QUEEN

Queen

1973 - EMI/Elektra

A CURA DI
MARCO PALMACCI
17/09/2015
TEMPO DI LETTURA:
9

Introduzione Recensione

Chi vince, chi perde. Una massima universale, la quale descrive ampiamente la vita in generale, così come le sue innumerevoli irradiazioni. Fra queste, inutile dirlo, vi è l'Arte. Quella con la "A" maiuscola, l'amante più crudele. Quella che prima ti corteggia e poi ti scarta, se non ti riveli abile nel saperla domare, possedere. Un mondo formato da tante comparse e da pochi degni di salire sul podio. E' il rovescio della medaglia, dopo tutto. C'è naturalmente chi ci riesce, interpretando un ruolo principale, in grado di spiccare sugli altri comprimari, e chi invece no; e la Storia ce lo insegna, fra i più importanti di sempre vi sono i Queen, il cui nome, nel corso degli anni, è divenuto sinonimo di leggenda. Quando si parla di questa band, non si parla certo di un gruppo a caso, ma di una vera e propria pietra miliare che ha contrassegnato un'epoca della storia musicale, a livello mondiale. Una sinergia venutasi a creare fra l'unione di Freddie Mercury (all'anagrafe Farookh Bulsara), voce e piano, Brian Harold May, chitarra, Roger  Meddows Taylor, batteria, e John Richard Deacon, basso. Correva l'anno 1970 quando i quattro ragazzi, quattro menti pensanti ed amanti della musica, si unirono in quel di Londra formando un gruppo che di lì a poco avrebbe messo solidissime (ed a posteriori imprescindibili) radici nel panorama rock internazionale. Il nome della band ,"Queen" (Regina, in italiano), senza dubbio di impatto, dava e dà ancora oggi un senso di regalità, scelto proprio dall'istrionico Freddie Mercury, il quale optò per questo monicker proprio per sottolineare ciò che lui stesso voleva che il gruppo diventasse: una vera, autentica leggenda. Prima di passare a trattare l'inizio della loro carriera, comunque, è bene aprire una parentesi e fornire qualche cenno storico circa gli albori della carriera di ognuno dei loro componenti, che aiuterà a capire quali stili e generi musicali abbiano influito sulla formazione dei nostri. Partendo dal principio, nel 1964 Brian May, insieme a Tim Staffel (voce ed armonica), decise di fondare i "1984", una band Rock- Blues oriented, formata oltre che dal duo sopracitato, anche da Dave Dilloway (basso), John Garnham (chitarra ritmica), Richard Thompson (batteria) e John Sanger (pianoforte). L'esperienza dei 1984 si mostrò immediatamente fortunata, tanto che, una volta giunti ad un buon livello di notorietà, ebbero occasione non solo di aprire un live di Jimi Hendrix, ma di prendere parte anche ad un concerto, nel periodo natalizio, nel cui bill erano inseriti nomi del calibro di Pink Floyd e T.Rex. Tuttavia, nonostante gli ottimi risultati conseguiti, la band non riuscì mai ad incidere un full-length e si sciolse nel 1968. Il duo Staffel  / May, momentaneamente fermo, decise comunque di ripartire senza scoraggiarsi: bisognava fondare subito un nuovo progetto, e per farlo serviva immediatamente l'innesto di un nuovo batterista. Brian May pensò dunque di lasciare un annuncio nella bacheca del suo college, specificando di voler trovare un drummer che suonasse seguendo lo stile di batteristi come Mitch Mitchell e Ginger Baker. Caso volle che, a bussare alla porta dei Nostri, fu un certo Roger Taylor, interessato alla proposta. Nacquero così gli Smile, e sin da subito il trio prese a suonare ad altissimi livelli, riuscendo nuovamente ad affiancare i Pink Floyd ed altri nomi storici del progressive Rock come gli Yes, senza dimenticarsi le esperienze con altri artisti come Joe Cocker ed un concerto tenuto alla Royal Albert Hall assieme ai Free. Nel maggio del 1969 arrivò poi un ulteriore passo avanti, grazie all'interessamento della "Mercury Records" che, fiutando le abilità del gruppo, li sostenne per la successiva pubblicazione di un singolo, "Earth", che non ottenendo in patria il successo sperato fu distribuito solo negli U.S.A. In quel periodo, comunque, cominciò a gravitare attorno agli Smile quella che sarebbe divenuta in seguito la figura chiave dei Queen: Staffel difatti presentò alla band un certo Farookh Bulsara, detto Freddie, dotato di un talento artistico fuori dalla norma e di un carattere particolare ed istrionico. Originario di Zanzibar, sin da piccolo mostrò particolare predisposizione per il mondo della musica; si distinse in particolar modo come pianista, grazie anche alla "sponsorizzazione" del preside della sua scuola, il quale consigliò ai genitori di fargli prendere lezioni di musica avanzate, proprio per la sua notevole inclinazione all'arte delle note. Proprio negli anni della scuola formò un piccolo gruppo denominato "The Hetics", con i quali eseguiva cover di artisti come Little Richard, esibendosi in varie manifestazioni scolastiche. Come se non bastasse la musica, il giovane Freddie si mostrò anche un bravissimo disegnatore ed un ottimo sportivo, eccellendo come velocista e pugile. Con il conseguimento della maggiore età si trasferì in seguito in Inghilterra, a causa dei tumulti sorti nella sua terra natale; una vera e propria guerra civile, che allarmò la sua famiglia, la quale decise saggiamente di cercar maggior fortuna in terra d'Albione. Stabilitisi nei pressi di Londra, Freddie cominciò a procurarsi qualche lavoro part time, per poter continuare i suoi studi d'Arte, nei quali eccelse venendo ammesso nel prestigiosissimo Ealing Art College di Londra, dove iniziò a studiare desing grafico. Oltre che studiare, Freddie riuscì addirittura a creare una sua linea di abbigliamento, ed a lavorare saltuariamente come articolista per vari periodici. Fu poi sempre ad Ealing, il quartiere dove era situato il suo college, che conobbe Tim Staffell, suo compagno di corso. I due, scopertisi affini grazie ad una reciproca passione per la musica, entrarono subito in sintonia e Freddie decise di cogliere la palla al balzo, chiedendo all'amico se anche lui potesse entrare a far parte degli Smile. La cosa non andò comunque in porto, ma il Nostro non si scoraggiò. Entrò a far parte di un altro gruppo, gli Ibex (in seguito denominati Wreckage), con i quali riuscì ad esibirsi svariate volte, anche se la vita di musicista a tempo pieno era dura e piena di insidie. Anche per gli Smile le cose non andarono benissimo, ed entrambi i gruppi si trovarono presto a dover far i conti con molti problemi economici, dovuti alla mancanza di ingaggi e alla difficoltà nel trovare buoni contratti discografici. Secondo la leggenda, sia Freddie sia Roger Taylor arrivarono a vendere i loro vecchi vestiti pur di