PROTEST THE HERO

Palimpsest

2020 - Spinefarm Records

A CURA DI
ALESSANDRO GARGAGLIA
15/02/2021
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Introduzione recensione

Un palinsesto, è un manoscritto antico, su papiro o, più frequentemente, su pergamena, il cui testo originario è stato cancellato mediante lavaggio e raschiatura e sostituito con un'altro testo, disposto nello stesso senso, in genere nelle interlinee del primo, o in senso trasversale al primo. "Palimpsest" è il sesto album nella tortuosa carriera dei canadesi Protest The Hero, tortuosa perché ormai li identifichiamo non le loro caratteristiche linee intrecciate e schizofreniche di chitarra, che disegnano nel cielo traiettorie di volatili irrequieti e vivaci. Lo stile della formazione canadese ha ormai subito numerosi cambiamenti, pur mantenendo sempre un registro saldo e deciso, partendo dal cuore Hardcore del Punk, arricchendosi della tecnicità e della follia del Mathcore, approdando sulle lande più tranquille e melodiche del Progressive Metal, ma mai perdendo personalità o coerenza. Effettivamente la solida e ricca carriera discografica dei Protest, non ha mai peccato in un uscita, possiamo giusto citare il leggermente sottotono "Scurrilous", che tuttavia risulta un ascolto decisamente piacevole. Personalità, pazzia e padronanza dello strumento, e della voce, hanno da sempre caratterizzato il gruppo, donandoci perle musicali nel tempo. La formazione di questo episodio si presenta con il solito duo chitarristico infallibile: Luke Hoskin e Tim Millar, che si esibisce anche con alcuni inserti di piano, al basso troviamo Cam McLellan, alle pelli Mike Ieradi, e alla voce, uno dei migliori frontman che il panorama del Progressive Metal, e non solo, abbia mai visto, l'unico Rody Walker, dall'estensione vocale impossibile. A detta di Rody, l'album è stato scritto in un periodo in cui Trump era appena entrato in carica, e dipingeva una grandezza americana, alla quale lui e tutti i suoi "compari" volevano tornare, che è "grandiosa" solo per i "vecchi, bianchi, maschi e ricchi". Questa, dice sempre il frontman della band in un'intervista, è la finta grandezza dell'America che il resto del mondo vede come un suo tragico difetto. Rody vuole argomentare nell'album questo aspetto delle cose, ma anche della grandezza che loro attualmente vedono come vera e propria grandezza dell'America. Perché vi è grandezza, vi è bellezza, vi è innovazione e un'incredibile storia. I vincitori scrivono i libri di storia; l'album di fatti racconta episodi della storia americana alcuni ben noti ma incompresi, altri per niente conosciuti e svela la verità sotto il palinsesto. Bisogna vedere la storia per quello che è e coglierne gli aspetti negativi e positivi, per cercare di cambiare il futuro in meglio imparando dagli errori del passato. "Palimpsest" viene in seguito al precedente "Pacific Myth" distribuito in maniera sperimentale; un brano ogni mese, senza l'uscita di singoli di anteprima. Un album che raggiunge picchi molto interessanti ma che non ha soddisfatto a pieno in alcuni aspetti; con la sua durata di 35 minuti, è più vicino ad un EP che a un full length. Palimpsest necessita di essere un'uscita esplosiva e ben ricca di contenuti per confermare l'impeccabilità compositiva della formazione canadese. L'album è effettivamente ricco, carico di informazioni e di eventi che andremo ad analizzare nello specifico nel track by track. Quello che possiamo anticipare, è che Palimpsest è probabilmente il coronamento dell'espressione musicale dei Protest The Hero, proseguendo un po' ciò che era stato raggiunto con Volition, ovvero un leggero avvicinamento al Math/Prog Metal, rispetto ad un'attitudine più Punk, che tuttavia resta ben chiara e visibile nel cuore dello stile dei Protest, anche solo il concept, chiaramente intriso di temi di protesta politica, in questo caso direi anche sociale, conferma questa natura.

