PULP FICTION
Music From the Motion Picture Pulp Fiction
1994 - MCA Records
ANDREA ORTU
06/03/2018
Introduzione Recensione
Conobbi Quentin Tarantino in un periodo particolare, nel 2002, quando avevo quindici o sedici anni. All'epoca, il regista americano era già esploso nel mondo del cinema col suo film di debutto, Le Iene (Reservoir Dogs), per poi raggiungere l'apice con una pellicola entrata di diritto nella storia del cinema, nell'immaginario collettivo e infine quasi nella leggenda: Pulp Fiction, palese omaggio di Tarantino a un genere letterario che, nel cinema, si tradurrebbe normalmente in exploitation. Da quel capolavoro, datato 1994, erano però passati ben otto anni, e ne mancava ancora uno all'uscita di Kill Bill, ennesimo cult che nel 2003 avrebbe rilanciato verticalmente la carriera del suo autore. Certo, c'era stato l'ottimo Jackie Brown, considerato tuttavia un episodio minore, e la sceneggiatura di True Romance, ma nulla che mettesse nuovamente in risalto la figura Tarantino, che facesse parlare di lui da un oceano all'altro. Quando, per così dire, "scoprii" il buon vecchio zio Quentin, i suoi film avevano tra noi ragazzini una sorta d'aura di ricercatezza, come fossero appartenuti ad una ristretta cerchia d'élite, e non come fossero stati - più realisticamente - prodotti d'intrattenimento con una grossa distribuzione alla base. In fondo, vien da pensare col senno di poi, sta anche in questi dettagli il segreto del successo di Tarantino: l'essere patinato riuscendo a passare per anarchico, underground, sopra le righe ed intimamente "rock 'n' roll". Un aspetto che, lungi dal considerare ipocrita, ammiro profondamente e ritengo positivo, se affidato a mani capaci. E le mani di Quentin lo sono eccome. Il mio personale "battesimo" ebbe luogo con Le Iene, tutt'oggi il mio preferito della sua filmografia, perfetto e quadrato in ogni dettaglio, cinico, tagliente, spassoso e ansiogeno al tempo stesso. Con un budget di poco superiore al milione di dollari - una miseria per gli standard hollywoodiani - Tarantino dimostrava di poter dare vita ad un capolavoro campione d'incassi con pochi soldi, uno stanzone ed un mucchio di dialoghi semplicemente geniali. Quel film, "rock 'n' roll" lo era per davvero, e non solo per la scena dello sbirro sullo sfondo di "Stuck in the Middle with You". Gli elementi alla base del futuro Genio c'erano tutti: la cronologia frammentata, gli scambi di battute al fulmicotone, l'umorismo cinico e dissacrante, le interpretazioni memorabili e naturalmente la violenza... anzi, il pulp, l'elemento cardine di tutta la filmografia di Quentin Tarantino. Così, dopo aver amato Le Iene misi subito mano al suo secondo film, da molti considerato il suo capolavoro imbattuto, la summa di tutto ciò che intendiamo oggi parlando di opere "tarantiniane", ovvero quel Pulp Fiction capace di consacrare la carriera di Uma Thurman, rilanciare quella stagnante di John Travolta e mettere insieme due badass unici come Bruce Willis e Samuel L. Jackson. Oltre, naturalmente, a vincere alcuni dei premi più ambiti nel mondo del cinema, senza contare tutti i riconoscimenti e le nomination. Un successone col botto. La trama del film si snoda in diversi episodi apparentemente scollegati fra loro, ma uniti dal filo comune della malavita di Los Angeles e da una misteriosa valigetta; l'episodio che vede protagonisti i due gangster interpretati da Jackson e Travolta, Jules Winnfield e Vincent Vega, rimane il più memorabile per i dialoghi e per due scene in particolare, divenute intramontabili: la frase a effetto di Jules poco prima di giustiziare dei poveri disgraziati, e la celebre scena di ballo tra Vincent e Mia Wallace, la moglie del boss, interpretata da un indimenticabile Uma Thurman. In realtà, la vicenda di Vincent e Mia rappresenterebbe una storia a parte, ma il modo in cui le diverse narrazioni s'intrecciano è parte del fascino del film. L'episodio di Bruce Willis vede l'attore nei panni di un pugile a fine carriera, Butch Coolidge, costretto a immischiarsi con la malavita per pura necessità e una buona dose di nichilismo, oltre che per amore. Anche in questo caso, c'è una scena rimasta indelebile nell'immaginario di genere: quella che vede il rapimento, da parte di pazzi sadomasochisti, di Butch e Marsellus Wallace, il grande capo della malavita di Los Angeles (interpretato da Ving Rhames), intorno ai cui affari ruota tutta la storia del film. L'episodio di Ringo e Yolanda, interpretati da Tim Roth e Amanda Plummer, fatto praticamente di soli dialoghi, incornicia idealmente l'opera di Tarantino con due scene, una all'inizio e l'altra alla fine del film. Insomma, uno schema apparentemente complicato e per di più "spalmato" in oltre due ore e mezza di film, reso tuttavia non solo comprensibile, ma anche estremamente scorrevole dal genio di una messa in scene tanto perfetta quanto personalissima. Tuttavia, nonostante le sfavillanti interpretazioni, la regia migliore di un Tarantino in stato di grazia, ed una storia cattiva al punto giusto, il film non avrebbe raggiunto lo stesso successo senza una colonna sonora non solo adeguata al contesto, ma anche unica e memorabile, figlia degli eclettici gusti musicali del regista. Per Tarantino, la musica è fondamentale quanto le immagini, motivo principale per cui in realtà non ne abusa affatto, ma anzi l'inserisce solo laddove possa raggiungere un effetto catartico, usandola spesso e volentieri non come semplice sottofondo, ma come parte integrante della narrazione: ancora una volta l'esempio più eclatante è su Le Iene con "Struck in the Middle With You", usata da Mr Blonde per dare più... colore alla tortura, nonché per coprire le urla del prigioniero. Un espediente geniale, che in quel caso gioca sulla forte contrapposizione tra ciò che vediamo su schermo e l'allegria suggerita dalla canzone. Pulp Fiction raggiunge l'apice della sinergia tutta tarantiniana fra musica ed immagini, dando luogo a numerosi momenti divenuti letteralmente iconici. La peculiarità di questa pellicola è di non avere una colonna sonora appositamente incisa, ma una serie di brani "d'epoca" scelti appositamente da Tarantino stesso in base al loro sound e alla loro personalità, e successivamente raccolti sull'opera che useremo come riferimento: Music From the Motion Picture Pulp Fiction, un album assai particolare e quasi a sé stante, come se il suo scopo non sia tanto quello di collezionare le tracce presenti nel film, quanto piuttosto di restituirne le sensazioni e le atmosfere facendo del tutto a meno delle immagini. Altro elemento più unico che raro, di sedici tracce solo nove sono canzoni, mentre le altre sette sono in realtà dialoghi estratti dal film; una mossa geniale (ho idea che userò spesso questa parola, per Pulp Fiction), e non solo per il fatto che i dialoghi rappresentano l'elemento più marcato e intellegibile del cinema tarantiniano, ma anche e soprattutto perché i fenomenali scambi di battute presenti nel film, fanno parte integrante della sua musicalità, della sua progressione non tanto in termini di contenuto - essendo quelli più memorabili del tutto avulsi allo sviluppo della storia - quanto proprio in chiave di ritmo. Non a caso, il disco che andremo ad analizzare, e attraverso il quale rivivremo alcune delle scene più importanti del film, è stato voluto e curato dallo stesso Quentin Tarantino, uomo dai gusti particolari e senza tempo. La colonna sonora di Pulp Fiction, realizzata anche con l'inestimabile aiuto di Allison Anders e Boyd Rice, spazia dal soul al country, dal pop al rock 'n' roll, con un orecchio di riguardo per quello che la storia - o meglio, la stampa - ha consacrato come Surf Rock, movimento con il quale lo stesso Tarantino ha dovuto precisare di non essere minimamente coinvolto, avendo per lui un sound semplicemente "rock", ma che si rivela il più adatto a cogliere le atmosfere paradossali del film. Per descrivere il legame che esiste fra la musica e le creazioni del Maestro, tanto vale citare le sue stesse parole:
Una delle cose che faccio quando sto iniziando un film, quando lo sto scrivendo o quando sto avendo un'idea per portarlo avanti, è immergermi nella mia collezione di dischi ed iniziare semplicemente a sentire le canzoni, cercando di trovare la personalità e lo spirito del film. E allora BOOM, pesco una, due o tre canzoni, o una in particolare... "Oh, questa sarà una grande canzone per i crediti d'apertura".
