PEARL JAM

Ten

1991 - Epic Records

A CURA DI
ANDREA CERASI
04/09/2019
TEMPO DI LETTURA:
9

Introduzione Recensione

-Meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente, perché la ruggine non dorme mai- cantava Neil Young nell'album "Rust Never Sleeps", e inconsapevolmente influenzava un'intera scena musicale che veniva a crearsi agli inizi degli anni 80 tramite una schiera di ragazzi ribelli, disillusi dalle promesse di una società moderna incapace di realizzare i loro sogni e che preferiva farli marcire nel degrado. La cosiddetta "Generazione X", quella dei giovani perduti, senza futuro, inascoltati, che trovavano senso nelle droghe, nell'alcool, nelle risse, annichiliti dalla depressione e affascinati dal potere della musica. La Seattle degli anni 80 era una città in fermento, non solo per via delle numerose industrie che qui vi sparavano fumi che dai boschi arrivavano dritti all'oceano, ma anche per una creatività artistica fuori dal comune, a dir poco miracolosa, forse viziata proprio da quest'aria nebbiosa sputata fuori dalle ciminiere delle fabbriche. Un profumo metropolitano che ben presto entrava nei polmoni di tanti giovani musicisti, creando una vera e propria scena underground. Tutto ciò che aveva una chitarra distorta riscontrava interesse, e tutto ciò che godeva di una chitarra distorta veniva contaminato: il metal incontrava il punk, l'hard rock incontrava l'acid rock e il noise, in un vortice di psichedelia e devasto che mai era stato ascoltato prima. La pacatezza di un cantore come Neil Young quasi stonava davanti a cotanta irruenza sonora, il country rock del guru canadese sembrava citato a caso, in questo contesto, e invece svolgeva una parte importantissima, se non fondamentale, per l'evoluzione del Seattle Sound, definito qualche tempo dopo col termine di Grunge, etichetta che in realtà sottolineava solo una scena e una dimensione artistica ma non di certo un sottogenere preciso, data la differenza di suono di ogni band che vi apparteneva. La musica di Young era disperata, amara e disillusa, le parole del cantante rispecchiavano lo stato d'animo della Generazione X, e un disco come "Rust Never Sleeps", del 1979, nonostante i toni rilassati e acustici, coglieva nel segno, facendo breccia nei cuori dei giovani di Seattle per via dei suoi testi incantati e tragici. Eppure, il primo vagito alternativo del suono di Seattle si intitolava "Re-Actor", che in qualche modo proseguiva il cammino tracciato da "Rust Never Sleeps", assumendo toni ancora più cupi, con testi criptici e malati che riflettevano il drammatico periodo che Neil Young attraversava, depresso e tormentato a causa della malattia del figlio, affetto da paralisi cerebrale, e costituito da arrangiamenti durissimi, pieni zeppi di distorsioni e di ritmiche ripetute ossessivamente. La sperimentazione di questo disco del 1981, fatta un po' per provocazione e un po' per superficialità, aveva un impatto spaventoso sulle menti di tanti musicisti. Non è un caso se proprio nel 1981 compariva per la prima volta l'utilizzo della parola Grunge, ossia "sporco", a indicare un'attitudine musicale che spezzava con la tradizione rock, anche se solo a partire dal 1987 si comincia a parlare di "ondata Grunge" americana. Insomma, la via era stata indicata e molte rock band dell'epoca avevano scelto il proprio mentore, e se la frase di Neil Young aveva dato inizio a tutto, la stessa frase, per ironia della sorte, chiuderà il tutto: Kurt Cobain, infatti, si ucciderà lasciando un foglio con su scritto la citazione di "Rust Never Sleeps", facendo declinare un'era. Tra le parole della canzone di Young vi è dunque racchiusa un'epopea musicale, l'ascesa e la discesa di una scena di vastissimo successo che ha saputo forgiare generazioni di ascoltatori. La musica di Seattle, negli anni 80, è ancora lontana dai riflettori, qualcosa si muove, certo, i Soundgarden e gli Screaming Trees hanno già rilasciato lavori di grande impatto, entrambi influenzati dal punk e dall'hard rock degli anni 70, dove i Black Sabbath e i Blue Oyster Cult incontrano i Ramones e i Doors, per un mix di hard rock psichedelico e urlato che affascina molti, ma è all'alba del nuovo decennio che la città di Seattle si impone al mondo intero. Tra le decine di band che fanno capolino tra i boschi dello Stato di Washington, ci sono i Mother Love Bone, orfani del vocalist Andrew Wood, il quale poco prima di pubblicare il primo album, "Apple", resta vittima di una overdose di eroina. Il bassista Jeff Ament e il chitarrista Stone Gossard, superato il momento di buio, decidono di riunirsi, fondando una nuova band e reclutando il chitarrista solista Mike McCready e il batterista Dave Krusen. A questo punto manca soltanto un vocalist. Il fato vuole che il batterista dei Red Hot Chili Peppers, amico della band, spedisca una demo contenente cinque pezzi strumentali a un suo amico di San Diego, un bel ragazzo innamorato degli U2 e dei Led Zeppelin, che si guadagna da vivere facendo il benzinaio, un certo Eddie Vedder, il quale in un paio di ore scrive i testi per tre brani e li canta su una pista separata, rispedendo indietro il pacchetto. Ament è talmente colpito dalla bellezza dei testi e dalla profondità della voce di Vedder che gli procura subito un biglietto aereo. Dall'assolata California meridionale ai boschi freschi e umidi di Seattle è un attimo. La band è al completo, Vedder la battezza Pearl Jam, in onore di sua nonna Pearl, e scrive undici testi per undici strumentali già esistenti. "Ten" nasce in poche settimane, nella primavera del 1991, durante le quali i Pearl Jam si trasferiscono prima ai London Bridge Studios di Seattle e poi in una fattoria fuori città, dove registrano e missano di fretta e con poca esperienza l'intero album: il risultato sono mille sovraincisioni, riverbero delle chitarre altissimo, limpidità di suono un po' compromessa. Nonostante i musicisti non siano pienamente soddisfatti, "Ten" è pronto per la pubblicazione, e alla fine dell'estate 1991 la storia del Grunge cambia per sempre.