racimolare quel poco che serviva a permettere la sopravvivenza dei loro rispettivi gruppi. La cosa non servì comunque, dato che gli Ibex si sciolsero di lì a poco (Freddie cercò maggior fortuna nei Sour Milk Sea, ma l'avventura fu anche più breve nonostante un buon avvio) e così anche gli Smile, a causa dell'abbandono di Staffell, scoraggiato dai continui problemi e dall'insuccesso del precedente singolo. Decise in seguito di dedicarsi ad un altro progetto, gli Humby Bong. Rimasti ormai soli, Freddie, Brian e Roger decisero dunque di proseguire assieme la loro attività: fu in questo preciso momento che il cantante prese ufficialmente l'identità di Freddie Mercury, per tributare Mercurio, il messaggero degli antichi Dei greci, un'altra denominazione potente e particolare che va ad affiancare il già possente monicker di Queen, adottato dal trio sempre sotto suggerimento di Mercury. Un nome che il frontman definì appunto "leggendario e regale", nonché aperto a mille interpretazioni diverse. Una semplice parola eppure così ambigua e carica di fascino e mistero. I tre si resero immediatamente conto d'aver bisogno di un bassista, ed all'inizio si presentò Mike Grose, accettato subito nel ruolo, con il quale si esibirono a Truro, in occasione di un evento benefico per la Croce Rossa. L'amalgama non era, tuttavia, ancora stata trovata del tutto, ma fu con l'arrivo del timido John Deacon che tutto cambiò per il meglio: bassista dalle grandi doti nonché esperto in ambito di elettronica, John era ben lungi dalla carica estrosa e potente incarnata dal trio, rappresentato in pieno da Freddie. Eppure, fu come si dice in gergo, un vero e proprio colpo di fulmine. Con il subentrare di quello che tutti definiscono tutt'oggi come il "membro tranquillo", la band poté finalmente cominciare ad ingranare la marcia. All'epoca erano ancora degli studenti universitari, ma questo non scoraggiò i quattro ragazzi, i quali organizzarono una tournée in Cornovaglia, per prendere dimestichezza con pubblico e palcoscenico. Contemporaneamente, le doti artistiche di Mercury vennero fuori anche dal punto di vista "visivo", in quanto fu proprio lui ad ideare il logo che rese celebre la band, basato sullo stemma della famiglia reale britannica e circondato dai segni zodiacali di tutti e quattro i componenti. Stavolta, la buona stella sembrava brillare per davvero, tanto che un bel giorno, Terry Yeadon (amico di Brian May) diede la possibilità alla band di registrare gratuitamente presso i "De Lane Lea Studios", per collaudarne le attrezzature. Questa offerta fu di fondamentale importanza in quanto i Queen ebbero l'opportunità di registrare i loro primi brani, come "Liar", "Keep Yourself Alive" e "Stone Cold Crazy", pezzi che in seguito caratterizzarono il loro primo LP (eccezion fatta per "Stone..", tenuta in serbo per un'altra occasione). Nonostante l'ottima qualità di queste incisioni, comunque, nessuna casa discografica si mostrò interessata ai prodotti, fatta eccezione per la "Chrysalis Records". Fu però nel 1972 che i brani ricevettero l'attenzione della "Mercury Records" (già promotrice del primo singolo degli Smile, lo ricordiamo) e di Roy Thomas Baker, collaboratore dei "Trident Studios". Fu proprio quest'ultimo ad offrire ai Queen la possibilità di registrare negli studi, ma solamente sfruttando le "pause" fra una sessione e l'altra degli ospiti paganti. Con dei mezzi non propriamente ottimali, i giovani rockers riuscirono comunque a portare a termine l'impresa, pur non essendone molto soddisfatti. Fui così che Baker (divenuto a tutti gli effetti il co-produttore dell'album in genesi assieme alla band) decise questa volta di offrirgli una nuova possibilità, potendo sfruttare appieno le risorse degli studi. Le sessioni di incisione furono a dir poco sfiancanti, con il terzetto Mercury - May - Taylor (Deacon non venne mai menzionato come autore di nessun brano) che costringeva agli straordinari il personale degli studios, causa una perenne insoddisfazione delle versioni finali dei pezzi. Si arrivò comunque alla fine dei lavori nel novembre del '72, anche se l'album non vide la luce prima di otto mesi successivi, nel Luglio del '73, a causa di un nuovo disinteresse delle etichette discografiche (forse per via dei lunghi tempi di lavorazione). I Queen, che in quel momento stavano vivendo l'incubo già trascorso con gli Smile e gli Ibex, tuttavia non si persero d'animo e si portarono avanti con il lavoro, cominciando a scrivere materiale per il loro secondo album in studio, finché i Trident non decisero di pubblicare essi stessi il disco. Vari titoli vennero proposti: Roger Taylor avanzò l'ipotesi di intitolare il disco "Top, Fax, Pix and Info", ma l'idea non ebbe molto successo, così come non lo ebbe il titolo "Deary Me", pensato per via di un modo di dire del coproduttore Baker. Si decise dunque, alla fine, di nominarlo semplicemente "Queen", proprio come il nome del gruppo. Iconografica, in questo senso, fu la cover, divenuta in seguito una delle più note della Regina. Dapprima, l'idea fu quella di realizzarla utilizzando una foto del gruppo da scattarsi nell'appartamento di Mercury, uno scatto in stile "vittoriano", per il quale May studiò diversi effetti da utilizzare in seguito, come l'idea di mettere della plastica colorata sugli obbiettivi delle macchine fotografiche, per ottenere particolari distorsioni e giochi di colore. L'idea venne presto scartata, e come per il titolo si optò per un qualcosa di più semplice, ovvero una foto di Freddie sul palcoscenico, con alle spalle i due riflettori. Della distribuzione in Europa se ne occupò la "EMI", mentre per il mercato d'oltreoceano si interessò la "Elektra Records"; fu così che l'album venne ufficialmente lanciato grazie al singolo "Keep Yourself Alive" (lato B "Son and Daughter"), che ne anticipò di una settimana l'uscita sul mercato britannico. Sette giorni dopo, "Queen" fu pronto finalmente per introdurre i Nostri al grande pubblico. L'album è composto da 10 tracce e il genere che lo caratterizza è tendenzialmente un hard rock misto a tracce glam, dato che in quel periodo vi erano band di spicco come i T Rex ma anche gruppi come i Led Zeppelin, che influenzarono la band. Un Hard Rock, quindi, senza però tralasciare la parte melodica. Come tutti i primi album, questo è una sorta di "rompighiaccio" per la band, che per la prima volta approda nella scena musicale oltre confine: un inizio non semplice, nato da mille difficoltà, ma in seguito destinato a diventare l'inizio di una vera e propria epopea, fra le più fortunate della Storia.