Andiamone a parlarne, di queste canzoni, ma ricordate: attenti agli SPOILER!
Pumpkin and Honey Bunny / Misirlou
_ Ti amo, zucchino mio.
_ Ti amo, coniglietta mia... Nessuno si muova! Questa è una rapina!
_ E se per caso qualcuno di voi coglioni si azzarda a muoversi, io vi faccio secchi, brutti figli di puttana! Tutti, fino all'ultimo!
La canzone che accompagna i titoli d'apertura di Pulp Fiction è rimasta nell'immaginario collettivo, tanto è geniale com'è stata piegata allo spirito del film. Tuttavia, all'inizio, i titoli sono preceduti da una breve scena interpretata da Tim Roth e Amanda Plummer, nei panni di un'insolita coppietta di ladri i quali, tra loro, sono soliti apostrofarsi come "Pumpkin" e "Honey Bunny", da noi "Zucchino" e "Coniglietta". Il primo brano della nostra scaletta inizia con le ultime battute del dialogo tra i due malavitosi amanti, seguite immediatamente dalle concitate note di Misirlou nella versione di Dick Dale e la sua band, i Del Tones. Si spiega così il titolo dell'opening: Zucchino e Coniglietta / Misirlou. Il nome della canzone interpretata da Dick Dale e i suoi ragazzi significa grossomodo "donna egiziana", o anche "donna musulmana", e sebbene il termine Misirlou sia greco, l'origine della parola deriva dalla traslitterazione turca di un termine egiziano. Parliamo infatti di un brano folk di matrice sì greca, ma le cui radici si perdono nei secoli di convivenza e conflitto tra ottomani, nordafricani e popolazioni balcaniche; un turbinio culturale che in qualche modo si riflette nella moltitudine di colori in un pezzo affascinante e articolato, trasformato, non senza un pizzico di malizia, in puro rock 'n' roll dai Del Tones di Mr. Dale, tutt'altro che i primi a riscoprire quest'antico folk. Molto prima di diventare un pezzo simbolo del surf, Misirlou era stata già re-interpretata da numerosi autori, tra i quali il jazzista Nick Roubanis, nel 1941, e il pionieristico musicista Juan García Esquivel, nel '59. Poi ancora Woody Herman, Miriam Kressyn, Jan August, Korla Pandit e Arthur Lyman. Dick Dale arrivò solo nel 1962, ma la sua versione fu quella destinata a lasciare il segno: l'originale, almeno nelle sue varianti più popolari, è un pezzo dall'imponente struttura corale le cui radici cirilliche finiscono per riportare alla mente le minacciose marce russe, mentre dal punto di vista strumentale è ammaliante e rilassante, decisamente meno concitato di quello di Dale, una corsa forsennata che rinuncia alla vocalità in favore di un sagace intreccio ritmico, rimarcato da strumenti d'origine orientale, chitarre e da un costante crescendo di strumenti a fiato. La sensazione di questa Misirlou non è quella della fascinazione per la donna mediterranea, ma quella dell'abile cavalcare le onde fra le urla di ragazze in bikini, o perché no, di un inseguimento fra le strade assolate di Los Angeles. D'altronde, l'inseguimento è la chiave e il fulcro di ogni poliziottesco che si rispetti, e l'amore di Tarantino per il genere è ben risaputo. Tra i "maestri del maestro" troviamo infatti i nostrani Umberto Lenzi e Castellari, oltre a Mario Bava, Argento e Fulci, ma anche una varietà d'autori exploitation e hard boiled da ogni parte del mondo, Asia in particolare. Non solo Tarantino afferra lo spirito del brano riuscendo a farlo suo, trasformando Misirlou nell'inno di un'improbabile malavita immaginaria e dannatamente cool, ma trova il nesso fra le sonorità mediterranee del pezzo originale e quelle della California del surf, una terra che, nonostante si trovi dall'altra parte del globo, si ritrova in larga parte baciata da un clima "mediterraneo". Se già nel '62 la canzone di Dick Dale aveva scosso il mercato e l'andazzo del settore, spingendo i Beach Boys e tanti altri a dare una loro versione del brano tradizionale, l'intro di Pulp Fiction sancì l'entrata di Misirlou nell'immaginario collettivo globale, con tutti i pro e i contro di una simile penetrazione sociale. Da allora in poi, questo vecchio pezzo folk sarebbe stato per sempre associato alle atmosfere post-moderniste di Tarantino.
Royale With Cheese
Prima di irrompere nelle nostre orecchie con i Kool & the Gang, la nostra peculiare soundtrack ci ripropone il dialogo con cui si presentano i personaggi di Vincent Vega e Jules Winnfield, qui intitolato Royale With Cheese (Regale con Formaggio). Come ogni dialogo di Pulp Fiction, anche questo non è importante in termini di sviluppo della storia, poiché come ogni artista delle immagini in movimento, Tarantino fa cinema solo ed esclusivamente attraverso la messa in scena, non la parola. Tuttavia, lo scambio di battute fra John Travolta e Samuel Jackson riesce a comunicarci in pochissime parole chi sono, e soprattutto come sono, i loro personaggi. I due si trovano in macchina e parlano di erba ad Amsterdam, di hashish bar e di differenze culturali. Vincent Vega, spinto dalla curiosità del collega, inizia ad elencare i nomi europei dei panini del McDonald, e cose del genere, provocando la reazione ora divertita, ora contrariata di Jules. Dal loro dialogo capiamo immediatamente due cose, tipiche di Pulp Fiction come di buona parte del cinema di Tarantino: i due sono criminali avvezzi al mondo della droga, ma al di fuori del loro "lavoro" sono persone comuni che fanno discorsi normali. Quest'ultima caratteristica, in antitesi con la caratterizzazione netta che affligge quasi sempre i "cattivi", era presente anche ne Le Iene, e andrà facendosi via via più marcata nei seguenti dialoghi del film. Non solo le considerazioni mondane, ma perfino l'etica dei due uomini apparirà relativamente normale, quando al di fuori degli ordini ricevuti dal boss. Uno dei tanti elementi geniali dello stile di Quentin Tarantino, cui dobbiamo molti dei personaggi più sopra le righe del cinema moderno.
