze di matrice quasi progressiva si fanno poi strada al minuto 03:20 allorquando "Terror" Rudolfsson si defila un momento in secondo piano e lascia il ruolo di protagonista principale al collega e compagno di formazione Brolycke che esegue una validissima sezione chitarristica che si segnala anche per l'inserimento di alcuni brevi riff pregevoli nella loro linearità stilistica. Il finale cresce nuovamente di tono, simile ad una cavalcata gloriosa e liberatoria in cui i quattro componenti dei Sacramentum danno pieno sfogo a tutto il loro immenso talento musicale. Di certo il pezzo più aggressivo e corposo dell'album nonché una effettiva e chiara testimonianza del mutato corso intrapreso da Karlen e soci, già iniziato con il precedente The Coming of Choas. Un pezzo che affonda in maniera netta le proprie radici nel death metal old schol di inizia anni novanta ma che mantiene, comunque, una spiccata dose di personalità e di grinta. Non è un caso se lo stesso Anders in una lunga intervista concessa poche settimane dopo il rilascio di questo album l'ha definita come una delle due canzoni migliori di sempre mai composte ed eseguite dalla band, tuttavia risulta, quanto meno a titolo personale, azzardato paragonarla alla maestosa Fog' Kiss contenuta nel primo platter ed indicata come la seconda best song della carriera del gruppo. Analizzando la sezione lirica essa ci appare piuttosto semplice nelle sue tematiche portanti, che poco si discostano, peraltro, da quanto giù presentato nelle precedenti tracce. L'apertura è affidata ad una immagine desolante e triste di un paesaggio brullo, riarso dalle fiamme e cosparso di resti umani accatastati l'uno sull'altro. Ogni cosa è in fiamme intorno a noi e nel terreno è stato piantato in profondità il seme della dannazione, nell'istante in cui la falce nera della morte emergerà nelle altezze del cielo l'aria si impregnerà di polvere cosmica priva di vita. L'atmosfera è satura dell'odore intenso e sgradevole dello zolfo e ciò è il segnale che l'apocalisse è vicina, la fiducia diviene impotenza e disperazione nel momento supremo della morte. La fiamma nera brucerà in eterno in onore del demonio potente e grandioso, la morte colpisce simile ad una frustata. Sviscerando il pezzo nella sua componente lirica è evidente il riferimento all'immagine posta in copertina dal gruppo, è questo lo scenario del giorno del giudizio che la band presenta ai nostri occhi. Un percorso già battuto ampiamente in campo death metal che palesa, una volta di più, una scarsa vena ispirativa per il quartetto di Falkoping che si adagia, comunque con mestiere e tecnica notevole, su strade non nuove ed aperte anni prima da altri gruppi connazionali o esteri.

Overlord
Liriche che ci conducono alla scoperta dei signori del caos nella successiva "Overlord (Signore Supremo)", brano posto esattamente a metà dell'album. Veniamo condotti, pertanto, sull'isola immaginaria di Pan Tang, laddove le peggiori paure degli uomini prendono forma, il luogo degli stregoni ove dominano incontrastati demoni di ogni forma e dalle sembianze orribili e le cui statue ringhiano feroci contorcendosi tra dolori indicibili e agonie tremende. Qui i signori supremi dell'anarchia guidano i loro carri a testa alta e li conducono verso pianure vitree alla ricerca dei simboli del male potente. Incontriamo quindi il vecchio Slortar, signore della passione e dell'edonismo, il più antico e il più bello tra gli dei, i cui adepti fedeli si sfigurano e si feriscono come segno di rispetto per dare ancora più enfasi alla bellezza del proprio Signore. Egli governerà fino alla fine del tempo con la sua spada demoniaca in mano e le sue guardie, devote in ogni circostanza, ai fianchi. Il Signore della morte detiene questa città dalle statue sbraitanti e alza tempeste gigantesche contro i suoi nemici mortali, attraverso distese di terreno Egli guida le truppe verso nuovi combattimenti grazie ai quali, una volta ottenuta la vittoria ultima, potrà incrementare ulteriormente il proprio