Once

Saliamo in auto, assieme alla band, per questa scorribanda intitolata Once (Un Tempo), somigliante a una danza tribale che velocemente prende piede tra le strade di una città americana. Batteria e basso si insinuano sottopelle e nel cervello fino a stordire l'ascoltatore, poi Vedder esordisce quasi sussurrando, ammettendo l'esistenza dei demoni che popolano e tormentano la sua mente. "Lo ammetto, vivrò senza dolore, come una prostituta sul ciglio della strada. Ho una bomba nelle tempie che sta per esplodere, ho una pistola nascosta sotto la giacca. Ci gioco". L'atmosfera sinistra è perfetta per descrivere l'oscurità che regna sovrana nella testa del serial killer, uno che prova gusto nello sfidare la giustizia, nel caricare in macchina una prostituta e, soprattutto, giocare con la sua amata arma da fuoco, pronta per essere utilizzata. Il delirio che invade il corpo dell'omicida e che lo rende schiavo di gesti insani è evidenziato da una base ritmica seducente, che via via prende quota esplodendo in un turbinio di irrefrenabile hard rock. "C'era un tempo in cui riuscivo a controllarmi, un tempo in cui riuscivo a contenere l'istinto, a perdermi e ad amarmi" grida il vocalist, con ghigno famelico, quasi prendendo gusto nell'accettare la sua metà oscura, una ona d'ombra che sta per fuoriuscire, dominata dall'odio per il mondo e dall'amore per il sangue. McCready e Ament tessono una trama famelica, che tutto divora, nel più bell'esempio di selvaggio e robusto hard rock, condendo il tutto con uno splendido assolo e con una possente rullata da parte di Krusen. Il timbro screziato di Vedder dà voce ai fantasmi del folle assassino, in un deliro che trova sfogo nell'ultima parte: "Mi abbandono alla follia, è l'estate indiana ed io odio il caldo. Sul sedile del passeggero ho una prostituta e in tasca la mia pistola. Prego". L'uomo si abbandona alla follia, prega, prega di resistere, di non commettere errori, di non fare una strage, ma sa già che non potrà resistere ai suoi istinti malefici. Egli è un condannato, la vita lo ha maledetto, perciò è schiavo del male.