Jungle Boogie
Facciamo un passo indietro e torniamo ai titoli d'apertura. Ad un certo punto, nel bel mezzo di "Misirlou", un suono di statica radiofonica anticipa il cambio di canzone. È un po' come essere sintonizzati su Super Sound degli Anni '70, la radio immaginaria che ne Le Iene trasmetteva gli Stealers Wheel, solo che in questo caso l'espediente è utilizzato al di fuori della messa in scena, dando allo spettatore l'idea di trovarsi in auto ad ascoltare musica, piuttosto che in sala o sul divano a guardare un film; magari, proprio sulla stessa auto di Jules e Vincent. Repentinamente partono i Kool & the Gang e la loro Jungle Boogie (Boogie della Giungla), credibilmente già iniziata come fosse capitata per puro caso cambiando stazione. Il pezzo è uno di quelli che, se hai almeno dai venticinque anni in su, conosci per ragioni di forza maggiore: parliamo di un caposaldo della discomusic anni '70, le cui radici squisitamente funk derivano dalle maestranze rigorosamente afroamericane. Nel 1994 Jungle Boogie era già un classico, essendo del '73, ma allora come oggi era e rimane un evergreen radiofonico pressoché indistruttibile, coinvolgente come pochi e praticamente impermeabile all'azione del tempo. L'album da cui proviene, Wild and Peaceful, non è necessariamente il migliore dei Kool & the Gang, ma bastò questa singola traccia, trasmessa incessantemente da tutte le radio, a trasformare il disco nel più venduto della band. Il testo è semplice, come si conviene alla natura prettamente ludica dell'opera, caratterizzato non da un discorso omogeneo o da una tematica particolare, ma da una serie d'incitazioni a doppio senso piuttosto leggere. Insomma, il cantante in questo caso non fa altro che l'animatore da discoteca, limitandosi a indirizzare l'ascoltatore verso la musica e il divertimento puro, senza vezzi intellettuali di sorta. Il riferimento al "boogie", oltre a un omaggio al genere, rappresenta un evidente doppio senso indirizzato... be', al fondoschiena dell'eventuale pubblico, più che altro femminile, magari di colore e quindi particolarmente, diciamo... prosperoso da quelle parti. Quanto alla giungla, il riferimento deriva sia dalle origini afroamericane del brano, sulle quali allora si poteva ancora scherzare, sia alla sua natura "selvaggia" e passionale. Mentre il roadie Donald Boyce, occasionalmente chiamato alle vocals, invita il pubblico ad alzare, abbassare e scuotere il proprio "boogie", il bassista Robert "Kool" Bell costruisce le possenti fondamenta sulle quali s'innalza l'intera struttura della canzone. La ritmica definisce una catarsi rimarcata dalle urla e dalle trombe, mentre la voce roca e parossistica del singer trascina l'ascoltatore nel mezzo di una "giungla" umana che, fondamentalmente, potrebbe essere qualsiasi concerto o discoteca degni di questo nome. Nel suo sali-scendi cadenzato e sensuale, il brano s'esaurisce nell'orgasmo di un urlo a la Tarzan, ma nel film non ve n'è traccia: Jungle Boogie sfuma e finisce molto prima, dando spazio a quel dialogo sull'hashish e sui panini di cui abbiamo già parlato.
Let's Stay Together
Dall'inizio del film, consacrato alla conoscenza dei memorabili personaggi di Jackson e Travolta, ci spostiamo all'episodio successivo, intitolato a chiare lettere "Vincent Vega & Marsellus Wallace's Wife". Nonostante il titolo, però, l'episodio in questione esordisce presentandoci Butch, il personaggio interpretato da Bruce Willis, e il famigerato boss finora soltanto vagheggiato: Marcellus Wallace. In realtà non è ancora il momento di sapere che faccia abbia Marsellus, ma solo d'intuirne, attraverso la voce, il carisma magnetico e mellifluo, perfino rassicurante, la dialettica di un criminale efferato che sa esprimersi come e meglio di un qualsiasi uomo d'affari. L'ambientazione è quella di un nightclub in fase d'allestimento per la serata, il genere di locale che lo stereotipo vuole gestito dalla mafia, e questo spiega la canzone che accompagna la scena: Let's Stay Together (Rimaniamo Insieme). Il brano, composto da Al Green nel 1972, appare attutito e sullo sfondo, come fosse effettivamente parte della messa in scena, il tipico pezzo rilassante che si mette a fine serata o, appunto, durante l'allestimento. La canzone è parte dell'omonimo album, e visto il titolo e il periodo, vien da riflettere sull'amara ironia che la sorte volle riservare a Green, seriamente ferito da una donna da lui rifiutata, la cui morte, poco tempo dopo per suicidio, incise profondamente sull'animo e sulle scelte del cantante. Oggi Albert Leornes Green è un pastore protestante e un affermato artista gospel, nonostante il ritorno all'R&B degli ultimi anni, ma nel '72 tutto questo era ancora lontano nel tempo e il cantante era ancora spensierato e giovanile, votato a creare canzoni che ammaliassero un pubblico in larga parte femminile. "Stay Together" non è altro che una canzone d'amore idealizzata e banale, ma non nel senso più spregiativo dell'espressione; semplicemente, non vuol essere null'altro che la promessa d'amore eterno che tante persone agognano, la prospettiva d'un amore perpetuo, assoluto e fedele. Come nella stragrande maggioranza dei prodotti derivativi del rythm and blues, il brano di Green vive della musicalità delle parole, più che del loro significato, caratteristica che impone alla voce di possedere spessore e sensualità, carattere e potenza: tutte qualità che il cantante possiede. La musica, realizzata insieme al produttore Willie Mitchell e al musicista Al Jackson, rispecchia le intenzioni catartiche e idealizzanti del testo, offrendo una melodia d'ampio respiro e spazi corali. La lieve sensualità corre sulle cadenzate linee di basso e sulla voce, ora profonda, ora in falsetto di Green, mentre suoni d'organo e accenni di tromba pongono l'accento sui momenti salienti, il tutto rimarcato da soffusi e delicati arpeggi di chitarra. Nonostante questa canzone faccia da contorno al faccione di Bruce Willis, e alla voce profonda e in qualche maniera sensuale di Marsellus, "Stay Together" è davvero perfetta ad introdurre il capitolo che vedrà protagonista una Uma Thurman mai più così sexy, almeno in un film di Tarantino.
Bustin' Surfboards
...Tutti i miei fori, in diciotto parti del mio corpo, ognuno di loro è stato fatto con un ago. Cinque in ogni orecchio, uno nel capezzolo del seno sinistro, due nella narice destra, uno nel sopracciglio sinistro, uno sulla pancia, uno sul labbro, uno sul grilletto. E sulla lingua ho anche una borchia.
Composta da Norman Sanders e Leonard Delaney dei Tornadoes, Bustin' Surfboards è quanto di più "surf rock" si possa desiderare. Il pezzo si trova giusto all'inizio della vicenda che vedrà protagonisti John Travolta e Uma Thurman: Vincent, il personaggio di Travolta, deve andare a far passare una serata fuori alla moglie del boss per ordine di quest'ultimo, ma prima è costretto a passare da uno spacciatore a fare scorta di mercanzia, e già che ci sta, a prenderne un po' anche per sé. La scena si apre con un dialogo tra due donne, Jodi e Trudi, la moglie del pusher e una sua amica, rispettivamente interpretate da Rosanna Arquette e Bronagh Gallagher. Come tutti i grandi dialoghi del primo Tarantino, fin da quel leggendario discorso sulla "grande fava di Madonna" ne Le Iene, anche questo è del tutto avulso allo svolgimento della storia, ma indispensabile a dare spessore e colore ai personaggi del film. Si parla di piercing, di filosofia del piercing, e delle più intime zone del corpo che la moglie di Lance, il nostro Pusher, è andata a farsi bucare. Sullo sfondo, a volume basso, risuona la canzone dei Tornadoes, una strumentale il cui titolo significa grosso modo "esplodere le tavole da surf", a suggerire un surfing forsennato ed entusiasta. Dopotutto, questi ragazzi di Redlands, California, ci sono praticamente cresciuti vicino al mare, ed è proprio con il rumore del mare che si apre il nostro pezzo. Tonfi echeggianti di batteria anticipano l'attacco di chitarre distorte con lo slide, a ricreare sonorità hawaiane secondo i più rumorosi canoni del rock 'n' roll. Oltre alla costante sinergia tra chitarra e batteria c'è ben poco: Bustin' Surfboard vuole suggerire scenari assolati, sensuali e pigri in meno di tre minuti, e ci riesce benissimo, limitandosi ad offrire spiragli di movimentata allegria qua e là, come nel miglior stile di quel surf rock amato da Tarantino.
Lonesome Town
Un bell'applauso per Ricky Nelson! Davvero fantastico, Ricky!
Voglio solo annunciarvi che Ricky sarà di nuovo con noi nella seconda parte dello spettacolo. Ci auguriamo che gustiate la vostra cena qui al Jackrabbit Slim's. Grazie.
