PERZONAL WAR
The Last Sunset
2015 - Metalville
ANDREA CERASI
24/06/2015
Recensione
Da quasi venti anni i Perzonal War (Martin Buchwalter/batteria – Matthias “Metti” Zimmer/voce – Bjorn Kluth/basso – Andreas Ballnus/chitarra) appartengono alla scena underground tedesca. La nascita della formazione risale, infatti, al 1996 (nella regione più occidentale della Germania, precisamente nella città di Troisdorf) fondata dal batterista Martin Buchwalter e dal vocalist Matthias Zimmer, unici membri fissi sin dal disco di esordio, quel “The Inside”, pubblicato nel 1998 dopo un paio di demo, che li ha fatti accostare per stile musicale ai Metallica, soprattutto per quanto concerne il cantato (simile a quello di James Hetfield) da parte dello stesso Zimmer. Dopo tre album di buona fattura, ma probabilmente troppo legati allo stile della già citata thrash metal band americana, il combo tedesco opta per una svolta più personale del suono, modernizzando il proprio power/thrash metal e rendendolo più attuale. Ma non solo, perché nel 2002, a causa di una vicenda legale, i nostri sono costretti a cambiare nome, trasformando l’iniziale Personal War (con la S) in Perzonal War (con la Z). A cominciare dal quarto disco, “Faces” del 2004, la band non solo sfoggia un nuovo moniker ma anche un sound “stravolto” che ha il merito di fargli prendere le distanze dagli ispiratori Metallica e favorire, dunque, un cammino più individuale, stimolando una nuova vena creativa. Originalità, songwriting senza compromessi, riff brutali, lavori di chitarra elaborati, batteria possente, voce aggressiva e una buona quantità di melodia rappresentano il marchio di fabbrica della band. Ai lettori descrivo così la proposta di questi ragazzi provenienti dalla Vestfalia e dalla buona e lunga esperienza sulle spalle condita da ben otto album in studio che li hanno resi una realtà solida in patria. Venti anni di esperienza che li ha portati in giro per l’Europa accanto a nomi importanti come Candlemass, Circle II Circle, Destruction, Paradise Lost, Blaze e Nevermore, proprio questi ultimi molto simili per genere e impatto sonoro. Seguono a "Faces" altre tre pubblicazioni: "When Times Turn Red" (2005), "Bloodline" (2008) e "Captive Breeding" (2012), sino a giungere a “The Last Sunset”, il nuovo lavoro, l’ottavo, uscito il 29 maggio di quest'anno e griffato "Metalville Records", piccola etichetta discografica tedesca fondata nel 1995. L’album che vi presento ha una buona carica, pronta a colpire dritto al primo ascolto, consistente in quasi tre quarti d’ora di power/thrash senza compromessi e che sa efficacemente mettere in equilibrio dosi di violenza alternate a dosi di melodia, bilanciandone sapientemente le parti in un mix riuscito. L’impatto musicale è decisamente positivo, in grado di conquistare l’ascoltatore e avvolgerlo con le sue atmosfere apocalittiche, come bene espresso nella bella cover-art illustrata, dal significato oscuro e pessimista che mostra l’ultimo tramonto, di un rosso infuocato, che illumina le macerie di una città disseminata di animali morti e dove regna la distruzione, simbolo che non c’è speranza nel futuro.