Even Flow

Le chitarre di McCready e di Gossard duellano creando un vortice metallico, arrugginito e letale, in grado di infettare e avvelenare gli ascoltatori. Una specie di flusso funky rock che travolge ogni cosa, e così Even Flow (Flusso Costante) si delinea col suo robusto corpo musicale, i toni possenti e l'amara melodia che echeggia nella mente di un pover'uomo, afflitto dal male dell'esistenza. "Sta morendo di freddo, poggia la testa su un cuscino fatto di cemento, con la sensazione che forse vedrà giorni migliori. Elemosina, i volti che vede non sono così familiari, un ghigno malvagio che quando sorride sembra pazzo". Si parla di un senzatetto, di un poveraccio costretto a dormire in strada, al freddo e con la testa poggiata sull'asfalto. La pioggia lo contorna, gli inumidisce la pelle, neanche gli permette di chiedere l'elemosina. Non vedrà mai giorni migliori, purtroppo, egli ne è consapevole, eppure spera in un futuro più semplice, per ricominciare da capo, come espresso nel leggendario ritornello: "Flusso costante, i pensieri arrivano svolazzando come farfalle, lui non lo sa e così li scaccia via. Eppure un giorno ricomincerà a vivere di nuovo". Melodia, un pizzico di punk nella dinamica del pezzo, per un'attitudine davvero viscerale, scabrosa, nonostante un testo bello e impegnato. La nevrosi dell'uomo trova riscontro in quella degli strumenti, ad esempio il basso di Ament si dimena che è una bellezza, come una belva della savana, mentre le due chitarre riportano a galla la grande epopea dell'hard rock anni 70. I toni sono umidi, come questo giorno di pioggia, e nebbiosi, come i pensieri del barbone che sogna di riprendersi la sua vita. L'aspra melodia del ritornello trasmette comunque speranza, e alla fine prende la forma di un augurio, di un inno alla speranza. il ritmo è sfrontato, gli strumenti viaggiano alla grande, i musicisti si dimenano, e allora prende forma una splendida parentesi strumentale, dominata dal basso, che in questo caso fa da guida spirituale e sembra dare forma ai pensieri del poveraccio. "In ginocchio, sfogliando il giornale anche se non sa leggere, prega di vedere qualcosa che non abbia mai visto. Sentendolo, si capisce che il tempo dell'inverno sta arrivando". La chiusa non è proprio solare, nonostante una flebile speranza nel cuore dell'uomo, poiché l'inverno sta arrivando, e con esso anche i forti e gelidi venti, le piogge ininterrotte, le mille difficoltà della strada. Si prospettano giorni bui.

Alive

Alive (Vivo) è in qualche modo legata a "Once", perché tratta dello stesso ragazzo diventato un folle omicida, tradito da sua madre, deluso dai suoi affetti. Scritta da Vedder prima di unirsi alla band, racconta di un giovane che scopre che l'uomo che lo ha cresciuto non è il suo vero padre. Il riff iniziale è annichilente, dona al pezzo un suono nero come la pece, quasi apocalittico, poi interviene la voce di Vedder a declamare la prima strofa, che trasforma il brano in uno splendido affresco rock n roll che rievoca il sound e l'attitudine di un certo Neil Young. "Figliolo, ha detto lei, ho una storiella per te: colui che credevi tuo padre non era nient'altro che uno qualunque. Quando avevi tredici anni, il tuo vero padre stava morendo. Mi dispiace che tu non l'abbia conosciuto, ma ora che lo sai sono contenta". Se le strofe sono grezze ma pacate, poggiate tutte sulla pesantezza della chitarra e del basso che creano un mid-tempo ossessivo, il ritornello è liberatorio, dove la band si lancia in un momento hard rock davvero inteso e le vocals vengono gridate: "Io, io sono ancora vivo, ancora vivo" recita Eddie, dopo aver appreso la brutta notizia, informato dalla mamma di essere cresciuto con un patrigno, mentre il suo vero padre, mai conosciuto, è appena morto. La crisi esistenziale ovviamente, data la notizia, è inevitabile, e allora il ragazzo si getta nello sconforto, anche se cerca di non darlo a vedere. Dice di essere vivo, si convince che vada tutto bene, che la sua situazione, a seguito della scoperta, non è che cambi poi molto, ma dentro di sé urla di dolore perché la sua vera natura gli è stata tenuta nascosta per anni e anni. Il refrain è il simbolo di tale situazione, sulle corde vocali di Vedder si accumulano tutti i pensieri e le crisi di un ragazzo cresciuto senza un vero padre. "Lei attraversa lentamente la stanza del figlio, dicendo: Sono pronta per te. Non riesco a ricordare il giorno preciso in cui mi ha parlato, ma ricordo lo sguardo che mi fissava". La band rievoca il ricordo della discussione avuta con la donna, un ricordo un po' confuso, anche se l'espressione della mamma è scolpito nella memoria. "C'è qualcosa non va? Ha detto lei. Certo che c'è, ho risposto. Ma sei ancora vivo, ha detto lei. Non merito di esserlo? Che domanda è? Sì, sono ancora vivo", su toni agrodolci attacca il bridge, in un clima quadi disilluso nel quale il giovane accetta la sua natura, ma dentro il suo sangue ancora ribolle. È vivo, certo che è vivo, ma pieno di una rabbia che deve sfogare in qualche modo, così come fa tutta la band nella brillante coda finale nella quale ogni strumento si ritaglia il proprio spazio, intavolando una jam.