Com'è facile intuire, il sesto brano della soundtrack è di Ricky Nelson, artista americano il cui suono spaziava dal rockabilly al country, morto prematuramente all'età di soli trentacinque anni. Giovanissimo idolo delle adolescenti, Nelson ha sfornato una quantità impressionante di album e singoli, oltre ad essere stato una vera e propria star del cinema. La scena del film è quella in cui Vincent e Mia, la moglie di Marsellus, siedono al tavolo del Jackrabbit Silm's, un grosso locale in stile anni '50 e '60 in cui a servire i clienti sono le grandi star della cultura americana. O meglio, dei tizi travestiti da star: infatti, sul palco del locale c'è davvero un Ricky Nelson che canta, chitarra alla mano, ma naturalmente è solo un abile imitatore. Dopo le ultime strofe di Waitin' in School, il cantante attacca le note di Lonesome Town (Città Solitaria), un malinconico e soffuso brano sulla solitudine e sulla delusione in amore. Il testo parla infatti di un ragazzo affranto dalle pene d'amore che si rifugia a Lonesome Town, una città immaginaria e astratta che rappresenta la solitudine, un consolatorio e lenitivo ritirarsi in se stessi ad aspettare che la ferita al cuore si rimargini. Scritta intorno al 1958 da Baker Knight e reinterpretata da Nelson per l'album "Ricky Sings Again", la canzone inizia con semplici e melliflui arpeggi di chitarra, seguiti dalla candita voce del singer e i suoi coristi, il quartetto dei The Jordanaires. L'atmosfera malinconica si carica lentamente, ma inesorabilmente, solo ed esclusivamente attraverso questi elementi, ovvero la chitarra, la voce principale ed i sapienti interventi corali, offrendo poco più di due minuti di grande mestiere vecchia scuola, in cui la semplicità strutturale è del tutto al servizio del feeling: un'emotività soffusa che vive delle mille sfumature che la voce di Nelson riesce ad esprimere, pur rimanendo nei composti canoni del suo genere. Nel frattempo, Mia e Vincent rompono il ghiaccio...
Son of a Preacher Man
Ciao, Vincent. Mi sto vestendo. La porta è aperta. Entra e preparati da bere. Mia.
Facciamo un passo indietro e torniamo alla scena che precede quella del locale anni '50; in termini di colonna sonora, esattamente a metà fra "Bustin' Surfboard" e "Lonesome Town". Vincent è appena arrivato a casa di Mia e sta cercando di capire da dove arrivi la voce dell'interfono, mentre Mia si prepara di tutto punto in camera sua. La messa in scena è tanto quadrata quanto geniale: in questa sequenza non vediamo Mia, ma la sua presenza è come pregnante, impressa nelle rapide inquadrature del taglio della coca, nel palese omaggio a The Warriors su quel primo piano alle labbra della Thurman, nella voce che giunge dall'interfono e infine nei piedi, ultimo dettaglio prima della scena successiva, indicativo del feticcio tutto tarantiniano per i piedi femminili. La voce di Dusty Springfield e l'atmosfera della sua Son of a Preacher Man (Figlio di un Predicatore), scritta da John Hurley e Ronnie Wilkins, sembra fatta apposta per questa scena, come se la cantante e i compositori avessero pensato la canzone in virtù di questo film. È in momenti come questo che s'intuisce l'abilità del regista nell'usare la musica, nell'entrare in perfetta sintonia con lo spirito del momento e dargli lo sfondo più adeguato. La Springfield è stata una cantante popolare come poche, in Gran Bretagna, capace d'influenzare mode e costumi finché il declino, sancito da quella morale borghese che negli anni '70 aveva ancora qualche potere su chi muoveva sui binari tradizionali, non ne offuscò la luce. Nel '68 la cantante era all'apice della sua fama, e "Son of a Preacher Man" sarebbe stato il suo capolavoro insuperato fino al 1987, anno del ritorno sulle scene a fianco dei Pet Shop Boys. Il testo è una delicata storia d'amore di campagna, soffusa come possono esserlo i più dolci ricordi dell'adolescenza, quando i baci sono rubati e le passioni travolgenti. La voce narrante è della ragazza, ma il protagonista del brano è l'affascinante figlio di un predicatore, "l'unico che le abbia insegnato qualcosa", colui che sapeva guardarla dritto negli occhi mentre passeggiavano lontani da occhi indiscreti, mentre i rispettivi genitori pranzavano insieme e conversavano. L'espressione "yes he was", ripetuta e rimarcata, indica l'allusione a una prima volta consumata di nascosto e con improvviso ardore, mentre "takin' time to make time", prendere tempo per creare tempo, allusione agli eterni attimi di un amore clandestino, rimane una delle più poetiche del pop britannico. Lungi dal suggerire immagini malinconiche o sdolcinate, la musica pone invece l'accento sull'eros intrinseco nella clandestinità e nella giovinezza: pochi accordi di basso e di chitarra creano un'atmosfera sensuale e allusiva, il resto è tutto nella magistrale e sensualissima interpretazione di Dusty Springfield, nel dialogo tra la cantante e le trombe, prima accennate, poi sempre più centrali, in un crescendo di strumenti a fiato che sembra ora rimarcare, ora apostrofare i delicati riferimenti erotici della vocalist. La canzone raggiunge l'apice sul finale, tra la voce divertita e incredibilmente intensa della Springfield, il tripudio di trombe e l'intervento festoso di un coro tutto al femminile. A questo punto, la puntina del giradischi si alza, e la voce di Uma Thurman ordina: "andiamo", in un sensuale muoversi di piedi nudi, piedi che come sappiamo è molto meglio non massaggiare.
Zed's Dead, Baby / Bullwinkle Part II
_ Ma questa motocicletta di chi è?
_ È un chopper, piccola.
_ Sì. Questo chopper di chi è?
_ Di Zed.
_ Chi è Zed?
_ Zed è morto, piccola. Zed è morto.
L'ottava traccia inizia con un estratto delle ultime battute di Bruce Willis e dell'episodio dedicato a Butch, ma la canzone che segue subito dopo ci riporta all'inizio della storia di John Travolta, esattamente a metà fra la scena a casa di Lance e quella a casa di Mia. Visto che il suo Pusher di fiducia gli ha fatto dono di un po' della sua "scorta personale", Vincent si prepara una dose d'eroina in una sequenza girata magistralmente, censurata su numerose versioni di Pulp Fiction a causa dell'esplicita messa in scena della preparazione e del consumo di droga. La telecamera indugia sui dettagli del cucchiaino, della siringa e della sostanza, regolarmente intervallati da primi piani del volto di Travolta, felicemente stordito mentre guida verso casa di Mia Wallace. Sullo sfondo, risuonano le note di Bullwinkle Part II, title track dell'omonimo album dei The Centurions. Il titolo di questo disco, opera tipicamente surf del 1963, indica un certo tipo di alce, e richiama alla mente una vecchia serie animata, The Rocky and Bullwinkle Show. Quanto alla "parte 2", bisogna considerare che esiste una versione più grezza chiamata semplicemente "Bullwinkle" accreditata ai "The Centurians", accessibile nella raccolta "Surf War - The Battle Of The Surf Groups", del 1995. Completamente strumentale, questa canzone vive nei suoi bassi profondi e dall'incedere guardingo, quasi aggressivo, mentre le solite chitarre distorte in slide creano l'atmosfera assolata, sonnolenta e tipicamente surf della California anni '60, perfetta a mettere in scena lo stordimento da droga e l'espressione assente ma soddisfatta di John Travolta. Le tastiere e il sax danno all'insieme quella sfumatura vagamente malinconica e notturna che, nel film di Tarantino, si traduce nell'essenza quasi filosofica della droga e nelle immagini notturne di Los Angeles, un insieme di luci nella notte rischiarata dai fari dell'automobile di Vincent. Poesia delle immagini. Marcia e decadente poesia.
Jack Rabbit Slims Contest / You Never Can Tell
Signore e signori, è arrivato il momento che tutti aspettavate, la gara più famosa del Jackrabbit Slim's, il Twist, signore e signori! Ed è così che una coppia fortunata vincerà questo splendido trofeo che la nostra Marylin ha in mano. Allora, chi saranno i nostri primi concorrenti?