The Migrant Mother

L'album si apre con un riff che ha tutte le qualità di un'introduzione ben fatta, eco in avvicinamento di chitarre lontane e melodiche, che sfociano nel classico beat di batteria "Protest", che affonda le sue radici nell'Hardcore Punk, con il rullante dritto a martello ad alta velocità. Nell'apertura di "The Migrant Mother" (La Madre Migrante) atmosfere sono sontuose ed eleganti, con i riff di chitarra che diventano subito Mathcore nella strofa, districandosi in modo cristallino nella composizione ben studiata e piacevole. La voce di Rody, è carica e piena di personalità, come al solito, le sue diverse interpretazioni con timbri e stili diversi ci lasciano a bocca aperta, soprattutto se pensiamo che ha superato un periodo ostacolato da svariati problemi vocali. Capiamo subito che l'album si tiene sullo stesso stile che ormai caratterizza i Protest The Hero, e gia in questo primo brano inizia a stupire la solita capacità di incastrare riff follemente tecnici a melodie super orecchiabili, con la batteria che alterna sezioni di puro accompagnamento a fasi totalmente schizofreniche, con cassa e rullante fiammeggianti. Il brano fa riferimento alla famosa fotografia "Migrant Mother", "Dorothea Lange" (1936), una fotografia iconica del periodo della grande depressione, nel quale moltissime persone migravano verso la California in cerca di lavoro. Particolarità della foto, sono i figli che sembrano nascondersi dall'obiettivo fotografico, come e avessero paura di esso, tipico di molte foto di quel tempo. Il brano tratta in generale proprio della grande depressione e più in particolare della "Dust Bowl", una serie di tempeste di sabbia che colpì gli Stati Uniti Centrali e il Canada tra il 1931 e il 1939, causate da un'errato utilizzo delle tecniche agricole e dello sfruttamento del territorio coltivabile. Nel brano si susseguono diversi riferimenti tutti riguardanti questo tema, ad esempio canti tradizionali dell'epoca, proverbi americani, e ovviamente, la sopracitata fotografia della madre migrante.

The Canary

"The Canary" (Il Canarino), è il primo singolo uscito in anteprima di "Palimpsest", ed è anche forse il più orecchiabile. Il ritornello catchy, melodico e avvincente, riesce a imprimersi nella nostra testa già dal primo ascolto, cosa molto rara per i brani dei "Protest", che in genere possono risultare freddi e tecnici, e solo dopo vari ascolti si fanno strada tra le barriere della nostra mente, lasciando un segno indelebile. Anche le strofe convincono, andando a marcare una struttura più definita, con il susseguirsi di qualche riff diverso. Il brano tratta la vita di "Amelia Earhart", pioniera dell'aviazione Americana, e prima donna ad attraversare l'atlantico in volo da sola nel suo aeroplano. La canzone affronta le varie fasi della sua vita, dai primi voli, con altri piloti, al volo in cui per 14 ore, attraversò il grande oceano da sola senza alcun copilota. "The Canary" indica il soprannome dato al suo biplano giallo canarino, divenuto una sorta di simbolo. "questa volta lo farò da sola, questa volta andrò fuori da sola". Amelia tentò anche il giro del mondo in aereo, non sarebbe stata la prima a circumnavigarlo ma avrebbe seguito la rotta più lunga. Purtroppo il viaggio non arrivò mai a compimento, in quanto a causa di un'incidente, si perse ogni sorta di comunicazione radio con l'aereo di Amelia, che venne dato per scomparso, nell'oceano Pacifico, dopo che le ricerche non andarono a buon fine. Il brano giunge alla conclusione riportando una frase della stessa Amelia; "le donne devono pagare per tutto, loro ottengono maggiore gloria rispetto agli uomini per dori comparabili, ma inoltre le donne ottengono più notorietà quando crollano".