Keep Yourself Alive

Come primo pezzo troviamo "Keep Yourself Alive", scritto da Brian May. Il chitarrista, che aveva composto il brano prima dell'entrata definitiva di John Deacon, aveva pensato al testo come ad un qualcosa di fortemente ironico. Tuttavia, grazie all'approccio vocale di Mercury, decise di rivedere totalmente la sua idea, abbandonando la voglia di sarcasmo in favore di un'espressione più energica e possente, tipica del frontman. E' una traccia decisamente hard rock, che inizia con un Brian May intento a scandire "timidamente" un riff d'apertura che beneficia di un sound particolare e "contenuto". Ben presto, con l'entrata di una batteria precisa, il ritmo aumenta ed anche la chitarra di Brian ha modo di esprimersi in maniera maggiore e più "presente", splendidamente supportata dal basso di Deacon, presente, cesellante e capace di rendere il sound meravigliosamente avvolgente. Il riff udito in apertura rimane sempre come "tappeto" sonoro, sul quale la voce di Freddie ha modo di subentrare, per esprimersi già al meglio delle sue possibilità. Sembra quasi che la voce del Nostro sia il vero punto forte del combo, mentre la chitarra di Brian si mantiene espressiva e mai troppo "invasiva", adatta a rendere la voce del frontman un elemento di spicco, comunque supportato da un sottofondo d'eccezione. Lo stile di May è subito riconducibile, con i suoi suoni melodici ed eclettici, la ritmica di Roger e John, tutto è sapientemente studiato per dar vita certamente ad un brano Hard Rock ma che sin da subito si distingua per personalità e sonorità. Il vero punto di forza è comunque il ritornello, il quale sifregia di un coro assai gradevole e di particolare impatto, tutta farina del sacco di Mercury (le armonie vocali dei cori sono infatti tutte appannaggio totale di Freddie, in multi tracking). Poco prima dell'assolo di chitarra abbiamo modo di udire una piccola "sfuriata" di batteria, e subito dopo ci troviamo immersi in un momento solista particolarmente curato, melodico e molto espressivo. Piccola pausa verso il finale, dove Freddie si prende un attimo di riposo lasciando cantare qualche verso ai compagni, ed il frontman ritorna in pompa magna per gli ultimi ritornelli. Il brano finisce così sfumando, lasciandoci piacevolmente stupiti e divertiti da una performance Hard Rock ed assai istrionica e particolare. L'aspetto testuale evidenzia alcuni aspetti della personalità in chiave puramente metaforica, parlando di varie esperienze di vita vissuta. Un testo in cui si enuncia un valore fondamentale, l'individuo non deve in alcun modo perdere di vista: salvaguardare il proprio mondo interiore, il proprio essere, per mantenersi sempre vivo. "Mantieniti vivo", cantano i Queen, dicendoci che non dobbiamo dar retta a chiunque voglia dirci cosa fare o non fare della nostra vita. Dobbiamo essere soddisfatti di quel che abbiamo, per essere veramente felici, senza stare a rincorrere affannosamente i falsi miti o fasulli sogni di gloria che qualcuno decide di porci davanti, a mo' di specchietto per le allodole. Essere vivi significa fare quel che veramente vogliamo fare, senza costrizioni né catene, senza dogmi imposti o regole troppo rigide ed imprescindibili, che rischierebbero seriamente di intaccare la nostra vera natura. Un inno alla spensieratezza e alla libertà, questa volta sincero e non ironico, come doveva esserlo in origine.

Doing All Right

Come seconda traccia troviamo "Doing All Right", brano scritto da Brian May e Tim Staffel durante il precedente progetto Smile. Vediamo un May inizialmente dedito al pianoforte, le prime battute sono infatti contornate da una melodia armonica, quasi "madreperlata" ed a tratti eterea, che si diffonde per tutto la durata del pezzo, andandosi poi a riallacciare con la voce delicate ed a tratti rassicurante del talentuoso Mercury. Con l'attacco di batteria (timido ma non scontato) il brano comincia a divenire più "incalzante" e meno etereo, anche se l'aura di delicatezza permane ed al solito sono la chitarra di Brian (elettrica supportata da un'acustica) e la voce di Freddie a farla da padrone. Il primo si mostra sin da subito come un chitarrista assai poliedrico, capace non solo di ricamare riff Hard Rock ma anche di sfociare in sensazioni ben più "soft", come la melodia unita in questo frangente; il frontman, nemmeno a dirlo, gioca praticamente come vuole con la sua ugola, dando il meglio di se nuovamente nel ritornello, altro momento indimenticabile. Verso il minuto e mezzo è l'acustica a farla da padrone, scandendo un riff più veloce e deciso sul quale la voce di Freddie risulta acuta e squillante. Il tutto sembra crescere di intensità, anche la voce del cantante non risulta più molto acuta, al contrario, diviene molto più possente e decisa, sino ad arrivare alla metà pezzo, momento in cui il quartetto si scatena con una chitarra forte e decisa, che con una "mitragliata" suona letteralmente la carica, seguita dai tamburi di Roger. Momento che funge in una sorta di intercapedine tra le parti soft ed una ora magnificamente Hard Rock, addirittura proto Heavy Metal, grazie ad un assolo in cui Brian ci mostra i germi di quel che, in futuro, sarebbe divenuto il genere musicale di personaggi come Bruce Dickinson, tanto per dire un nome. Il tutto viene smorzato da una breve performance corale che poi si riappoggia in quella pace sonora, quasi di stasi, destata da un ritorno in voga di tracce ritmiche decise e riff graffianti, un nuovo momento "Hard n Heavy" che ci piomba addosso grazie ad una prova magistrale ancora una volta donataci da Brian. Nella conclusione vediamo i 4 all'unisono in un connubio di voci limpide, e così tutto tace. Il testo si può definire una sorta di incoraggiamento e di speranza nella sua fattispecie, nonostante la vita ti ponga davanti ogni tipo di avversità ed ostacoli, un po' come se i quattro ragazzi di Londra volessero in qualche modo incoraggiarsi ed incoraggiarci una "botta" di ottimismo, viste le vicissitudini che ha dovuto affrontare la band, sin dai tempi degli Smile. Tutto è possibile, ed anche se la nostra vita sembra andare in pezzi, non dobbiamo scoraggiarci perché tutto è possibile, e ci basta assumere un atteggiamento positivo per poter in qualche modo far fronte a tutti i problemi che deriveranno dalle nostre giornate. Si soffre, è vero, e nulla può far male come un colpo basso della sfortuna, alcune volte.. ma non dobbiamo perdere di vista le nostre capacità, il nostro ottimismo, la nostra fiducia nel domani. Se ci aiutiamo verremo aiutati, e chi lo sa, potremmo anche veder splendere il sole, molto presto, anche se nubi temporalesche la fanno da padroni nelle nostre plumbee giornate invernali. Niente lacrime, sorridiamo ed andiamo avanti. Possiamo farcela, dopo tutto i Nostri sono giunti, quando tutti li davano per vinti, alla realizzazione di questo splendido lavoro che stiamo ascoltando.