"Eccoci qui", risponde Mia. Nonostante Pulp Fiction sia doppiato splendidamente, questo è uno di quei dialoghi da sentire in lingua originale, tanto è incisivo l'intercalare del presentatore e di Uma Thurman. Come si sarà intuito, siamo nuovamente alla scena ambientata al Jackrabbit Slim's, e ci prepariamo per uno dei momenti più iconici del film e di tutto il cinema anni '90, pronti a ballare insieme a Vincent e Mia sulle note di Chuck Berry e la sua You Never Can Tell (Non Si Può Mai Dire). La scena di ballo tra Uma Thurman e John Travolta non è solo magnificamente girata, interpretata e messa in musica, ma rappresenta anche un rarissimo momento meta-cinematografico: una sottile incursione del mondo reale in quello fittizio del film. Nel 1993, al tempo delle riprese, Travolta era considerato un attore "finito", un artista a tutto tondo bravo, ma non eccellente, che per una qualche fortunata congiuntura astrale s'era ritrovato a interpretare il film più adatto alle proprie capacità: Greese. D'altronde, quando la tua stella sorge con un film destinato fin dall'inizio allo status di "cult", o presti subito il tuo volto a un altro capolavoro, o rimani per sempre impantanato nell'immagine che quel film ha impresso sulla tua vita lavorativa. La carriera di Travolta all'indomani di Greese, altalenante fra titoli dignitosi e vera e propria robaccia, ha purtroppo messo in luce i limiti dell'attore, mettendolo in secondo piano rispetto alla concorrenza maschile dello zoo hollywoodiano. Una ripresa, sebbene puramente in termini commerciali, c'era stata nel 1989 con "Senti chi Parla", commediola d'enorme successo adatta alle corde dell'attore, ben presto offuscata dal disastroso, inguardabile seguito del film. Nonostante l'attività di Travolta spaziasse dalla musica alla recitazione, passando ovviamente per il ballo, nello spietato "star system" americano l'attore era considerato ormai "il passato", l'eterno ragazzone di Greese e null'altro. È proprio partendo da questo preciso concetto che Tarantino gioca il suo Jolly, facendo dono all'attore di una nuova sequenza di ballo, proprio come su Greese, una scena che ne omaggi e ne consacri il ruolo nell'immaginario collettivo, dissipandone paradossalmente la pesante eredità. Il ruolo di Vincent è tagliato su misura per Travolta, Pulp Fiction è il suo primo, vero capolavoro riconosciuto, ed affrontando il "fantasma" del musical, con questa scena Travolta riprende definitivamente in mano la sua immagine e la sua carriera, facendo il suo ritorno sulle scene in pompa magna. E tutto questo, per non citare la bravura e l'eros di Uma Thurman, naturalmente, consacrata alla storia del cinema anche e soprattutto grazie a questa scena memorabile. Una scena in realtà semplicissima e senza pretese, in termini coreografici, ma enorme sul piano delle interpretazioni, della gestualità e della mimica facciale, elementi diretti scrupolosamente dall'occhio attento di Tarantino. Quanto a You Never Can Tell, be', quella era già un classico ben prima del 1994, sebbene Pulp Fiction le abbia donato nuova giovinezza. Conosciuta anche come "C'est la Vie" e "Teenage Wedding", questa canzone è tratta dall'album del 1964 "Saint Louis to Liverpool", ma la sua stesura risale ai primi anni '60, quando Chuck Berry era in carcere per aver infranto il cosiddetto Mann Act. Il testo è tanto semplice quanto romantico, e parla di una giovanissima coppia unita in matrimonio, della sua vita prima difficile, poi sempre più gratificante e piena, fino ad un finale che la vede tornare, dopo tanti anni, alla chiesetta in cui era convolata a nozze. "C'est la Vie", è la vita, dicono gli anziani, perché nonostante le origini umili e la giovane età, non si può mai dire cosa tenga in serbo la vita. Tutto qui. L'attacco del brano è iconico quasi quanto quello di Johnny B. Goode, con quella rapida serie di accordi seguiti dal piano di Johnnie Johnson. È proprio quest'ultimo a prendersi carico di ogni aspetto decisivo, dai momenti più sensuali ed ammiccanti a quelli di spensierata, quasi malinconica catarsi emotiva. La chitarra è cornice, la ritmica di Willie Dixon e Odie Payne, uno scheletro di sapiente leggerezza, e così sono i due sassofonisti a dare alla canzone la sua marcia in più, quella sfumatura essenziale che modifica la percezione dell'intera opera. Su tutto questo, insieme composta e sopra le righe, l'ariosa voce di Chuck Berry. Meno di due minuti e mezzo di puro genio.
Girl, You'll Be a Woman Soon
Questo... è un test sulla moralità di una persona: se riesce o no... a continuare ad essere leale. Perché... essere leali è molto importante!
Pochi ma decisivi istanti di messa in scena per una traccia scritta nientemeno che da Neil Diamond, nel 1967: Girl, You'll Be a Woman Soon (Ragazza, sarai presto una donna). Vincent e Mia, tornati a casa di quest'ultima dopo la serata al Jackrabbit Slim's, vittoriosi nella gara di twist, vengono messi alla prova da una tangibile tensione sessuale. Lei si apparta, a farsi l'ennesima striscia di coca, lui resta per un po' a parlare da solo cercando di togliersi ogni sconveniente idea dalla testa: dopotutto è la moglie del boss. Nel frattempo, tuttavia, l'abuso di droga ha un effetto assai spiacevole su Mia Wollace. La scena, che spezza l'azione tra l'auto-monologo di Travolta e l'overdose di Uma Thurman, è caratterizzata dal sound romantico e malinconico degli Urge Overkill, interpreti di questo vecchio brano di Neil Diamond. Particolarmente morbida per i canoni di questa rock band di Chicago, attiva tra la fine degli anni '80 e la prima metà dei nineties, tale versione di "Girl, You'll Be a Woman Soon" è anche la loro opera più famosa... ovviamente grazie all'attenzione ricevuta da Tarantino. Il gruppo non mancò di rimarcare la cosa nel videoclip dedicato al brano, delineato dall'alternanza di sequenze estratte dal film ed altre con i musicisti che suonano. Il testo, semplice e a metà via tra la morale comune e un romanticismo anticonvenzionale, è la storia di un ragazzo un po' sbandato, impegnato a mettercela tutta per tenere a sé la ragazza che ama, fuorviata dai facili giudizi della gente e di una società cinica e materialista. Lui, costretto alla lontananza, sta pian piano costruendo un futuro per entrambi, avvertendo l'amata che "presto sarà donna". Insomma, un impianto tradizionale che, tuttavia, parte da una premessa all'epoca ancora in discussione. Il sound della canzone è caratterizzato da arpeggi melliflui e vagamente malinconici, sottolineati da una vocalità dolce e soffusa, in accordo con una ritmica subliminale e con il senso delle parole. Le sonorità accelerano e s'induriscono nei momenti di catarsi, laddove il protagonista del brano canta il suo sdegno e la sua apprensione, tornando su binari più cadenzati solo per esplodere in un momento strumentale di notevole suggestione, scivolo ideale per un tipico finale sfumato. Qui, la sottile genialità di Tarantino sta nell'accostare l'imminente maturazione di una ragazza, espressa in musica in termini edificanti e tradizionali, con una scena che ne mette in mostra il disagio nascosto, e la conseguente autodistruzione.