Why Go

Se la follia è la colonna portante del disco, allora non c'è ambientazione migliore di un ospedale psichiatrico. Why Go (Perché Andare) nasce da una riflessione pirandelliana: "Anche la pazzia è forma di normalità", e così la band americana si scaglia contro la superficialità dei medici di questi istituti e criticano i terribili metodi praticati per la riabilitazione. Ament è in grande spolvero, così Krusen, davvero terremotante, tanto che si ha la sensazione di ascoltare un pezzo sleaze metal, anche se il retrogusto funky torna in auge non appena arriva la prima strofa. Tra distorsioni e ritmiche danzerecce, Eddie ci parla di una povera sgraziata condannata alla reclusione all'interno di un manicomio. "Lei incide una lettera su un muro di pietra, forse un giorno un altro ragazzino non si sentirà solo come lei. Sono trascorsi più di due anni da quando l'hanno rinchiusa in questo posto. Qualche stupido coglione le ha fatto una diagnosi, col consenso della mamma". Due anni di reclusione, due anni di solitudine. La ragazza incide le sue parole sul muro della cella, su quella parete vi affida le sue memorie, combattendo il trascorrere del tempo e abbattendo la noia. Oltre al corpo, anche la sua mente è legata a quel posto, imprigionata per sempre. "Perché tornare a casa? Cosa mi hai insegnato, mi hai messa qui, e mia madre non viene a trovarmi", il refrain viene intonato a cappella, tanto per dare la netta sensazione di ossessione e impotenza, poi riparte, sempre su toni amari, per proseguire a raccontare le paure e le ossessioni della ragazza. "Lei sembra più forte, ma loro vogliono che sia debole. Lei potrebbe fingere di esserlo, potrebbe prestarsi al gioco, potrebbe essere un clone debole, ma non lo fa". I medici, in questo caso, non sono visti come salvatori e curatori dell'essere umano, ma come condanna, come tiranni padroni che si divertono a maltrattare i reclusi, vittime della società. Sono anni particolari, specie in America, dove la comunità scientifica e quella civile si schiera apertamente contro le terapie, a volte brutali, inflitte ai malati di mente da parte dei medici di queste strutture. I Pearl Jam si fanno portavoce di tale scontento, raccontando le sensazioni e il clima che aleggiano all'interno della società moderna.

Black

La solitudine di una vittima reclusa all'interno di un manicomio viene trasferita nella danza notturna di Black (Nero), fenomenale e cremosa ballata che spezza cuori e frantuma sentimenti. "Fogli di tela vuoti, fogli di argilla intatti, giacevano sparsi davanti a me come il suo corpo, un tempo. Tutti e cinque gli orizzonti ruotavano introno alla sua anima, come la terra gira intorno al sole. Adesso l'aria che respiro è cambiata". Un uomo ha perso la sua amata, e la ricorda cantando di un passato mai dimenticato. L'atmosfera cattura subito l'ascoltatore, proiettandolo nel mondo cupo di questo uomo dall'anima strappata via dalle viscere, e risulta incredibile l'intuizione chitarristica di McCready, che con la sua chitarra si dimena in un fraseggio malinconico che avanza lentamente a partire dallo splendido ritornello, un capolavoro di melodia e di scrittura, tanto per ribadire la geniale penna di Vedder. "Quello che le ho insegnato e quello che le ho dato era tutto ciò che aveva. Ora le mie mani amare si sfregano sotto le nuvole. Le foto si sono tinte tutte di nero, tatuando ogni cosa". Le fotografie sulle quali l'uomo versa lacrime sbiadiscono tra le sue mani sudate, e l'inchiostro della pellicola gli si appiccica sulla pelle come un tatuaggio. Una metafora bellissima per descrivere la nostalgia di un passato lontano ma che fa ancora male. Nella voce rotta di Eddie emerge il senso di dolore, un dolore che viene reso alla grande dalle asce e dal basso, che si fanno largo indicando a tutti gli ascoltatori il sentiero della solitudine. "Esco per fare una passeggiata, sono attorniato da alcuni bimbi che giocano, posso sentire le loro risate, ma perché mi sento bruciare? Ho dei pensieri contorti in testa, che girano e girano. Quando tramonta il sole?". Il sole cattura pensieri e ricordi, e brucia nella mente dell'uomo, il quale preferisce l'oblio notturno, tanto per spegnere il cervello e cadere nel sonno. "Ora le mie mani amare cullano i vetri rotti, le foto si sono tinte di nero, tatuando ogni cosa. Tutto l'amore finito male ha fatto diventare nero il mio mondo, tatuando tutto ciò che vedo, tutto ciò che sono e sarò". Le corde di chitarra sono velenose come il morso di una serpe, riescono a creare il momento più intenso del brano, quel fumoso e amarissimo bridge, che non è altro che una presa di coscienza: "So che un giorno avrai una vita meravigliosa, so che sarai una stella, nel cielo di qualcun altro, ma perché non può essere il mio?". Poi ecco la gloriosa e apocalittica coda finale, durante la quale, tra i versi e gli acuti del vocalist, la chitarra di McCready libera il fraseggio portante, in una discesa di emozioni intense che vanno a sfumare nel silenzio.