From The Sky

Il secondo singolo in anteprima, "From The Sky" (dal cielo), si apre in modo abbastanza diretto, con un fraseggio d'introduzione al quale partecipano tutti gli strumenti. Il brano senza perdere troppo tempo si getta nella dinamica strofa, che riesce a catturare quasi subito le nostre orecchie, rimanendo all'esatto confine tra il tecnico e l'orecchiabile. Strofe melodiche quasi Post Hardcore intervallate da vertiginosi riff puramente Mathcore e linee di chitarra decise e profonde vanno a costruire passo dopo passo un brano solidissimo, emozionante e articolato, che tiene altissima l'attenzione e la curiosità, e ci delizia con stravolgenti melodie, soprattutto nel finale. Proprio nella conclusione vi è l'apice compositivo, almeno fino a questo punto; Rody Walker supera se stesso, raggiungendo con la voce altitudini melodiche e tonali sconosciute, e il crescendo strumentale del brano ci porta sempre più in alto, per poi scaraventarci a terra colpendoci direttamente al cuore, tirando fuori il lato più struggente ed emozionale dei Protest. Un brano ben strutturato, che sa essere complesso ma completo, che ci incuriosisce invogliandoci al molteplice ascolto per assaporarne tutti i dettagli, e per apprezzare appieno l'esplosiva magia melodica del finale. Anche questo brano è ambientato nei cieli, dove vediamo il dirigibile LZ 129 Hindenburg, il più grande oggetto volante mai costruito. Il brano affronta il disastro nel quale il dirigibile s'imbatté nel 1937. Il brano è pero un chiaro esempio di palinsesto, in quanto si sia riuscito attraverso un evento del genere, ad attirare un'attenzione incredibile, tramite l'immensa copertura giornalistica effettuata attorno al tragico incidente, attenzione che non tiene conto invece dei legami di questo con la Germania Nazista; più precisamente, quando si pensa a Hindenburg, si cade subito in ciò che ricordano le immagini catturate nel momento dell'incidente, tra le quali la famosa fotografia, in cui la svastica presente nella coda del dirigibile viene coperta dalla stessa esplosione dell'impatto. In eventi del genere, la grandezza mediatica che invade il globo intero porta a nascondere, ad omettere, una delle due facce della medaglia.

Harborside

Un intermezzo di piano ci accoglie con delicatezza, ci sentiamo ancor più leggeri quando ariosi violini invadono l'atmosfera, carichi di sentimento e di emozioni. "Harborside" (Area di costa portuale), è uno dei tre intermezzi dell'album, che spezzano la tensione e la complessità regalandoci un momento di tregua dalle martellanti batterie e dalle frenesie delle chitarre. Questi tre piccoli brani sono incastonati come gioielli all'interno dell'album, ed aiutano anche nel complesso, l'interezza strutturale dello stesso. Il titolo del brano indica la zona nella quale è ambientato il brano successivo, ovvero la zona commerciale portuale nella quale avvenne la catastrofe dell'inondazione di melassa di Boston. La transizione di breve durata, un minuto e un secondo, ci accompagna introducendoci al prossimo brano e ci da una piccola spinta in avanti nell'opera dei Protest.