If Love is a Red Dress (Hang Me in Rags)
Buona parte dell'episodio dedicato a Butch, il personaggio di Bruce Willis, è privo di accompagnamento musicale. Particolarmente importante diviene tuttavia il sottofondo dedicato ad una precisa scena: quella del banco dei pegni. Senza andare a svelare il contenuto del film, proviamo a riassumere la situazione: Butch ha vinto l'incontro che, da accordi con Marsellus, avrebbe dovuto perdere, ed è in fuga con la sua compagna, Fabienne, in attesa d'incassare i soldi delle scommesse da un complice. Una serie di sfortunate congiunture lo porta ad attraversare la città, ma si ritrova faccia a faccia col grande capo, il marito di Mia. Fuggendo, Butch entra in un banco dei pegni, ignorando il tizio dietro il bancone, ma dopo aver messo K.O. Marsellus si ritrova disarmato dal commesso e stordito da un calcio di fucile. Ora, questa scena, adrenalinica e concitata, ha come sfondo la radio del negozio, che trasmette le note di Maria McKee e la sua If Love is a Red Dress (Hang Me in Rags), ovvero "Se l'Amore è un Vestito Rosso (Impiccami con degli Stracci). Conosciuta per la sua militanza nei Lone Justice, la McKee è una delle cantanti preferite di Tarantino, e la sua è l'unica canzone originale del film, sebbene poeticamente non abbia niente a che vedere con le tematiche di Pulp Fiction. Il testo, infatti, è un tagliente e cinico sproloquio contro l'amore, un pessimismo al vetriolo giustificato dalla delusione e dalla depressione, eredità d'una relazione finita male. Usando strofe cortissime in rima baciata, la cantante parla di come l'amore sia un ingannevole creatura: ammaliante quando ha fame, apatica e disillusa quando ha placato i suoi appetiti. Il nero sarcasmo dietro una storia appena accennata di tradimenti e bugie, giustifica così pienamente il titolo del brano. Le sonorità della canzone, registrata in modo da rendere l'idea di uno spettacolo dal vivo, più che di un prodotto in studio, ruotano completamente intorno alla sinergia tra canto e chitarra. La vocalist riesce a creare intorno a sé un'atmosfera soffusa, distante, come cantasse e il vento portasse via le sue parole. Tutta la malinconica e tagliente ironia intrinseca nelle parole si fa voce e musica, accompagnata da arpeggi delicati e in qualche modo ormai sereni, nemmeno tristi, semplicemente rassegnati. Con i suoi quasi cinque minuti di durata, "Love is a Red Dress" è la canzone più lunga dell'album, pura emozione fatta suono. Probabilmente, Tarantino ha voluto giocare proprio sulla netta contrapposizione tra ciò che vediamo su schermo, e ciò che invece suggerisce la melodia sullo sfondo, rafforzando lo stacco tra un contesto d'azione e un altro completamente immobile, come se si passasse dalla plateale scena di un film al "mondo reale", e il tempo si fermasse lì.
Bring Out the Gimp / Comanche
_ Fa uscire lo storpio.
_ Adesso starà dormendo...
_ Be', pare proprio che ora dovrai svegliarlo, non credi?
Una scena di pura follia tarantiniana, qui prende il titolo di Bring Out the Gimp/Comanche (Fa Uscire lo Storpio/Comanche). Prigionieri del negoziante e di un poliziotto suo amico, Butch e Marsellus vivono momenti surreali, immortalati in una sequenza fatta apposta per disorientare lo spettatore e fargli dire "ma cosa cazzo sta succedendo qui"? Fra strumenti di tortura, sodomia e gadget sadomaso, il film ci mostra una delle più disturbanti scene di stupro della storia del cinema, assurdamente capace di farci inorridire e sorridere al tempo stesso, tanto è improbabile. Divinamente girata, la scena fa uso di uno sfondo musicale al tempo stesso "reale" e fittizio, giacché le note dei The Revels, autori di "Comanche", giungono da una radio utilizzata per coprire le urla, proprio come nel caso di Mr. Blonde ne "Le Iene", solo che all'inizio il suono è in primissimo piano, a rimarcare la sequenza in cui la porta si chiude sullo stanzino in cui, lo sappiamo, si consumerà la violenza. Autori di musica surf legata al jazz e al swing, più che al rock 'n' roll, i The Revels composero il brano nel 1961, strumentale come tutto il resto del loro repertorio. Pensata per il film dello stesso anno ad opera di Kent McKenzie, The Exiles, "Comanche" è due minuti di puro surf&sax, forte della collaborazione di James Gordon al sassofono. L'inizio del brano è proprio il momento che nel film si traduce con l'inizio dell'orrore, poi l'opera diviene insieme ritmata e ariosa, festosa in un modo che Tarantino trasforma in malato divertimento, a seguire il destino di "Struck in the Middle With You". Tra momenti di tensione e catartico rilascio, il pezzo suggerisce passione e spensieratezza, rimarcata in un brevissimo assolo dai contorni ammiccanti. Ammiccamento, per noi spettatori, che assume un sapore distorto e grottesco, tale da incidere la scena di Tarantino nel nostro povero cervello.
Flowers On the Wall
Dobbiamo fare un passo indietro e tornare alla scena in cui Butch, di ritorno verso casa e convinto d'essere al sicuro, incrocia Marsellus in mezzo a una strada. La scrittura e il modo in cui viene messa per immagini è spettacolare. Tarantino contrappone un momento di assoluto rilascio emotivo, scarico di tensione, ad un immediato e improvviso attimo di adrenalina, facendo uso di un espediente così banale che lo spettatore non si sogna nemmeno d'aspettarsi: il puro caso. O la Divina Provvidenza, se vogliamo andare all'archetipo letterario, la stessa che sarà fondamentale per il personaggio di Jules. In questo quadro, il sottofondo musicale affidato alla radio dell'auto è fondamentale, perché costituisce una sorta di linea retta e uniforme tra due strutture diverse e contrapposte, ovvero tra la fase di calma totale e quella d'improvvisa tensione. L'effetto psicologico è singolare, potente ed ammaliante, il tutto in pochi secondi di messa in scena. Il pezzo che Bruce Willis canticchia durante la sequenza è un vecchio country degli Statler Brothers, la band che farà i cori di Johnny Cash: Flowers On the Wall. È una canzone un po' strana, squisitamente country alla base ma lontana da quel mondo in termini di poetica, con innesti psichedelici e acidi in accordo con la natura misantropa del testo. Fra le righe il cantante s'immedesima in un ragazzo dal comportamento catatonico, rinchiuso in camera sua a "fumare sigarette e a guardare Captain Kangaroo", giusto per citare la strofa che Bruce Willis canticchia nel film. Se ne deduce un individuo abbandonato dalla fidanzata, quasi compiaciuto nella sua distruttiva solitudine, ironicamente rimarcata da un black humor che sa di malcelato richiamo d'aiuto. Contrariamente a quanto afferma il protagonista, infatti, è ovvio com'egli non sia per nulla soddisfatto di "contare i fiori sulla parete" o di "giocare a solitario con cinquantuno carte". Nonostante tutto, però, il suo esilio volontario prosegue. Così come Tarantino contrappone una sequenza rilassata ad un'altra di fulminea tensione, gli Statler Brothers contrappongono un testo sarcastico ma potenzialmente drammatico ad un sound allegro, spensierato e perfino festoso. Rispetto ad altri gruppi country, questi ragazzi della Virginia contano su un approccio strumentale minimo, facendo piuttosto affidamento a complessi intrecci corali derivativi di un passato gospel, genere che gli Statlers non abbandoneranno mai del tutto. Come quasi ogni altra traccia di Pulp Fiction, anche questa conta poco più di due minuti, tra ritmica delicata e caratteristica, banjo, chitarra e momenti di catarsi rimarcati da un progressivo crescendo di elementi corali, abilmente divisi in falsetti, baritoni e tenori, in accordo coi canoni di genere. Almeno, fino a quando Butch non investe letteralmente il proprio destino.
Personality Goes a Long Way
I maiali sono animali schifosi... io non mangio animali schifosi.
Personality Goes a Long Way, da noi tradotto nell'espressione "è la personalità che cambia le cose", è uno spezzone di dialogo privo di accompagnamento musicale. Come tutti i dialoghi del film, anche questo è opera di Quentin Tarantino. Sebbene la fine dell'episodio di Butch chiuda cronologicamente gli eventi di Pulp Fiction, la cronologia frammentata caratteristica del film ci riporta agli eventi successivi l'intera vicenda di Jules e Vincent. Passata la sequenza della Divina Provvidenza, passata quella dell'iconica figura di Mr. Wolf, i due sicari si ritrovano a pranzare nello stesso locale in cui, all'inizio della storia, avevamo lasciato "Zucchino" e "Coniglietta". Prima di un finale che riporta il cinema tarantiniano all'esordio con le Iene, assistiamo a un dialogo apparentemente normale, simile a quelli cui ci hanno abituati i due improbabili killer. Tarantino rende "vere" le sue pur surreali situazioni unendo il sacro e il profano, l'evidente messa in scena con momenti dal piglio secco e privo di filtri, perfino documentaristico. Allo stesso modo, la presa di coscienza di Jules a seguito di quello ch'egli considera un miracolo, inizia con un normalissimo dialogo sulla carne suina, e sulle differenze cognitive tra cane e maiale. Entrambi gli animali sono sporchi, entrambi "mangiano le proprie feci", ma c'è una differenza: il cane ha personalità, ed "è la personalità che cambia le cose". Tra le righe, sebbene il tutto sia implicito e assolutamente non voluto dal personaggio di Samuel Jackson, il regista ci sta suggerendo che in quanto assassini prezzolati, Jules e Vincent sono "cani", certo, ma è la personalità che fa la differenza. Personalità che porterà Jules a fare la sua scelta.