Great King Rat

Passiamo al terzo brano, "Great King Rat", scritto da Freddie Mercury. Un pezzo che si fregia immediatamente del potere dell'elettrica di Brian May, il quale, dopo gli scatenati assoli di "Doing all Right" vuole mostrarci nuovamente le sue velleità più Hard, facendo rombare la sua sei corde e dandoci nuovamente uno splendido saggio di Hard Rock. E' immediatamente Roger Taylor a far eco alla potenza di Brian, coadiuvato da Deacon. Sentiamo un tempo marziale ed incalzante, che parte subito in ascesa unito sempre ad un secco e duro sound di chitarra, con quel tocco di plettro scandito con forza e decisione. Troviamo quindi un Taylor impegnato con destrezza in un ritmo che ricorda quasi un cavallo in corsa lungo le praterie americane, un ottimo tappeto sonoro. Entra dunque Freddie, spiccando grazie alla sua voce potente e melodica, incredibilmente espressiva, capace di donare grande identità e personalità ad un prezzo che in effetti si fregia di un alone del tutto particolare. Per tutta la durata della traccia un orecchio sensibile può carpire cambi di tempo nonché accorgimenti sonori (il "trionfo" di campanacci che dona al tutto un tocco quasi "western", "southern") degni di un brano che spiazza e comunque colpisce per potenza ritmica. Gli assoli di May, che gioca con la sua vena più folkloristica e "sudista", sono un altro gran valore aggiunto, mentre Deacon col suo basso dimostra di riuscire a tener botta senza problemi, avvicendandosi con grande capacità alla poliedricità dei suoi compagni. Dopo un intermezzo in cui sono i tamburi di Roger a dominare, uniti alla sempiterna voce di Freddie, si giunge ad un piccolo momento di pausa in cui la chitarra di Brian si fa più timida e silenziosa, salvo poi esplodere in un tripudio di estrosità e sfociare in un nuovo momento solista, questa volta dai toni decisamente più Hard Rock e, lo ribadiamo, proto Metal. Un  assolo da manuale, da sentire e risentire. Il finale è contornato da un accenno di sovrapposizione vocale e da un superbo e mitragliante assolo di batteria, che va in seguito sfumando. Un brano più "americano" che "british" nel senso stretto del termine, che ci lascia nuovamente sorpresi e desiderosi di continuare questa avventura. Il testo suona come una sorta di riflessione circa la natura umana: si giunge forse ad una conclusione secondo la quale l'essere umano tende ad essere spesso oltraggioso e scurrile, vile e meschino, un vero e proprio "figlio di puttana", come questo "Grande Re Topo", descritto come uno "sporco vecchio", blasfemo, prevaricatore, maleducato e crudele fino all'osso. Un personaggio poco raccomandabile e per nulla da imitare, ma che nonostante questi aspetti riesce a riscuotere un certo successo. Tant'è che sono gli stessi Queen, ad un certo punto, a dirci di "non ascoltare i nostri genitori" e di non credere a ciò che "è scritto nella bibbia", visto che quest'uomo ha deciso volutamente di non seguire nessun archetipo di bontà ed è comunque vissuto abbastanza per prendersi le sue soddisfazioni, morendo per giunta di sifilide (una malattia sessuale), proprio per rimarcare la sua condotta di vita lasciva ed oltre i limiti. Una persona che altro non è che l'esatta antitesi di ciò che dovrebbero essere i pilastri di una società civile, ed è proprio il concetto di quest'ultima ad essere messo in discussione. Che sia un testo di protesta, indirizzato magari a tutte quelle persone che come il Re Ratto passano una vita a delinquere per poi, di tutta risposta, ricevere successo ed onori? Probabile, del resto i Queen non hanno mai voluto sbilanciarsi più di molto circa il vero significato dei testi, proprio per lasciare ai fan la capacità di interpretarli. Protesta? Provocazione fine a se stessa? Tutto sembra in qualche modo accettabile.