All Hands

Il rullante Hardcore dritto torna in primo piano, e una strofa dinamica apre le danze di "All Hands" (tutte le mani). Il quinto brano dell'album è uno dei più solidi, insieme al precedente "From The Sky"; le melodie del ritornello e del suo sviluppo, pre ritornello compreso, sono semplicemente magiche, una freschezza incredibile, delle gemme lucenti incastonate tra riff tecnici e salterini. Interessantissima la ripresa del tema del precedente intermezzo strumentale, "Harborside", che torna e viene reso addirittura protagonista del brano, accompagnando il "catchy" e disteso ritornello, che non faticherà ad entrare nella nostra testa assillandola per giorni. Il brano funziona, strumentalmente è solidissimo, e Rody come al solito offre una prestazione e un'interpretazione al di sopra della norma, regalandoci anche sprazzi di "growl". "All Hands", affronta l'evento dell'inondazione di melassa di Boston: una catastrofe del 15 gennaio 1919 dovuta ad alcuni difetti strutturali e all'elevata temperatura interna di un serbatoio contenente melassa. L'esplosione inondò una zona al limitare del centro storico, il North End. Il dolcificante liquido uccise 21 persone e ne ferì 150. Il brano racconta direttamente la catastrofe, riportandoci alcune precise sensazioni di tale evento: "il terreno iniziò a tremare sotto i miei piedi, sembra che il mio treno stia arrivando, posso sentirlo urlare in lontananza, il mio treno sta arrivando". Inoltre il brano sembra parlare dal punto di vista dei poveri lavoratori della zona del porto, per la maggior parte irlandesi e italiani. Gli ultimi versi fanno riferimento all'articolo di giornale che riportava il ritrovamento di una forma sotto la "massa nera" che poteva essere sia un'animale che un'essere umano, non si riusciva a capire.

The Fireside

Il sesto brano di "Palimpsest", "The Fireside" (Il focolare), è forse il meno riuscito dell'album, o meglio, è forse l'unico brano che fa un po storcere il naso di fronte ad alcune scelte, prima fra tutte la sezione quasi speed/rap urlato di Rody che dal mio punto di vista forse non raggiunge l'effetto sperato, tanto di cappello comunque per l'esecuzione di altissima difficoltà; sfido chiunque a pensare solamente di cantare un brano del genere. Al di la di questo aspetto il brano non convince come il resto del materiale sentito fino ad ora, le melodie sfuggono via senza lasciare granché, tranne nella parte centrale con i cori che si fa apprezzare particolarmente. Il brano tratta del periodo che segue la grande depressione, fino alla militarizzazione per la seconda guerra mondiale. In realtà il brano affronta numerosi temi, tra i quali lo spirito militare e industriale americano e la ricerca di un pretesto per dare prova di ciò, quale sicuramente l'attacco dei giapponesi a Pearl Harbor; "tutto ciò che ci serviva era un motivo, e voi ce ne avete dato uno".Il titolo "The Fireside" fa riferimento alle cosiddette "fireside chats", una serie di trasmissioni radiofoniche da parte del presidente Franklin D. Roosevelt durante il periodo della recessione e della seconda guerra mondiale. Dal punto di vista ritmico il brano trasmette questi temi in modo diretto e sfacciato; il rullante dritto e sparato in stile puramente Hardcore Punk caratterizza alcune parti del brano che vogliono tirarci schiaffi in faccia a destra e a sinistra ricordandoci quanto effettivamente la musica dei canadesi sia intrisa di elementi Punk, molto spesso proprio dal punto di vista dei contenuti.

Soliloquy

Un articolato dialogo tra chitarre e batteria apre il sipario per la settima traccia di Palimpsest: "Soliloquy" (Soliloquio). Qui i riff diventano più serrati che mai, sferzate di Mathcore e di Progressive Metal tagliano l'aria, tra blastbeat, passaggi di batteria intricati e un basso che tira fuori un sostegno corposo e potente. Rody trova delle melodie, tra strofe, pre chorus e ritornello difficili da dimenticare. Il brano è strutturato con una fluidità incredibile, alterna momenti differenti senza renderli buschi, e riesce a mantenere un livello di intensità altissimo per tutta la durata. Il finale ha bisogno di un elogio a parte, quando le atmosfere si distendono e delle stupende melodie si prendono la scena, conducendo il pezzo verso l'esplosione emotiva finale, da cantare tutti con le braccia in alto. Una di quelle melodie che ti entrano in testa e li rimangono stampate per sempre, grazie anche ad un sostegno non indifferente di una componente orchestrale composta principalmente da strumenti ad arco. Il brano, che si prende tranquillamente il posto in alto tra i migliori dell'album, tratta di "Baby Face Nelson", ovvero "Lester Gillis", il noto rapinatore di banche partner di John Dillinger. Il brano affronta numerosi tratti della sua vita burrascosa, tra cui appunto l'incontro con Dillinger, e la "battaglia di Barrington, durante la quale, in un'intensa sparatoria, due agenti dell'FBI e Nelson furono colpiti. Uno dei due agenti morì sul colpo, l'altro la mattina dopo, Nelson, ferito gravemente morì in seguito nel suo letto dopo esser riuscito a fuggire aiutato dal suo partner e dalla moglie. Il finale del brano esprime al meglio tutta la tragicità della scena, con Nelson sanguinante in macchina durante l'ultima fuga della sua vita; "oh no, credo di star sanguinando, quindi prendi il volante, prendi il volante".