Surf Rider
Essendo l'ultima traccia dell'album un estratto di dialogo, a chiudere idealmente la soundtrack è proprio questo brano: Surf Rider (Surfista). Scritta da Nokie Edwards dei The Ventures, questa versione è opera dei The Lively Ones, a chiudere giustamente la raccolta e il film con un pezzo surf rock, genere consacrato alla contemporaneità dal post-modernismo di Tarantino. Siamo al finale dell'opera e ai titoli di coda, non molto tempo dopo il dialogo sui cani e la loro personalità, ma abbastanza dopo da aver saltato l'ultima, basilare sequenza del film, la quale mette la parola fine sia alla vicenda di Jules e Vincent, sia a quella di Zucchino e Coniglietta. Non voglio anticipare nulla: basti sapere che l'inizio di Surf Rider coincide con una memorabile uscita di scena, resa tale dalla regia di Tarantino e in totale contrapposizione con ambientazione e costumi. Subito dopo, senza tanti giri di parole, Pulp Fiction si chiude e partono i titoli. I Lively Ones danno fuoco alle polveri in pieno stile surf, con una sinergia delicata e distorta tra ritmica e chitarre in slide, poi parte quell'indimenticabile riff che è il cardine della canzone, tra l'altro interamente strumentale. Ciò che caratterizza il brano è proprio questa baritona distorsione di chitarra, a metà tra malinconia e sensazioni "malavitose", come circospette, assolutamente perfette per le atmosfere e i personaggi di Tarantino, alla loro attitudine criminale dall'estetica insieme sporca e sfavillante. Nell'intenzione degli autori, tuttavia, c'era solo la necessità di suggerire i soliti scenari assolati, così caldi da sembrare alienanti, e i movimenti della tavola da surf tra le onde, immortalati come fossero al rallentatore, eterni, come eterno sembra essere ogni attimo passato a sgomberare la mente da qualsiasi altro pensiero che non sia la propria passione: in questo caso, cavalcare una tavola da surf. Il main riff, ben distinto dal muro di suono generato dalle tre asce del gruppo per le sue note basse, è rimarcato da un assolo di sax che fa da baricentro dell'opera, anticipando un finale sfumato che mette la parola fine sulla nostra colonna sonora, e con essa sul secondo, grandioso lungometraggio di Quentin Tarantino.
Ezekiel 25:17
C'è un momento particolare, su Pulp Fiction, dal potere talmente evocativo, e dall'estetica talmente caratteristica, da essere non solo divenuto iconico, ma da avere in qualche modo superato i limiti stessi del film, tagliandosi fuori da esso per ritrovarsi un proprio spazio, una bolla indipendente a cui decine di altri artisti hanno potuto attingere. Non è proprio un dialogo, ma più una sorta di breve monologo o, per essere precisi, una citazione letterale:
Ezechiele 25:17 - Il cammino dell'uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre, perché egli è in verità il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti. E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare e infine a distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te.
Questa sentenza, a suo dire estratta dalla Bibbia, Samuel L. Jackson la ripete due volte: durante la prima sequenza con Jules e Vincent, e al termine del film, poco prima delle battute finali. L'ultima traccia dell'album che raccoglie la colonna sonora di Pulp Fiction è dedicata a questa citazione, senza musica, senza altri fronzoli che non siano i boati dei proiettili alla fine del disco. Inizialmente allo spettatore è lasciato credere che quella di Jackson, nei panni di Jules, sia solo una frase a effetto, e la cosa affascinante, dal punto di vista della scrittura, è che in quella prima fase ne è convinto anche lo stesso Jules. Come scopriremo in seguito, la citazione è invece un espediente con cui Tarantino fa ricorso ad un archetipo letterario vecchio come l'umanità, del tutto inaspettato in un film del genere: la Divina Provvidenza. Provvidenza che in questo caso si manifesta con la miracolosa sorte toccata a Vincent e Jules, sopravvissuti ad una raffica di proiettili a breve distanza per quello che si direbbe un "puro caso". A quel punto, per il personaggio di Jackson la sua frase a effetto assumerà un significato totalmente differente, tale da portarlo a rinnegare le sue stesse scelte di vita. Attraverso tale espediente, il regista mette in scena l'idea che si cela tra le righe del film, tanto semplice quanto potente, basilare e necessaria. Quentin Tarantino non è solo un narcisista, auto-compiaciuto, vanaglorioso post-modernista: è tutte queste cose, certo, e le rappresenta in una maniera talmente unica e speciale da trasformarle in genio, ma prima di tutto questo è anche uno scrittore solido e, soprattutto, consapevole. La pellicola dà forma a gangster accattivanti, malavitosi cui lo spettatore non può fare a meno di affezionarsi, finendo persino per tifare per loro, un risultato che Tarantino ottiene conscio di far uscire lo spettatore dai consueti canoni di bene e male, buono o cattivo; tuttavia, questo non vuol dire che li giustifichi o che li salvi, anzi. Il finale de Le Iene era già un ottimo esempio di questa "poetica tarantiniana", ma Pulp Fiction fa un passo avanti, lasciando ad ogni più insignificante elemento il suo lato simbolico nascosto, il suo significante in ambito narrativo. Ad esempio, Julus chiedeva ad una delle sue vittime se per caso il suo capo, Maresellus, avesse "l'aspetto di una puttana", e come mai, in caso contrario, avesse tentato di "fotterselo", metaforicamente parlando; non è un caso che, in seguito, Marsellus finirà letteralmente "fottuto come una puttana", prendendosi ciò che si merita, ingoiando quell'orgoglio che lui stesso aveva consigliato a Butch di mettere da parte. Allo stesso modo Vincent, che nonostante l'evidenza del miracolo decide di credere alla fortuna e prosegue per la sua vecchia strada, avrà la sorte che merita. Ma al di là del suo significato meta-testuale, la citazione biblica di Jules è rimasta nell'immaginario collettivo per la sua intrinseca potenza, e per il vigore dell'interpretazione di un indimenticabile Samuel Jackson, peraltro magistralmente doppiato dal nostro Luca Ward. Per anni, "Ezechiele 25:17" è finito citato su altri film, telefilm, musica, prodotti d'intrattenimento d'ogni genere e non solo, finendo per divenire un qualcosa a parte, trascendente la stessa opera di Tarantino. Un finale perfetto per questa raccolta... perfetto quasi quanto quello del film:
Ora, sono anni che dico questa cazzata, e se la sentivi significava che eri fatto. Non mi sono mai chiesto cosa volesse dire, pensavo che fosse una stronzata da dire a sangue freddo a un figlio di puttana prima di sparargli. Ma stamattina ho visto una cosa che mi ha fatto riflettere. Vedi, adesso penso, magari vuol dire che tu sei l'uomo malvagio e io sono l'uomo timorato, e il signor 9mm, qui, lui è il pastore che protegge il mio timorato sedere nella valle delle tenebre. O può voler dire che tu sei l'uomo timorato, e io sono il pastore, ed è il mondo ad essere malvagio ed egoista, forse. Questo mi piacerebbe. Ma questa cosa non è la verità. La verità è che TU sei il debole, e io sono la tirannia degli uomini malvagi. Ma ci sto provando, Ringo, ci sto provando, con grande fatica, a diventare il pastore.