My Fairy King

Il pezzo successivo è "My Fairy King", scritto nuovamente da Freddie Mercury. Si inizia con un tocco raffinato di chitarra (a tratti dal sound quasi "neoclassico", in uno stile che sicuramente verrà apprezzato da un -nome a caso- giovaenee Yngwie Malmsteen), una sequenza con note leggermente tremanti, immediatamente  da un leggero attacco di batteria. Si tiene il tempo leggerissimamente fino a che il brano non entra nel vivo ed assistiamo ad un andamento dalle tinte molto più "Folk", con una sezione ritmica assai sugli scudi ed una chitarra tinta di velleità blues e southern. Assistiamo poi all'entrata in scena di urlo penetrante (quasi di forgia Zeppeliniana, impossibile non ricordarsi di "Immigrant Song", udendolo), stupendamente presente ed addirittura confondibile con un acutissimo suono di chitarra, tanta è l'altezza che Mercury riesce a raggiungere. Un acuto poderoso che viene in seguito interrotto dalla chitarra di May, successivamente "presa per mano" da un armonioso e spedito "rintocco" di pianoforte, che va poi a lanciare la prima strofa, tenendo un ritmo preciso ed incalzante. Freddie si mantiene su tonalità sempre acute, e notiamo come qui le sovrapposizioni vocali si facciano sempre più marcate, con fare quasi "operistico", gettando le basi per quello che sarà poi lo stile dei Queen in brani come la leggendaria "Bohemian Rhapsody". I giri di piano sono perfettamente inseriti ed in linea con l'aspetto ritmico e chitarristico, sembra quasi che il pianoforte "abbracci" gli accordi sfoderati da May ed il brano cresce sempre maggiormente di intensità, con anche la voce di Mercury che diviene meno acuta e più tonica, e le parti di chitarra che di quando in quando decidono di divenire più incalzanti e "Rockeggianti". Si ritorna ben presto ad udire in solitaria il pianoforte, quando tutto torna in una dimensione maggiormente leggera ed "eterea" ed anche Freddie torna a cantare in maniera ben più delicata, con il piano che incalza splendidamente e rende i toni della canzone assai più drammatici. Giochi di cori e la chitarra di May protagonista in sottofondo, una ritmica giusta e mai invasiva, che entra in gioco quando il climax si fa ascendente ed il brano è lì e lì per toccare il suo culmine. Minuto 3:12, Roger decide che è arrivato il momento di accelerare e parte un ritmo incalzante e veloce, si raggiungono toni concitati e quasi baroccheggianti, nuovamente neoclassici, con in sottofondo uno splendido momento solista di May. L'epilogo è in dissolvenza, dà quasi l'idea di un sipario che lentamente si chiude. Siamo senza dubbio al cospetto di uno dei più bei pezzi di quest'opera, un brano che sembra vada a presentare l'album successivo visto l'aspetto mitologico che racchiude in sé. Il testo è senza dubbio un viaggio fantastico in cui l'aspetto descrittivo è l'assoluto protagonista. Il personaggio in questione, un Re "fatato", quasi un sovrano magico dotato di immensi poteri (è capace di controllare le maree ed i venti, di "far tutto nel modo giusto e niente nel modo sbagliato") è enfatizzato in maniera eccelsa; ci viene presentato come una figura imponente, quasi venuto fuori dai romanzi del ciclo Arturiano e Tolkeniano (sembra in qualche modo incarnare la potenza di Artù con la saggezza e la magia di Merlino, il carisma di Aragorn con i poteri di Gandalf), tutto è contornato da colori e valori assai positivi, magici, ma in seguito spezzati dal dolore e dal risentimento. Questo magico mondo e questo potente sovrano hanno ricevuto una pesante "sconfitta", e tutto cambia colore come la pelle di un camaleonte: i mari si prosciugano, i colori scompaiono, il fuoco infernale divora tutto il resto del paesaggio e nulla sembra più risplendere. La gioia e la bellezza serafica del reame incantato sono state distrutte inequivocabilmente, il Re (che sembra un antitesi del Re Ratto precedentemente incontrato) non può più fare in modo che la nostra avventura in quel magico posto continui. Ancora una volta un finale criptico, che sia l'incapacità totale dell'umanità moderna di sognare, ad aver determinato la fine di questo luogo incantato? Magari il Re e tutto il suo regno si nutrivano proprio della nostra volontà di fantasticare, di abbandonarci di quando in quando a determinate "visioni" che la nostra mente crea, viaggiando selvaggia. Persi dietro il pragmatismo ed il conservatorismo borghese, abbiamo dimenticato come si sogna: che sia stato tutto questo, il motivo della fine dell'incanto? Molto particolare il verso conclusivo, in cui vi è una piccola "autocelebrazione" da parte del frontman, il quale cita in un verso il suo cognome d'arte, Mercury, parlando esplicitamente del Dio Mercurio chiamandolo però "madre", ed invocando il suo intervento perché l'alone di devastazione che circonda il regno fatato svanisca, facendo ritornare tutto alla normalità. Un verso che sembra esser stato concepito ancor prima che il nativo di Zanzibar decidesse di adottare questo cognome, visto che fu proprio in seguito alla stesura di questo testo che decise, incantato dalle sue stesse parole, di omaggiare in questo modo il Dio greco.