potere e i propri sconfinati protettorati. I Sacramentum prendono ispirazione dalla penna britannica di Michael Moorcock, autore di una serie di romanzi di carattere fantasy, scritti tra gli anni settanta e novanta del Novecento. Oltrepassando lo scenario presentato dall'autore dell'eterno scontro cosmico tra le forze del caos governate dai Sovrani Oscuri e le forze della legge, al cui vertice troviamo invece i Sovrani Bianchi, la band ci mostra, viceversa un paesaggio in cui a dominare sono proprio le potenze citate per prime, quelle cioè legate alla magia, al cambiamento ed alla soggettività. Un cambiamento di rotta interessante dunque per il combo che dipinge con la solita innata maestria e ricchezza di particolari un simile scenario fantastico e surreale. Da un punto di vista compositivo il brano è aperto da un maestoso stacco di batteria di natura mitica, come la narrazione presentata richiede quindi. Il primo minuto abbondante della traccia è ancora incentrato principalmente sul lavoro preciso e solido del talentuoso Rudolfsson, mentre la coppia di chitarre Brolycke - Andersson si muove sostanzialmente su linee di chitarra piuttosto canoniche e non eccessivamente incalzanti. Il coro centrale appare fin troppo gentile per un simile contesto anche se ciò scalfisce solo in minima parte la compattezza generale del pezzo. La sezione centrale che precede la seconda strofa è, invece, guidata dalla magistrale mano di Anders che si esibisce in una corposa serie di assoli graziosi ed orecchiabili che testimoniano, ulteriore conferma, il suo enorme talento naturale ed il suo notevole senso dell'armonia estetica, applicata all'arte della musica. Sfuriate selvagge e di breve durata della batteria introducono, così, la seconda ripetizione del refrain portante che ci conduce alla conclusione del brano affidata alla voce via via più lontana ed indefinita di Nisse, più a suo agio, non è una novità per quanto mi riguarda, laddove i tempi rallentano un minimo e si fanno meno indiavolati. Un brano ben equilibrato, dunque, dominato in principio ed in coda dal pestaggio a tambur battente, ai limiti della sottomissione fisica, da parte dell'ottimo "Terror" e scandito, d'altro canto, dalla sapiente ed elegante chitarra elettrica di Anders nella sua porzione intermedia.

Death Obsession (Black Destiny Part II)
Il brano che ci accompagna oltre la metà dell'album è "Death Obsession (Black Destiny Part II)", Ossessione di Morte (Destino Nero Parte II)", i cui ritmi appaiono, fin da principio, decisamente più accelerati rispetto a quanto ascoltato poco fa. Una incessante rasoiata di una quindicina di secondi di drumming fa da apripista per l' ingresso sulla scena del vocalist Karlen che beneficia, in questo frangente, di una ritrovata dose di energia e di grinta giovanile. I momenti lirici sono, tuttavia, caratterizzati da un incedere meno selvaggio e brutale che ritroviamo, peraltro, dopo alcuni istanti, una volta sospesa momentaneamente la narrazione medesima. Il primo riff degno di nota lo incontriamo al minuto 0:51, pochi secondi appena, giusto per bilanciare un istante il debordante assalto sonoro proposto dal drummer ad inizio traccia. Il coro centrale funziona alla perfezione e si inserisce in maniera egregia nel tessuto musicale preparato abilmente dal quartetto svedese. Un secondo riff di matrice heavy classico, (pare addirittura rifarsi ai lavori dei Maiden dell'epoca d'oro di Powerslave), viene posizionato al minuto 01:30 ed è certamente degno di essere menzionato per la propria qualità intrinseca rilevante. Tutto d'un fiato il singer prosegue nel suo incedere serrato e tirato fino allo stremo tanto che, al minuto 02:18, deve letteralmente staccarsi dal microfono con un rantolo quasi sofferente. Rientra dunque in gioco, dalla porta principale, la batteria irruente ed esplosiva, Nicklas "Terror" Rudolfsson sembra essere il componente che meno accusa il trascorrere degli anni ed il venire meno dell'estro creativo generalizzato e non è un caso se