Reverie

Il passaggio tra le conclusive note di piano di "Soliloquy", e l'inizio di "Reverie" (Fantasticheria), è uno dei momenti migliori del disco; il primo riff dell'ottavo brano è forse uno dei più particolari, con questi accordi sincopati, supportati da un fitto tappeto doppia cassa, e da un rullante posizionato in modo decisamente originale. Le chitarre vengono supportate da elementi orchestrali, creando un inizio magico e sfavillante al brano. La strofa entra invece con un'intensità disarmante, il reparto ritmico va come un treno, mantenendo sempre un ritmo galoppante, in corsa al massimo della velocità perché ormai siamo entrati nella fase più succosa dell'album. In effetti questo è un brano che ci fa capire che non vuole fermarsi neanche un attimo, tuttavia vuole anche lasciare il segno dal punto di vista melodico; il ritornello e uno dei migliori dell'album, avvincente, orecchiabile, per niente scontato, e come al solito, caricato da un pre chorus che si conferma, insieme a molti altri dell'album, come uno degli elementi più curati e maggiormente riusciti di "Palimpsest". La continuità d'intensità con la precedente "Soliloquy" permette al brano di andare a segnare un passaggio ben preciso dell'album; siamo nella parte più colma, più intrisa di intensità ed emotività. Qui ogni melodia ha un suo perché e fa da sostegno per la successiva, ci troviamo nel vivo del miglior processo creativo dei "Protest The Hero". In tutto il brano una componente che fa la differenza è quella orchestrale, violini e viole supportano con costanza tutte le sezioni melodiche, dando un'identità unica soprattutto al ritornello e al riff iniziale. Il brano si può dire che sia collegato al precedente anche per l'argomento trattato; il riferimento alla vita di Jhon Dillinger fa in realtà ragionare sul tema di quanto il sistema delle prigioni Americane sia sbagliato. Il sistema di prigionia Americano schiavizza gli individui che hanno invece più bisogno di aiuto per sopravvivere e integrarsi nella società. La causa principale della criminalità è povertà e disperazione, e invece di aiutare queste persone si puniscono andando ad aumentare l'odio verso un sistema che non si prende cura di coloro che vivono in condizioni non sostenibili. "la libertà è incarcerazione con un altro nome, sono libero di camminare per le strade ma sono finanziariamente detenuto".