“Salvation” parte con un arpeggio di chitarra sommesso e che, dall’oblio, lentamente si fa strada fino ad esplodere insieme alla batteria di Buchwalter. Un riffing veloce, in perfetto stile heavy metal classico, ne detta il passo, poi la voce di Zimmer esordisce dietro al microfono, e la sua è una timbrica interessante, profonda e sporca, adatta al genere proposto. La sezione ritmica si irrobustisce ulteriormente con l’inserimento del basso di Kluth che rende più corposo il brano, e’ un’esplosione di violenza che presto si trasforma in una cavalcata power grazie anche alla melodia efficace dell’ottimo chorus. L’aspetto melodico è sempre presente e ben amalgamato con la struttura portante di base thrash metal, perciò si crea un ibrido molto interessante dove, ogni tanto, fa capolino il verso alla James Hetfield, laddove il vocalist conclude una strofa e inizia a intonare il refrain. Il significato del disco è tutto racchiuso nel brevissimo testo di “Salvation”: la salvezza, infatti, è il significato stesso dell’esistenza, dopo tutto quello che abbiamo pagato per continuare a vivere e quello che abbiamo sopportato col diffondersi di false notizie, prendendo la strada sbagliata e facendo le scelte peggiori che hanno ridotto l’umanità alla rovina. Quando solo il dolore è la salvezza dell’anima significa che qualcosa è andata storta e ora quali aspettative ci sono rimaste? A un certo punto della vita ci si guarda indietro e si osserva ciò che si è seminato, ma cosa abbiamo concluso? La vita stessa è andata e non siamo sicuri che questa sia ancora nostra, perché ci è stata strappata ed è stato mandato tutto in malora. Siamo nati per soffrire e nella sofferenza troviamo la salvezza eterna. Le lancette di un orologio introducono il singolo “Speed Of Time”, traccia dall’andamento cadenzato poggiata sulla potenza del basso e su strofe sinuose e maggiormente riflessive rispetto all’apertura, intonate da uno Zimmer versione Hetfield, simbolo che gli ispiratori Metallica, nonostante il cambio di genere, non sono stati dimenticati. Dunque giunge il grande ritornello che si distacca totalmente dall’andatura media del pezzo, perciò abbiamo un cambio di ritmo improvviso e un’apertura melodica davvero coinvolgente che sorprende tanto è rapida, tanto da fa venire in mente lo stile di un’altra grande band tedesca, i Rage, capaci di inserire ritornelli gioiosi nascosti sotto tonnellate di acciaio pesantissimo. L’effetto del brano dei Perzonal War è ottimo, poco complesso, di breve durata ma incisivo al punto giusto, grazie anche al ruvido assolo di chitarra da parte di Ballnus. Tre minuti di power/thrash moderno che si spengono laddove sono iniziati, ossia con le lancette dell’orologio che battono il tempo e un album che piace sin dalle prime battute. Ancora una riflessione sul tempo che passa e sulla vita che lascia numerose cicatrici in volto, dove il futuro è sempre più breve, si accorcia atrocemente mentre il passato si gonfia riempiendosi di ricordi. L’attesa della fine è qualcosa a cui l’uomo deve farci l’abitudine, la velocità del tempo è impietosa, la caducità dell’esistenza anche, la vita di un individuo è solo un gioco al quale partecipiamo lasciando ai posteri sono un nome e un cognome. La sabbia cade sul viso contando il tempo con una clessidra e i giorni vengono meno, sommersi da dubbi e aspettative mal riposte. Perché tutto scorre così in fretta? Non è possibile rallentare? Ottimo quesito esistenziale per un lavoro incentrato sulla distruzione del mondo, roba che affascina sempre e non poco. “30 Years” è violentissima e cruda sin dall’inizio, parte a cannone con le chitarre in primo piano e una batteria indemoniata, così come mefistofelica appare la voce del cantante, agguerrito più che mai e intenzionato a scatenare gli animi. Sezione ritmica compatta e possente, strofe velocissime ma talmente quadrate che soffocano l’ascoltatore e lo lasciano respirare soltanto una volta arrivati al delizioso pre-chorus, prima di lanciarlo nel vortice melodico e vincente del ritornello, capace di scuotere persino l’ascoltatore più distratto. Un assolo breve ma siderurgico introduce la seconda parte della canzone e il secondo refrain, per poi cambiare ritmo dove una base rallentata viene protratta a lungo rimanendo sospesa sulla coralità degli strumenti, in questo caso sommessi e che sembrano dialogare l’uno con l’altro prima di lanciarsi, tutti insieme, nell’ultimo