ciò garantirà a lui soltanto una prolifica continuità di carriera, una volta interrotta ogni attività con i Sacramentum. Il pur ottimo chitarrista guida confeziona un altro fugace passaggio di pregio al minuto 03:03 che introduce come si deve la seconda ripetizione del coro, vero pezzo forte della traccia in questione. Gli ultimi secondi del brano riportano leggermente in equilibrio la situazione tra i due musicisti principali e sono chiusi da un ultimo, lancinante grido del vocalist Nisse, DeathObsession! A dominare lo scenario elegiaco torna, una volta di più, il colore nero. La prima immagine che ci viene offerta è, dunque, quella di una torcia senza fiamma all'interno di un ampio spazio che non vede più da tempo la luce del sole, le mattine non seguono più le notti nel classico alternarsi periodico cui siamo stati abituati e l'oscurità spadroneggia incontrastata. Privati di ogni contenuto esteriore siamo abbandonati ad un destino nero perenne, i cieli tetri ed orfani delle stelle ossessionano le nostre menti, l'oblio ed il silenzio fanno da sfondo alle nostre inquietudini di morte, vecchie come le stelle nel cielo, nate dal nulla ed ora libere di manifestarsi senza più freni inibitori o pudori ingiustificati. La seconda strofa prosegue sulla stessa falsariga della prima e si fa, se possibile, ancora più drammatica e gravosa. Ecco dunque che torna la sensazione di freddo intenso che pervade il nostro corpo dal profondo, il sangue è divenuto simile a ghiaccio nelle vene, siamo morti tanto nel corpo quanto nella mente. Lo specchio delle illusioni terrene è andato in frantumi a questo punto e, nel cielo notturno più tenebroso, sentiamo crescere in noi la fame del sangue delle vittime carnali. L'attesa volge al capolinea e con essa svanisce ogni nostro patema d'animo. Nell'ora della morte ritroviamo, finalmente, la libertà e possiamo alzare il nostro grido salvifico, dritto fino al cielo.

Spiritual Winter
E' ora il turno della seguente "Spiritual Winter (Inverno Spirituale)", un'altra delle tracce meglio riuscite all'interno del platter, i cui scenari si aprono, ancora una volta, all'insegna del freddo, dell'odio e del colore dell'ebano e del lutto. Siamo consapevoli di essere prossimi alla fine, tuttavia, non temiamo la morte ma, viceversa, desideriamo davvero concludere la nostra esistenza terrena questa sera stessa. L'odore del decesso ci appare dolce, il suo aroma è in grado di anestetizzarci simile ad un etere, il nostro desiderio è di ascendere negli spazi deserti e sconfinati dell'aldilà. Una volta sopraggiunta la fine, allorquando il nostro corpo verrà deposto all'interno di una spoglia e misera tomba potremo mettere fine ad ogni forma di angoscia e di dolore provato in vita. L'atmosfera viene saturata dai rintocchi di campane suonate a lutto per l'occasione, nell'inverno spirituale in cui siamo riversi pure gli occhi della nostra anima deperiscono in un momento. Il corpo diviene pesante, stanche le membra ci impediscono di dormire la notte, avvertiamo imminente la sensazione di essere prossimi a serrare gli occhi per sempre. Nelle profondità dei nostri destini, unici ed inimitabili per ognuno, percepiamo tutto l'acre fragranza dell'inverno dello spirito, condizione che precede in maniera inesorabile l'arrivo della dipartita corporale. In conclusione del brano ripetiamo, con ancora maggiore enfasi e decisione, il nostro anelito reale e concreto di perire, spirare stasera, senza indugi ulteriori. Musicalmente parlando il suono dei tamburi brilla di luce propria fin dalle primissime battute, è questa la vera forza trainante dell'album tutto, la potenza della batteria prende il sopravvento rispetto alla chitarra solista ed emerge quale punto di forza principe di questa settima proposta. Il primo cambio di passo, in direzione di un più pacato rallentamento compositivo, si verifica al minuto 01:27 ed un colpo a sorpresa appena accennato, creato ad arte per regalare la giusta dose di atmosfera, quasi trasognante e decisamente