Little Snakes

Come piccoli serpenti striscianti in "Little Snakes" (Piccoli serpenti), i riff di chitarra arrivano da lontano, avvicinandosi sempre di più muovendosi a zig zag per poi esplodere in accordi introduttivi. Subito dopo, si entra nella classica strofa a rullante dritto, tipicamente Hardcore Punk, mentre le chitarre elettrizzate si muovono tra note alte e basse, andando a seguire i soliti percorsi intricati e complessi. Anche qui è proprio il ritornello a fare la differenza, ancora una volta, nel terzo brano di fila, ci troviamo di fronte ad una costruzione melodica solidissima. Il ritornello convince fin da subito; la complessità ritmica funziona, mantenendo una potenza non indifferente, le melodie super "catchy" si fanno strada nella zona percettiva del nostro cervello, e il tutto viene sorretto, ancora una volta, da elementi orchestrali che aggiungono una certa epicità al tutto. Possiamo ormai dirlo con sicurezza, i Protest The Hero hanno fatto centro. Il brano attacca direttamente il genocidio dei nativi Americani, in particolare nei territori dei Sioux nella seconda metà del 1800. Punto centrale del brano è il monumento di monte Rushmore, il complesso scultoreo situato nel Dakota sud, sul massiccio montuoso delle Black Hills, esso raffigura i volti di quattro presidenti americani, George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln, scelti rispettivamente come simboli della nascita, della crescita, dello sviluppo e della conservazione degli Stati Uniti d'America. Tuttavia essi sono anche i responsabili di enormi massacri di nativi, perché "nelle Black Hills c'era l'oro", come ci spiega il ritornello del brano: "noi possiamo fare un'eccezione, e loro possono fare una concessione"; il massiccio montuoso era stato originariamente lasciato al territorio Sioux nel trattato del 1868, ma quando vi fu trovato l'oro nel 1870, gli Stati Uniti cacciarono con la forza il popolo nativo. Il brano affronta la critica a tutti coloro che giungono di fronte al monumento come turisti, e di come sui libri di storia non vengano trattati gli aspetti crudi e negativi di questi eventi. Per tornare al concept vero e proprio dell'album, ancora una volta, la storia insegnata nelle scuole americane, viene filtrata attraverso le lenti dei vincitori delle guerre.

Mountainside

L'orchestra diventa protagonista assoluta negli intermezzi dell'album. Come il precedente, questo "Mountainside" (Fianco della montagna) è costituito principalmente da pianoforte, in chiave classica, sostenuto da strumenti ad arco nella parte centrale. Un'altro intermezzo che aiuta la struttura dell'album e permette di non sovraccaricare la durezza e la spigolosità delle chitarre tecniche. Inoltre "Mountainside" racchiude insieme al precedente "Harborside" una sezione dell'album, probabilmente la migliore, e delinea una struttura a macro sezioni di Palimpsest. Siamo al secondo intermezzo di tre, e ci avviamo alla parte conclusiva dell'album, carichi di aspettative grazie ai tre ottimi brani centrali appena sentiti.

Gardenias

Un colpo di rullante e si ritorna a volteggiare tra ritmiche Mathcore e Progressive, con riff di chitarra variegati e complessi. In "Gardenias" (Gardenie), ci muoviamo tra chitarra ritmica e "solista" come se non vi fosse quasi una differenza; i Protest riescono sempre a unire questi due ambiti musicali fondendoli direttamente, le linee di chitarra si scambiano le parti, divenendo a tratti entrambe soliste, con valanghe di note che vanno pero' a costituire frasi melodiche solide e ragionate. Il brano si mantiene su ritmi elevati, divertenti e ben studiati, ma senza mai colpire quella zona dell'anima più vulnerabile come i precedenti, salvo un paio di occasioni, in cui le incalzanti melodie vengono ben sorrette da saldi binari strumentali carichi di enfasi. "Gardenias" ci racconta la storia di "Peg Entwistle", attrice cinematografica e teatrale Britannica, ma che si trasferì con i genitori negli Stati Uniti d'America. La sua triste storia culmina con il suicidio, a soli 24 anni, per il flop dell'ultimo film nel quale recitò una parte, "Thirteen Women", dopo il quale non ottenne più alcun contratto, e mentre l'America entrava nel periodo della grande depressione, ella non riuscì più a trovare alcun lavoro. Tragicamente, fu la prima a gettarsi dalla celebre scritta "Hollywood", precisamente dalla prima lettera, inaugurandola tristemente come luogo di successivi molteplici suicidi. Il titolo del brano fa riferimento al fatto che il profumo preferito di Peg era il "Gardenia", si dice che il suo fantasma si aggiri ancora tra l'enorme insegna di "Hollywood", portandosi dietro l'odore dello stesso profumo.