ritornello. A mio avviso un grandissimo pezzo in grado di stamparsi subito in testa e non andare più via, il cui valore acquisisce maggiore peso per via di un testo apocalittico e di stampo ambientalista che rappresenta una specie di sermone sulla fine della terra e sugli errori della razza umana. Cosa sta succedendo al pianeta? Lo stiamo massacrando con le bombe, siamo guidati da un branco di incapaci che prendono decisioni sbagliate solo per una questione economica. Come sarà il mondo fra trenta anni? Ci sarà mai un futuro oppure tutto ciò che conosciamo è già morto? La democrazia non esiste, esiste solo l’odio che alimenta rivoluzioni, anarchia e appicca incendi per le strade. Intorno a noi c’è solo fuoco e cenere sparsa al vento. “Never Look Back” ha la giusta carica, prende quota dopo un arpeggio malinconico di chitarra e la bella voce, in questo caso pulita e delicata, di Zimmer, quindi la potenza viene scaricata tutta nello stupendo ritornello per poi tornare raffinata nella seconda strofa. Ci troviamo di fronte a una semi-ballata dall’impatto nostalgico, costruita bene sull’alternanza di melodia e potenza. Il ritornello è davvero notevole, così come l’assolo centrale che riscalda i cuori prima dell’ultima fase dominata dal refrain ripetuto più volte. Tra le hits dell’album e che dimostra che i Perzonal War hanno classe da vendere. Mai guardarsi indietro, come consigliato delle liriche di un brano nichilista, perché non c’è nulla per cui morire, è un destino crudele che ci mette in gioco e al quale siamo costretti a partecipare, ma non sappiamo se questo sia il primo o l’ultimo atto della vicenda. Mai guardarsi alle spalle, soprattutto quando si è già trovato ciò che si stava cercando, anche se è un qualcosa che vale poco o niente. Tra luci e ombre la voce interiore non lascia scelta, costringendo ad accettare quello che capita, impossibile ribellarsi al destino, bisogna affrontarlo, combatterlo e giocarsi le proprie carte. La velocità e l’irrequietezza tornano con la prepotente “Metalizer”, thrash metal sparato in faccia e cantato con un accenno di growl sostenuto da un riffing pesantissimo e una sezione ritmica monolitica, dove nemmeno la melodia riesce a scalfirne il muro sonoro. Chorus semplicissimo e poco melodico, adatto per essere proposto dal vivo e cantato da tutto il pubblico, inoltre l’assolo di Ballnus è fantastico, preciso e violento come ci si può aspettare da una canzone del genere, poi la seconda parte non fa altro che riproporre il ritornello, ancora più pompato, ancora più grezzo. Insomma, una traccia che rischia di procurare fratture del collo a forza di headbanging furiosi, probabilmente la più vicina al thrash metal classico, ma anche fin troppo semplice nella struttura rischiando di perdersi al confronto con le altre tracce fin qui analizzate. Canzone di possessione, dove il diavolo si insidia nel corpo di un uomo per scatenare una tormenta interiore, ma è anche un brano di speranza, laddove il diavolo è metafora di ribellione, di riscatto dalle atrocità della vita, di appoggio morale per superare le difficoltà quotidiane. Il testo è ambizioso perché il tutto si rivela essere un vero e proprio inno alla musica, ovviamente quella dura e carica, che scuote l’animo, unica ragione per cui l’uomo (tradotto: il metallaro) respira e sanguina per imporre al mondo la propria passione. Un testo che c’entra poco col resto delle tematiche dell’album ma, in un certo qual modo, se proprio vogliamo trovare un punto in comune, possiamo dire che anche la lotta per far prevalere le proprie ragioni e i propri amori (in questo caso per la musica) è un guerra spietata in questo mondo in preda alla decadenza culturale. Il giro di boa si ha con “When Faith Has Gone Forever”, dal titolo impegnativo e che è aperta da un riff sinistro e da una batteria cadenzata, poi entrano in gioco basso e voce per quella che sembra a tuti gli effetti una canzone doom evocativa, oscura e dai tratti epici. Bellissimo il primo impatto, dove le strofe sono sinuose e ricordano i Paradise Lost, per incedere e per emotività, soprattutto nelle linee vocali, ben calibrate e compatte. Sorprende un po’, a dire la verità, un pezzo del genere all’interno del disco, proprio perché mostra un lato inedito della musica dei Perzonal War, quello più lento ma duro come un macigno. Personalmente adoro il doom, è uno dei miei generi preferiti, perciò accolgo con grande entusiasmo “When