cool, viene collocato dopo tre secondi esatti, allorquando Brolycke accarezza gentilmente il suo fidato strumento per un subitaneo intermezzo di gran pregio. La voce di Nisse si mostra ora sfumata e gentile e pare allontanarsi dai nostri orecchi con un secondo cambiamento di fronte utile a variare sensibilmente il canovaccio generale che l'album stava assumendo nel suo insieme. L'incedere ritorna fragoroso e robusto al minuto 02:45 e spiana il campo ad una porzione musicale ben bilanciata ed equilibrata, di una trentina di secondi circa. La struttura della canzone è piuttosto regolare ed in linea con quanto già proposto nel corso dell'album fin qui ascoltato: strofa - refrain portante - stacco acustico a metà brano, il tutto ripetuto due volte. L'ultima parte viene affidata alla chitarra principale per un breve, ma tecnicamente impeccabile, stacco solistico che prende il via al minuto 04:04 e degrada dopo una dozzina di secondi conducendoci così alla conclusione del brano che, con i suoi 04:41 minuti di lunghezza, risulta essere il più lungo dell'album. Viene da chiedersi, con non poca amarezza, il perché di una così poco spiccata dose di coraggio da parte del vero mastermind della band che, nei limitati e fugaci passaggi più tecnici dimostra, come se ce ne fosse ancora bisogno, tutta la sua classe ed il suo genio musicale eccellente. In chiusura di brano si segnala inoltre una elegante linea di basso molto ben assestata da parte del buon Karlen, anche lui vittima di una certa forma di apatia e di immobilismo armonico come il compagno della prima ora.

Rapturous Paradise (Peccata Mortali)
L'ottavo pezzo che il gruppo ci presenta è "Rapturous Paradise (Peccata Mortali), Paradiso Estatico (Peccato Mortale)" dove ad aprire le danze è ancora una volta una batteria intensa e massiccia, questa volta ben supportata dalla coppia di chitarre ritornate, nel caso specifico, poderose ed energiche. I primi venti secondi vengono letteralmente esplosi a velocità forsennate, prima dell'inizio della descrizione lirica offertaci. Pure il vocalist sembra aver ripreso vigore ed appare ora più convinto e sicuro dei propri mezzi e di ciò ne beneficia tutta la struttura portante del pezzo. Al minuto 01:30 è presente un lungo assolo da parte di Brolycke destinato a rimanere stampato nella mente dell'ascoltatore, nella sua omogeneità stilistica praticamente ineccepibile. La prestazione dietro al microfono di Karlen si manifesta decisamente più efficace e multidimensionale, anche grazie ad una esibizione al basso davvero ben eseguita egli è in grado di dare una profondità non indifferente alla traccia, un senso di longevità che altrove era mancato viene garantito grazie ad una prestazione nell'insieme di gran lunga sopra le righe. La batteria procede spedita, sicura nel suo martellamento incessante che non concede pause o indugi ed anche il quarto membro della band, "Pepa" Andersson, ben si inserisce in un simile contesto dinamico e multifocale. Finalmente il gruppo pare uscire dagli schemi definiti e rigidi in cui sembrava essere rimasto imbrigliato e dà libero sfogo della propria creatività e del proprio estro e realizza il secondo cavallo di battaglia dell'album, dopo la precedente "Demonaeon": un brano che ci fa avvertire nuovamente una freschezza ed un entusiasmo di fondo che temevamo essere stati smarriti dal combo svedese e che si chiude, dopo poco più di quattro minuti, quando ancora l'adrenalina non ha smesso di circolare, freneticamente, nel nostro organismo. Da un punto di vista lirico vengono richiamati temi già trattati nel pezzo Burning Lust contenuto nel precedente album: siamo così di fronte, per la seconda volta, al lato più peccaminoso e lussurioso dell'animo umano, anche se la sessualità umana è toccata solo in modo marginale, a differenza di quanto fatto nel sopracitato brano. Vengono elencati, all'inizio e ripetuti poi nella seconda metà, nell'ordine i sette peccati capitali: superbia, lussuria, invidia, ira, gola, accidia e avarizia descritti