Hillside

Un ultimo intermezzo, un'ultima pausa prima del brano conclusivo, per distendere le emozioni, e prepararci all'ultima scarica di adrenalina emotiva. "Hillside" (pendio della collina), fa sicuramente riferimento ai pendii sui quali è situata la grande insegna, la celebre scritta "Hollywood", protagonista dell'episodio precedente. Di fatto il pianoforte di "Hillside" rappresenta a pieno la tragicità e la tristezza dell'episodio, quasi a voler lasciare un vuoto dentro di noi. Al contrario degli altri intermezzi, non vi sono altri strumenti, il piano viene lasciato da solo, a tentare a fatica di riempire un vuoto incolmabile, un vuoto che viene in realtà alimentato dal gelido tocco emotivo delle note dello strumento classico. Hillside inoltre, è l'intermezzo più breve dei tre, e come un ponte, ci collega con la parte finale del nostro viaggio, l'ultimo brano di questa ultima opera firmata Protest The Hero.

Rivet

Con "Rivet" (Rivetto) i Protest The Hero non ci vanno proprio piano; lo sappiamo anche dagli album precedenti, soprattutto con "Volition", i Protest amano chiudere in bellezza, con qualcosa di grande, qualcosa che lasci il segno. In questo caso basterebbe la valanga emotiva del tema principale di quella che sarebbe la strofa, con le armonie vocali, gli accordoni prolungati, che fa da vera e propria introduzione al brano, per poi ripetersi nella strofa vera e propria con il solito rullante dritto sparato. Il brano è forse uno dei più variegati dell'album, qui si mischiano senza timidezza Punk, Prog e orchestra in quella che è una bomba emotiva di altissimo livello. Il brano è principalmente Punk, se non lo è interamente nella strumentale lo è sicuramente nel testo, che racchiude tutto ciò di cui si è trattato nell'album, lanciando una critica direttissima a tutti gli argomenti di cui si è parlato, in generale su quanto l'America sia insieme grandezza e vergogna, e su quanto ci sia da discutere e da indagare sulla realtà di alcuni eventi storici e contemporanei. Punk è la citazione dello slogan della campagna di Trump: "make America Great again" proposto in modo ironico e sarcastico, che conferma quanto le elezioni del presidente abbiano influenzato la stesura del concept dei brani. "la storia di nessun paese è esente da cose di cui vergognarsi, ma tutti sembrano cosi fottutamente orgogliosi", uno dei passaggi fondamentali che porta la critica sul piano del cieco patriottismo, e sul "tossico" nazionalismo. Il brano affronta anche il tema della deindustrializzazione dal 1970 in poi, che ha lasciato numerosi operai senza lavoro, coloro che avevano costruito "ferrovie" e "torri" alle quali il brano fa riferimento. Al di là del piano melodico, che già da solo regge il brano, troviamo numerosi inserti e variazioni, tra la prima, dopo le strofe, in cui cambia il tempo e la tonalità del brano, in una sezione Prog quasi dissonante, e la seconda, in cui cambia nuovamente tempo e si apre ad una strumentale di pianoforte quasi classica. Sul gran finale orchestrale sorretto dai violini cala il sipario, e quando la carica ed epica strumentale esce di scena con un fade out, proprio come un palinsesto, rivela una sotto-strumentale, composta ancora una volta da accordi di piano che segnano la vera e propria chiusura dell'album.