Jeremy

Si apre come una cantilena acustica, Jeremy, dai toni morbosi e sinistri che raccontano una macabra vicenda realmente accaduta: il suicidio di un giovane liceale davanti ai suoi compagni di classe. Jeremy era un ragazzo solo, che faceva fatica a interagire con i suoi coetanei e a instaurare un rapporto sereno con i genitori. Gli insegnanti lo ricordano come un giovane calmo e insicuro, dagli occhi tristi. Non appena Vedder lesse l'articolo di giornale che riportava la notizia buttò giù il testo. "A casa, a disegnare di cime montuose con lui in vetta. Sole giallo limone, braccia alzate a formare una V, e sotto i morti che giacciono in pozze color sangue rappreso. Papà non era attento al fatto che mamma non lo voleva". Jeremy si era alzato in piedi, durante la lezione, e si era puntato la pistola alla bocca. Prima di premere il grilletto disse che doveva fare ciò che andava fatto. Il dramma viene musicato alla perfezione dalla band attraverso un suono nevrotico, le corde di chitarra sempre tese, come i nervi del ragazzo, la voce sporca di Eddie, il basso che sembra rimbombare nell'aula dove avvenne il fatto. "Re Jeremy il malvagio, che dominava il suo mondo. Jeremy ha parlato oggi in classe" dice il ritornello, in una melodia sprezzante e originale, che mette al centro dell'attenzione il malsano gesto di Jeremy, imprigionato nel suo mondo oscuro, fitto di misteri mai rivelati, e ricordando le sue ultime parole prima di uccidersi. "Ricordo chiaramente che ce la prendevamo col ragazzo, sembrava un coglione inoffensivo, ma scatenammo un leone. Lui digrignò i denti e morse il petto dell'insegnante. Come posso dimenticare?". La seconda strofa si riferisce ai commenti dei compagni di classe, che ritenevano Jeremy un disadattato, fin troppo taciturno e inoffensivo, sicuramente pieno di problemi. Ma le loro prese in giro scatenarono la furia del leone. Una scena impossibile da dimenticare, ovviamente, una tragedia inaspettata che ha sconvolto la Richardson High School, Texas, nell'inverno 1991. Il giorno prima di suicidarsi, il ragazzino, che aveva solo quindici anni, aveva scatenato una rissa, stufo delle prese in giro dei compagni: "Lui mi colpì a sorpresa con un gancio sinistro, mi lasciò la mascella dolorante e a bocca aperta, proprio come il giorno in cui ho saputo che aveva fatto". Questo passaggio viene gridato con tutta la voce in corpo da parte di Vedder, a simboleggiare la rabbia che ha scatenato l'idea della morte nella mente di Jeremy. La foga, gli acuti, le chitarre che svettano alte in cielo, i colpi di batteria, poi la quiete arriva a chiudere il brano, lasciando una leggera scia di malessere.

Oceans

"Mi aggrappo al filo, le correnti mi trascinano e mi conducono da te. Tu sai che qualcosa è rimasto e che a tutti noi è concesso di sognare la prossima volta che ci toccheremo" canta Eddie Vedder, sovrastando i dolci arpeggi di McCready che assomigliano a onde del mare, liquide e spumose. Oceans (Oceani) si apre così, nella più raffinata delicatezza, per parlarci di amore. Il brano si evolve tutto in acustico, ondeggiando dolcemente, sussurrando come la brezza del vento che spira dall'orizzonte. Scritta insieme al chitarrista Gossard, questa canzone è un caso unico all'interno del disco, definito dai musicisti come un momento strano e affascinante, quasi un intermezzo sperimentale, di altissima intensità, che ha permesso ai Pearl Jam di esplorare territori differenti. L'arrangiamento iniziare era diverso, molto più sporco, molto più grunge, ma nelle ultime sessioni McCready ha preferito spogliare il brano della sua veste rock per trasformarlo in una perla delicata e sognante. "Non devi allontanare gli oceani, le onde dondolano nei miei pensieri. Stringo forte l'anello, il mare sta per alzarsi, tu attendimi sula spiaggia ed io ci sarò, ancora una volta". Si parla di amore, un amore astratto e puro, limpido come il mare, e non è un caso se ad ispirare le liriche sia stata la passione per il surf da parte di Vedder, che ne ha pensato le prime battute mentre era sulla sua tavola, intento a cavalcare le onde dell'oceano, e con la mente focalizzata sul viso della sua fidanzata dell'epoca, una ragazza di nome Beth. Due minuti e poco più di romanticismo, concentrati anche in un bel videoclip in bianco e nero girato alle Hawaii, dove i ragazzi si divertono per le strade del posto, surfando, guidando e bevendo.