come fantasmi di oscenità, orge di arti sadici. L'amore, nella visione perversa dei Sacramentum, è dolore, la morte, viceversa, è vita. Si elevano nel cielo ovazioni di gloria per il peccato eterno, la lussuria, in particolare, pulsa nelle nostre vene assetate e voraci di carne umana, da affettare come in un rituale primitivo e tribale. Si chiede al paradiso estatico di venirci incontro e di schiudere le sue braccia per accoglierci, l'uomo è venuto al mondo per peccare, la sodomia fa parte della sua stessa natura di essere imperfetto. Un'altra variazione sul tema portante della guerra quindi in cui ancora una volta si evidenzia la perizia compositiva della band, in grado di delineare con precisione questo sottofondo perverso e vizioso. L'ascoltatore viene immerso nella situazione descritta e ne diviene anch'egli protagonista in prima persona: in fondo ognuno di noi è peccatore nel corso della propria esistenza terrena ed il vecchio adagio, di biblica reminescenza, secondo cui la carne è debole sembra calzare alla perfezione per riassumere in sé il senso di questa ottava traccia analizzata.

Weave of Illusion
Il nono e penultimo brano è "Weave of Illusion (Velo d'Illusione)" le cui liriche ci riportano, ben presto, in un contesto dominato dalla morte e dalla pazzia mentale. Il protagonista narrante ci guida oltre i sogni più selvaggi, laddove le variazioni dimensionali più segrete vengono visualizzate. Sono trascorsi innumerevoli anni inquieti riempiti soltanto da lacrime antiche ed asciutte. Il nero tessuto delle illusioni violenterà ognuno di noi, il tempo ci inganna beffardo ed il mondo stesso non fa altro che prendersi beffa di noi. Il nostro riposo perpetuo che ci regalerà nuovamente la pace dell'animo si tingerà del colore nero più denso. Giunge, pertanto, il momento di salutare questo mondo per l'ultima volta ad occhi aperti prima di chiuderli per sempre e raggiungere una dimensione ultraterrena. La morte ci avvinghia le sue ali color scarlatto attorno al collo serrandole in un abbraccio letale, le carezze che abbiamo dispensato su questo mondo non avranno eredi una volta scomparsi noi stessi. Questa è la grande visione che il nostro spirito è in grado di discernere attraverso il portale del tempo. Il tiro della canzone evidenzia fin da subito una ritrovata aggressività in pure stile death metal, con l'avvicinarsi della chiusura dell'album la band pare riprendere vigore e torna a pigiare a fondo il piede sull'acceleratore. Questa volta la coppia di chitarre regge alla grande il passo della batteria ed emerge una sezione solistica di gran pregio poco prima dello scoccare del primo minuto. Pure la vitalità del singer Karlen sembra essersi risollevata come per incanto e prosegue il buon trend iniziato un paio di canzoni prima, una produzione questa volta compatta ed equilibrata fa venire a galla il lato più brutale e ferale della sua interpretazione canora, energica e grintosa sulla scia della miglior tradizione del genere in questione. Il coro centrale è abbastanza orecchiabile ma ciò non intacca la compattezza generale del brano le cui transizioni sonore strofa - ritornello - strofa così serrate e prive di rallentamenti ricordano vagamente alcuni dei migliori pezzi contenuti nel precedente The Coming of Chaos, (Awaken Chaos e Black Destiny in primis). Un nuovo assolo velocissimo ed ultratecnico lo troviamo al minuto 03:05 su cui si inserisce in maniera cattiva e debordante la batteria del sempre positivo Nicklas per accompagnarci degnamente al finale di questo brano che è la perfetta conclusione di un terzetto di pezzi decisamente convincenti e che ci consentiranno di alzare un poco il voto finale in sede di giudizio. Un brano eseguito senza alcuna sbavatura, di evidente matrice death in cui non mancano, tuttavia, i passaggi più melodici ed in cui il talento dei singoli componenti della band sprigiona ancora una volta un fascio di luce intensa ed abbagliante, il cui spegnimento definitivo è però, sfortunatamente, dietro l'angolo.