Conclusioni

"Palimpsest" è probabilmente l'album più variegato dei Protest the Hero. I canadesi non sono mai stati un gruppo privo di contaminazioni varie, ma qui la presenza imponente degli elementi orchestrali gioca un ruolo importante sulla personalità dell'album, questi elementi sono infatti presenti praticamente in ogni brano e rappresentano una visione musicale a 360 gradi. L'album è maturo, il coronamento di una carriera musicale nella quale è difficile trovare delle pecche. Altro elemento fondamentale dell'album, visto nella sua interezza sono le melodie, soprattutto per quanto riguarda i ritornelli, sulle melodie dei Protest ci sarebbe in realtà un discorso a parte da fare; al primo ascolto forse giusto il ritornello di "The Canary" e di "Reverie" ci entreranno in testa, ma è così per praticamente tutti i lavori dei canadesi, ma con numerosi ascolti passeremo a ritrovarci a mangiarci le mani su praticamente ogni brano dell'album. Questo discorso a mio avviso vale su tutti gli album dei Protest, soprattutto nei primi. Potrebbe sembrare quasi un difetto, ma questo in realtà ha un significato importante, le melodie non sono scontate ne banali, è tutto frutto di una complessità e un'originalità compositiva ormai ben nota del gruppo, il che porta anche al fatto che i brani verranno apprezzati più a lungo, perché melodie basate su questo concetto difficilmente stufano. Altro grande punto dell'album è la sua anima Punk, un elemento che permane quasi magicamente in quasi ogni uscita, seppur fosse leggermente più nascosto in "Volition" e in "Pacific Myth". I brani hanno continui richiami al Punk, soprattutto per quanto riguarda alcune strutture ritmiche di batteria, con il rullante dritto che caratterizza il classico Punk beat. Ma ancora più della strumentale, cosa non è più Punk del concept in questione, e del contesto stesso in cui nasce l'album; lo stesso Rody afferma che l'album sia stato concepito nel momento in cui Trump veniva eletto e lanciava il suo slogan sul "rendere l'America grande di nuovo", slogan su cui poi è focalizzata l'intera opera, a confermarlo il fatto che lo stesso slogan, sia il ritornello del brano conclusivo. Dal punto di vista tecnico c'è poco da aggiungere, è praticamente impossibile descrivere e raccontare le linee di chitarra del duo dei Protest, Luke Hoskin e Tim Millar, che veramente sembra stiano utilizzando le chitarre come mezzi di comunicazione in quella che è una amabile conversazione nella quale si inseguono a vicenda, scherzano, ridacchiano, si attaccano e si commuovono. Le tipiche linee melodiche a se stanti delle chitarre sono come al solito magicamente una fitta rete stradale nella quale le esplosive vocals di Rody Walker si districano e alla fine riescono tutti e tre ad uscirne divinamente. Un continuo sostegno, un tessuto intricato di elementi in cui tutti pero sono chiaramente distinguibili, il merito di ciò va in parte anche ad una maestosa e cristallina produzione, ciliegina sulla torta di un album quadrato, compatto, variegato e originale. Che dire, ci si aspettava un lavoro cosi soddisfacente dal gruppo canadese e non siamo stati delusi, "Palimpsest" è un'esperienza tutta da vivere, un'esperienza d'impatto sicuramente, verrete travolti dalle strumentali e dal potentissimo Rody Walker. La votazione finale è di 8.5 su dieci, per un album che ha soddisfatto qualsiasi aspettativa e ha fatto anche qualcosa in più, non è sicuramente il miglior album dei Protest The Hero ma sicuramente non è colpa sua, la "colpa" se cosi ci si può esprimere in senso totalmente ironico, ricade su quei capolavori rilasciati precedentemente dalla band, capolavori quali "Kezia", "Fortress" e "Volition", che restano comunque li in alto, con un "Palimpsest" che vi si avvicina moltissimo, ma tuttavia non li può raggiungere.

1) The Migrant Mother
2) The Canary
3) From The Sky
4) Harborside
5) All Hands
6) The Fireside
7) Soliloquy
8) Reverie
9) Little Snakes
10) Mountainside
11) Gardenias
12) Hillside
13) Rivet
correlati