Porch

Porch (Veranda) è un proiettile che fende l'aria e che si schianta contro il tronco di un albero. Questo è l'unico pezzo arrangiato da Vedder da solo, registrato in un giorno soltanto poche settimane prima di attuare il missaggio definitivo dell'album. Anche in questo caso le liriche riflettono sul significato di amore, come spiega il vocalist in varie esibizioni live. "Verso cosa sta correndo questo mondo? Cristo non hai lasciato un messaggio. Avrei almeno potuto sentire la tua voce un'ultima volta. Il quotidiano è un campo minato, tutto ciò potrebbe capitare a me". Il mondo che va a puttane, la crisi esistenziale, i problemi quotidiani, la follia che impera nella società moderna. Tutto va così di fretta che spesso ci dimentichiamo di esternare i nostri sentimenti con le persone che amiamo. La sezione ritmica è tanto pressante quanto scarna, pochi accordi e un ritmo martellante che frantuma i timpani. Forse è il pezzo di "Ten" che riesce a trasmettere meglio la foga sonora del grunge, con i suoi contenuti sporchi e le sferzate metalliche. "Tutti i conti passano e le iniziative intraprese a metà. Non ci saranno più vie di mezzo d'ora in poi, e la croce che sto portando a casa non rappresenta il mio posto. Ho lasciato la veranda". La vita vola via, e allora è meglio fermarsi un attimo per godersi i sentimenti accanto alle persone care. L'amore è fondamentale, è il segreto stesso della vita. L'intensa parentesi strumentale, con basso e chitarre in prima linea, esterna l'abisso profondo dell'amore. La veranda è il luogo dove riflettere, ammirando la strada davanti, il paesaggio che circonda l'uomo. Una volta rientrati in casa, però, le idee devono essere chiare. "Ascolta il mio nome, guarda bene, questo potrebbe essere il giorno giusto. Stringi la mia mano, cammina al mio fianco. Ho solo bisogno di dirti che non potrei sopportare un solo giorno senza poterti toccare, senza stringerti". Eccola, la dedica d'amore, l'esternazione di un sentimento profondo e intenso, che secondo il vocalist deve essere sempre condiviso. "La vita è breve, se amate qualcuno, diteglielo" è solito recitare Eddie per introdurre questo ottimo brano dall'indole punk. Il proiettile sfrega la corteccia dell'albero e si pianta nel cuore del destinatario.

Garden

Emozioni profonde e intime che prendono forma anche nell'introspettiva Garden (Giardino), sublime perla che odora di morte. Il giardino del titolo sarebbe il cimitero nel quale sono sepolti i numerosi militari caduti in guerra. Si dice che tale pezzo sia stato ispirato dal proclama del presidente Bush Senior quando dichiarò guerra in medioriente, e che Vedder fosse in casa, davanti la tv e insieme a Gossard e l'amico Chriss Cornell, quando ascoltò le parole dell'uomo più importante del mondo. "L'ennesima guerra" esclamò affranto. Il dispiacere e il dolore è tutto racchiuso nelle poche righe di testo di questa cupa ballata, dalla bellissima e malinconia melodia che avvolge il collo dell'ascoltatore come un cappio d'acciaio. "Lei non vaga qui dentro, la direzione dello sguardo, così ingannevole, la defezione dell'anima, disgustosamente veloce. Non metto in discussione la nostra esistenza, metto solo in discussione i nostri bisogni moderni", e qui è subito chiara la posizione del musicista, il quale condanna le parole di Bush. Voce profonda, lamentosa, come una nenia oscura che culla le anime dei defunti. Gli strumenti si stendono come un tappeto funebre, entrando sotto pelle: la chitarra è pungente, il basso muscoloso, la batteria quasi annichilita di fronte all'ennesima disfatta moderna. "Lei non vaga qui dentro, io camminerò con le mie mani legate, io camminerò con la faccia insanguinata, camminerò con la bandiera d'ombra nel tuo giardino, un giardino di pietra. Siamo ancora soli". La bandiera d'ombra è la bandiera nera, simbolo di morte, da piantare direttamente nel cimitero, accanto alle lapidi dei poveri militari. Il giardino di pietra, costituito da tombe che piangono. La frustrazione è palese, nei versi di Eddie e nella chitarra funesta di McCready. Un pezzo di una profondità incredibile, che fa riflettere, che invoglia a raccogliersi in preghiera e che fa pensare al senso della vita.