Liar

Passiamo alla quinta traccia, "Liar", sempre appannaggio totale del frontman e scritta nel 1970 quando ancora Freddie era noto con il cognome nativo (Bulsara). Il brano inizia con un docile "ticchettio" di piatti e campanaccio, presto preso per mano da un incalzante battito di tamburi, un drum kit suonato per intero, che ci mostra splendidamente le abilità dietro le pelli di Taylor. Senza scordarsi dello splendido lavoro di Deacon al basso (ben più che un semplice accompagnatore, il nostro John), il duo ci dimostra come la sezione ritmica dei Queen sia pressappoco perfetta sia in fase di rifinitura del suono sia in fase di manutenzione del ritmo. E' tempo dunque, per la chitarra di May, di ruggire in maniera aggressiva e possente; forgiato nel fuoco ritmico di Taylor e Deacon, il riff scandito dal bravo chitarrista sembra dapprima più melodico e pacato, dalle venature blues, ma in seguito esplode, andando a toccare lidi Hard Rock raggiunti da colleghi come Jimmy Page e Leslie West (un sound che in effetti ricorda sia i già citati Zep sia i Mountain). Si continua in questo modo, con una chitarra dura e ruvida ed una ritmica precisa e potente, finché non entra in scena la delicata ma decisa voce di Freddie, accarezzata dagli arpeggi di Brian, che camaleonticamente cambia stile quasi "in corsa". Eccovi dunque il prorompente attacco corale che sottolinea un ritornello con il quale fanno nuovamente ritorno dei toni maggiormente più duri e concitati, una porenza che la fa da protagonista per l'intera durata del brano. Batteria e chitarra si intrecciano in passaggi sfrenati, come una sorta di chiasmo, e ci pensa il basso di Deacon  a fungere da collante fra la ritmica e l'espressione di Brian. Ecco che ripartono cori e sovrapposizioni vocali dorate, avvolte successivamente da un'ondata ricca e prepotente di percussioni e ritmiche. Un meraviglioso assolo di mr. May ci fa capire quanto l'anima Hard Rock dei nostri non sia affatto da sottovalutare, nonostante i forti innesti melodici e talvolta rasentanti vette "operistiche", come già visto. Minuto 4:18, un concitato battere di campane dei piatti e la voce di Freddie spadroneggiano aumentando il "calore", presto i tamburi cominciano a rombare furiosi battendo un ritmo quasi tribale, e ritorna in grande spolvero, più "cattiva" che mai, l'ascia di Brian che scandisce l'ultimo passaggio, andando poi a terminare in una nuova espressione di Freddie. Se non ci troviamo quasi in situazioni di proto Epic Metal, poco dovrebbe mancarci. Il brano sembra congedarsi ma invece i quattro ci offrono cori a non finire, presi per mano da una performance strumentale incandescente, che spazia dall'Hard Rock a vette epiche, passando per cori operistici. Voci e strumenti creano un turbine sonoro e improvvisamente quel sipario musicale si chiude magicamente, portandoci alla fine del pezzo. Il testo è un mix tra rabbia ed autoaccusa, in cui si cela una sorta di desiderio di riscatto e redenzione. Vengono usate parole forti, con le quali il protagonista subisce una sorta di mortificazione, in seguito agli atti compiuti. Egli cerca dapprima di implorare il perdono da parte di un prete ("Father" in italiano è l'equivalente di "Padre", ma ben sappiamo che questa parola è usata in Inghilterra ed in America per rivolgersi ai parroci o ai pastori evangelici e luterani), confessando i suoi peccati ("ho peccato, padre.. ho peccato!"). La figura ecclesiastica sembra comunque non volergli dar conto, né tantomeno volerlo assolvere. L'uomo è considerato da tutti un bugiardo (da qui il titolo del brano) inaffidabile, e nemmeno più Dio, da lui invocato ("Ho rubato, Signore.. ho rubato così tante volte.. so che non avrei dovuto!"), vuole concedergli un'altra possibilità. Egli è affranto, bollato dalla società come un meschino ingannatore, la sua cattiveria ha lasciato il segno nel cuore di molti. Per riscattarsi del tutto decide, in ultima battuta, di mettersi totalmente al servizio di sua madre, per poterla in qualche modo assistere fino al giorno della sua morte (volontà comune di molti criminali e carcerati, che per espiare le proprie colpe si rivolgono direttamente alle madri, per loro autentiche dee in terra. Ottenere da una madre il perdono, proprio perché ella è la persona che più soffre per la cattiva condotta della prole, significa riscattarsi al 100&%). Dovrà comunque continuare a subire il peso del pregiudizio, nonostante la sua nuova vita e la sua nuova condotta.

The Night Comes Down

Il sesto brano, "The Night Comes Down" (scritto da Brian May nel 1970 poco dopo lo scioglimento degli Smile) parte con un secco attacco di batteria, subito bissato dall'entrata in scena di un plumbeo giro di basso con un particolare accompagnamento di chitarra. Sembra quasi che Brian voglia darsi a ritmiche richiamanti il flamenco, difatti l'atmosfera è a dir poco "spagnoleggiante" grazie ai toni etnici con i quali il bravo chitarrista è bravo a rivestire le sue note.  Subito dopo entrano in gioco però suoni a dir poco orientali, forse richiamanti alcune delle suggestioni inserite dai Rolling Stones nella loro celeberrima hit, "Paint it Black"; possiamo in effetti udire un sound che alla lontana ricorda il sitar usato da Jagger e co. nel loro brano, altra prova della grande versatilità che May riesce a sfoderare per donare grande personalità ad ogni brano. Udiamo in seguito una chitarra molto più delicata ed orientata verso un soft-rock molto atmosferico e tranquillo. La ritmica è lenta, a tratti malinconica, e bacia delicatamente l'udito di chi ascolta. Le note calde di Brian abbracciano la voce possente del leader Mercury, il quale sfodera un impeccabile falsetto alternato ad un cantato ben più profondo ed intenso. Una dolce coperta di note e suoni cupi, sovrapposizioni vocali (cori che al solito qualificano il combo inglese, assurgendo a veri e propri tratti distintivi del loro sound) fanno da strascico a questa ballata quasi "silenziosa" nel suo svolgimento, per nulla invasiva, anzi. Anche quando Brian decide di sfoderare l'elettrica questa non risulta mai rombante né aggressiva, ed abbiamo modo dal minuto 3:32, di udire una corsa frenetica di basso e batteria, presto raggiunti da un assolo di Brian May, melodico ma ben più sofferto di quanto sino ad ora udito. Quasi un'antitesi con il clima serafico ed arcadico già udito, ci avviamo così alla fine di una ballad che solo nel suo inizio e fine risulta un poco, quel tanto che basta, "concitata". Il testo si può definire una malinconica poesia uscita dalla penna di Brian May, in cui il nostro lascia trasparire una certa nostalgia della giovinezza, sottolineando al contempo la non sempre rosea vita da adulto. In una strofa c'è un vago ricongiungimento ambiguo ad una celebre canzone dei Beatles, "Lucy In The Sky With Diamonds" (tratta dal capolavoro "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band", del 1967): il verso in questione è  "..Lucy was high and so was I dazzling holding the word inside". Brian era un ben noto fan dei Beatles, band che influì molto sullo stile compositivo dei Queen. Proprio perché in molti credevano che il brano di Lennon (fu lui il compositore di "Lucy..") parlasse degli effetti delle droghe allucinogene (in realtà il musicista spiegò che l'ispirazione la trasse unicamente da un disegno di suo figlio), anche Brian ci presenta una Lucy alquanto "high", parola dello slang americano che sta ad indicare l'essere sotto effetto di droghe. Anche il chitarrista è come la sua compagna, tuttavia non vi è squallore o comunque "bruttezza" in ciò che ci viene narrato. Ci troviamo dinnanzi a due adolescenti forse un po' "alticci" ma innocui, ingenui ribelli che si godono letteralmente l'inesperienza dei loro anni, senza sconfinare in situazioni pericolose. Tempi che il chitarrista rimpiange, in quanto adesso è calata la notte, di conseguenza è arrivata l'età adulta e con essa un carico enorme di responsabilità. Il non potersi più permettere innocue sciocchezze, il non poter più vedere il mondo con occhi vergini ed adamitici, l'approcciarsi al tutto con semplicità e serenità; è ora di far fronte agli obblighi ed ai doveri, al lavoro ed alla conseguente maturità.