Thy Black Destiny
L'ultima traccia dell'album, e allargando l'orizzonte, dell'intera carriera discografica della band è la title track: quattro minuti abbondanti che suonano lugubri e malinconici ed hanno il sapore amaro dell'addio, della resa. Una formazione che era partita con entusiasmo ed originalità nel primo, ancor grezzo ep, riuscendo poi a perfezionare grandemente gli aspetti tecnici e ad incrementare ancora di più l'accuratezza compositiva dei propri testi nel successivo, epocale debutto sulla lunga distanza, giunge ora al proprio capolinea artistico, tre anni e soli due album dopo sopraffatta da un mercato sempre più ingordo e desideroso di soldi facili e vinta, parallelamente, da una capacità creativa andata progressivamente esaurendosi. L'atmosfera che si respira nel brano è ben delineabile fin da subito: siamo proiettati in uno scenario post - apocalittico dove sono pochi gli aliti di vita che ancora echeggiano nell'aria. Possiamo persino provare a percepire il sapore agre e pungente di un paesaggio le cui rovine stanno ancora ardendo in maniera ineluttabile, colonne di fumo si stagliano maestose in un cielo illuminato a giorno anche dopo il tramonto del sole. Esplosioni prima lontane e poi che paiono in avvicinamento, si odono distintamente ad inizio traccia. La batteria alza i toni della contesa al minuto 0:42 inserendo la sua pesantezza quasi funerea in questo quadro decadente. Anche in questo frangente i Sacramentum scelgono di declamare in forma parlata la breve sezione lirica con toni adatti ad un simile momento topico ed angoscioso, appena accennata la voce di Nisse parla così: "Oblio, silenzio, vuoto. Rompere l'illusione, trascendere attraverso requiem in dissolvimento. La fiamma è andata per sempre, ed io con essa." Le chitarre si mantengono sobrie e cupe con un incedere cadenzato ed opprimente, molto chiuso nel suo sviluppo lento e solenne. Quando i ritmi calano ulteriormente, al minuto 03:13 per l'esattezza, ecco comparire sulla scena 10 rintocchi grevi e conclusivi di una campana, uno ogni 6 secondi esatti, che scrivono la parola fine sulla carriera dei nostri: una decisione che, probabilmente, il gruppo stava già maturando da tempo e che una simile proposta musicale non fa altro che certificare con i crismi dell'ufficialità. Il richiamo di una tale opera terminale potrebbe ritrovarsi nell'album di debutto dei norvegesi Satyricon, quel Dark Medieval Times risalente al 1993 intriso di atmosfere sinistre ed oscure e ricche di elementi di stampo medievale che fece conoscere al mondo intero due personaggi del calibro e della levatura di Satyr e Frost. Una chiusura particolare per questo album che spiazza un poco l'ascoltatore e che lascia un profondo senso di amaro in bocca considerando che si tratta, sostanzialmente, dell'ultima testimonianza su disco mai incisa da parte di una così talentuosa band sbocciata in un baleno e sfiorita troppo presto all'interno del coloratissimo universo metal svedese di metà anni novanta.