Deep

Deep (Profondo) è appunto profondità infinita, dai suoni grassi e abissali, ricamati su una serie di fraseggi ondulati che rievocano l'immagine di altissime onde oceaniche, nelle quali annegare e fluttuare. Queste onde portano con sé diverse immagini da decodificare, tanto che la canzone può essere divisa in tre blocchi, per tre significati diversi e tre musicalità diverse. Un pezzo in divenire, capace di evolversi, a partire da riff velenosi, come l'eroina che il protagonista della prima parte si inietta nelle vene. "Sul bordo di un davanzale riflette sul suo artefice, riflette sulla sua volontà. Per la gente lui non vale proprio nulla, ma ha una grande visuale e allora affonda l'ago in profondità. Non riesce a toccare il fondo, non ci riesce". La volontà del tossico è soggetta alla droga, incapace di pensare, incapace di rifiutare l'ennesima dose. I nervi si fanno tesi, il brano si contamina con un sostrato mistico, voci che si rincorrono, versi di Vedder al microfono, una leggera psichedelia che invade gli spazi. Attraversiamo la prima parte e approdiamo alla seconda: "Al confine di una città ignorante, sentendosi piuttosto superiore, il vecchio è giunto. Per il cielo non conta nulla, ma egli ha una bella visuale, e così affonda il coltello rovente in profondità. Non riesce a toccare il fondo, troppo a fondo". Questa volta ci siamo spostati sull'immagine di un uomo invecchiato, che nella vita ha combinato ben poco, e che dentro di sé cova una rabbia a lungo repressa e mai sopita. Per questo motivo, il vecchio afferra un coltello, sentendosi superiore per la prima volta, sentendosi potente, inebriato dall'insano gesto, e lo affonda contro il primo passante. Un omicidio, la lama dell'arma che lacera le carni e che scende in profondità, dando piacere al pazzo assassino. Il tempo si fa sospeso, sempre più astratto, il drumming è cauto, le chitarre addormentate, resta solo la voce: "Al margine di un amore pulito come il Natale una giovane vergine dal paradiso viene in visita. Per l'uomo che le sta sopra lei non vale nulla, lei non ama la visuale che ha, ma lui ci si tuffa dentro, fino in fondo, nel profondo". Questa forse è la parte più disturbante della vicenda, quando un angelo scende dal cielo, forse rinnegato da Dio, e ritorna in forma umana per farsi violentare in Terra. Ciò simboleggia la perdita dell'innocenza.

Release

Innocenza perduta, che è anche catarsi, sublimazione massima di un amore perduto, di un vuoto mai colmato, quando il riff cosmico di Stone Gossard battezza la conclusiva Release (Riuscita), emozionale inno d'amore, dedica al padre, il vero padre di Eddie, morto quando lui era ancora adolescente e che non ha mai conosciuto. Dalla rabbia di "Alive" per la scoperta di essere stato cresciuto dal suo patrigno, alla presa di coscienza di essere solo, e che risalta in questa strepitosa gemma invernale. "Vedo il mondo, sento il freddo, quale strada prendere. Vedo le parole su un cavallo a dondolo del tempo e sento il verso della pioggia". Il ricordo nelle mente del vocalist è emozionante, ma ricco di dolore. La mente va a un giorno di inverno, con la pioggia e il vento fuori che bussano alla porta di casa. Ma la canzone riporta in vita anche il ricordo di Andrew Wood, vocalist dei Mother Love Bone, band nella quale Ament e Gossard suonavano, e perciò lega ogni singolo musicista alla stessa sorte. "È un canto universale, un inno ai ricordi delle persone perdute", la definisce così l'autore, che in quasi dieci minuti esterna tutto il suo dolore. "Caro papà, puoi vedermi ora? Sono io, in qualche modo uguale a te. Cavalcherò l'onda ovunque mi condurrà, tratterò il dolore e mi libererò. Aspetterò al buio in attesa che tu mi parli". Metà brano vola via tra gorgheggi disperati e tempi medi, melodie smorte e frasi disconnesse che inducono allo sconforto, ma poi il tutto si rianima, ripartendo dal silenzio che spezza in due il lungo canto, stendendosi in una coda psichedelica e aulica sostenuta da tamburi e dal giro ipnotico del basso. La seconda parte si trasforma in un requiem assolato, che inebria le menti, le svuota di ogni dolore, liberandole dal male terrestre. Ogni senso abbandona il corpo, infine giunge la quiete tanto ricercata, terminando tra sussurri poetici un disco che è diventato leggenda.