Conclusioni
Music From the Motion Picture Pulp Fiction è una gran bella raccolta di classici, ma va detto che presa a sé, come album, è anche un'opera incapace di avere un senso compiuto, un vero e proprio nesso tra le canzoni che ne fanno parte. Le colonne sonore dedicate, in cui ogni brano rientra nell'ottica di fondo del suo compositore, hanno il pregio di avere una personalità definita dall'inizio alla fine, e talvolta di essere di gran lunga superiori al prodotto cinematografico. Una soundtrack come quella di Pulp Fiction, di contro, vive necessariamente del riflesso del film, e le sensazioni che le varie tracce sanno offrirci, pur avendo una loro intrinseca personalità, riportano inevitabilmente a quelle che abbiamo ottenuto dalla visione della pellicola. Questo è l'unico "difetto" attribuibile all'opera, ma chiariamoci: niente di grave... dopotutto parliamo di una raccolta. Per il resto, questa soundtrack è una straordinaria sintesi di determinati movimenti e sonorità a cavallo tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio dei settanta, espressa secondo i gusti e la sensibilità di Quentin Tarantino. Soul, gospel, rock 'n' roll, ma soprattutto surf rock, assolato prodotto della psichedelìa di moda in quegli anni, figlio di una California sorniona a metà fra il sole del deserto e quello a ridosso del mare, tra bellezze in bichini e ragazzi in bella mostra sulla tavola da surf. Quello che il regista è riuscito a creare, quasi involontariamente, è un legame immaginifico capace di superare il tempo aggrappandosi allo spazio, riportando l'estetica di un mondo ormai scomparso, quello della California di metà '900, alla Los Angeles contemporanea. Lo stile di Vincent e Jules, il ristorante scelto da Mia Wallace, e tanti altri dettagli ancora, tutti a rimarcare con precisione una precisa scelta stilistica, esemplificata in un background musicale rimasto iconico nell'immaginario statunitense. Questo mix, unito a tutti quegli altri elementi che caratterizzano il cinema di Tarantino, ha reso Pulp Fiction un'opera imprescindibile e immortale, il ritratto di un'epoca cristallizzata nella decadenza di quella precedente. Un vero cult, un capolavoro che, non a caso, è valso al suo autore ogni genere di riconoscimento: miglior film, migliore regia e miglior sceneggiatura da parte della National Society of Film Critics; Golden Globe e Academy Award per la miglior sceneggiatura originale, e infine, sopra tutti, la Palma d'Oro al festival di Cannes. Per un giovane regista al suo secondo lungometraggio, un'onorificenza del genere era ed è qualcosa di enorme, un evento di rilevanza fondamentale per il cinema tutto, americano e mondiale. Per non parlare naturalmente dei numeri: 213 milioni al botteghino a fronte di un budget di 18 milioni e mezzo, marketing compreso, oltre ad un mercato home video all'epoca più fiorente che mai. Niente male davvero, per un film ancora tecnicamente "indipendente". Un successo enorme, dovuto a tutte le maestranze coinvolte: non solo regista e attori, ma anche il produttore storico di Tarantino, Lawrence Bender, lo sceneggiatore Roger Avary, Andrzej Sekula, Sally Menke e infine la Miramax, gestita allora dai fratelli Weinstein, oggi nell'occhio del ciclone in seguito allo scandalo sugli abusi sessuali. Nel 1993, nel bel mezzo dello sviluppo del film, la Miramax venne acquistata da Walt Disney Company, dando così inizio a una nuova fase della sua storia. Grazie a Pulp Fiction risorse la stella di John Travolta, fino a quel momento sotterrata dall'ingombrante eredità di "Greese", nonché da una quantità di pellicole opinabili o scadenti, mentre quella di Bruce Willis poteva riconfermarsi per tutto il resto del decennio; Samuel L. Jackson ebbe modo di dare mostra una volta in più della sua classe e della sua forza, cementando un rapporto professionale iniziato con True Romance e arrivato fino ad oggi, con The Hatefull Eight. Stesso dicasi per Tim Roth, vero e proprio "beniamino" di Quentin. Ma più di ogni altra cosa, grazie a Pulp Fiction sorse definitivamente la stella di Uma Thurman, considerata dal regista come una sorta di musa, da lui ritenuta accostabile a leggende come Greta Garbo e Marlene Dietrich, nonostante la carriera fino a quel momento altalenante dell'attrice. Il personaggio di Mia Wallace rimase impresso nell'immaginario comune, consacrando la Thurman come una delle più iconiche figure femminili degli anni novanta. In controtendenza, tuttavia, l'attrice decise di non interpretare altri film ad alto budget per almeno tre anni, finendo in un relativo dimenticatoio fino al 2003, quando Kill Bill - terza, grande fatica di Tarantino - esplose come fenomeno di massa riconfermando e ingigantendo oltre ogni aspettativa sia la fama del regista, sia quella di Uma Thurman. Non è quindi un caso che la copertina del film, ugualmente a quella della Colonna sonora, metta in bella mostra il personaggio di Mia Wallace, sensuale nel suo atteggiamento da femme fatale ruvida e metropolitana, distesa sul letto in tacchi a spillo e sigaretta accesa, gli occhi puntati sullo spettatore. E che dire dei dialoghi, parte integrante della raccolta di brani presi in esame, malta essenziale alla costruzione di una storia a firma dello stesso Tarantino e del già citato Roger Avary? Ad esempio, il passaggio biblico citato da Jackson, costruito in realtà con diversi estratti della Bibbia, è un omaggio del regista a quel cinema orientale per cui nutre smisurato amore, ed in particolare ad una scena di "Karate Kiba", classico d'arti marziali con Sonny Chiba. La struttura stessa del film in tre episodi fondamentali, poi, è ispirata a Mario Bava e al suo "I Tre Volti della Paura", nonché alla cruda violenza dei poliziotteschi all'italiana, all'hard boiled di scuola asiatica e ai crime movie americani, al noir più classico e ai western di John Ford e Sergio Leone. Nonché, infine, ad una vasta cultura editoriale e televisiva. Tra tutte le critiche assolutamente estasiate rivolte a Pulp Fiction, ce n'è una non proprio lusinghiera che m'ha sempre affascinato: Tarantino, con Pulp Fiction, "trasforma la merda in oro". Quello che il regista ha cercato di ottenere, peraltro con grande successo, è stato infatti di trasformare un filone letterario giovanile e commerciale, il cosiddetto pulp - e con esso un background televisivo da sempre sottovalutato e bistrattato - in materiale di classe, arte cinematografica ai più alti livelli possibili. In un certo senso, la stessa dinamica riguarda anche la colonna sonora, figlia di una passione giovanile per una musica non soltanto ormai di nicchia, ma tutto sommato artisticamente poco rilevante, limitata ad un preciso contesto storico e geografico, povera in termini di soluzioni compositive e poetiche. Non parlo di capisaldi come "Jungle Boogie", "You Never Can Tell" o "Son of a Preacher Man", ovviamente, ma di tutto quel repertorio surf che rappresenta l'essenza più riconoscibile dell'opera. Non perché tale repertorio sia "brutto" - i brani scelti da Tarantino sono tutti gioiellini - ma per il semplice fatto che per sua natura, a differenza di contesti e sonorità più universali, il cosiddetto surf rock vive di suggestioni oramai dimenticate, di atmosfere che, oggi, solo qualche nostalgico della California anni '60 potrebbe capire e apprezzare completamente. È qui che sta il genio di Tarantino: prendere qualcosa, decostruirla, ricostruirla intorno al suo stile, alla sua narrazione e alla sua visione, e infine trasformarla in qualcosa di nuovo, in linea con la sensibilità dei tempi e del regista. Non è stato il primo a farlo e non è l'unico, a farlo. Ma per me una cosa è certa: è stato ed è il migliore, nel farlo. Questa raccolta di brani vintage è come fosse opera sua, un modo alternativo e forse persino più diretto di godere di tutte le sensazioni che un capolavoro come Pulp Fiction è in grado di offrire.
2) Royale With Cheese
3) Jungle Boogie
4) Let's Stay Together
5) Bustin' Surfboards
6) Lonesome Town
7) Son of a Preacher Man
8) Zed's Dead, Baby / Bullwinkle Part II
9) Jack Rabbit Slims Contest / You Never Can Tell
10) Girl, You'll Be a Woman Soon
11) If Love is a Red Dress (Hang Me in Rags)
12) Bring Out the Gimp / Comanche
13) Flowers On the Wall
14) Personality Goes a Long Way
15) Surf Rider
16) Ezekiel 25:17