Conclusioni
Eccoci dunque giunti al momento, in questo caso quanto mai fatidico, del giudizio finale: valutazione che andrà non solo a stimare l'album in sé, ma fungerà anche da commento - tributo per una splendida realtà musicale venuta a mancare quando ancora non aveva esaurito tutto il potenziale a propria disposizione. La band, dissolta qualsiasi tipo di atmosfera glaciale e nordica di derivazione black metal residua ed ancora presente qua e là nel precedente album, decide di puntare tutto su di una solida e granitica formatura di stampo death metal muovendosi così sulla lunga scia imbastita da numerose altre band facenti parte del fulgido panorama musicale svedese dedito al metallo della morte. I componenti del gruppo sanno il fatto loro ed è cosa risaputa ormai, i testi proposti, pur scivolando inesorabilmente nell'immenso calderone intriso di violenza ad ogni costo, guerre epocali inevitabili e morti efferate per mano del nemico, conservano intatti la loro bellezza e la loro lungimiranza e giocabilità nel tempo. Vero anello di congiunzione tra questo lavoro ed i precedenti risulta essere la prestazione al drumming del portentoso Nicklas Rudolffson, autentico mostro di bravura e funambolo dietro le pelli per velocità di esecuzione e violenza sprigionata. Sempre abbondantemente sopra la media in ciascuno dei tre album rilasciati sotto il nome di Sacramentum egli, come già accennato in precedenza, non farà fatica a trovare spazio altrove cimentandosi anche alla voce ed alla chitarra in svariati altri progetti, alcuni dei quali tuttora attivi, (Runemagick, HeavyDeath, NecroCurse..) dimostrando versatilità e competenza musicale a 360°. L'inserimento in pianta stabile di una seconda chitarra pare, invece, aver offuscato un minimo il talento eccellente di Anders Brolycke che, solo in alcune circostanze, riesce a liberare tutta la sua smisurata creatività e a regalare momenti di puro godimento alle orecchie dell'ascoltatore, mantenendo, viceversa, per la maggior parte della durata del platter un profilo medio - basso costituito da riff certamente gradevoli ma per nulla coraggiosi ed innovativi. Discorso similare può essere fatto, inoltre, per la prestazione vocale di Nisse Karlen che, d'altro canto, riesce a crescere nel corso dell'album e a dare il meglio di sé nella sopracitata meritevole triade di canzoni che precedono la conclusiva title track. La produzione, in questo caso, riesce a conferire una maggiore omogeneità al suono e il prodotto risulta, nel complesso, ben bilanciato ed equilibrato in tutte le sue possibili sfaccettature. Chiusura di carriera quindi ancora una volta decisamente sopra la sufficienza per gli ottimi Sacramentum, arresisi troppo presto di fronte alle soverchianti esigenze discografiche di fine millennio, ma capaci con soli quattro lavori all'attivo, (1 ep e 3 full length), di imprimere a ferro e fuoco per sempre il loro nome nella storia della musica metal. Resta da chiedersi che ne sarebbe stato del proseguo della carriera del gruppo qualora esso non avesse deciso di interrompere bruscamente ogni attività discografica, personalmente credo che avrebbero potuto davvero imboccare senza remore di sorta la strada del cosiddetto techinical death metal che stava muovendo, timidamente, i primi passi tra le due sponde dell'Oceano Atlantico, ma in fondo un simile quesito poca importanza ha oggi, quasi vent'anni dopo quella estate cruciale del 1999 in cui la band decise di far calare il sipario per sempre sopra di essa. Il tempo di un ultimo, fugace, concerto in Germania nell'estate del 2001, quando, di fatto, il gruppo non esisteva già più, ed ecco che la scintillante cometa apparsa appena una manciata di anni prima sopra al cielo di Falkoping ad illuminare di luce propria l'universo intero aveva già concluso la propria parabola svanendo, eterea e misteriosa, in una nuvola di polvere, lasciando tutti un po' più vuoti e tristi di prima. Una formazione che occuperà sempre un posto speciale nel mio cuore e a cui mi sento in dovere di porgere il mio personale ultimo omaggio, sentito ed emozionato fin quasi alle lacrime: ALL HAIL TO SACRAMENTUM!

2) The Manifestation
3) Shun The Light
4) Demonaeon
5) Overlord
6) Death Obsession (Black Destiny Part II)
7) Spiritual Winter
8) Rapturous Paradise (Peccata Mortali)
9) Weave of Illusion
10) Thy Black Destiny