Conclusioni

"Ten" esce nel momento perfetto, quando la scena di Seattle conquista i cuori dei giovani ascoltatori e il mondo musicale è in piena trasformazione, creando una frattura profonda con la tradizione. Spinto dalla major Epic Records, il primo album dei Pearl Jam non si impone subito in classifica, ma decolla lentamente, mese dopo mese, riuscendo soltanto quasi dopo un anno a raggiungere un successo inimmaginabile e definendo nuove coordinate stilistiche. Hard rock che affonda le radici negli anni 70, rock alternativo, cenni di psichedelia e brevi scorrazzate punk, "Ten" è un mix letale che seduce tutti quanti con i repentini cambi di tempo, i lisergici riff di chitarra e lo schizzato drumming di Dave Krusen, quest'ultimo costretto a lasciare poco prima dell'uscita dell'album a causa dell'alcolismo che lo attanaglia in una morsa ossessiva. E proprio la schiavitù dell'alcool e l'esigenza di auto-distruzione sembra comandare il suo stile, nevrotico e imprevedibile. A differenza della concorrenza, i Pearl Jam recuperano i vecchi e fumosi suoni dell'hard rock, con tanto di melodie ariose e grandi assoli di chitarra, primo perché Ament e Gossard venivano dall'esperienza Mother Love Bone, band legata fortemente allo sleaze metal, e secondo perché Eddie Vedder è un poeta metropolitano di indole raffinata, influenzata dalle note dei cantautori, e ciò dona allo stile della band una morbidezza assente, o quasi, nelle opere di Soundgarden, Mudhoney, Alice In Chains o Nirvana, decisamente più pesanti o selvaggi. Ma se l'hard rock dei Pearl Jam cattura per melodia, il retrogusto amaro e disilluso della corrente Grunge emerge attraverso la sofistica penna di Vedder, che narra di omicidi, di ossessioni, di depressione, di suicidi violenti e di contrasti famigliari, e indaga anche su temi sociali quali la solitudine dei senzatetto e dei malati internati negli ospedali psichiatrici. L'intento dei Pearl Jam è quello di comunicare il clima di un'epoca, di parlare a più gente possibile (seguendo la filosofia degli U2, band venerata e con la quale i nostri condivideranno più volte lo stesso palco), nonostante le critiche di molti giornali e anche dei rivali, come nel caso di Kurt Cobain, che li definisce commerciali e traditori dell'alternative rock. Ma la visione di Vedder e compari è ampia, troppo ampia per essere racchiusa nei confini di una sola scena, quella Grunge, e per scacciare la fortuna non serve neanche l'auto-sabotaggio, come negare interviste, ridurre il prezzo dei biglietti del tour e rifiutare di produrre videoclip per i dischi seguenti, messo in atto dagli stessi membri al fine di ridurre i propri introiti e mettere a tacere le malelingue. La band è baciata dal successo, e al corteggiamento degli Dei della musica nulla si può. La copertina di "Ten" è iconica, la foto della band al completo, su sfondo rosa, mentre si dà il cinque, che stringe una sorta di patto, segno di amicizia profonda tra i singoli membri e che sottolinea una visione coesa dei traguardi da raggiungere. Il titolo invece è un tributo al numero di maglia del cestista Mookie Blaylock, giocatore amato da Ament e Gossard il cui nome, in origine, era stato preso in considerazione per il monicker stesso della band e poi cambiato per evitare beghe legali per volere dell'etichetta. Camicie a quadri di flanella, stivali e jeans strappati, il look Grunge è il look dei boscaioli di Seattle, gente cresciuta tra fabbriche e natura in un clima uggioso e grigio, lontano dall'assolata e festosa California, e che ha assorbito fin dentro le ossa lo spirito di quella zona degli U.S.A., ed è per questo che la musica che prende forma da queste parti è amara e disillusa, costruita su toni morbosi e temi delicati: "Once" parla di un serial killer che è costretto ad ammazzare per saziare il suo delirio, la funky "Even Flow" tratta di solitudine e di uomini che non hanno casa, la schizofrenica "Why Go", poggiata su uno scambio clamoroso tra basso e batteria, dipinge lo stato d'animo degli infermi reclusi nei manicomi, la nervosa "Jeremy" trae spunto da un fatto di cronaca, raccontando del tremendo suicidio di un giovane liceale che si è sparato in bocca davanti ai suoi compagni di classe, la sperimentale "Oceans" e la più canonica "Black", sono intense dediche d'amore che avvolgono in un caloroso abbraccio. "Ten" è un album non solo bellissimo, ma anche importantissimo perché grazie al suo successo e a quello degli altri colossi del periodo, "Sweet Oblivion", "Facelift", "Badmotorfinger", "Core" e ovviamente "Nevermind", dà inizio alla grande e breve stagione dell'alternative rock proveniente da Seattle, che scartavetra timpani con le sue grida sofferte, i riffoni sporchi e screziati di ruggine, come i macchinari utilizzati dalle fabbriche della città, e che consuma corpi e cervelli logorandoli con l'eroina e con la depressione. Ossessioni mai sopite, incantesimi e maledizioni, istinti suicida e una ricerca di solitudine quasi morbosa, i Pearl Jam cantano di un mondo disperato, nella più classica tradizione Grunge, ma al contempo se ne distaccano, rivelando un'indole differente dal resto della scena e che risale alla mitologia del grande rock, dai Led Zeppelin agli U2, dai Neil Young agli Stooges, e forse proprio per questo motivo sono gli unici a sopravvivere agli anni 90, mantenendo un successo strepitoso che li porta a diventare una delle più popolari rock band del pianeta.

1) Once
2) Even Flow
3) Alive
4) Why Go
5) Black
6) Jeremy
7) Oceans
8) Porch
9) Garden
10) Deep
11) Release