Faith Has Gone Forever”, una delle migliori canzoni della track-list, ma potrebbe non piacere a chi è abituato ad ascoltare brani suonati alla velocità della luce. Comunque il senso ipnotico che spezza il ritmo a metà album è perfettamente riuscito, riesce a trasmettere l’inquietudine della fine del mondo e perciò è in linea con il leitmotiv dell’intero lavoro. Dal punto di vista lirico ovviamente si riprende questa linea oscura e catastrofica che tratta della perdita di fede, quindi un momento buio dell’esistenza umana, simboleggiato dall’immagine di un cielo plumbeo, coperto di nuvole nere e cariche di pioggia. Dove è andata a finire la luce del giorno? Adesso è come se tutti fossimo ciechi e l’aria fosse diventata irrespirabile, le famiglie si dividono e tutti affogano nel dolore e nella disperazione. Qualcosa si è spezzato per sempre, a causa di un destino nefasto che ha lasciato dietro di sé soltanto povere vittime e tutti noi è come se avessimo perduto ogni cosa, per sempre. “What Would You Say?” è inaspettatamente melodica sin dall’inizio, è una ballata affascinante e dall’aria sconsolata. Zimmer intona a cappella le prime strofe, prima che la sezione ritmica esploda e prenda ritmo ammaliando l’ascoltatore. Il cambio di registro è netto, questa è una ballad rock dalla melodia strepitosa e pronta ad avvolgere i timpani grazie a un refrain azzeccato che si incola addosso, invade la mente e non va più via. I nostri sanno picchiare duro così come dispensare, come in questo caso, buone dosi di morbidezza e raffinatezza. Quattro minuti piacevoli che parlano di solitudine, dove un uomo è seduto nella sua stanza e con la testa tra le nuvole, che pensa al trapasso inesorabile del tempo mentre ascolta il ticchettio delle lancette dell’orologio che lo cullano tra i suoi pensieri. Tutte quelle memorie che hanno lasciato una traccia nel suo cuore lo invadono quando è tempo di dormire ma egli non ha sonno. E’ solo confuso e stordito. Chiude gli occhi cercando di ricordare il passato, la vita che ha trascorso e ciò in cui ha fallito, perché quella potrebbe essere la sua ultima notte. Ci sono troppe domande rimaste senza risposta e il futuro è ignoto a tutti, la vita è un gioco che va giocato, è un gioco per il quale bisogna schierarsi e tentare la fortuna. Dunque, cosa chiedereste voi se fosse il vostro ultimo giorno? Ed è ciò che cerca di spiegare la seguente title-track, “The Last Sunset”, dai toni virili e spietati, thrash metal vecchia scuola suonato con perizia e talento ma che ha diversi cambi di tempo che donano al pezzo una doppia faccia, portando un ritornello fresco, melodioso, veloce e tipicamente power metal. Due generi in uno che si alternano e si abbracciano in continue variazioni grazie incroci di asce, basso pulsante e batteria dalla doppia cassa sparata a mille. Ottima la prova di tutti i musicisti e grande interpretazione del vocalist per una canzone splendida, probabilmente la migliore in assoluto. Sicuramente la più rappresentativa. Se potessimo predire il futuro rifaremmo ciò che abbiamo fatto negli anni? Prima o poi il fatidico giorno arriverà, inutile scappare, il sole si oscurerà, si eclisserà per l’ultima volta e non sorgerà più, seguirà un silenzio assoluto e gli unici rumori che ogni tanto si sentiranno avranno il significato di un addio. Niente più regole, il clima impazzirà e i piani per salvare il pianeta andranno a puttane, la popolazione morirà fino a estinguersi, e allora torna in mente quella bella copertina raffigurante un sole rosso fuoco che sta esaurendo le ultime energie, quei grattacieli in rovina e quelle carcasse di animali disseminate per le strade. “The Last Sunset” non solo è bella da ascoltare ma è anche immaginifica, palesata da un testo che sa tanto di protesta ambientale. Si prosegue nella stessa direzione con la violenta “Times Of Hate”, dal piglio cattivo, molto moderno, ma che non disdegna momenti melodici, in particolare nel pre-chorus, a mio avviso la parte migliore del brano, e che ha il pregio di trascinare l’ascoltatore nel vortice di crudeltà che imprigiona un refrain stabile come un muro di cemento armato. Impressionante la sezione ritmica che si avvale dell’uso sapiente della batteria di Buchwalter, sempre in prima linea a combattere, e della leziosità del basso di Kluth che rende tutto così pieno e muscoloso. La chitarra elettrica di Ballnus è una lama affilata che incide con cattiveria attraverso