Modern Times Rock And Roll

In settima posizione troviamo "Modern Times Rock And Roll", primo pezzo non appartenente al duo Mercury - May ma anzi scritto e cantato da Roger Taylor. Il suo inizio è devastante, sentiamo immediatamente un incalzante e trascinante attacco di chitarra e batteria, quasi caotico, Hard Rock in piena regola, forse il brano più aggressivo del lotto ed assai debitore delle esperienze Zeppeliniane. Il corpo del brano è un connubio di ritmiche ossessive, di riff ed accordi che si rincorrono senza sosta ed incessantemente; il tutto dà vita ad una vera e propria tempesta sonora, che istigherebbe quasi alla mischia selvaggia e che nel suo incedere non può non farci capire quanto certi episodi dei nostri abbiano effettivamente ispirato tutti coloro i quali che, quasi dieci anni dopo, avrebbero indossato chiodi e borchie. La voce è appannaggio totale di Taylor, il quale prende in prestito qualcosa da un certo Robert Plant, e sono i cori dei compagni a suo supporto nel ritornello che marcano in modo netto le frenetiche strofe, alimentando affannosamente i ritornelli ma comunque donandogli le tipiche caratteristiche di un brano dei Queen. Il finale si ricongiunge all'inizio, nemmeno due minuti di brano ma tanto ci basta per decretarne il successo.. un pezzo sorprendente e sconvolgente, Hard Rock allo stato puro, ispirato ed in seguito ispiratore. Dato il ritmo, il testo non può non parlare di ribellione e desiderio di emergere in qualche modo, anche nel modo più oltraggioso, quasi da destare scalpore. Qui emerge prepotente l'anima Rock di Roger e la bramosia di notorietà, un testo ed una canzone che, per molti critici musicali, fece pensare a posteriori ad una sorta di ispirazione per quel che sarà poi il movimento Punk. Fu in particolare un musicista, Nile Rodgers (bassista degli Chic ed in seguito uno dei produttori di musica più importanti del pianeta), a sostenere questa tesi, affermando che sicuramente lo stile musicale qui proposto dai Queen ha di molto influenzato i padri fondatori del genere ribelle per antonomasia. Difatti, le lyrics non le mandano certo a dire: "il '58 è stato grandioso ma quei tempi ormai sono finiti, qualcosa di più duro sta nascendo, che bucherà i muri!!". L'ideale di potenza del Rock viene quindi descritto come un qualcosa in grado di abbattere ogni tipo di censura o barriera, nulla poteva fermare quello che in quegli anni stava nascendo. I Queen, così come i loro colleghi contemporanei, erano i profeti del nuovo stile (quello che sarebbe sfociato di lì a poco anche nell'Heavy Metal), ancora più massiccio e selvaggio di quello mostratoci dai padri fondatori. I '70 erano ormai entrati nel vivo e la gente era affamata di novità, di trasgressione, di ribellione: un sound duro ed energico che potesse catalizzare l'attenzione delle masse sempre bramose di esagerazione. Ed i nostri Queen erano lì per quello; facciamo crescere i nostri capelli, indossiamo vestiti particolari ed estrosi, sfoggiamo piercing e facciamo in modo di trovare qualcuno (un produttore) che possa farci diventare la più grande band del pianeta (forse quest'ultimo punto cozzerebbe contro lo spirito ribelle dei Punks, ma per quel che riguarda l'atteggiamento ed il vestiario, sicuramente siamo quasi sulla stessa lunghezza d'onda), questi sono i messaggi lanciati dalla band inglese, che ha sete di affermazione e voglia di arrivare in alto.

Son and Daughter

L'ottavo brano, "Son and Daughter", scritto questa volta da Brian May nel 1972 parte con una attacco corale in pompa magna incalzato da un deciso e graffiante accordo di chitarra, spolverato con un riff ed un giro di basso cupo che fa da accompagnamento per tutta la durata del pezzo. Un incedere forte e maestoso, di grande impatto, quasi "sabbathiano" a tratti, se non fosse per i cori che stemperano incredibilmente l'atmosfera. Un sottofondo degno di Tony Iommi, anche se ad accoglierci non è la voce di Ozzy. Entra infatti in scena la ruggente voce di Freddie, che si articola con omogeneità a quanto udiamo ed enfatizza ritornelli e strofe, donando al tutto un incredibile carisma. Un brano reso magnifico proprio dall' "oscurità" della base e dalla sua voce comunque sempre limpida e squillante. Un modo di cantare che quasi "contra" con l'atmosfera proto Heavy che stiamo udendo. Un Hard Rock quasi venato di un blues "oscuro" nel suo avanzare. Il finale, in netto contrasto con quanto udito, è una specie di inno alla psichedelia, i riff sembrano una danza forsennata di note acute e vivaci e il ritmo e in constante crescendo, fino alla sfumata definitiva. Il testo del brano è una sorta di sfogo personale, in cui vi sono sentimenti di rabbia per una relazione tormentata. Il ritornello "..i want you to be a woman" ("voglio che tu sia una donna") è una specie di accusa atta a portare alla luce un forte senso di disagio e di stanchezza nell'essere un "fantoccio" di una partner forse troppo proiettata verso il divertimento e la mancanza di senso della responsabilità. Un testo breve ed a tratti criptico, ma comunque indirizzato ad una donna che non riesce a dare al protagonista quel senso di sicurezza che lui vorrebbe tanto provare, in quella relazione. Un rapporto destinato a finire in maniera brusca e per nulla indolore, visto che Lei non ha intenzione di cambiare ed il nostro è stanco di star dietro a tutti i suoi capricci ed alla sua lunaticità. Tutto ciò comporta quindi un triste epilogo, la rottura fra i due da parte di lui, esasperato, deluso e quasi "sconfitto" da questa situazione venuta tristemente a crearsi.