un riffing brutale e supportando l’aggressività interpretativa di Zimmer. Ancora una volta ci troviamo di fronte a una brevissima canzone (appena 3 minuti) dai muscoli d’acciaio e pronti a tendersi per colpire l’avversario e metterlo al tappeto. Si continua col leitmotiv principale, ossia la fine del mondo, dove ogni giorno peggiora e ogni passo che si conduce è più vicino all’ipotetico confine col nulla. Ogni atto di violenza ha una sua ripercussione sulla terra, perciò la vita diventa una spirale che si attorciglia su se stessa come fosse una maledizione. Tutti i sogni e le speranze riserbano solo miseria, terra bruciata, mura disabitate, e allora sorge spontanea una domanda: fermeremo mai questa disumanità? In questa situazione e di questi tempi prevale l’odio come sentimento cardine, un’emozione in grado di sterminare la fede e la ragione allo stesso momento. Purtroppo un altro male è nato e il suo irrefrenabile corso è già iniziato. Non c’è via di fuga, non c’è luce, solo l’oblio dove saremo inghiottiti e “I See Nothing” è la traccia tramite la quale il gruppo si congeda, i rapidi colpi di batteria prendono forza, poi lentamente anche le chitarre e, dopo quale secondo, ecco l’inferno. I musicisti picchiano come dannati, la struttura si rivela della stessa consistenza affrontata fin qui, con strofe robuste, sporche, ma che lasciano spazio ad aperture meno claustrofobiche nei pressi del refrain rivelando, in mezzo a tanta violenza classica, una composizione moderna vicina al tipico sound nu-metal, orecchiabile ma mai troppo forzato. Qui comunque si pesta duro e il pezzo è ancora vincente, nel quale l’ennesimo testo esistenzialista la fa da padrone. Sono le decisioni giuste e quelle sbagliate che fanno della persona un vincente o un perdente, un forte o un debole, ma come si può affrontare un mondo che non si conosce ma che è destinato comunque a giungere? E’ tempo di prendere una decisione, qualsiasi essa sia, e percorrere la propria strada a testa alta, prendendosi grossi rischi ma vivendo almeno in libertà, quella stessa libertà che ci stanno togliendo giorno dopo giorno.
“The Last Sunset” è sicuramente un ottimo album, da quello che ho ascoltato in rete, potrebbe essere addirittura tra i migliori nella discografia del combo tedesco. In questo lavoro tutto è bilanciato perfettamente, i brani sono validi, dalla struttura robusta e prettamente metallica ma con un lato inaspettatamente melodico che si ascoltano che è un piacere e si memorizzano all’istante. I quattro musicisti indubbiamente sanno suonare, sono dotati tecnicamente e ognuno di loro svolge bene il proprio compito, in particolare Zimmer, un cantante non dotato di grande tecnica ma dal bel timbro vocale e dall’interessante interpretazione. Un altro punto a favore per la band è l’eterogeneità con la quale compone i pezzi, tutti dotati di anima propria (che va dal thrash al power, passando per il rock melodico) ma che non suonano mai dispersivi, risultando compatti e creando un muro di suono stabile. Come accennato in apertura, il riffing è corpulento e brutale come ci si aspetta da una band del genere, mentre il songwriting è efficace e ben strutturato, capace non solo di legare i singoli brani ma di porsi al centro dell’attenzione facendo da filo conduttore e trasformando l’album in una sorta di concept-catastrofico. I Perzonal War sanno il fatto loro, sono creativi e originali quanto basta per diventare presto una solida realtà, inoltre hanno buone idee melodiche che supportano alla grande la potenza del loro metal, peccato solo che le strutture dei brani, sebbene siano curate e dalla produzione graffiante, risultino a tratti un po’ troppo semplicistiche, ma è giusto una piccola critica, almeno non si perdono in futili lungaggini come va di moda negli ultimi tempi. Servirebbe giusto qualche dose di coraggio in più nell’architettura dei pezzi, magari inserendo qualche brano più articolato e dal minutaggio più consistente, e il gioco è fatto. “The Last Sunset” possiede comunque una ricetta vincente e non presenta cali al suo interno perciò il prodotto finale è decisamente riuscito. Come da pronostico una bella sorpresa e una band da seguire, laddove la Germania, nel campo dell’heavy metal, raramente delude.
1) Salvation
2) Speed of Time
3) 30 Years
4) Never Look Back
5) Metalizer
6) When Faith Has Gone Forever
7) What Would you Say?
8) The Last Sunset
9) Times of Hate
10) I See Nothing