Jesus

Il nono brano "Jesus", anch'esso scritto da Freddie Mercury inizia con un accordo rockeggiante di May, un suono incalzante e deciso, abbracciato da un potente ritmo di batteria, che fa da tappeto sonoro. Immediatamente entra in scena Freddie che con voce chiara e limpida intona le prime strofe: i cori sono caldi, quasi solenni ed esprimono in pompa magna tutta la potenza del nostro combo, in questo frangente quasi impegnato in un'affascinante versione quasi "gospel", in una singolare lauda al Re dei Giudei. A poco più di metà viaggio, la temperatura sembra salire, grazie a delle ritmiche più marcate ed a giri di chitarra e basso, che all'unisono creano un tornado di sonorità heavy in un clima che diviene totalmente concitato, un tornado di note che ci lascia spiazzati e quasi ci fa dimenticare che il tema centrale di un brano come questo sia la sacralità della figura religiosa per antonomasia. Deacon martoria il suo basso, Roger percuote senza paura i suoi tamburi e fa vibrare i piatti, May riesce a tirar fuori il meglio della sua ascia, sempre molto composta e mai "maleducata".. ma in questa occasione come in molte altre del disco, graffiante e ruggente. Il tutto viene "spezzato" dal ritorno in scena del leader che va a scandire le ultime strofe, Mercury che va poi a ricongiungersi con un coro dorato sino alla fine di questo sorprendente brano. Il testo racchiude in sé un concetto particolare, legato alla figura di Gesù Cristo. Non ci è dato sapere se vi sia voglia di celebrarne la figura (anche se ne dubitiamo) o sia un semplice racconto ispirato al profeta, sta di fatto che Cristo viene presentato in maniera comunque "neutrale", senza voglia di far polemiche. E' circondato da poveri e lebbrosi che lo supplicano di aiutarli e lui, senza dire nulla, tende il palmo della sua mano per compiere il miracolo e scacciare via la piaga della malattia da un uomo che gli si è buttato ai piedi, implorandolo. "Vai, ora sei un uomo nuovo", dice Gesù, del quale poi viene narrato l'episodio della nascita. I tre Re Magi seguono una stella cometa, giungendo fino alla stalla dove il "Re degli Uomini" è nato, la folla si accalca per andare a porgli i suoi rispetti, così come la folla si radunerà, in seguito, per circondarlo chiedendo benevolenza e carità.

Seven Seas Of Rhye

Siamo dunque giunti alla conclusione di questa prima opera dei Queen: "Seven Seas Of Rhyeè difatti sia l'ultimo pezzo del disco sia l'ultimo dell'opera scritto da Freddie Mercury. E' un brano assai contenuto a livello di durata (appena un minuto abbondante) e successivamente verrà ripreso nel secondo album presentandone la versione completa. Quella che udiamo in questo primo disco inizia con un passaggio arpeggiato di pianoforte, fuoriuscito dall'estro compositivo dello stesso Freddie. Un pianoforte presto enfatizzato da un accordo ruggente di chitarra e dal ritmo incalzante del duo Taylor - Deacon, bravissimi a rendere il clima assai "massiccio", mentre la chitarra di Brian emette note acute in una piccola espressione solista molto piacevole e veloce, ma destinata unicamente a chiudere la nostra esperienza sonora. Un minuto abbondante che ha comunque entusiasmato i fan, tanto da far cogliere la palla al balzo ai nostri che, come già specificato, riprenderanno questo pezzo estendendolo nel successivo "Queen II".

Conclusioni

Che gli dei ci siano testimoni, compiendo un balzo indietro ed andando a sfogliare l'abc della Storia del Rock abbiamo riscoperto una perla più unica che rara. Un debutto apprezzato come meritava solo a posteriori, ma sin dalla sua "nascita" incredibilmente valido, estroso ed eclettico. Un lavoro certo ancora "seminale", che vede i Queen impegnati a barcamenarsi in un eclettismo adottato anche e soprattutto per decidere quale sarebbe dovuta essere la strada da percorrere. Tante idee, tanti progetti, un vulcano in continua eruzione, un debut album che molti avrebbero voluto annoverare nella loro discografia: tutto questo è "Queen", un disco coraggioso, figlio del periodo e sicuramente legato a molti stilemi già uditi, ma unico nel suo genere, per via dell'estro creativo di Freddie e co., una genialità che funge da collante fra vari periodi storici della musica, legandoli in una proposta coraggiosa e per nulla scontata. Possiamo trovare di tutto, in questo disco, dalle ritmiche proto Heavy alle atmosfere sognante, da cori e ritornelli irresistibili sino a dinamiche ben più flokloristiche. Un genere musicale quasi inclassificabile, come è sempre stato quello della Regina. C'è chi lo definisce Rock, chi Hard Rock.. noi lo definiremmo semplicemente "il genere dei Queen", un gruppo che sin da subito ha dimostrato grande personalità e carattere, nonché notevoli capacità tecniche. Brian May è un chitarrista dal tocco distinguibile fra mille altri, John Deacon è un bassista di tutto rispetto ed importantissimo nel lavoro di rifinitura, Roger Taylor un'autentica sicurezza dietro le pelli, campione anch'egli di personalità.. e per ultimo ma non certo per importanza, il grande Freddie Mercury, con la sua voce che non sembra vera, in alcuni tratti, per quanto risulti incredibilmente versatile, chiara, nitida e cristallina. Un valore aggiunto per una band comunque composta da grandi musicisti, questo c'è sicuramente da affermarlo. In linea di massima, possiamo definire quest'opera come un terremoto di suoni e ritmiche, contornata da sentimenti forti (molti brani sono in effetti dotati di una passionalità nell'esecuzione assai notevole), un contesto in cui queste quattro menti pensati, unendo vari stili musicali, hanno scavato nelle viscere della ricerca e di quell'evoluzione della quale erano assai assetati, vogliosi di proporre qualcosa che fosse solo loro. Come dunque un sole all'apice dello zenit illuminarono lo scenario artistico, accomunando le sonorità più cupe con parti poetiche, giungendo per nulla timidamente in un mondo che, nonostante fosse già abbondante di grandi nomi, era pronto sin da subito ad accoglierli a braccia aperte.

1) Keep Yourself Alive
2) Doing All Right
3) Great King Rat
4) My Fairy King
5) Liar
6) The Night Comes Down
7) Modern Times Rock And Roll
8) Son and Daughter
9) Jesus
10) Seven Seas Of Rhye